Io Non son più io, mi sento da sola Qualche cosa dentro me è cambiato, ma cos’è? Oh-oh, oh, oh Oh, non dir di no e lasciami sola Non dipende più da te
Potresti regalarmi il mondo intero, che me ne farei? Io cerco solo il vento e una scogliera Dentro gli occhi miei E sopra il mare volerei Per non tornare, credimi Sola
Non pensare adesso che Qualcun altro sia con me Oh-oh, oh no Ti ho detto da sola Io con la mia anima
Sarà che questo mondo ha rovinato Tutti i sogni miei Se non avessi te che sei innocente Giuro me ne andrei Ed oltre il mondo volerei Per non tornare, credimi Sola
Per sentirmi libera, finalmente libera Oh, Sola Io con la mia anima
Ma chi piangerà, lo so sarò io Io che resterò sola Sola Resterò (sola) sola Sola, (sola) Sola, sola, sola Sola Resterò sola, sola, ah Sola, sola
Ci sono canzoni che, quando le ascolti, diventano persone, luoghi, pioggia, sole, caldo, freddo, gioia e tristezza.
Canzoni, come Poster di Claudio Baglioni, hanno il potere di trascinarti dentro la scena, sei tu quel personaggio che se ne sta “seduto con le mani in mano sopra una panchina fredda …”; la melodia, ispirata dalla bellissima Valsinha di Vinicius De Moraes e Francisco Buarque De Hollanda, riesce a farti percepire la sensazione di freddo umido; e tu, malinconico spettatore della grigia routine invernale alla quale non riesci a ribellarti, ripensi alla tua vita e, a quell’eterno sogno di fuggire via.
Seduto con le mani in mano Sopra una panchina fredda del metrò Sei lì che aspetti quello delle 7:30 Chiuso dentro il tuo paletot Un tizio legge attento le istruzioni Sul distributore del caffè E un bambino che si tuffa dentro a un bignè
E l’orologio contro il muro Segna l’una e dieci da due anni in qua Il nome di questa stazione È mezzo cancellato dall’umidità Un poster che qualcuno ha già scarabocchiato Dice “vieni in Tunisia” C’è un mare di velluto ed una palma E tu che sogni di fuggire via
E andare lontano lontano Andare lontano lontano
E da una radiolina accesa Arrivano le note di un’orchestra jazz Un vecchio con gli occhiali spessi un dito Cerca la risoluzione a un quiz Due donne stan parlando Con le braccia piene di sacchetti dell’Upim Ed un giornale è aperto Sulla pagina dei films
E sui binari quanta vita che è passata E quanta che ne passerà E due ragazzi stretti stretti Che si fan promesse per l’eternità Un uomo si lamenta ad alta voce Del governo e della polizia E tu che intanto sogni ancora Sogni sempre sogni di fuggire via
E andare lontano lontano Andare lontano lontano
Sei lì che aspetti quello delle 7:30 Chiuso dentro il tuo paletot Seduto sopra una panchina fredda del metrò
Winter Melody interpretata da Donna Summer uscì in Italia il 9 gennaio 1977, prima traccia dell’album Four season of love.
Donna Summer oltre a essere la regina della disco music, per la sua sensualità, aveva la reputazione di una che faceva canzoni “da letto”; per cui, in radio, questa e altre sue canzoni, venivano trasmesse prevalentemente in orario notturno e, questa in particolare, data la “stagionalità” del titolo, durante le fredde serate invernali.
In realtà, a dispetto delle precedenti love to love you baby e could it be magic, questa canzone non ha nessun contenuto erotico ma bensì, racconta del vuoto e della conseguente solitudine causata da un amore finito, la felicità di colpo stroncata, dall’abbandono della persona amata, quasi venisse congelata da una brezza invernale; insomma, tristezza e malinconia pura. Come per la maggior parte delle canzoni straniere, credo quasi nessuno abbia fatto caso al significato delle parole ma, piuttosto all’emozione che la melodia evoca. Qualsiasi siano le situazioni o le fantasie che vengono in mente, è una classica comfort song, come dicono gli inglesi; ovvero una canzone che funge da coperta calda, profuma di the speziato e ti fa viaggiare fino al tuo ideale posto sicuro. Da ascoltare rintanato al calduccio quando c’è tanto freddo fuori e … dentro di te.
Emptiness and just a memory Love is gone with nothing left for me All those wasted feeling for something i no longer have I never knew that love could hurt so bad
Winter melody, winter melody, winter melody Play for me, just for me ‘Cause he’s not coming home and i’m here alone On my own
I can’t bear to see the sun go down Casting stormy shadows all around Nothing seems to matter, i just get by from day to day I never thought that you would leave this way
Winter melody, winter melody, winter melody Play for me, just for me ‘Cause he’s not coming home and i’m here alone On my own
Winter melody Play for me, just for me ‘Cause he’s not coming home and i’m here alone On my own
Loneliness, that’s all that’s left for me Happiness is chilled by winter’s breeze I keep on remembering the day that you came along And since you left, well i just sing the song
Winter melody, winter melody, winter melody Play for me, just for me ‘Cause he’s not coming home and i’m here alone On my own
Compositori: Donna A. Summer / Donna Summer / Giorgio Moroder / Pete Bellotte
The jingle bells are jingling The streets are white with snow The happy crowds are mingling But there’s no one that I know
I’m sure that you’ll forgive me If I don’t enthuse I guess I’ve got the Christmas blues
I’ve done my window shopping There’s not a store I’ve missed But what’s the use of stopping When there’s no one on your list
You’ll know the way I’m feeling When you love and you lose I guess I’ve got the Christmas blues
When somebody wants you Somebody needs you Christmas is a joy of joys But friends when you’re lonely You’ll find that it’s only A thing for little girls and little boys
May all your days be merry Your seasons full of cheer But ‘til it’s January I’ll just go and disappear
Old Santa may have brought you Some stars for your shoes But Santa only brought me the blues Those brightly packaged tinsel covered Christmas blues
Old Santa may have brought you Some stars for your shoes But Santa only brought me the blues Those brightly packaged tinsel covered Christmas blues
Allora è arrivato Natale, Natale la festa di tutti Si scorda chi è stato cattivo, si baciano i belli ed i brutti Si mandan gli auguri agli amici, scopriamo che c’è il panettone Bottiglie di vino moscato e c’è il premio di produzione
È nato si dice poi fu crocifisso Aveva diviso il mondo in due parti E quelli che l’hanno trattato più male Son quelli che hanno inventato il Natale
C’è l’angolo per il presepio e l’albero per i bambini I magi, la stella cometa e tanti altri cosi divini I preti tirati a parata, la legge racconta che è onesta Le fabbriche vanno più piano, insomma è un giorno di festa
È nato si dice poi fu crocifisso Aveva diviso il mondo in due parti E quelli che l’hanno trattato più male Son quelli che hanno inventato il Natale
È festa persino in galera e dentro alle case di cura Soltanto che dopo la festa, la vita ritornerà dura Ma oggi baciamo il nemico, o quelli che passano accanto O l’asino dentro la greppia, Natale il giorno più santo.
L’oggetto della mail, arrivò a provocarmi un prolasso fulminante dei testicoli, i quali, tracciarono due profondi solchi per terra, da casa mia, fino all’ingresso del bar da Nane. Ogni inizio di ottobre, da un po’ di tempo, in azienda, c’è l’usanza di rompere i maroni, convocando una riunione plenaria di tutti i sudditi di sua maestà el CEO, per dirla alla trevigiana. Lo scopo è sempre quello, farti lavorare di più per meno soldi; i vertici, per essere convincenti, minacciano di far decollare giganteschi cetrioli volanti, pronti a colpirti alle spalle o, per essere più precisi, un po’ più giù.
