La pandemia del 1981 – parte IV

Tratto dal volume La pandemia del 1981

© 2021 Michele Camillo


EPIRADIO

Non è la circostanza che conta, ma la lezione appresa. 

Non il simbolo, ma il suo significato. 

Non ciò che è al di fuori, ma ciò che accade dentro.

Richard Bach

Attilio Moro, era per tutti “el moro”; in quanto, moro de nome e de fatto. La carnagione scura e i capelli neri ricci, lo facevano sembrare veramente un africano; una sorta di mutazione genetica dovuta agli anni passati in mezzo al mare, imbarcato come marconista, nelle gigantesche navi porta container. Questo; fino a quando, l’improvvisa morte della siora Wanda, l’aveva costretto a scendere a terra anzitempo per badare al figlio Ivano, mio storico compagno di classe. 

Quella brutta disgrazia, segnò nel contempo, la nascita del mito “AM Elettronica” ovvero, quella che, per noi fioi,era la bottega di babbo natale, nel senso che, dentro quel negozio di balocchi elettronici, trovavi sicuramente qualcosa che avresti voluto farti regalare. Grande appassionato di musica; in un apposito angolo, trovavi le più sofisticate apparecchiature per riprodurla. Era uno spasso andare a fare i compiti da Ivano, nel laboratorio adiacente il negozio; terminate le incombenze scolastiche, sior Attilio ci dava da fare qualche lavoretto che, spesso consisteva nel collaudare gli impianti. Il nostro pezzo preferito per fare i test era nightflight to Venus dei Boney M; manopola del volume a manetta, bastavano i primi trenta secondi per far staccare l’intonaco dal muro. Quando uscivo, mi soffermavo incantato e, nel contempo, triste, ad ammirare il “bobinone” Revox, le mitiche casse Cerwin Vega e gli stereo Marantz color champagne con le loro belle luci blu; avevo la bava alla bocca dal desiderio di portarmene a casa uno ma, sapevo che era una battaglia persa in partenza. Quella volta che, io e Gigi, provammo a buttarla là a Ottorino; per tutta risposta, ci tirò dietro, uno a testa, i suoi pesantissimi zoccoli di legno, che furono di nonno Giovanni; l’uomo aveva una mira infallibile.

A proposito di Otto, mi faceva morire sentire el moro, da bon venesianasso, rivolgersi a lui chiamandolo “vecio”, “coco”, oppure “amore”; se l’avessi fatto io, mi sarebbero arrivati addosso altri zoccoli, più qualcos’altro. 

Mio padre gli perdonava ‘ste confidenze perché, alla fine, ne aveva una profonda stima. Tra “uomini di scienza”, si scambiavano pareri e favori; a volte poi, el moro, forniva a Otto i pezzi per le creazioni che, puntualmente ricambiava con i nostri migliori prodotti agricoli.

Era anche grazie al feeling tra i due che, quel giorno, avevo incassato l’autorizzazione a spendere; pronto ad approfittarne, infilandoci dentro anche qualcos’altro; come si dice, xe ben batar el fero finché el xè caldo.

Marconista ‘na volta, marconista par sempre”, diceva. In effetti, a son di stare per anni, in mezzo all’oceano, a parlare per radio con tutto il mondo; questa, finì per diventare inevitabilmente, l’inseparabile compagna della sua nuova vita “terrestre”.  In giardino, piantò, anziché alberi, una miriade di tralicci pieni zeppi di antenne, delle più svariate specie. Un giorno, gli chiesi cosa ci trovasse di interessante nel passare il tempo libero a trafficare con gli apparati ricetrasmittenti; si tolse gli occhiali e tirò un sospiro; “aea fine, te fa sentir manco soeo”.

Era praticamente il marconista di quartiere e, si può affermare che svolgeva un servizio pubblico; nel senso che, se volevi notizie dal mondo, fresche e non manipolate, ti conveniva passare da lui anziché dar retta ai mass media. Ovviamente, in quel periodo, era in stretto contatto con l’Argentina;

  • Aeora, sior Attilio, cossa xè dise?”
  • Coco, qua, xe va tutto ben; fra un fià… semo ciavai

Rimasi a lungo da solo dentro ea ceseta, in attesa di, non so cosa. Le parole di speranza della biondina si erano ormai dissolte, svanite con lei in sella al suo Ciao Bianco; nella mente erano state rimpiazzate dal “semo ciavai” del moro. Un silenzio imbarazzante, come tra due persone che non si parlano da una vita. Lui sapeva che, sotto, sotto, a spingermi li dentro era stata più la paura per la mia sorte che non quella degli altri. Non credo gli stiano molto simpatici i tipi  che vengono a parlargli solo nel momento del bisogno; quelli, come me, che entrano in chiesa con la scusa del “semo ciavai”, ma che, poi, fanno solo richieste al singolare passando velocemente, senza quasi accorgersene al, “so ciavà”. Chissà; forse prima avrei dovuto chiedergli scusa per non essermi mai prodigato a favore del prossimo, se non nel caso che, quest’ultimo, assumesse le sembianze di una fighetta. Fino a quel momento, avevo procrastinato qualsivoglia servizio a favore della società, al momento in cui mi sarei felicemente sistemato con una bella gnocca; questione di priorità. 

All’ingresso c’era un leggio con un quadernone dove ognuno poteva lasciare i suoi pensieri o, scrivere una preghiera; con la coda dell’occhio, avevo visto la biondina, prima di uscire, armeggiare con la penna; così andai a sbirciare.

La più grande disgrazia che ti possa capitare è di non essere utile a nessuno,

è che la tua vita non serva a nulla.
Raoul Follereau

Più che una preghiera, sembrava un messaggio rivolto a me, giusto per, darme ‘na descantada

Il silenzio continuava a dominare la scena; il rumore del vento fuori, sembrava quello di sottofondo di una radio che, non riceve nessun segnale.

 “Aea fine, te fa sentir manco soeo”; poteva essere Lui che parlava con la voce del moro? Probabile, perché fu in quel momento, che mi balenò in mente una strana idea.

Quel menasfiga della radio, tra le altre cose, aveva detto che i telefoni erano ormai inutilizzabili per sovraccarico delle linee e, la gente non sapeva più a che santo votarsi per comunicare; e qui, poteva entrare in scena el moro.

Non so se fosse stato Lui a chiamarlo in causa ma, l’idea di usare le ricetrasmittenti portatili, quelli che el morochiamava “baracchini”, per far parlare le famiglie tra loro, mi pareva, semplicemente geniale. Una maniera per combattere la solitudine che, si profilava essere pericolosa quanto la malattia, se non di più.  Ora, non sentivo più il vento di prima, faceva più caldo, ed era tornata l’aria primaverile. Ero impaziente di parlarne col moro, pedalai verso la bottega come un professionista; l’ultimo kilometro, tirai volata; a momenti, non mi schiantai contro la vetrina. 

Non avevo quasi più fiato, iniziai frettolosamente, a comunicargli i dettagli dell’appalto per la fornitura, al ranch Nosea, dell’agognata V^ banda e relativi optionals; in modo da passare velocemente all’argomento successivo; quello che mi stava più a cuore. 

Mi guardò in maniera strana, ma poi, rispose alla sua maniera; “sta calmo coco; se el vecio xe ga deciso, ormai el merlo xè in cheba; assime far a mi”.

A quel punto, facendo un gran casino e mangiandomi metà delle parole, gli esposi il progettone; al ché, mi guardò come se mi stesse prendendo per il culo. 

Vecio, ti te si fatto fora tutto el clinton de to pare, par ea soddisfassion de averghe fatto tor, forse, e digo forse, ea teevision a coeori? ‘Scolta, no so se ti ga visto cossa che xe drio sucedar in giro par el mondo; par carità, fame un piasser, va in xò”; due tonfi sordi sul pavimento; erano le mie palle.

Ero talmente frustrato da non accorgermi che Ivano si trovava, da un bel pezzo, alle mie spalle; in mano aveva una rivista di elettronica su la cui copertina campeggiava il titolo, “potente trasmettitore FM”.

  • Podaressimo, invesse, mettar in pie ‘na radio privata”; sparò di brutto il colpo che aveva in canna, sbattendo sul bancone la rivista.
  • Ma, … de quee … dove xè trasmette?”; controbattei ingenuamente.
  • Si, proprio come quee vere
  • Ma … el posto; dove ea cassemo?”
  • In soffitta da ti
  • Fioi bei, me sa che xè un tantin drio pissar fora del bocal”. Quella frase l’avevo già sentita; ma, detta dal sior Attilio Moro, aveva un valore diverso.

Il primo aprile 1981 iniziò l’avventura di Epiradio. Epidemia radio; che, letta in inglese, si trasformava in HappyRadio.

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La pandemia del 1981 – parte III

Tratto dal volume La pandemia del 1981

© 2021 Michele Camillo


Cossa Femo?