Fortunatamente, da quando c’è ‘sto cavolo di pandemia, queste riunioni non si fanno più in presenza e io, non sono più costretto a prendere l’aereo e, un litro di benzodiazepine per non cagarmi addosso; anzi, con questo sistema della videoconferenza o webinar che sia, mi diverto a mandare i sopracitati vertici in determinati posti o, a farmi fare certi particolari lavoretti, facendo fior, fior di gesti con le mani a mutande abbassate, ovviamente il tutto con la telecamera rigorosamente spenta; la scusa per non attivarla, era sempre la stessa, ovvero mi succhiava banda e quindi avevo difficoltà a connettermi. Tutte le strategie e i sotterfugi da usarsi durante le videoconferenze le avevo imparate da mio nipote Filippo, così pure la mimica da usarsi a telecamera spenta che, lui adottava nei confronti dei prof; quasi due anni di didattica a distanza, almeno gli erano serviti per diventare un esperto in materia.
Decisi di collegarmi dalla radio, quale posto migliore per una diretta; ma, soprattutto quale occasione migliore per sistemare la scaletta notturna, sostituendo i tormentoni estivi con qualcosa di più adatto alla stagione; tanto, le stronzate che dovevo sentire erano le stesse da anni.
Il giorno convenuto, passai prima da Nane Sbérega, avevo estremo bisogno di farmi una dose massiccia. L’idea era di fumarmi un caffè quadruplo ristretto e un krapfen, beo onto, alla crema; la voglia di drogarmi era tanta che avrei corso il rischio di trangugiare quello che giaceva sulla vetrinetta del bancone, ormai da una decina di giorni.
“Ohi, vecio; xe ‘pena passada ea cocca del comune”; avevo riconosciuto Gino Bottacin dalla voce roca e dai pantaloni rosso stinto che porta ormai da più di dieci anni; in genere, quando è seduto fuori dal bar, il viso è sempre avvolto da una cortina fumogena generata dalla robaccia che fuma.
Il suo compito istituzionale, da quando è in pensione, è quello di stendere un dettagliato report sul passaggio di cocche. Dovete sapere che da Nane, le cocche passano ma, non si fermano mai; nemmeno se gli dovesse servire urgentemente il bagno, preferiscono tenersela o farla dietro un albero.
Non ho mai visto entrare una cocca da Nane; a parte ea Mary, la milfona banconiera, morosa del Silvano, patron di Nane Sberega, le uniche presenze femminili abituali sono un gruppo di femministe sessantottine capitanate da Irma Marangon detta sottuttomi. Pure il loro outfit risale al 1968, i larghi cotoeoni a fiori che indossano, antitesi della favolosa invenzione di Mary Quant, sono contro ogni possibile arrapamento; nemmeno a Denis Sgorlon, in assoluto il più affamato de mona, nel raggio di dieci kilometri, verrebbe voglia de cassarse, con una di loro. Hanno anche il grave difetto di essere delle naturiste; mentre la maggior parte degli avventori de Nane, sublima la mancanza di quella cosa che fa girare il mondo, con poenta e sopressa, loro, presumo, sempre per sopperire a una certa mancanza, si riempiono di roba come tofu e seitan. Più di una volta, qualcuno gli ha chiesto se ‘ste sostanze, è meglio arrotolarle su una cartina e fumarle oppure, è consigliabile sniffarle direttamente.
Dal piccolo studio che usiamo per montare i programmi, si gode di una bella vista sul viale centrale dei paeassoni. In questo periodo, le foglie degli alberi cominciano a cambiare colore, el sofego estivo ormai è solo un ricordo, per me, è il più bel momento dell’anno; mi sento rinascere. Non mi ricordo da dove salta fuori, ma, c’è una teoria secondo la quale, ognuno di noi ha il suo inizio di anno che, non coincide per forza con il primo gennaio. Verissimo, per me l’inizio dell’anno è sempre stato il primo ottobre, giorno in cui, una volta, iniziava l’anno scolastico. Pensare che, ancora oggi, per celebrare questo bel giorno, vado da sior Romeo a compare un quaderno o una matita. In quella cartoleria, il tempo sembra essersi fermato, oltre ai vecchi arredi, è rimasto il tipico profumo di carta, ricordo degli anni di scuola elementare. I primi giorni di ottobre, qui in radio, sono sempre stati dedicati alla programmazione delle attività; un eccitante fervore di idee che nascevano attorno a un tavolo stracolmo di bagigi, vino, cioccolata calda e dolcetti venexiani; purtroppo, la mia azienda, ha pensato ben bene di rovinarmi questo magico periodo dell’anno.
Dopo i saluti iniziali, praticamente un concerto per violini e lingue, partì la mattonata, “Goals for job success”, sullo schermo apparve un tizio dotato di arco, intento a scagliare una freccia. Le slide scorrevano lente, il tempo sembrava non passare mai, e io continuavo a sbadigliare. Lo studio funge anche da deposito dei vecchi LP in vinile, approfittai per dare una riordinata e, sospirare quando mi capitavano sottomano le compilation dance degli anni ’80; che tempi ragazzi! Non mi potevo però distrarre più di tanto, c’era quel maledetto questionario finale da compilare.
Obiettivo, obiettivo, obiettivo; tutta la presentazione era un continuo martellare su questo termine. Obiettivi presenti, passati e futuri, obiettivi raggiunti e obiettivi da raggiungere; che due coglioni!
La riunione finalmente finì; mi comportai da bravo soldatino, risposi esattamente al questionario, mettendo le crocette su una serie di cazzate, distanti anni luce dal mio modo di pensare. Alla fine però, questo maledetto obiettivo continuava a farmi innervosire, credo per il fatto di non averne, finora, mai centrato uno; parlo della vita ovviamente; anzi, la vera questione era capire se, ne avevo mai avuto uno.
Ho la convinzione che, in certi momenti, una qualche misteriosa entità sovrannaturale, mi invii dei messaggi. Proprio nell’istante in cui stavo pensando a ‘sta faccenda dell’obiettivo, la workstation nella quale stavo inserendo la scaletta notturna si mise a riprodurre “a fifth of Beethoven”; uno dei brani che hanno segnato la mia vita, il leitmotiv della mia passione. Spopolava in quel lontano febbraio del 1977 quando, a soli tredici anni, iniziai a trasmettere in radio e, il mio obiettivo era quello di diventare un famoso DJ attorniato da una moltitudine di cocche; inutile dire, che il target, per usare un termine anglosassone, non è stato raggiunto.
A quasi sessant’anni, mi chiedo se, alla fine, mi interessava di più fare il DJ o, essere circondato da una moltitudine di cocche. Giù da Nane, c’era uno che, più di altri, poteva darmi una mano riguardo a questo dilemma; inoltre, considerato il fatto che, l’azienda, ci aveva affidato il compito di riflettere sui nostri obiettivi, non potevo fare niente di meglio che scendere a fare due chiacchere con il vecchio Bottacin.
Sono anni che ormai è in pensione, invece di fare come tanti, che vanno a guardare i cantieri, lui passa la giornata da Nane per guardare le cocche che transitano davanti. Non è un tipo molto loquace, lo si sente ogni tanto sospirare e poi dire, “se ognun gavesse ea so cocca, nissuna bufera lo tocca”. Per tirar in lengua Gino sull’argomento cocca, è sufficiente chiedergli perché è così triste; all’inizio, la risposta è sempre la stessa, “me toca morir sensa essar ‘nda mai in quel posto, peso ancora, sensa averlo mai visto”. Mi feci offrire una sigaretta e introdussi la questione dell’obiettivo, Gino fu categorico; “cossa ti vol che te diga; da quando che esistemo, el scopo dell’omo, gira e gira, xe sempre queo. Chi che, come mi, no’ ghe xe riussio, bisogna che xe sforsa de pensar ad altro, altrimenti el riscia de ‘ndar via de meona; come xe dise, se uno no’ va in cocca xe fasie che prima de ‘staltri da ‘sta tera sea mocca”. Nel frattempo, sopraggiunse Paperoga, il socio fingeva che l’argomento non lo riguardasse ma, in realtà, ascoltava attentamente.
“Vien qua beo, ti che te ga studià, spieghighe a quei dea radio, parchè noialtri semo sensa ‘na cocca”
Il beo era rivolto a Ciano Menin, storico personaggio di spicco del team sensa cocca. El Ciano non aspettava altro, si fece offrire pure lui una sigaretta da Gino e attaccò con la conferenza.
Per primo, bisogna sapere che, per i sensa cocca, esiste una definizione internazionale ovvero INCEL, acronimo di Involuntary Celibate, tradotto, celibi involontari. Inoltre, nella categoria, sono implicitamente inclusi tipi come me e il Paperoga che, una cocca, bene o male, l’avevano avuta ma, almeno da più di sei mesi, si trovano nell’impossibilità di praticare l’attività più salubre e importante della vita.
Secondo, gli INCEL, non sono INCEL per caso ma, perché, scartati da donne che, scelgono il partner unicamente in base al criterio LMS, acronimo di Look, Money and Status; ovvero, una cocca ti sceglie solo se sei bello, oppure se hai soldi o, in alternativa, se sei qualcuno che conta.
A questo punto intervenne Gino; “el sciensiato qua, ga scoperto l’acqua calda; da sempre se dise che ea dona tea caea, se ti xe beo, o col scheo o sora el scagneo e, mi ghe sonto, … o sempre pronto co’ l’oseo”. “Speta che ‘desso vien el mejo; dighe cossa che ne ga combinà e femministe”; Gino tornò a incalzare il Menin.
Praticamente, gli INCEL, sostengono che la liberazione sessuale e il conseguente sviluppo del movimento femminista, hanno segnato la loro definitiva rovina. Il professor Menin prese un sasso per terra e, sul muro esterno de Nane, a mo’ di lavagna, disegnò la situazione prima del ’68 dove, ad ogni cocca, corrispondeva solo un cocco, il classico rapporto uno a uno. Nello schema successivo, post ’68, si poteva notare che, solo alcuni cocchi, erano oggetto di attenzione di più cocche contemporaneamente, un fenomeno chiamato ipergamia. Questo perché prima del ‘68, le cocche, al fine di garantire la naturale conservazione della specie, si adattavano ad accoppiarsi con qualsiasi uomo; successivamente, con la rivoluzione sessuale, hanno iniziato a montarsi la testa, calandogliela solo a quelli che soddisfano il criterio LMS. Gli INCEL definiscono CHAD, tipi come Riccardo Cazzador, giusto per fare un nome; sono quelli con un alto punteggio LMS che, trombandosene più di una, gli sottraggono quella cocca che, prima del ’68, sarebbe sicuramente spettata a loro; analogamente, avviene nel mondo animale, dove più femmine si concedono solo ai maschi alfa. Notai però, nel nostro insegnante, una malcelata invidia nei confronti del sopracitato Riky Cassador che, comunque, si è prodigato per la conservazione della specie, seminando figli in giro; ovviamente, avuti con cocche diverse.
“Ah no! A si ciò! Aeora, radiofonici, cossa ve par de ‘ste robe?” Paperoga si era organizzato appuntando tutto sullo smartphone; ci disse che, sull’argomento, si sarebbe potuto buttar su un programmone; avremo fatto un’audience degno dei migliori talk show. “ Tasi, tasi, che almanco ghe si voialtri dea radio”; el Gino scosse la testa e, cicca in bocca, inforcò la bici sparendo dall’orizzonte.
Tutto frastornato, tornai su, era ora di andare in onda; dalla finestra si potevano vedere molte cocche passare, nessuna però si sarebbe fermata da Nane, nemmeno se gli serviva di andare urgentemente in bagno. Non potevo fare a meno di pensare all’elucubrazione dell’esimio Ciano Menin; era stata senz’altro più interessante di “goals for job success”, comprese le originali e incisive, nel vero senso della parola, “slide”, lasciate sul muro de Nane; alla fine, si era parlato di un obiettivo che, tanti definiscono “il fine ultimo”. Arrivai alla conclusione che probabilmente il criterio di selezione LMS, esiste davvero con la sottile differenza che, siamo più noi uomini ad applicarlo; dividiamo l’universo femminile in cocche e non cocche, dove, queste ultime, vengono relegate ad appartenere a una casta inferiore. Quando poi, le cocche, non sono più cocche, non ci interessano più e le abbandoniamo in mezzo a una strada; ancora peggio, reagiamo violentemente, se si rifiutano di essere cocche di nostra esclusiva proprietà.
“ Tasi, tasi, che almanco ghe si voialtri dea radio”. Grazie Gino, noi della radio, di questa piccola radio; possiamo, di fronte alla mancanza di un qualcosa di grande e misterioso, vera forza e motore del mondo, solo “mettere su” qualcosa …
E per la barca che è volata in cielo Che i bimbi ancora stavano a giocare Che gli avrei regalato il mare intero Pur di vedermeli arrivare
Per il poeta che non può cantare Per l’operaio che ha perso il suo lavoro Per chi ha vent’anni e se ne sta a morire In un deserto come in un porcile
E per tutti i ragazzi e le ragazze Che difendono un libro, un libro vero Così belli a gridare nelle piazze Perché stanno uccidendo il pensiero
Per il bastardo che sta sempre al sole Per il vigliacco che nasconde il cuore Per la nostra memoria gettata al vento Da questi signori del dolore
Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Che questa maledetta notte Dovrà pur finire Perché la riempiremo noi da qui Di musica e parole
Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore In questo disperato sogno Tra il silenzio e il tuono Difendi questa umanità Anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore
Perché le idee sono come farfalle Che non puoi togliergli le ali Perché le idee sono come le stelle Che non le spengono i temporali Perché le idee sono voci di madre Che credevano di avere perso E sono come il sorriso di dio In questo sputo di universo
Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Che questa maledetta notte Dovrà ben finire Perché la riempiremo noi da qui Di musica e parole
Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Continua a scrivere la vita Tra il silenzio e il tuono Difendi questa umanità Che è così vera in ogni uomo
Chiamami ancora amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore
Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte Dovrà pur finire Perché la riempiremo noi da qui Di musica e parole
Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore In questo disperato sogno Tra il silenzio e il tuono Difendi questa umanità Anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Perché noi siamo amore
Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti o meglio, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate.
Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar di Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e non, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano, portato, a detta di alcuni esperti di geopolitica, sempre presenti da Nane, da quelli che arrivano con i barconi, assieme alle zanzare tigre.
Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene. Comunque, c’è l’innegabile vantaggio che, se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada debovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di copar tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ de schei per il trattamento. Segnalo poi, che quando Denis Sgorlon, Ivan Stevanato e Toni Favaretto uniscono le loro forze per produrre un corale rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile.
Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale, “c’è chi va ai monti, chi va al mare, e chi, va ben, ben in cueo de so mare”.
Purtroppo, anch’io, Paperoga e Paolo “Paolino” Dante, meglio conosciuti da Nane come “quei dea radio”, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana. Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia, siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas.