Zia Maria e zia Antonia, le due sorelle vedove di mio padre, ogni giorno, di prima mattina, con qualsiasi situazione meteo, si recavano a far visita ai loro pori mariti più, ad altri pori, di cui si occupavano su tacito mandato, di personaggi che, non avevano voglia di metter piedi in cimitero anzitempo. Quel giorno, senza nemmeno scendere dalle biciclette, stesero a squarciagola un dettagliato rapporto su ciò che stava avvenendo oltre i confini delle nostre terre; nel senso di campi.

Sior Ugo, el casoin, era senza merce; davanti il panificio dei Faggin c’era stata una rissa per entrare; ea Maria sartora non aveva nemmeno aperto il suo scalcinato negozio di mercerie. Era poi accaduto un fatto sconvolgente; don Fernando, el piovan, le aveva letteralmente buttate fuori dalla chiesa, neanche il tempo di sgranare la prima pallina del rosario; gli ordini impartiti dalla curia erano perentori, chiudere. Le messe erano sospese, forse, in serata, avrebbe parlato il papa; una tragedia mai accaduta prima, nemmeno in tempo di guerra. Da tempi immemori, quelle pie donne, vestite di nero, richiamavano la sfiga da ogni parte del pianeta, riversandola a secchiate sul microcosmo dei Nosea.  ‘Sto giro, stavano superando se stesse; a sentir loro, la gente stava già morendo per strada; se la negatività che emanavano fosse stata gas, saremmo sicuramente saltati in aria tutti.

Cossa femo ‘desso? 

Mi sentii fiero; per la prima volta nella mia vita, venni coinvolto da Ottorino in una importante riunione strategica riguardo il da farsi.

Fortunatamente, l’uomo era tornato in qua, senza dubbio, più positivo rispetto al giorno prima. Aveva realizzato che, “tanto ne toca morir tutti quanti”; mal comune mezzo gaudio. “Xe ea ga da tocarne a tutti; xe meio che ea ghe toca prima a ‘staltri”; il suo proverbiale cinismo, aveva soppiantato la paura; quindi, nell’ottica che, per non essere mangiato dal leone, non è importante correre più veloce di lui ma della persona che ti sta accanto; iniziammo a stendere un piano.

Sul tema degli approvvigionamenti, potevamo stare relativamente tranquilli; tra orto, porsei, gaine e conici, avevamo di che sopravvivere; inoltre, per i generi non autoprodotti, in caso di necessità, si sarebbe potuto ricorrere al baratto.

Sul fatto che, sarebbe stato necessario andar in giro coverti, mi aveva già preceduto. Mise sul tavolo un prototipo di mascherina assemblato usando una vecchia stoffa; all’interno aveva inserito un pezzo di telo che usava per proteggere le piante; non mi stupii che avesse già trovato una soluzione.

Eh si, per certi aspetti, mio padre era uno “avanti”, un creativo; sempre pronto a autocostruirsi, con quello che aveva a disposizione, ciò di cui aveva bisogno; se poi, qualcosa non esisteva, la inventava. Il suo curriculum vantava ad esempio, una macchina per fare la passata di pomodoro alimentata da un motore di lavatrice, un autopompa  per dare il solfato composta da una vecchia carriola e il motore di un tagliaerba; e, ultima trovata per carnevale, un impastatore per fritoe e gaeani, allacciato al trapano elettrico. 

Questo, da parte mia, gli valse il soprannome di Otto, in onore di Otto Lilienthal pioniere dell’aviazione ma anche, di Otto Kruntz lo sfigato inventore, mitico personaggio che spopolava nei fumetti del Corriere dei Ragazzi.

Le sorprese non erano finite, con una mossa degna da mago Silvan, sul tavolo, si materializzarono dal nulla dei fogli a quadretti alquanto sgualciti; “questi xe i conti”, la mano raggrinzita di Otto, me li mise sotto gli occhi. Fino a quel momento, l’argomento schei, ovvero la consistenza dei nostri risparmi, era tabù. Nel corso degli anni, a sentire parlare mio padre, sembrava sempre che, fossimo sull’orlo della povertà più estrema; dando una breve scorsa ai totali scritti su quei fogli, non mi pareva proprio.

L’essere messo al corrente, della situazione finanziaria famigliare, mi inorgoglì non poco; credo che vedesse in me delle doti manageriali nascoste. Dopo averlo, con un certa difficoltà, convinto che, non era necessario prelevare tutto per metterlo in buche sparse, qua e la per i campi; decisi di cogliere l’attimo per fargli allentare, almeno un pochino, i cordoni della borsa; era il momento propizio per giocare la carta della V^ banda.

Dovete sapere che, a proposito di arretratezza socio-culturale, sul tetto di casa nostra, a dispetto dell’esponenziale incremento dei canali televisivi su tutto il  territorio nazionale, c’erano solo due antenne atte a ricevere il I° e II° canale; nulla di più. Da anni eravamo fermi li; sono cresciuto senza poter ricevere Tele Capodistria, e questo, mi ha provocato un notevole danno educativo; senza poter guardare quel canale a tarda sera, per anni sono stato tenuto all’oscuro sui misteri del sesso.

Riguardo quest’ultimo argomento, negli ultimi anni, avevano iniziato a proliferare le TV private, le quali, a detta di amici e conoscenti, a notte inoltrata, proponevano materiale di ottima fattura. Trasmettevano però sulla famigerata V banda e, quell’antenna rettangolare rimaneva una chimera.

Un altro discorso va fatto su ciò che c’era a valle della nostra antenna; una tv a valvole in bianco e nero risalente ai primi anni ’60, con annesso un casseotto pesante 10 Kg, il mitico trasformator. Nemmeno i nostri ricevitori radio erano al top; una, ovviamente a valvole, era talmente grande che sembrava una credenza; in effetti, sopra, mia mamma ci aveva posizionato alcuni oggetti di dubbio gusto. Riceveva solo le onde medie e corte; i nomi delle stazioni, impressi sulla scala della sintonia, probabilmente risalivano al secondo conflitto mondiale. Ne avevamo anche una a transistor, che poteva ricevere l’FM ma, mentre tutti le altri esemplari del mondo arrivavano a 108 MHz; la nostra, non ho mai capito perché, si fermava a 104. Questi erano gli scarsi e rudimentali strumenti che i Nosea avevano a disposizione per mettersi in connessione con il mondo esterno ma, dato che, di come andavano le cose al di fuori del loro mondo, se ne erano sempre fregati; forse erano anche troppi.

Da perfetto avvoltoio, cavalcai la disgrazia che si stava abbattendo sul mondo intero, la giocai sporca; convinsi Otto che, in questa triste situazione, simile alla guerra che aveva vissuto; era meglio avere a disposizione più fonti di informazione possibili, per cui, bisognava dotarsi di nuovi strumenti tecnologici. “Va parlar col Moro”; quattro parole, alla seconda ero già in sella alla bicicletta.

L’euforia per aver ottenuto il nulla osta al nuovo corso della famiglia Nosea, durò veramente poco; giusto il tempo di uscire dal troso. In strada, musi duri ovunque; la sensazione che tutto stava volgendo al peggio era palpabile. Ciano “Segoa” Ballarin non si dilettava più a intonare le arie delle opere; dalla radio celata sotto le cassette di frutta e verdura, non usciva più musica; il conduttore, uno iettatore patentato, probabilmente ex dipendente di un’impresa di pompe funebri, faceva la conta dei morti e, annunciava imminenti disposizioni restrittive emanate dal governo. Serrande chiuse, così pure la gente; qualcuno, quando ti incrociava, faceva di tutto per scansarsi 

In quel periodo, il mio incubo peggiore, era quello di rimanere mul tutta la vita, come zio Mario; zitello non per scelta ma, per pura sfiga. Tanti miei coetanei, avevano già fatto la prima esperienza, alcuni anche la seconda, la terza e la quarta. Invece; per quanto mi riguardava, niente all’orizzonte. 

Non volevo però nemmeno finire come mio fratello, che si era portato in casa quella grima della Mara ovvero, la prima che gli era capitata a tiro. E si, che il vecchio zio Nino, l’aveva avvertito; “varda che ea fame fa brutti schersi”. Anche se cercavo, per quanto possibile, di far tesoro di queste sante parole, la fame, e anche la sete, era tanta. Questo, come accade nel deserto, mi faceva vedere dei miraggi; illusioni, come Francesca che, inesorabilmente erano destinate a svanire nel nulla.

Un silenzio inquietante mi circondava, l’aria tiepida che il giorno prima ci aveva dato la sensazione di un imminente arrivo della primavera, sembrava un ricordo lontano; un vento freddo mi tagliava la faccia, mentre avevo la sensazione di pedalare a vuoto; lo stesso senso di vuoto che all’improvviso mi prese dentro. Tutto, almeno da noi, era appena cominciato; per quanto sarebbe durato? La vista di un triste e spoglio albero solitario a bordo strada era l’emblema di quello che stava accadendo.