In passato, abbiamo messo in atto maldestri tentativi per non rimanere nella categoria. Ci abbiamo provato sin da bambini, facendoci spedire in colonia; puntualmente, ogni anno, tornavamo a casa, fiaccati nel corpo e nella mente, come se avessimo fatto vent’anni di naja. In seguito, ci rivolgemmo ai preti, con il risultato di trovarci per dieci giorni ammassati assieme a una ventina di coetanei maschi puzzolenti, dentro una baracca di legno, a duemila e passa metri a batar brocche con delle vesciche giganti ai piedi; nemmeno mio zio Mario, ha fatto una vita simile, quando era militare negli alpini. Nell’estate dell’ottantuno c’era la possibilità di iscriversi al campo scuola di Azione Cattolica, un’occasione ghiotta in quanto era misto, fioi e fie. Le nostre istanze vennero cassate, non fummo ritenuti sufficientemente motivati ovvero, motivati esclusivamente dalla fame di una certa cosa. Passarono invece la selezione, Stefano Trevisan e Riccardo Cazzador, due mandrilloni della prima ora che, però, erano tra i beniamini del prete. Così, da restai, ci siamo dovuti accontentare, sempre presso il bar da Nane, del dettagliato resoconto dei due pii fioi de cesa; a detta loro, era stata una bellissima esperienza, erano riusciti a trombarsi alcune pie fie de cesa di altre parrocchie. Io non ci avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi, pochi giorni dopo, nel campetto dietro il patronato, Riki Cassador darghe dentro de lengua a una tipa, presentatami poco prima dal don, come X della parrocchia Y.
L’istà da Nane, è trovarsi tutti assieme ad ascoltare i componimenti di Paolino Dante che, forse a causa del pesante cognome, è diventato il nostro sommo poeta.
“Istà, istà; ti pol ‘ndar in ferie sol posto più beo che ghe sia ma, se no’ ghe xè figa no’ ti vedi l’ora de vegnir via. E po’, se ti ga da ‘ndar in ferie par menarte l’oseo, basta che ti vaghi ‘pena fora del canceo”
Questo è uno dei suoi pezzi forti estivi; in realtà, più che una poesia mi sembra una specie di postulato da cui deriva un teorema. Continuo a chiedermi, chissà perché, non ha mai sfruttato l’occasione di divulgare le sue opere al mondo intero, recitandole in radio ma, preferisce esibirsi esclusivamente da Nane, di fronte a una ristretta cerchia di raffinati intellettuali.
L’istà da Nane, è tipicamente per soli uomini, non si tratta di una scelta discriminatoria ma bensì conseguenza della triste realtà per cui, a parte qualche rara eccezione, le donne non rientrano nella categoria dei restai. Già a inizio giugno, se hanno figli, vanno a riempire carobere impestae de sorsi, da mille euro a settimana di affitto a Jesolo e dintorni oppure un rosegoto de capana da tremila e passa euro a stagione al Lido; ci ficcano dentro figli, madre e suocera, queste ultime, in realtà, sono delle colf mascherate mentre, el beco, ovvero il marito, o compagno che sia, fa la spola nei fine settimana. Se invece non hanno figli e, speri che un giorno li facciano, possibilmente con te, le devi portare a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo. Che non ti venga in mente di proporre le tue mete preferite, dove ti puoi rilassare, tipo Cabaearin, Corteasso,Fiera o, peggio, rimanere a casa, dove hai tutte le tue comodità e il mutuo da finire di pagare; in questo caso, ti sputano su un occhio e gliela calano, senza obbligo di procreazione, a uno che le porta a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo.
L’istà da Nane, è sempre la stessa e, sempre lo stesso è il dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore. A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso; consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco, vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto; non c’è da stupirsi perché, al Lele, se gli passi una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa.
L’istà da Nane, è sempre la stessa storia. Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta, ripete, come un disco rotto che, “l’istà xe sempre stada foriera de gran disgrassie”, e giù a elencare puntigliosamente, guerre, siccità, incidenti stradali, governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono, prezzi che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono, zanzare che quando pungono, ti fanno morire e, quando non pungono è perché hanno spruzzato nell’aria un veleno cancerogeno.
Dopo essersi rumegà par ben ea pata, gli fa eco Berto Busato; “’scolta ‘more, qua e uniche vere disgrassie xè e partie perse e ea figa che manca”. Essendo il campionato ormai alle spalle, agli astanti non rimane che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune, posti sconti dove c’è sempre mancato un peopar cassarse.
“Speta che sentimo i recioni dea radio cossa che i ga da dir”; alla fine, c’è sempre qualcuno che, sull’argomento cerca di tirarne in lengua, e qui, il nostro poeta sentenzia; “se no’ ti ea ga vantada quando ti geri fio no’ ea torna più indrio”
L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno sembra far sempre più caldo e sembrano esserci sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. Ormai è un continuo susseguirsi di telefonate e scambi verbali che, el manco sbocà, intercala con centinaia di ghesboro, usati al posto della punteggiatura. I parenti si eclissano, lasciando solgropon del restà, ea vecia o el vecio o tutti e due; ogni giorno sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato; medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione, medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano.
I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai.
Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori. Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA classe 1978, assieme a lei e a una tanica deUtan, alla sera, andiamo alla ricerca di rimasugli dell’estate italiana. Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano, si sente solo il canto dei grilli; mi distendo su un pontile a godermi lo spettacolo della notte stellata; solo, davanti all’infinito, posso finalmente canticchiare, “Gloria manchi tu nell’aria …”
Non l’ho mai raccontato ai fioi de Nane e mai lo racconterò ma, anch’io, ho avuto un’occasione estiva persa; Gloria, esattamente come uno dei più famosi tormentoni estivi. Vorrei tanto che piovesse e facesse fresco come quel mese di luglio, sento ancora il tepore e il profumo di legno di quella baita che si affacciava sulle Tofane dove, la pioggia incessante aveva fatto incrociare le nostre vite per una manciata di ore; ore passate a raccontarci i nostri sogni e la nostra voglia di fuggire via, condividendo le cibarie che avevamo negli zaini; e poi, dopo la pioggia, un tratto di cammino assieme, che mi è sembrato durare una vita, fino a quando ognuno ha proseguito per la sua meta. Io, a dire il vero, non ne avevo una di precisa, non so ancora perché, con una scusa qualsiasi, non ho continuato a camminare con lei; che mona. Inutile dire che, probabilmente, Gloria di Bassano, non si ricorderà mai di me; io si, per sempre. Le avevo lasciato l’adesivo della radio, al tempo si usava così, era il nostro biglietto da visita. Anche se la nostra radio non “tirava” così distante, nutrivo la speranza che potesse chiamare; non l’ho più sentita. Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano de Nane, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Gloria di Tozzi.
A proposito, de istà, da Nane, puoi ascoltare SolaRadio, unico bar sulla faccia della terra che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata. Aiuta a combattere, che che ne dica el soeta, ea vera disgrassia dell’istà, la solitudine; parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo come un Nane.
Se d’istà a casa te toca star, serà in apartamento, inpissa ea radio cussì ti sarà un fià più contento. Paolo “Paolino” Dante
__________________________
Dedico questo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando mi divertivo ad ascoltare le sue “lettere a Luciano” su Radio Capodistria. Ciao Luciano, ciao balubino!
M.M. 55018 e I-BIKI, il primo e l’ultimo, strano modo di iniziare una storia. Pochissime persone sanno cosa significano queste due sigle, al resto della gente, non dicono assolutamente niente, non significano nulla; a volte nemmeno a me e, mi chiedo se non siano solo frutto della mia fantasia.
Mi viene spontaneo, alzando gli occhi al cielo, fare un confronto con le scie che osservavo da ragazzo, la fitta ragnatela di strisce bianche, mi dice che ora, si vola più di una volta. Con lo smartphone, mi diverto a identificare ogni singola scia, per sapere tutto di lei; modello di aereo, origine del volo, destinazione, passeggeri imbarcati, altitudine, velocità e altro; questa applicazione è miracolosa. Se ce l’avessi avuta quella volta, sarebbe stato fantastico ma, mi avrebbe impedito di affinare l’arte di fantasticare e raccontare un sacco di balle.
La Vale, si beveva tutto quello che le raccontavo; citavo modelli di aerei inesistenti e imprese aviatorie mai avvenute ma, soprattutto, baravo sulla mia vita. Mi ero inventato gran parte del mio passato a cominciare dalla mia famiglia, mio padre ufficiale di marina e non contadino; mia madre professoressa di lettere e non casalinga; mio fratello all’ultimo anno di medicina e non carrozziere. Infine, mia sorella indossatrice, a quel tempo non si diceva modella; la sorella, invece, non ce l’avevo proprio. Per la Vale e, solo per la Vale, frequentavo un esclusivo collegio militare anziché un banalissimo liceo scientifico.
Non avevo fatto una gran fatica per attaccar bottone, mi aveva accalappiato lei con la scusa di fare due tiri a tamburello, credo solamente perché era stufa di giocare con la sorellina.
Per la Vale, la moretta con i capelli a caschetto, avevo preso, come diceva zio Bruno, ‘na bruta scopola. Metteva solo costumi rossi; di vario tipo, interi, due pezzi, in due occasioni, me lo ricordo come se fosse ieri, solo uno, ma, tassativamente rossi.
Erano già tre anni che passavo le vacanze al mare a scrocco da zio Bruno e zia Stella, non avevano figli, ed io, mi facevo volentieri adottare, con contratto a tempo determinato, per il solo periodo estivo. Con i miei, non si andava in vacanza, la frase di mio padre era sempre la stessa, “ti occupi tu, della casa, dei campi e dell’orto?”. Anche zio Bruno aveva casa, campi e orto, con la differenza che la loro posizione era esattamente a quattro kilometri e trecentocinquanta metri dal mare, misura verificata con precisione dallo zio. Una distanza, tutto sommato accettabile, anche a farla in sella alla Graziella, con la quale, ti ci volevano dieci pedalate per fare un metro.
Quell’anno, detto “l’anno della Vale”, godevo di massima libertà; mi ero offerto di fare l’aiutante alla Silvana con il noleggio dei mosconi, giusto per racimolare qualche biglietto da mille ed evitare di dare una mano allo zio nei campi, dove, al massimo, rimediavo qualche decina di punture dalle zanzare. Facevo la vita del gatto ovvero, tornavo a casa dagli zii praticamente solo per mangiare e dormire.
Avrei dovuto pensare alle due materie che mi aspettavano a settembre invece, l’unico libro che aprivo era “il pilota moderno”. Facevo il figo con la Vale sciacquandomi la bocca con nozioni sui principali strumenti per la navigazione aerea, lei faceva la faccia stupita, le pareva impossibile che un ragazzo di sedici anni sapesse quasi pilotare un aereo, almeno era quello che mi piaceva pensasse. Mentre parlavo con lei, facevo delle profonde buche sulla sabbia con i piedi; ero nervoso perché, in realtà, invece di parlare solo di aerei, avrei voluto dirle qualcosa di diverso ma, non ne avevo il coraggio.
Al tramonto, dopo che avevo tirato su l’ultimo moscone e messo i lucchetti mi sedevo sopra lo scivolo ad osservare la linea dell’orizzonte che, via, via sparisce, fondendo cielo e mare in un unico fondale rosato, avevo l’illusione che il mondo finisse qualche centinaio di metri dalla battigia. Anche credere che sarei diventato pilota probabilmente era solo un’illusione, me ne rendevo conto ma, impennarmi con la Graziella, fingendo di pilotare un F104 e raccontare alla Vale un sacco di cose, più o meno vere, sul volo, in quel momento, mi rendeva felice.
Alle illusioni, quando stavo seduto sul seggiolino eiettabile del M.M. 289546 dovevo starci attento, specie quando volavo a bassa quota sul mare, mai guardare fuori, occhio solo agli strumenti per mantenere l’assetto livellato. Se guardi l’orizzonte, anche se hai il sole alle spalle, rischi di precipitare in un’illusione che, ti fa precipitare, senza darti il tempo di tirare il cordino nero e giallo che sta in mezzo alle gambe.
Forse anche quello che sto raccontando è semplicemente un’illusione, nulla è esistito ma, come diceva il buon Mark Twain, “non separarti dalle illusioni. Quando se ne saranno andate, può darsi che tu ci sia ancora, ma avrai cessato di vivere”. Non mi ha mai convinto ‘sta pagliacciata, ma lui, maniaco degli anniversari, aveva deciso così; trovarci al mare, di fronte allo stesso mare, dopo quarantacinque anni esatti. In casa, come capitava con certe missioni particolari, non ho detto dove sarei andato. Decido di non fare l’autostrada ma, la vecchia provinciale alberata; nel tratto finale, non ci sono scorciatoie per arrivare al mare, ti becchi sempre e comunque la coda. Poco male, occasione per soffermarmi a guardare la casa degli zii. Circondata da un intero quartiere di villette a schiera, ormai non si vede quasi più; dovevo comprarla, potevo comprarla, una tra le tante cose che avrei dovuto e potuto fare.
Anche se l’avrò fatto migliaia di volte, ogni volta che arrivo di fronte al mare provo grande stupore e immensa felicità. E’ dentro quell’infinito orizzonte che ho potuto immagazzinare i miei sogni mentre, le onde che si infrangono sulla battigia, mi restituiscono, pian, piano, le illusioni; è guardando le bianche scie nel cielo che mi ricordo chi sono stato o chi dovevo essere. C’è stato un preciso momento, proprio in riva al mare, in cui due vite o meglio, due anime, si sono divise; una ha inseguito un sogno, un progetto mentre l’altra, si è fermata ad aspettare una persona per l’eternità.
Eccolo che arriva, la camicia a fiori rossi di suo fratello due taglie in più e, il costume ereditato dal cugino, una taglia in meno.
Uno così, inetto alla vita militare, ammesso che avesse passato il concorso, non avrebbe resistito nemmeno un’ora in Accademia Aeronautica, i vecchi lo avrebbero massacrato e preso di mira, sarebbe schiattato al primo giro di corsa; alla fine, come tanti, piangendo, sarebbe tornato a casa da mamma e papà.
Uno così, che si illude di essere un allievo pilota, solo perché ha letto qualche pagina, o meglio, guardato le figure di quel noioso manuale di volo, se solo avessi potuto, maledizione, me lo sarei portato al campo e caricato sul Texan; sarebbe bastata un’oretta scarsa per fargli capire cosa significa volare sul serio. Probabilmente sarebbe tornato a terra bianco cadavere e, gli unici aerei che avrebbe avuto il coraggio di toccare, sarebbero stati quelli in scatola di montaggio. Avrei voluto sentire cosa avrebbe raccontato alla Vale il giorno dopo.
Uno così, vale la pena lasciarlo illudersi, fargli cadere il palco su cui recita, sarebbe devastante.
Non capisco come una ragazza carina e brillante, potesse dar credito a uno così; c’è un’unica spiegazione, era veramente innamorata di quell’esemplare da circo.