Avevo bisogno di vedere qualcuno con cui condividere l’angoscia; ero talmente disperato che mi sarebbero andati bene anche quel cagacazzi di Fabione Busato o, il menagramo del Poletti; tutte persone che, in tempi normali, avrei preferito non incontrare. In alternativa, per stemperare l’ansia e rilassarmi, mi avrebbe fatto piacere ascoltare uno degli improbabili racconti porno di Lele Agnolon detto “el Tinto”, in onore del “maestro”, Tinto Brass. 

Mi venne anche il dubbio di essere l’unico a preoccuparsi; fino a quel momento, non avevo ricevuto nessun segnale di vita dai fioi; solo il vecchio Otto si era degnato di chiedermi cossa femo ?

Pensavo, non sarebbe stato male chiedere, a qualcuno di estremamente competente, “cossa femo?” O meglio, “cossa fasso?”; non restava che chiederlo a Lui.

Se davo retta al mio spirito di adolescente edonista, non mi sarei mai abbassato a tanto; ovviamente, ero mosso più dalla scaga, che da un nobile bisogno interiore. Mi guardai circospetto in giro, non faceva certo figo, farsi vedere a fare una cosa simile. In fin dei conti possedevo una, seppur minima reputazione da mantenere; avevo sempre pubblicamente sostenuto che, andare in chiesa, era roba da vecchi.

In realtà, non avevo nessuna certezza; solo il dubbio che, credere in Dio, non fosse altro che un banalissimo e naturale desiderio di eternità insito in ogni uomo; nulla di più. L’esempio vivente erano le vecchie zie. Giunte a un particolare momento della vita, secondo me, era naturale che desiderassero assicurarsi un posticino sicuro per il poi; questo, si fondeva al bisogno di consolazione, per la vita grama, condotta finora. Io, francamente, fino a quel giorno, avevo altre priorità che pensare all’aldilà, dovevo ancora fare certe eccitanti esperienze nell’aldiquà; poi, semmai, quando sarebbe venuto il momento, avrei sanato i molteplici carichi pendenti, specie quelli riguardanti la morale sessuale, con un pentimento finale.

La paura fa novanta, e io sono sempre stato un vile;  in fin dei conti si trattava di fare solo una piccola deviazione, el troso che portava a San Martin, era vicinissimo. Sapevo che, con molta probabilità, a dispetto delle norme emanate, avrei comunque trovato aperta ea ceseta; inoltre, era mia convinzione che Lui, sarebbe stato più disposto ad ascoltarmi in una remota e piccola filiale di campagna, anziché in una cattedrale.

Neanche a farlo apposta, all’imbocco del piccolo viale alberato, trovai questa frase scritta sul muretto:

“Si può anche non credere a niente, ma ci sono dei momenti nella vita in cui si prega il Dio del primo tempio che ci sta dinanzi.” – Victor Hugo


Mi prese la stessa ansia simile a quelle due o tre volte che ero andato a confessarmi; come se prima di chiedere udienza, dovessi mettere in piazza i miei peccati, mi vergognavo di raccontare sempre le stesse cose. Detestavo chiedere favori a qualcuno, a prescindere dal suo grado nella scala sociale. 

A dire il vero, non era la prima volta che mi recavo a San Martin; da piccolo ci andavo spesso a chiedere che piovesse dal cielo qualche aereo da montar oppure, cosa alla quale tenevo particolarmente, la possibilità di cambiare genitori con due più giovani di età ma, soprattutto, di mentalità.

Era particolarmente difficile evitare di far scricchiolare la vecchia e pesante porta di ingresso, senza far irritare le solite vecie bigotte che, probabilmente, avrei trovato dentro. Restai folgorato quando, quell’unica presenza, una bella biondina con un vistoso Moncler rosso, si voltò di Scatto al mio ingresso; alla faccia delle vecie.

Non sapevo bene come cominciare, anche perché i pensieri erano stati tutti dirottati sulla piacevole sorpresa che la visita alla vecia ceseta de San Martin, mi aveva riservato; come se non bastasse, quella interessante ragazza, uscendo, mi mise la mano sul braccio; “coraggio, passerà anche questa”. Se esistono gli angeli, dedussi, allora esiste anche Dio; mi ricredetti subito, un angelo, per uscire di scena, dispiega e ali, non se ne va a bordo di un chiassoso Ciao bianco.

Rimasi in piedi e in silenzio per molto tempo; non si trattava di un religioso silenzio, semplicemente, l’incontro con la biondina, mi aveva per ben incocaio. Nessun segnale dal grande vecchio, forse non stava trasmettendo; questo, mi fece venire un’idea.

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La pandemia del 1981 – II

Tratto dal volume La pandemia del 1981

© 2021 Michele Camillo

Quaresima

L’ultimo miglio, fu particolarmente duro; quei tre kilometri abbondanti dalla fermata fino al ranch; così, per tirarmela un po’, chiamavo casa mia, anche in onore di una famosa discoteca della zona; sembravano interminabili. Abitavamo ai margini della città o, come si usa dire da noi, in meso ai glebani. Ai margini, nel senso di isolamento fisico e mentale, lo era pure la mia famiglia. Contadini da molte generazioni, la stirpe, era soprannominata Nosea, dagli alberi di nocciole che il mio trisavolo Giovanni aveva piantato nei pressi della vecchia casa colonica. 

Mamma Bepina, si rifiutò di guardare “Domenica In”; Pippo Baudo aveva sostituito attori, cantanti e ospiti vari, con uno stuolo di camici bianchi che predicavano distanziamento e isolamento; nessun problema, noi Nosea,applicavamo rigorosamente questo protocollo, già dall’inizio del ‘900; ero su una botte di ferro. 

Nonostante ciò, più mi avvicinavo a casa e più la mia ansia montava. C’era chi, comunque, non se ne dava più di tanto pena; “a mi no me ne ciava ‘na sborada”; il capobranco di quel gruppetto di sbaeoni strafatti di birra e, anche di qualcos’altro, espresse in modo chiaro la sua opinione sulla faccenda, suggellandola con un sonoro rutto che fece tremare le vetrate circostanti. Se la ridevano alla grande, neanche si scomposero, quando videro sbucare dall’oscurità, un pulcinella in bicicletta illuminato come un albero di Natale, pronto a buttarli giù tutti come birilli.

Il troso che portava alla, si fa per dire, fattoria, dei Nosea; mi parve ancora più lungo e buio del solito; la sensazione era quella di entrare in un tunnel dove non si sarebbe vista la luce per un bel po’ di tempo.  Anzi, di luce se vedeva una; quella della finestra, rendeva molto nitida la sagoma di mio padre chino sul tavolo della cucina, con le mani sulla fronte.

Non era il caso di entrare; io gli avrei fatto la solita domanda

Cossa ghe xè?”

E lui, con tono tra il pianto e rimprovero, mi avrebbe risposto; 

Ti me domandi anca cossa che ghe xé. Erce!”

Un attimo di silenzio e poi giù la valanga di sensi di colpa.

D’altronde, l’inverno era il periodo del “me toca morir”; quando, bastavano solo due linee di febbre o un po’ di raffreddore per mandarlo via di testa. Diveniva intrattabile e aggressivo, urlava e piangeva nello stesso tempo. Da quando poi, sentì parlare di quel virus misterioso, il lunedì non comprò la Gazzetta dello Sport; del Milan e della Mestrina non gliene fregava più niente.

Era decisamente meglio se me ne stavo ancora un po’ fuori; me ne andai a passeggiare in mezzo ae vide; se non altro perché, non mi andava proprio di dismettere l’abito di Pulcinella. Dentro di me sentivo che quello strano ultimo giorno di carnevale avrebbe significato la fine di un epoca, più o meno gioiosa e spensierata e, l’inizio di un’altra, più o meno triste e incasinata.

Dalla terra saliva un leggero tepore, piccolo segno del risveglio primaverile. Nella tradizione contadina, era il periodo di “batar marso” ovvero, un rito propiziatorio che consisteva nell’andare in giro per i campi, battendo su vari oggetti per creare un forte baccano in grado di svegliare la primavera e richiamarla a ravvivare gli animi dopo il lungo torpore dei mesi invernali. 

“Vegnì fora gente, vegnì in strada a far casoto, a bàtare marso co’ racole, sbàtole, ranéle, bandòti, cerci, tece e pegnate….vegnì, gente…
…par svejar fora i spirìti de la tera e farghe corajo a la rinàssita de la natura, cantando e sonando, so ‘l finir de febraro che xe in ùltima l’inverno”; 
chissà che primavera sarebbe stata. 

Le batterie delle lucette colorate che tappezzavano il vestito, si stavano ormai scaricando, la luce della cucina invece, non accennava a spegnersi; il pericolo di affrontare Ottorino, non era cessato. Cominciava a fare freddo, fortunatamente, a diciassette anni, avevo già un pied à terre in cui potermi rifugiare.