Lui mi guarda strano, lo vedo diventare triste, mi sembra ansioso. Deve essere rimasto deluso dal mio aspetto; credo non si aspettasse di vedermi malvestito, quasi senza capelli e, con la panza.
“Allora sei diventato pilota?”
“Non te lo dico ma, ti do un consiglio”
“Sarebbe?”
“Va dal moro, comprale un braccialetto, offrigli un gelato e chiedile indirizzo e numero di telefono. Prima di imparare a volare devi saper vivere sulla terra, imbecille!!
_______________________________________________
“Pensavo che diventare pilota, volare alto e lontano, sopra gli altri, sarebbe servito a riscattarmi. Ho scoperto invece, che il vero riscatto non è diventare qualcuno ma, sapersi liberare dalle proprie paure, dai condizionamenti, dai giudizi, dagli inutili pesi e dai falsi vincoli, per, alla fine, volare liberi.”
Anonimo
Ho trovato questa scritta su un vecchio hangar dismesso presso la Værløse Air Base in Danimarca.
A tutte le Vale che, guardando le bianche scie in cielo, aspettano pazientemente noi, che scendiamo di nuovo con i piedi per terra.
Sembra che fare diecimila passi al giorno, ti permetta di rimanere un po’ di più in questo mondo; il problema è che non capisco se bisogna farli, piano, velocemente, tutti in una volta o, spezzati nell’arco della giornata. Bel casino.
Ogni volta che scendo in strada, per compiere questo scaramantico, più che salutare rito, se non sto attento, il gruppo delle vecchie mi travolge. Incredibile, me le ritrovo a qualsiasi ora; le sento discutere animatamente su quale dei loro sistemi per contare i passi è più preciso; almeno con la mascherina, i loro sputacchi non mi colpiscono. Le solite sei vecchie, più larghe che alte che, come tante altre, obbediscono pedissequamente al consiglio del nostro medico della mutua; “no serve che corè, ’nde a farve ‘na bea camminada … e non steme più a vegnir rompar i cojoni in ambuatorio”; la seconda parte ovviamente, l’ho aggiunta io ma, non credo di essere molto lontano dal pensiero del vecchio dottor Scarpa. Non si vedono mai i loro uomini, almeno quelli rimasti su questa terra; di uno, si sa per certo, che è scappato con una tettona cubana conosciuta in sala bingo; da fonti affidabili si sa inoltre che gli ha già prosciugato il libretto e tutti i buoni postali. Gli altri suppongo, approfittino della temporanea assenza della consorte per spipparsi davanti a YouPorn o similari.
Mi chiedo, se valga la pena mettermi gli auricolari, ormai i brani della playlist, come succede in uno schermo consumato del Bancomat, hanno inciso tracce indelebili nel mio cervello. Volgarissime e stupide canzonette che conosco a memoria; non sono come il Lorenz, lui ascolta solo roba fine. Si spara John Scofield, Bill Frisel, Charlie Haden e soci; ascoltare Jazz fa figo o meglio, fa figo parlarne a voce alta davanti il bancone di Nane Sberega; lui non dice, mai “gez” ma, riempendosi ben bene la bocca, fa uscire un sensuale “giaaasss”; con la speranza che qualche assatanata avventrice, gliela faccia annusare.
La camminata è roba per gente di una certa età; i fighetti, si sa, corrono; è più cool. L’unica degna di interesse che cammina come me, è una tipa dell’est che lavora nella locale pizzeria da asporto; non appena mi vede, guarda caso, passa dall’altro lato della strada. Secondo me, sa leggere il pensiero, intuisce che, nelle mie fantasie, ho una voglia matta di smutandarla.
Nemmeno ‘sta domenica de caigo, le vecchie se stanno in casa; non so come facciano ma mi stanno dando la birra; in testa al gruppo, braccia che si muovono velocemente a pendolo, a fare l’andatura, come sempre, Antonia. La chiamo “ea vecia dee verze”, in quanto, le poche volte che non metto gli auricolari, la sento sempre citare il profumatissimo ortaggio; a giudicare dall’olezzo che esce da casa sua, ho il sospetto che non cucini altro. Comunque questo è nulla in confronto a quello che mi aspetta, una volta imboccata la vietta in fianco alla chiesa.
Da tempi immemorabili, ogni santa domenica, Elvira Scattolin, lancia la produzione di una sorta di brodaglia i cui ingredienti generano un tanfo mai sentito nemmeno quando, prima della caduta del muro, mi son trovato a bazzicare nelle periferie di alcune grandi città dell’est. Ora che poi, l’ultra novantenne, siora Elvira, ha ceduto il brevetto e relativa produzione, alla sua fida badante moldava, il puzzo ha raggiunto livelli di tossicità incredibili. In giornate di pressione bassa come questa, il tanfo invade tutto il piazzale della chiesa e ristagna quasi fino a sera arrivando a coprire persino i refoli di Porto Marghera; il problema è che per me, non è solo un cattivo odore ma il triste ricordo del mio breve trascorso di fiodea cesa.
Era inizio autunno del 1980 quando iniziai a frequentare assiduamente la parrocchia; non certo per aver ricevuto la classica “chiamata”, di cui tanti parlano, nessuna folgorazione sulla via di Damasco ma, solo un più terreno e naturale istinto predatorio. Nel quartierino di periferia non c’erano altri posti dove andare a caccia de cocche; l’unica alternativa valida era la discoteca, ma, per praticarla era richiesto un certo impegno economico. La mia era una famiglia allargata dentro spazi ristretti; c’erano ben altre priorità che elargirmi schei per il divertimento.
Antonio, Gianni e io; praticamente Toni, Nane e el Ciccio, amighi dea stradea, fummo accalappiati da don Lino, un caldo pomeriggio di metà settembre ’80 mentre, annoiati, stavamo assistendo, senza tanto entusiasmo, alla classica partitella di calcio scapoli contro ammogliati nel campetto dietro la chiesa. Ci disse che l’indomani eravamo convocati in sala cinema; aveva grosse novità per noi. Toni, almeno sulla carta, era l’unico di noi ispirato da sacri valori; la sua era una famiglia, da molte generazioni, assidua frequentatrice di chiese e relative canoniche; irriducibili basabanchi leccapiedi di numerosi prelati.
Capitai seduto a fianco di Zeneca Filippon, la fighetta mi salutò a malapena squadrandomi con aria schifata. Arrossii di brutto, pensai che avesse in qualche maniera intuito che, poco prima, chiuso in bagno, me l’ero virtualmente fatta; mah, forse semplicemente puzzavo.
Il don, da sopra il palco, iniziò il suo personale show. Attaccò con un pistolotto, nel quale sventolava i sacri principi della morale cattolica ovvero che noi maschietti non si doveva venire in parrocchia per cercar di trombarsi anzitempo le femminucce mentre, quest’ultime dovevano tenerla ben stretta e respingere con la forza qualsiasi tentazione. Io e Gianni ci scambiammo un’occhiata; avevo la sensazione che il don mi avesse sgamato, ero quasi convinto che i preti avessero il dono divino di leggere il pensiero. Zeneca annuiva e sembrava approvare, mentre io continuavo a fissargli le bellissime gambe, messe ben in evidenza grazie ai suoi cortissimi shorts.
Intanto il prete, dopo essersi alzato in piedi, come fosse sull’altare; iniziò a distribuire incarichi di prestigio. Pareva la nomina degli assessori al primo consiglio comunale; il don spiattellò i nomi, saltarono fuori, responsabili dei canti alla messa, quelli delle gite, delle feste, quelli del recital che, puntualmente non si sarebbe mai fatto, e via discorrendo fino a quando non ebbe esaurito la lista dei soliti noti e figli di. Della partita, ovviamente, faceva parte anche Zeneca che, sorrise compiaciuta in direzione del suo uomo del momento; quel gran stronzo che rispondeva all’altisonante nome di Antongiulio Marcellini Zorzi detto Tonistronso. Nella platea, tra i pochi sfigati che rimasero a bocca asciutta, manco a dirlo, c’eravamo noi tre.
Toni non riusciva a darsi pace, non c’era nessun tipo di logica “cattolica” in quelle nomine. A scandalizzarlo maggiormente, c’era proprio quella di Zeneca; figlia del peccato. Tutti in parrocchia sapevano che era stata concepita e successivamente venuta al mondo in India, al tempo in cui i suoi, coppia non regolarmente consacrata, vivevano in quel remoto angolo del mondo per dedicarsi a fare gli hippy. A me, in realtà, quei giovani genitori piacevano un sacco, forse più di Zeneca; che dire, erano dei tipi a dir poco stravaganti però, nel contempo simpaticissimi e avanti con i tempi, dei veri fighi; l’antitesi dei miei, vecchi, antiquati, rigidi e capaci solo di pensare ai schei. Giuro che, in certi momenti, mi sarei fatto adottare molto volentieri da loro. Toni continuava a sputare bile, Gianni tentava inutilmente di fargli capire che non centravano niente i dettami delle sacre scritture; anche in parrocchia valeva l’antico detto popolare “tira più un peo de mona che un carro de bo”. Per me invece, l’unica cosa senza una logica, era come, da quei due stralunati alternativi di genitori, fosse nata una così tanto figa, quanto stronza, arrivista e snob; una perfetta cagaalto.
Dopo aver ingoiato il rospo, il Toni convinse me Gianni a “mettere la firma” in fin dei conti, ci fece capire, che si avrebbe potuto “fare carriera” ed affrancarsi da quel momentaneo insuccesso. Fu così che mi ritrovai in mano la tessera dell’Azione Cattolica Giovani; dovetti sborsare cinquemila di iscrizione più, altre duemila lire per festeggiare i compleanni di due tizie mai conosciute prima. Il Gianni, dopo averle radiografate per bene, avrebbe volentieri sborsato un biglietto da diecimila pur di combinarci insieme qualcosa, non proprio attinente ai fondamenti della morale predicata pocanzi dal don. Il tapino non sapeva che, neanche se avesse versato un pezzo da centomila, sarebbe stato invitato al compleanno. Eh si, perché si trattava di un festin isi, dove vien soeo chi che te gheo disi; ovvero, ti chiedevano i soldi ma poi, fatalità, si dimenticavano di invitarti. Ci volle poco a capire che, anche in parrocchia, i principi cristiani venivano asfaltati dalle ferree leggi di mercato; rispetto alla crescente domanda, l’offerta di figa era poca, per cui, il Clan, un ristretto numero di “fratelli”, cercava in tutte le maniere di ostacolare la potenziale concorrenza.
Gli inviti a raduni e riunioni istituzionali invece, non mancavano mai; ai soliti noti, serviva quanto più pubblico possibile per acquistare visibilità e credito. Pareva dovessero salvare il mondo; fiumi di parole intrise di testi conciliari, con cui bandivano colossali iniziative, mai messe in pratica. Alla fine, a noi soldati semplici, toccavano i lavori di manovalanza che i nobili quadri parrocchiali non volevano fare.
Quella domenica pomeriggio, causa un non ben precisato impegno, Tonistronso e Dario Vazzoler mi lasciarono da solo in trincea a gestire un branco di selvadeghi ragazzini dei paeassoni; dico solo che il più tranquillo di loro, tirando un bel porco, minacciò di farmi spaccare il culo da suo fratello più grande se, non gli avessi ceduto, ovviamente gratis, una manciata di spighette di liquirizia e tre Chupa Chups gusto cola. Quello che più mi preoccupava in quel momento non era la loro redenzione ma, l’aver visto i due “fratelli” precedentemente nominati e alcune selezionate “sorelle” fighette, tra le quali Zeneca, stazionare davanti gli scalini della chiesa; urgeva capire cosa c’era sotto. Continuavo a guardare in continuazione l’orologio, forse riuscivo a beccarli, il tempo però non passava mai. Quando alla fine, dopo aver fatto un’operazione di ricostruzione post cataclisma e bonifica, facendo uscire quella puzzolente aria viziata, riuscii, stremato, ad uscire dalla sala, se ne erano già andati tutti a casa di Dario Vazzoler a fare un festin isi, questo ovviamente venni a saperlo dopo.
Mi ritrovai solo nel piazzale della chiesa, l’aria completamente saturata dal tanfo della brodaglia di siora Elvira; tanto che avrei preferito un sano aerosol di Petrolchimico. Iniziò a calare una fitta nebbia, non si vedeva niente e non vedevo chiaro nemmeno dentro di me, presi a camminare nervosamente verso casa. Mi chiusi in camera e ficcai la tessera di A.C. dentro la ribalta della libreria; e li ci rimase per sempre.
Non era nella mia indole redimere la società dall’edonismo dilagante ma, anzi, desideravo fortemente tuffarmici a capofitto; così, il sabato successivo, diedi al don, le dimissioni, senza preavviso, da redentore di teppaglia; lasciavo volentieri a quella troietta di Zeneca quel lavoro.
Poi, feci la cosa che diede inizio alla mia nuova vita; suonai il campanello del civico 69 dei paeassoni; all’ultimo piano, in soffitta, c’era SolaRadio
Non sapevo che, nel misero quartierino di periferia, ci fosse una radio; della sua esistenza ne venni a conoscenza un venerdì sera quando, un certo Fabio Ballarin, detto Paperoga, venne invitato dal don al gruppo, appunto, del venerdì sera. Ogni tanto, ai raduni dei fioi de cesa, apparivano degli outsider. Se, per caso, si trattava di una coccao di un cocco, c’era sempre una grande dedizione per la sua conversione e redenzione; nel caso di Paperoga, un tipo trasandato come il personaggio dei fumetti, nessuno si prese cura di lui, a parte me. Si capiva che sarebbe stato candidato all’esclusione dal clan e, per questo mi stava già simpatico. Pensare che già il sabato pomeriggio, ero a casa sua ad ascoltare decine di dischi dei più svariati generi musicali; era la prima volta che incontravo un fio così easy e fuori dalle righe. Decisamente un tipo strano, come tutta la sua famiglia, pazzescamente disordinato, come tutta la casa; dove, almeno c’era la libera circolazione senza l’obbligo di pattine. “Ti podaressi vegnir anca ti a far radio”; fare radio, che strano termine; una cosa mai presa in considerazione.
Finora la radio l’avevo solo ascoltata; parlare in radio la ritenevo una cosa irraggiungibile, solo per pochi privilegiati. Il suo entusiasmo era contagioso e la cosa iniziò a stuzzicarmi; se non altro, sarebbe stato un bel modo per farse vedar, uscire dall’anonimato e, ‘ndar dee bone co’ e cocche.
Mi spaventava però il fatto di non avere gran cultura musicale, o meglio, ero solo agli inizi. Da poco in casa, grazie a mille sacrifici, era arrivato il mitico Philips 970; un apparecchio che comprendeva giradischi, mangiacassette e radio; ce l’aveva ceduto quel rotto in cueo di mio cugino Giorgio. Non era granché, un surrogato dell’impianto stereo insomma, il classico voria ma no posso; però, permetteva a noi fratelli di poter ascoltare i primi dischi. Me ne tornai a casa, felice più che mai, con Amigos di Carlos Santana sotto il braccio; “roba bona”, disse il mio amico. Paperoga, nel giro di due ore, mi aveva fatto spaziare dal rock, al blues, passando per la musica country americana; su questo lo invidiavo, perché le mie conoscenze musicali si limitavano alle volgarissime canzonette.