Grazie all’eredità di nonna Regina, mi trovavo, adolescente, nella fortunata condizione di proprietario immobiliare. Il vecchio Ottorino faticò non poco, attraverso conflitti, più o meno civili, a tenere testa a parenti, più o meno conosciuti, che, dopo la morte della nonna, sbucarono all’improvviso da ogni parte del globo terrestre, vantando diritti, più o meno reali, sulla “casa vecia” ovvero, la vecchia casa colonica. Nessuno voleva ammettere che, la nostra famiglia, fu l’unica che si dedicò, anima e corpo a rancurar i veci, come si dice. Alla fine, grazie più al vile denaro che al buonsenso, mio padre vinse la guerra; così, io e mio fratello Gigi, occupammo i territori conquistati.

A Gigi, el grando, che si doveva sposare, toccò il pianterreno, mentre a me, el picoeo, rifilarono la soffitta. Non la presi a male; anzi, quella soffitta, sin da bambino, costituiva un mondo incantato e misterioso; l’averla tutta per me, mi rese immensamente felice.

Anche se malandata e, ancora in parte non abitabile, non ci misi molto a colonizzarla. Divenne lo spazio creativo, dove poter sviluppare ambiziosi progetti; uno fra tutti, quello di costruire aerei. 

Tra me e gli affascinanti oggetti volanti, scoccò la scintilla alla tenera età di sei anni quando, tentando di farlo volare, frantumai in mille pezzi, quel modellino bianco e rosso di mio cugino Giancarlo. Per dirla tutta; in quell’occasione, le prime scintille, scoccarono sul mio culo, provocate dalle possenti mani di Ottorino. Il buon Giancarlo, però, intervenne a mio favore; ormai il danno era fatto, il modellino era spaccato e, il mio culo pure; da vero signore, mi regalò il relitto e pure un tubetto di colla per ripararlo.

Pur se considerata da mio padre ‘na pora insemenia; mamma Bepina, aveva la capacità di leggere dentro i miei sogni. Vedendomi passare parecchio tempo con quell’aereo bianco e rosso che, nel frattempo, a forza di maneggiarlo, aveva perso i connotati tipici del mezzo volante; pensò, che al so’ bocia, quello strano oggetto doveva suscitare un certo interesse. Per cui, alcuni giorni dopo, di ritorno dal mercato, parcheggiò la mitica Atala nera modello 1954, davanti la cartoleria di sior Marton. Vi entrò decisa, chiedendo se, per caso, avesse un “aereo da montar”. Se ne uscì con un bimotore Douglas Boston scala 1/72 della mitica Airfix, dal proibitivo costo di 1.100 Lire. “Tien qua; varda cossa che te go tolto”; non disse altro, anche perché non ne ebbe il tempo; subì un processo da parte di mio padre, rea di avere scialacquato un capitale per acquistare una inutile troiada al figlio.

Quella scatola, oggetto di furibonda discussione, fu la prima di una lunga serie. E’ ancora li, in bella vista, sul mio banco da lavoro; il contenuto invece, fece una brutta fine, incendiato da Fabrizio Zanutto, per simulare un realistico abbattimento in battaglia.

La soffitta non era solo un laboratorio ma, soprattutto un rifugio dove starmene in santa pace da solo; un fortino inattaccabile da qualsivoglia autorità genitoriale e non. 

Dalla finestra, si potevano osservare gli atterraggi e i decolli del vicino aeroporto. Proprio in quel momento, ne avvistai uno in atterraggio; probabilmente, tra gli ultimi ai quali era concesso volare poi, colpevoli veicoli di contagio, sarebbero stati tutti messi a terra.  

Ironia della sorte, l’anno prima in TV era andato in onda il telefilm a puntate “i sopravvissuti”; nell’inquietante sigla del si vedeva viaggiare tranquillamente in aereo, lo scienziato cinese, al quale era sfuggito di mano un virus letale che, da li a poco avrebbe sterminato quasi del tutto l’intera popolazione mondiale.

La pampa argentina sembrava distante anni luce; francamente, non è che me ne ciavasse più di tanto se, alcuni sfigati allevatori di bovini si erano buscati una pericolosa e sconosciuta malattia, trasmessa dalle loro vacche. Come tanti, ero convinto che il tempo e lo spazio fossero  delle formidabili barriere invalicabili invece, era bastato uno dei miei beneamati aerei a portare nel vicino Friuli, in occasione delle vacanze di Natale, alcuni di quegli allevatori di origine italiana, emigrati in Argentina, per farci ripiombare ai tempi della peste del 1600; proprio ora che stavo facendo grandi progetti.

Solo pochi giorni fa, osservando dalla finestra il susseguirsi di atterraggi e decolli, presi una importante decisione riguardo il mio futuro. Nonostante la mia esperienza di costruttore aeronautico, si fosse finora limitata a montaraerei di plastica e uno scanchenico aliante in balsa; eterna opera incompiuta che, probabilmente non volerà mai e, per giunta, mio padre mi avesse pronosticato, alla stregua di mio fratello Gigi, un futuro da tornitore a porto Marghera; ero determinato, una volta finite le superiori, a frequentare ingegneria aerospaziale. Ero alquanto gasato, mi vedevo passare in un attimo dalla scalinata dell’ITIS Pacinotti a quella del Politecnico di Milano, ammesso che quest’ultimo ne avesse una. Mi prefiguravo addirittura il giorno della laurea, circondato da belle gnocche, pronte a saltarmi addosso per spogliarmi; il voto, ovviamente, 110 e lode. Ne parlai entusiasta al sior Ottorino; “fio mio; me par che ti xè drio pissar un fià fora dal bocal”, d’altronde che risposta potevo aspettarmi, da un plurilaureato, psicoterapeuta di fama internazionale come lui. 

Pazienza, oltre a questo, un altro progetto ben più importante era in cantiere, per il quale non servivano, almeno sulla carta, particolari abilità intellettuali né approvazione dei genitori; cuccare come un mandrillo. L’istinto predatorio, era esploso al Lido, tra le capanne della zona A. Quell’estate, visto che in parrocchia non c’era trippa per gatti, mi ero unito alla squadra juniores degli assatanati del bar “da Eros”; devo riconoscere, dei veri professionisti. L’agendina del sindacato metalmeccanici, regalo di Natale del fratellone, si era miracolosamente riempita di nomi femminili, tra i quali Francesca. Per dire la verità, non ne avevo ancora chiamata una, ma, ero più che mai determinato a passare all’azione. Pur non credendo, come dicevano i preti, che sarei diventato cieco, ero comunque stufo delle solite fantasie o, solito ménage, per dirla alla francese.

Ora però, avevo la sensazione che tutta questa faccenda non avrebbe fatto altro che mettermi i bastoni tra le ruote; peccato, proprio nel momento in cui stavo prendendo la rincorsa per fare un grande balzo; ovvero, per dirla in termini aeronautici, un decollo abortito.

Mi sentivo anche un gran pezzo di merda; finché la disgrazia era lontana, non me ne fregava niente. Avevo la soffitta, la mia confort zone, dove poter starmene lontano dalle disavventure della vita. Invece, grazie al balzo di un aereo, ‘sta cosa stava arrivando sotto casa e io, me la stavo facendo sotto. Il mio unico pensiero era quello di salvare me stesso, magari barricandomi nella mia favolosa soffitta.

La mezzanotte era passata, il carnevale finito ed eravamo ufficialmente in quaresima; i preti godevano, potevano ritornare finalmente al centro dell’attenzione, predicando tra nuvole di incenso, la rigorosa osservanza della morale cattolica; questa, ovviamente, era la mia personale sensazione.

Probabilmente, qualcuno di loro, asserirà che tutto ciò che sta accadendo è un castigo divino per i nostri peccati; chissà, magari è vero; probabilmente, accadrà come nel telefilm, moriremo quasi tutti e resteranno solo pochi eletti.

La natura, sembrava fregarsene di quell’imminente pericolo; el morer stava dando i primi segni di risveglio. Io e lui siamo cresciuti praticamente insieme, e forse, per come si stavano mettendo le cose, avrebbe avuto la soddisfazione di vivere più di me; la giusta rivincita della natura sull’uomo alla quale avevamo da sempre pestato i piedi. Forse questo è il peccato che dobbiamo scontare.

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La pandemia del 1981

Tratto dal volume La pandemia del 1981

© 2021 Michele Camillo

3 marzo, ultimo giorno di carnevale

Erce! Dove ti va? Vien qua! Sta qua!”. Il vecchio Ottorino poteva sbraitare quanto voleva, ormai avevo quasi 17 anni; praticamente un omo fatto. In realtà, la rivendicazione anagrafica non c’entrava niente, c’era in ballo una grossa occasione; quella sera in piazza san Marco avevo deciso di giocarmi il tutto per tutto, ero carico. Il vestito da Pulcinella versione discodance pieno zeppo di lucette, mi era costato un capitale, fortuna che la manodopera della cugina Franca era gratis. Dopo un giovedì grasso che, in realtà, era stato assai magro; non avevo nessuna intenzione di perdere l’ultimo giorno di carnevale.

Omar Vianello si era impegnato ad arruolare una consistente truppa di fie foreste, ovvero extra parrocchia. Questo, secondo lui, era un grosso vantaggio in quanto, non essendo assoggettate alla morale sessuale cattolica, sarebbero state più disinibite e disponibili. A me la cosa, non interessava particolarmente; le mie aspettative erano altre però, non si poteva mai sapere; come dicono gli inglesi, just in case. Il fatto che l’indomani; a causa de ‘sto fantomatico virus, avrebbero, per sicurezza, chiuso le scuole, non mi preoccupava affatto, anzi. Ci sarebbe stato il compito di matematica e, a seguire, era probabilissimo che il Bonotto mi avrebbe fatto pelo e contropelo; insomma, due sicure incuatae a fogo evitate o, quantomeno rimandate. 

Avevo comunque una certa scaga; a sentire quello che dicevano alla televisione, non bisognava stare tranquilli ma bensì, tenere la guardia alta; questa frase mi martellava il cervello. Fortunatamente, Colombina, al secolo Francesca Zuriato, era presente alla fermata; bastò per allontanare le paranoie e far decollare le fantasie. 

L’84 era stipatissimo, il nostro gruppone l’aveva imbottito per bene tanto che, l’autista iniziò a tirar dritto, facendo cenno ai malcapitati delle altre fermate de tacarse al tram, anche se, a quei tempi, ancora non c’era. Colpa di Omar che aveva invitato mezzo mondo il che, sarebbe stato sopportabile se avesse mantenuto le promesse; invece, come in altre occasioni, le proporzioni erano invertite; si presentarono una decina de fioitravestiti da barbari e un canarino Titti che, in teoria, celava l’unica persona di genere femminile. Finii incastrato tra un barbaro puzzolente; il tipo che lo interpretava, presumo senza grandi sforzi, era riuscito a imitarne perfettamente l’odore, e il culetto di Titti. Dentro le narici e in bocca mi finirono un tot di piume gialle intrise di uno stucchevole Lou Lou; ebbi la conferma che, probabilmente Titti era una fia. Tirai il collo, Francesca era praticamente irraggiungibile; avevo cercato con tutte le mie forze di rimanerle vicino ma, il vortice dei barbari mi trascinò dalla parte opposta del bus; che sfiga, contavo su quella mezzoretta a stretto contatto con lei per cercare de butar el primo sardon.

Avevamo appena imboccato il ponte della libertà, dal finestrino appannato intravidi treni e autobus che tornavano indietro pieni; brutto presentimento. Infatti, l’84 si fermò poco prima di arrivare a Piazzale Roma, un vigile si mise a battere sulla porta facendo cenno all’autista di invertire la marcia. Cominciò a sentirsi una certa agitazione o meglio, la si annusava, nel senso che un miasma invase il bus; “Xe drio cagarve dosso?” dal fondo una voce baritonale fece scoppiare una risata generale. Qualcuno invece iniziò a tossire; “uè, mi sa che ‘sta merda l’è già arrivata cazzo!”; il Poletti, detto el condor, con quel suo accento milanese la chiamava decisamente nera; nella calca non riuscivo nemmeno a portare la mano sulle parti basse per fare il classico rito scaramantico. 

Mi sentivo la fronte calda e un po’ di mal di gola, mi mancava l’aria; per distrarmi e farmi passare la suggestione, iniziai a far fantasie erotiche con una tipa vestita da poliziotta sexy posizionata subito dopo Titti; la minigonna in pelle e le calze a rete contribuirono a far defluire i pensieri e il sangue da un’altra parte del corpo. 

L’autista urlò “fine corsa”; il vecchio 84 si fermò bruscamente giù dalla rampa del cavalcavia, nei pressi del deposito; l’apertura delle porte generò lo stesso effetto di una lattina sottovuoto, venimmo con forza scaraventati fuori, abbandonati a noi stessi. 

Come durante un naufragio, iniziammo a chiamarci e, in breve il gruppo si ricompattò; così mascherati era difficile riconoscerci; in più qualcuno, talmente immedesimato nel suo personaggio, aveva smarrito la propria identità; ovviamente, non ci restava altro da fare che tornarcene a casa a piedi. 

La festa era finita e la felicità cedette il posto alla preoccupazione; ma non per tutti. Il marinaio Denis Zuccarato e la Colombina Francesca Zuriato, si stavano tenendo teneramente per manina, lui poi, sfoderava un sorriso ebete da 42 pollici;  almeno per me, era già arrivata la fine del mondo. Pensare che, quell’estate gliel’avevo presentata io; bastardo rotto in cueo e mi però, gran mona. Mi chiedevo se fra quarant’anni, nel caso fossi stato ancora in vita, avrei ricordato quel martedì grasso del 1981 per il pericolo del virus o la gran sberla morale.

Con tempismo perfetto, mi si avvicinò un nobile veneziano, alias Fabio Busato; noto basabanchi nonché tajatabarri patentato. Mi trovai la punta del suo tricorno infilata dentro l’orecchio, sussurrò sputacchiandomi dentro il timpano che i due, insieme da appena una settimana,  secondo fonti sicure, lo avevano, già fatto. “Fatto cosa?”, lo provocai. “Quella roba la”, biascicò. “Saria che i ga ciavà!”, gli gridai quasi ad assordarlo.  

Eh si, i preti non si stancavano mai di ripetercelo; proibito fare “quelle cose la” prima del matrimonio, si sarebbe finiti tra i condannati alla dannazione eterna; eppure, è assodato che i  più, di questa regola, se ne ciavavano,continuando imperterriti a ciavar. Pure io, da quel momento, continuando a pensare a Francesca, in teoria, ero nel peccato in quanto, contravvenni al nono comandamento “non desiderare la donna d’altri”; come si dice, beco e bastonà.

 “Sempre savuo che el gruppo giovani de A.C. xè un gran troiaio; i unici che no va dee bone semo mi e ti”; quel basabanchi democristiano, mi aveva tolto le parole di bocca. L’amico, zitto, zitto, si avvolse nel mantello e batté in ritirata.  

Il carnevale, spesso, diventa occasione per travestirci, da ciò che vorremmo essere; quasi una temporanea reincarnazione. Fabione, dentro quel vestito ci stava a pennello, rappresentare il panciuto nobile opulento era il suo ruolo per antonomasia; perché, sotto, sotto, covava il desiderio di appartenente a una classe elevata. Avevo il vago sospetto che quell’occhialuto e grasso liceale secchione, considerasse un semplice e volgare studente di meccanica come me, un amico di ripiego.  Ricordo i suoi goffi e inutili tentativi di avvicinarsi a quelli che allora erano i leader del gruppo; a causa del suo bigottismo estremista, nessuno lo cagava; nonostante aspirasse ad amicizie altolocate dovette accontentarsi di me e altri onti di bassa levatura; almeno lo facevamo ridere. Se fosse vissuto nel ‘700, sarebbe stato sicuramente una spia della Serenissima; pronto a denunciare i trasgressori della morale, specie quella sessuale perché, come diceva el poro zio Mario; “a chi no’ ciava, no’ ghe resta altro de sercar de ciavar quei che ciava

Nel frattempo, i nostri barbari avevano attaccato bottone con un gruppo di pupazzi di neve; a sentir loro, il virus non c’entrava niente, dei brigatisti rossi, travestiti da pagliacci, avevano iniziato a buttare delle bombe a mano e a sparare all’impazzata sulla folla accalcata in piazza san Marco, al grido di “abbasso il carnevale imperialista e consumista!!” o, qualcosa del genere.

Dai foi, ‘vanti casa in letto; vee dago mi ‘e brigate rosse”; quel ghebo, non andava certo per il sottile; “ dai morosetti; stacheve, caminar uno davanti e uno da drio”; el Deni si beccò una palettata sul braccio e io godetti come non mai. Fabione, invece, si recò al cospetto dell’altro ghebo della coppia, al fine di presentare formale istanza di chiarimenti, con l’unico risultato di ricevere un bel, “ciccio, comprate el Gasetìn”; si riavvolse nuovamente nel tabarro, niente, quella non era serata per lui. 

Poco più avanti, appoggiato al palo della luce, uno strano personaggio ci osservava; indossava una tonaca nera, un brutto cappello a tesa larga e, una ancora più brutta maschera dal becco lungo; aveva in mano una bacchetta che stava puntando verso il nostro gruppo. Tamara Bonesso mi arrivò alle spalle, sussurrandomi, con tono saccente; “è il medico della peste”, mi corse un brivido lungo la schiena. Mi ricordai di lui, l’anno prima, avevo avuto il dispiacere di conoscerlo nel corso della visita a “Venezia e la peste”; mostra che, con grande entusiasmo, visitammo trascinati a forza da quella di lettere. Ebbi l’impressione che el dotor ce l’avesse con me; ci scambiammo brevemente un’occhiata però, ’sto giro, avevo le mani libere e riuscii a toccarmi per benino.

Disattendendo in pieno le indicazioni dei due ghebi, andammo in piazza Ferretto con la speranza di ritrovare un pochino di quel martedì grasso perduto. All’ingresso, sbarravano la strada un paio di volanti della Polizia più quattro ghebi che, se ne stavano con le braccia conserte quasi a dirci; “provate a venire avanti se avete il coraggio”. 

D’improvviso, alle nostre spalle, una musica lugubre; da due pullman stavano scendendo decine di sassofonisti con addosso una tuta bianca e una maschera nera liscia che rendeva il loro volto privo di lineamenti. Il vederli faceva venire in mente quelli che, vestiti allo stesso modo, portavano via i cadaveri dalle strade di Buenos Aires. “Mamma che brutti!”; Francesca mi abbracciò tutta terrorizzata; ringraziai la Biennale , il sindaco e pure l’intera giunta, per aver voluto, a tutti i costi, la partecipazione degli Urban Sax, al Carnevale di Venezia 1981.

Uno dei barbari si parò davanti agli inquietanti e tristi musicisti; con aria di sfida attaccò a squarciagola; “Eh meu amigo, Charlie, Eh meu amigo, Charlie Brown, Charlie Brown”; uno dopo l’altro, ci attaccammo al nostro prode guerriero. Durò poco, alle prime note di “Brasil, piantemo i bisi col fusil”, i fischi dei ghebi, fecero inesorabilmente deragliare quell’unico e brevissimo gioioso trenino dell’ultimo giorno di carnevale del 1981.

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Quarantena Portfolio

 … Per non dimenticare


Immagini scattate dal 23 febbraio 2020 al 1 giugno 2020, a stretto giro … di cammino

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23 febbraio 2020

E la gente rimase a casa
e lesse libri e ascoltò
e si riposò e fece esercizi
e fece arte e giocò
e imparò nuovi modi di essere
e si fermò
e ascoltò più in profondità
qualcuno meditava
qualcuno pregava
qualcuno ballava
qualcuno incontrò la propria ombra
e la gente cominciò a pensare in modo differente
e la gente guarì.

Kathleen O’Meara


Tutto si è fermato ..

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Non siamo nati per lavorare incessantemente, carichi di rabbia, senza fermarci mai, con la sensazione che ci manchi qualcosa, come se avessimo buttato via la nostra vita, mentre ci affrettiamo verso la morte in preda a un senso di inadeguatezza.
Banana Yoshimoto
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Volenti o nolenti l’abbandono ci introduce, dal primo momento in cui lo subiamo, in una terra desolata che non conoscevamo, ci fa ascoltare un timbro inedito della disperazione e della fatica dell’esistere e del desiderare.”
Emanuele Trevi
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L’essere umano deve sempre affrontare due grandi problemi: il primo è sapere quando cominciare; il secondo è capire quando fermarsi.
Paulo Coelho
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La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità.
Papa Francesco;  meditazione dal sagrato della Basilica di San Pietro, Venerdì, 27 marzo 2020

Non bisogna allontanarsi da casa ma solo dagli altri ..

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Confinarsi nel proprio silenzio 
Soffocando 
i dubbi 
le idee 
le emozioni 
con la speranza che torni tutto alla normalità 
ascoltare frasi 
dettate al vento 
da labbra aride 
come note di musica 
destinata a dissolversi nel nulla 
percepirne 
le dure sensazioni 
che colpiscono l’anima 
come morsa devastatrice 
induttori di malessere 
di solitudine 
di malinconia 
evanescenti per chi vive al cospetto 
di un mondo così tecnologico 
devastanti per chi ricerca la purezza 
di un sorriso umano 
che può smettere di esistere 
confinandosi 
nel proprio silenzio 
Anonimo’88 
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 La solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno
Jim Morrison

Stare a duecento metri …c’è un campo dietro casa …

La nostra meta non è mai un luogo, ma piuttosto un nuovo modo di vedere le cose.
Henry Miller

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Se desideri vedere le valli, sali sulla cima della montagna. Se vuoi vedere la cima della montagna, sollevati fin sopra la nuvola. Ma se cerchi di capire la nuvola, chiudi gli occhi e pensa.
Khalil Gibran
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Uno sguardo dalla finestra ..

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Finché esisteranno finestre, l’essere umano più umile della terra avrà la sua parte di libertà.
(Amélie Nothomb)
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Le finestre spalancate, la leggerezza, l’equilibrio sottile. Non pensare a niente e allo stesso tempo avere tutto il cielo negli occhi.
Fabrizio Caramagna
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Le finestre a volte non hanno imposte, si aprono su orizzonti ben più larghi di quelli reali.
Antonio Tabucchi
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La mia casa è piccola ma le sue finestre si aprono su un mondo infinito.
(Confucio)
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Staremo accanto alla finestra
dritti nell’aria della sera
ritorneremo a respirare
ritroveremo la maniera.
(Ivano Fossati)
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Quei giorni che nascono morbidi, senza pretese. In cui hai voglia di sdraiarti vicino a una finestra e lasciar passare le ore di fianco.
Fabrizio Caramagna

Finalmente … incontrarsi di nuovo

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Ma quando penso a te, mio caro amico, ciò che era perduto è ritrovato, e ogni dolore ha fine.
William Shakespeare


… e uscire

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Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella “zona grigia” in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi. Rita Levi Montalcini

Ricominciare …

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Non serve strappare le pagine della vita, basta saper voltar pagina e ricominciare.
Jim Morrison
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Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.
José Saramago
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1 giugno 2020

E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c’è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,
e che il cammino è sempre da ricominciare.
Eugenio Montale

© 2020 Michele Camillo Ph.

COVID-19 LET IT BE

Ocio che qua ea nasse!”; nessuno, me compreso, dava peso al vecio Cesarino Spuaccin, nonostante, da giorni, brandendo il suo bastone, scagliasse l’anatema su chiunque incontrasse; d’altronde, non era accreditato presso l’OMS e, per giunta, si fumava una decina di ombre al giorno. “Ma sbirighe in sima … tamorti!”,el ‘Milietto, altra famosa eminenza scientifica del quartiere, ma di tutt’altra scuola, interpretando il pensiero dei più, contribuiva a smorzare i toni allarmistici di quel porta pegoa.

Ciò che, invece, mi convinse riguardo la gravità della faccenda, fu il non vedere più el biondo, scendere giù in garage per pulire l’auto. Era un rito sacro che durava circa tre ore; cominciava con il fracasso dell’idropulitrice che sparava, alla faccia della crisi idrica mondiale, ettolitri d’acqua sull’inerme carrozzeria; seguivano infinite passate di spugna con e senza shampoo; altra botta con l’idropulitrice, la stesura di un intero vasetto di cera con relativa lucidatura. Quando si sentiva un rumore simile a quello di un aereo in fase di decollo, significava che era giunto alla pulizia degli interni, il rumore del turbo bidone aspiratutto copriva di gran lunga quello dell’autoradio tenuta a manetta. Una densa nuvola di spray suggellava, come un amen, la fine de rituale. In condominio, alcuni maligni, spiegavano quel suo morboso attaccamento all’auto con il fatto che, ormai da tempo, la Nico, non gliela calava più.

La GTI bianca, è ormai da parecchi giorni ferma in parcheggio, continuamente sottoposta a un incessante bombardamento da parte di stormi di uccelli che la profanano con il loro schitti. Un tempo, per molto meno, lo avresti visto, bestemmiando in tutte le lingue, terrestri e no, precipitarsi giù per le scale in mutande. Ora se ne sta tappato dentro casa paralizzato; le notizie apprese dai vari social ai quali è iscritto, sono riuscite a convincerlo che, tracce di quel fio de troia di COVID-19, si trovino dappertutto, a cominciare dal sofisticato pannello touchscreen della sua GTI bianca, in quanto prodotto in Cina.

Pensare che, solo alcune settimane fa, ce ne stavamo pigiati come sardine, dentro il bar. La vecchia Cimbali sparava fuori caffè con una potenza di fuoco incredibile; i cinesi erano ormai fuori gioco da giorni ed era rimasto l’unico bar attivo nel quartiere; anche se lo sentivi dire “poareti”, intravedevi nello sguardo di Silvano, un ghigno di cinica soddisfazione, per l’improvviso notevole incremento del business.

I “te sbiro” e “ta sboro”, a seconda se, donna o uomo, uscivano a raffica dalle bocche, come un mantra che, nell’immaginario collettivo, poteva esorcizzare quel male che, fino a poco tempo fa era distante migliaia di chilometri; “cassi dea Cina e dei cinesi”, come la maggior parte di noi pensava.

 “Maedetti cinesi de merda!”, sentenziò Ivan, un cricco supertatuato; sigillando l’imprecazione con un sonoro rutto aromatizzato Aperol.

Però te fa comodo che ‘e to’ amighe cinesi te fassa el lavoretto par 30 Euro”. El vecio Vittorio, rizzatosi improvvisamente sul suo deambulatore, lo impietrì. D’altronde, poco prima si era sentito bersaglio di numerose battute, più o meno velate, nei suoi confronti e, degli altri due suoi compari di legge 104; il gruppo di cricchi, li aveva additati come gli unici destinati a sugarsea a causa del virus.

Si vede che i giovinastri, non conoscono a fondo i tre del Deambulatore Club. Da una vita, seguono una dottrina che, ha origini ancora più antiche dello yoga; el ciavarsene. Giusto per capire di cosa si tratta; capita di vederli entrare da Nane, di ritorno dal laboratorio di analisi, sbandierando fogli con una costellazione di asterischi, e farsi ‘na ombra de rosso co’ do fette de musetto al grido di “samorti i dottori !”

Credo sia per questo che, la funesta predizione, al momento, non si è avverata; Vittorio, Berto e Gino sono gli unici che continuano, anche se chiuso, a sostare davanti al bar; superstiti della movida, in un quartiere dalle sembianze post-atomiche. Rigorosamente mascherati, escono con la scusa ufficiale di andare dal Gianca a prendere il giornale; il che fa strano, in quanto, non ho ricordi di averli mai visti prima con un quotidiano in mano, a parte la Gazzetta dello Sport, per giunta, presa a prestito. Si sa che, el Gianca, tiene in edicola anche una minuscola macchinetta per il caffè; vista la situazione, i tre, come ai tempi del proibizionismo in America, non mancano di approfittarne.

Vorrei essere come loro ma, da quando c’è in giro ‘sta roba, mi sento ogni giorno, un sintomo di questo maledetto virus. Già prima, quando mi capitava di incappare in un programma televisivo di medicina, istantaneamente, mi autodiagnosticavo la malattia oggetto della trasmissione; ora, che ti propinano, come se piovesse, immagini di terapie intensive e obitori zeppi, sono praticamene paralizzato dal terrore. Le mie già esigue ore di sonno, si sono ulteriormente ridotte a son di consultare grafici che riportano casi, ricoveri e decessi più, una serie infinita di pareri, spesso in contraddizione tra loro, di virologi o, presunti tali.

Ora che non posso più andare al bar e starmene li a cazzeggiare e parlare di calcio; trovo terapeutico, il mettermi in coda da sior Ugo, un rarissimo casoin, glorioso esempio di baluardo contro l’invasione degli ipermercati che, in questo periodo, è ritornato ai vecchi fasti di un tempo. La gente fuori in coda, è più o meno a stessa che trovavo al bar.

So drio cagarme ‘dosso”; ea vedo longa, ‘sta storia no finisse più, xè peso de ‘na guera”

“Se no morimo par el virus, moriremo de fame e, sensa funerae”

“’ndarà tutto ben, ‘sto per de cojoni; ghemo poco da cantar sui balconi”

“No i ne a conta giusta, i diseva che gera ‘na influensa e varda come semo ciapai; ea verità xè che ‘gnanca i sciensiati sa cossa casso far” 

“No meo cava nessun daea testa, ‘sto virus i io ga fabricà i cinesi”

“No; xe stai i americani par tirar xo dae spese i cinesi”

“No xe stai i russi par tirar zo dae spese i cinesi e i americani”

“Sveieve! I neo ga portà quei che riva coi barconi”

“So stufo de star serà in casa a non far niente”

“Ma se no ti ga mai fatto un casso anca co ti disevi de ‘ndar a lavorar”

“Mettite ea ascherina”

“E ti stroppite el cueo che i ga dito che e scorese trasmette el virus”

“Vardè i americani, i ga più bombe atomiche de mascherine”

“Sento che ‘sto giro ea me toca, so ciavà! Se salvarà soeo i soiti rotti in cueo de politici e quei pieni de schei”

“Eh no vecio, ‘sto giro a ghe toca anca a iorillà”

Quando succede qualcosa di brutto a iorillà; gli animi si placano e tutti si rasserenano; eh si, bisogna ammetterlo, un po’ ci godiamo nel vedere che, questo democratico virus, se la prende anche con iorillà. Eh si, perché, ognuno di noi ha dei iorillà da odiare; ovvero quelle persone che, per svariati motivi, ci stanno sulle palle e, con le quali, a volte, abbiamo un conto da saldare per episodi che risalgono addirittura, alla prima infanzia. In genere identifichiamo in iorillà; politici, popoli, etnie, furbetti o, semplicemente, qualcuno che ha qualcosa in più di noi. Sono sempre più convinto che, in realtà, nel subconscio, invidiamo gli iorillà perché alla fine, ci piacerebbe essere al loro posto e, al loro posto, ci comporteremo nella stessa maniera.

Ci sono poi staltri, quelli ai quali ghe xé tocà, su cui purtroppo, si è abbattuta la sventura e qui, entra in gioco la distanza che, può essere fisica, di età o condizione sociale. Finché la distanza tra noi e staltri, rimane entro certi limiti, non ci preoccupiamo più di tanto; quando invece, iniziamo a percepire che si sta accorciando; allora, non va più bene. Non accettiamo che, la sventura, inizi a sfiorare pericolosamente la nostra vita; è ingiusto; iniziamo a cagarci addosso.

A me, è capitato, quando ho visto le erbacce che iniziavano a intrufolarsi tra i raggi dei costosissimi cerchi in lega della GTI bianca.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità.

Così, una sera piovosa, un uomo solo, vestito di bianco, parlò al mondo; probabilmente alludeva proprio al biondo; magari, mi avrebbe consolato e semplificato le cose; invece, oltre al terrore di ammalarmi, si sono aggiunti inevitabilmente altri pensieri; vabbè, ho capito che il tempo non mi sarebbe mancato.

Tutto improvvisamente si fermò, a partire dal lavoro, quello ufficiale per intenderci. Mi trovai, dalla sera alla mattina, a camminare per il vialone del quartiere in una atmosfera da eterno Ferragosto; in giro, solo il buon Vincenzo, Censi l’infermier; uno che, insieme alla vecia Irma, conosce a memoria tutti i culi del circondario; preciso, a suon di bucarli con l’ago della siringa.

Le autorità ti concedevano di muoverti solo per comprovate necessità. Con la coscienza ero a posto; fare radio, per me, era una necessità nonché, una valida terapia per combattere la scaga.

Per quanto mi riguarda, il distanziamento sociale, la medicina del momento, non è per niente amara da parar giù, è una gran fortuna che ‘sta roba sia imposta; mi sottrae al pesante onere di fornire delle spiegazioni, quando ho voglia di starmene per i cazzi miei; ovvero, quasi sempre. Ho dalla mia parte anche il grande Fabrizio De André, che diceva; “La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà”, parole sante. Mi godo questo stato positivo che, gli inglesi, chiamano solitude, diverso, dall’isolamento e abbandono, per riferirsi al quale, usano il termine loneliness; si imparano tante cose dalle canzoni.

Devo essere sincero, quaranta e passa anni fa, pensavo, o meglio speravo, che il microfono dal quale parlavo, avrebbe attirato, come la carta moschicida, una quantità industriale di gnocca o, quantomeno, mi avrebbe aiutato a rivalermi nei confronti di qualche iorillà; mi accorgo invece che, forse a causa del magnete che ha all’interno, non ha fatto altro che calamitare loneliness la quale, in questo tempo sospeso, è cresciuta esponenzialmente come le curve del contagio.

E’ un microfono strano, sembra avere un’anima in grado di comprendere la solitudine; condivide la paura che la malattia arrivi e ti tolga il respiro. No, per carità, non adesso che, la solitudine ci ha fatto capire che finora abbiamo passato una vita in difesa, preoccupandoci solo che la sventura non ci toccasse. La stessa paura che ci ha fatto prendere strade diverse da quelle che, invece, ci suggeriva il cuore.

Questi sono i miei ascoltatori, persone con pochi “like” nella vita, quelli delle occasioni mancate, con il desiderio sempre acceso che qualcuno si accorga di loro. A me non resta che “mettergli su” canzoni, proprio come si fa con la pasta.

Oggi è l’otto maggio; cinquant’anni fa esatti, usciva “let it be”, anche se vedo che è passata la voglia di cantare dai balconi, apro la finestra dello studio e la faccio uscire; lascio che le sue note, oltre che nell’etere, si propaghino nell’aria tersa:

let it be, lascia perdere, lascia stare … sbirighe in sima

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO – © 2020 Michele Camillo

Primavera a Km 0

© 2019 – 2024 Michele Camillo

Tratto dal Portfolio foto

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Favaro Veneto – Ca’ Solaro

Se la vista di cieli azzurri ti riempie di gioia, se un filo d’erba cresciuto in un prato ti commuove, se le cose semplici della natura hanno un messaggio che riesci a capire, rallegrati, perché la tua anima è viva.
Eleonora Duse

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Favaro Veneto – bosco Ottolenghi

Questo mi dice un campo luminoso di primavera: semina la gentilezza, cogli il rispetto, coltiva la serenità.
Fabrizio Caramagna

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Dese

Porta il vento di maggio l’odore
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano.
Attilio Bertolucci

Dese
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Favaro Veneto – Bosco Ottolenghi

A ogni incontro con la primavera
non so star quieto; sorge il desiderio
antico, un’ansia mista ad un’attesa,
una promessa di bellezza
e una gara di tutto il mio essere
con qualcosa che in essa si nasconde.
Quando la primavera svanisce
v’è il rimorso di non averla guardata abbastanza.
Emily Dickinson

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Favaro Veneto – Bosco Ottolenghi

Primavera non bussa lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura ha le labbra di carne i capelli di grano che paura, che voglia che ti prenda per mano. Che paura, che voglia che ti porti lontano.
Fabrizio De Andrè

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Campalto – parco Chiarin

Questo mi dice un campo luminoso di primavera: semina la gentilezza, cogli il rispetto, coltiva la serenità.
Fabrizio Caramagna

Campalto – Parco Chiarin

Ritratto di albero

Amo fotografare le persone. Misteriosamente però, talvolta, anche lo sguardo di un albero attira la mia attenzione, credo sia lui a chiedermi un ritratto.

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OLYMPUS DIGITAL CAMERAVedo ovunque nella natura, ad esempio negli alberi, capacità d’espressione e, per così dire, un’anima.
Vincent van Gogh


OLYMPUS DIGITAL CAMERATra le fronde degli alberi stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte.
Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita.
Hermann Hesse


IMG_8067Agli alberi parla più il vento che l’uomo
Eero Suvilehto


OLYMPUS DIGITAL CAMERAChi ha imparato ad ascoltare gli alberi non brama più di essere un albero. Vuole essere quello che è.
Hermann Hesse


P1010925Talvolta, un albero umanizza un paesaggio meglio di quanto farebbe un uomo.
Gilbert Cesbron


OLYMPUS DIGITAL CAMERATra i rami dei grandi alberi mi sono arrampicato per guardare il cielo… con la loro frutta mi sono sfamato, con il loro legno mi sono riscaldato: a loro devo la mia
vita…
Mario Rigoni Stern


OLYMPUS DIGITAL CAMERAGli alberi sono le colonne del mondo, quando gli ultimi alberi saranno stati tagliati, il cielo cadrà sopra di noi.
Detto dei nativi americani


OLYMPUS DIGITAL CAMERAChe straordinario dono sono gli alberi e quante cose potremmo imparare da loro, se solo sapessimo guardarli, vederli, prestare loro l’amore e l’attenzione che si presta agli amici.
Susanna Tamaro


OLYMPUS DIGITAL CAMERAGli alberi rimangono intatti se tu te ne vai. Ma tu no, qualora se ne vadano loro.
Markku Envall


OLYMPUS DIGITAL CAMERASe vorrai conoscere la forza e la pazienza, dovrai gradire la compagnia degli alberi.
Hal Borland


OLYMPUS DIGITAL CAMERAAlberi,
eravate frecce
cadute dall’azzurro?
Che terribili guerrieri vi scagliarono?
Sono state le stelle?
Federico García Lorca



© 2019 Michele Camillo

Riflessi

Progetto fotografico

L’uomo non è solo. Il mondo in cui vive, per quanto bello, non è che un leggerissimo riflesso della immensa realtà momentaneamente invisibile, spirituale, splendente, che lo attraversa, lo avvolge, lo aspetta.
(André Frossard)

Nato sotto il segno dei pesci

Ho camminato tanto, camminato per dimenticare, camminato per piangere senza farmi vedere, camminato perché ero talmente felice e eccitato da non riuscire a dormire; camminato semplicemente perché ero solo e non avevo altro da fare o, non potevo fare altro. Ho camminato più di notte che di giorno; la notte è passione, malinconia e romanticismo; fonte di ispirazione, l’ambiente ideale dove si muovono fantasmi, vampiri e solitari introversi come me.

All’ora in cui arrivo, se ne stanno ormai andando via tutti; rimango solo nello studio, spengo le luci principali e mi godo, con in bocca il gusto dell’ultimo caffè della giornata, la magica penombra creata da una costellazione di lucette colorate e monitor vari; sono pronto anche stanotte, solitario comandante di un’astronave che, alla velocità delle onde radio, attraversa l’universo dell’etere.

Il giorno ha occhi, la notte ha orecchie, recita un vecchio proverbio persiano; momento ideale per fare radio. Mi piace usare questo termine; fare, è molto più poetico di lavorare, anche perché, un lavoro non lo è mai stato, nel senso di quello che mi serve per portare a casa la pagnotta o, come lo definiscono i maghi dell’economia, il core business ma, piuttosto, giusto per storpiare le parole, un cuore business perché, la radio va fatta con il cuore.

Quand’ero bambino, odiavo la radio, o meglio, certi suoi ascoltatori, tipo mio fratello che, la teneva accesa tutta la notte, posizionata in modo precario nell’unico comodino che avevamo in comune; ma, molto di più odiavo quelli che, nelle grigie e tristi domeniche invernali, passeggiavano con la radio all’orecchio ascoltando “tutto il calcio minuto per minuto”. Ora, rimane solo l’antipatia verso certi tipi che ci lavoravano; quelli che urlano frasi in inglese maccheronico e straparlano sopra le canzoni; credo perché, a noi introversi, danno fastidio le persone che vogliono mettersi in mostra. La verità, difficile da ammettere è che, allo stesso tempo, vorremmo essere al loro posto; perché, intimamente la maggior parte di noi, cova il segreto desiderio di essere scoperto.

E’ per questo che, attratto come l’orso dal miele, sono finito dentro una radio, a fare radio. Il posto giusto per uno come me; nascosto dietro un microfono, nessuno mi avrebbe visto e quindi, potevo far credere di essere chissà chi, libero di fingere come non mai; un social network ante litteram che mi avrebbe dato la possibilità di, far el figo, per dirla in volgo locale. Mi sarei fatto conoscere da un sacco di persone senza espormi più di tanto; il massimo del risultato con il minimo sforzo eh si, perché, oltre a essere introverso sono anche un pigro patentato. E’ successo che, citando Ligabue, le canzoni sanno chi sei molto meglio di te e, a forza di metterle su, come diciamo noi; non ci hanno messo molto a sgamarmi per cui, e solo dentro questa specie di cubo fonoassorbente, dal quale parlo quasi ogni notte che, ironia della sorte, riesco a essere veramente me stesso.

Resta il fatto che nessuno mi vede, chi mi ascolta può solo immaginarmi, basandosi solo su ciò che racconto. Già, raccontare, oggi, prima di venire qui, ho acquistato dai cinesi per pochi euro un taccuino, imitazione del famoso Moleskine. Senza fatica, le pagine si riempiono velocemente; dalla penna esce la mia storia e quelle di tanti altri amici che hanno vissuto la magica esperienza di fare radio ma, soprattutto, risuonano le canzoni legate a quelle storie perché, come dice non so chi, ci sono canzoni che quando le ascolti diventano persone, luoghi, pioggia, sole, caldo, freddo, gioia e tristezza.

Sono nato sotto il segno dei pesci, sia nella vita che in radio. Marzo 1978, in quel mese, compivo gli anni, usciva “sotto il segno dei pesci” di Antonello Venditti e, in una giornata maledettamente piovosa, rintanato nella mansarda di un palazzone popolare, con la mano tremolante, feci scivolare, per la prima volta, il cursore del mixer, dove, a matita, stava scritto MIC, balbettando qualcosa che non ricordo più, mentre, in sottofondo, il buon Venditti, mi dava la forza per vincere la mia proverbiale timidezza. Risale a quel periodo anche il mio nome d’arte, con il quale, tutt’ora sono universalmente conosciuto; questo mi permette di fare la doppia vita, come un super eroe che, nel mio caso, assomiglia più a SuperPippo che a SuperMan.

Quasi una vita passata a metter su canzoni; sembra ieri quando, con un certo affanno, le mie dita scorrevano velocemente tra gli scaffali stracolmi di dischi per cercarle mentre ora, è sufficiente digitarne il titolo. Alla fine, però da quel marzo 1978, nulla è cambiato; sono sempre più convinto che la gente, me compreso … tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore.

Sotto il segno dei Pesci … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO – © 2018 Michele Camillo