Quando aprii la porta che portava nel misterioso mondo di Solaradio, mi arrivò una zaffata di salame con l’aglio; erano tutti nel pieno di un garangheo che, scoprii essere una tradizione del sabato pomeriggio. In tre minuti ero già amico di tutti e pesavo un kilo in più; ancora con la bocca piena di sopressa de casada mi ritrovai assieme a Paperoga, davanti a un microfono; tre secondi e, quel gran mona, mi diede la linea per presentarmi agli ascoltatori. Credo sia stato quel bicchiere di ramandolo che fece uscire dal mio corpo la voce di WWandadabliu-dabliu-anda; un personaggio che, ancora oggi, non mi sono più scrollato di dosso; liberamente ispirato dalla siora Gisella, una vecchia e navigata “professionista”, che viveva in una casetta in fondo aea stradea. Quando, a tavola, la imitavo, riuscivo a far ridere persino quel molton selvadego di mio padre. Ea Gisea, era una buona donna di animo generoso; ricordo che, a noi ragazzi, regalava sempre dei fumetti per il nostro banchetto dei giornaletti. Ci siamo fatti una cultura approfondita su certe cose, leggendo “cappuccetto rosso”, “il camionista” e “Lando”; d’altronde, in quegli anni, i nostri genitori non ci spiegavano niente.
Non so nemmeno io come mi venivano tutte quelle battute, ne sparai talmente tante da lasciare allibiti tutti quelli che mi stavano attorno. “Ma da dove ea gavé tirada fora?”; arrivarono a decine le telefonate degli ascoltatori.
A WWanda, bastò quell’estemporaneo show per trovare casa a SolaRadio e, far divertire un sacco di gente. L’argomento preferito, erano i suoi clienti; ad ogni puntata, ne presentava uno; c’era quello che pagava a rate, quello che pagavano gli amici come regalo di compleanno, quello che pagava la moglie al posto suo, quello mandato dal papà perché facesse esperienza, quello mandato dalla morosa perché si sfogasse e non facesse strane richieste a lei, quello mandato dal prete e, pure il prete. WWanda era ‘na sbocada, non capiva niente di musica, spesso storpiava i titoli e i nomi dei cantanti, specie se stranieri; però, non si sa come ma, riusciva a mandare in onda sempre della gran bella musica e, soprattutto roba tirada fora dal soito; ebbe il merito di far conoscere il blues, o meglio el brus, come diceva lei, a quei trogloditi ascoltatori di periferia; i dischi non li comprava, se li faceva prestare, con la promessa di renderli subito, da un certo Fabio Ballarin, detto Paperoga; ancora oggi, parecchi di questi, giacciono nella mia libreria.
Faceva divertire tutti, tranne quei de cesa; a loro, dava fastidio che parlasse sempre dea mona, e, soprattutto che affermasse con fermezza che, era quella che faceva girare il mondo. E poi, esibirsi, farse vedar, era peccato; tranne quando lo facevano loro; ma WWanda aveva ‘e spae a coppo e gli lanciava un sacco de WWandaffancueo.
Il tanfo della brodaglia di Elvira, continua a persistere fino al tardo pomeriggio nel piazzale deserto della chiesa; secondo Paperoga, statisticamente, nel quartiere, sono più le persone che riescono a sentire quell’olezzo che non quelle che ascoltano la radio. A me non importa nulla, starmene qui davanti a un microfono mi fa sentire meglio che non gli istituzionali diecimila passi giornalieri. E’ vero, non c’è più quel vivace viavai di persone che si fermavano a chiacchierare per ore in studio; le postazioni sono ordinatissime, una manciata di monitor ha sostituito mixer, piatti, registratori a bobine, pile di dischi e matasse di cavi impossibili da dipanare, il bel casino di una volta. Sempre secondo Paperoga c’è il rischio di ammalarsi, che ti prenda la depressione del DJ solitario. Per quello che mi riguarda, non c’è pericolo, posso ancora contare su WWanda e tanti altri personaggi che vivono dentro di me. Sono persone del mondo reale che ho incontrato o, semplicemente incrociato per pochi istanti con lo sguardo, rispetto agli “originali”, per loro il tempo non passa mai. Credo che se lo sapessero, intendo gli “originali”, mi sarebbero infinitamente grati per averli resi eterni e noti al pubblico nei miei spettacoli teatrali e io, ovviamente, sono infinitamente grato a loro per avermi ispirato.
Senza i miei personaggi, il teatro e la radio, non so come farei ad affrontare questo mondo, i diecimila passi quotidiani non mi sarebbero bastati. Non mi sarebbe bastato andare a messa ogni santa domenica, confessarmi due volte all’anno, sposarmi senza poter più desiderare la donna d’altri e nemmeno la roba d’altri, nel mio caso specifico, la moto d’altri.
Se non avessi saggiamente attraversato la strada per suonare al civico 69 dei paeassoni, mi starei ancora rodendo fegato e anima pensando alle riunioni in parrocchia dove, se non eri tra i preferiti del don, nessuno ti cagava ma, soprattutto a quella troia di Zeneca che, la dava a tutti tranne che a me.
Se non avessi saggiamente attraversato la strada per suonare al civico 69 dei paeassoni, avrei, sicuramente continuato a fingere recitando, per l’eternità, la parte del bravo fio de cesa, che mette nella busta delle offerte i quattro spiccioli che gli avanzano, mentre, si sputtana grosse cifre comprando inutili troiate.
Suonare al civico 69 dei paeassoni, mi ha dato la possibilità di fingere per scelta e puro divertimento; quella consapevolezza di fingere, che mi ha portato a farlo per professione.
Paperoga continua a strisciare la punta del naso sul vetro della finestra, lasciando vistosi segni con il grasso della pelle, compie questo schifoso rito quando è malinconico. Dalla finestra si può scorgere il piazzale deserto della chiesa; el fio continua inesorabilmente a sparare statistiche, dice che, in tutti questi anni, il prete, ha perso più ascoltatori della radio.
In effetti, la chiesa, almeno quella davanti la nostra radio, sembra essersi svuotata, la pandemia ha dato la mazzata finale. E’ popolata perlopiù da anziani vestiti quasi tutti allo stesso modo, in crisi perché si trovano addirittura due papi. Le loro sicurezze venute a meno quando, uno dei due, quello comunista, gli ha detto sostanzialmente che non è sufficiente starsene tutto il giorno a sgranare il rosario per avere diritto alla corsia prioritaria, quando si passerà “dall’altra parte”.
Spariti anche certi personaggi di un tempo; non hanno più interesse a frequentarla, si sono trasferiti sui social per pontificare e darsi battaglia tra chi vuole le donne prete e chi, il ritorno della messa in latino. Credo sia per questo che, da un po’ di tempo, ho ripreso a metter piedi in chiesa, ora che si è disintossicata da certa gente, sembra più silenziosa; anche troppo silenziosa. A dire il vero, ho addirittura l’impressione che pure Lui, abbia tagliato la corda. Come mezzo mondo, mi chiedo dove è finito, perché rimane in silenzio di fronte a quello che sta accadendo. Mi pare però, vagamente di sentirlo; continua a chiedermi dove sono finito in tutti questi anni, perché mi faccio vivo solo ora e, perché ho deciso di attraversare la strada e suonare al civico 69 dei paeassoni. Non lo so nemmeno io con esattezza; credo puro istinto, l’aver fiutato per tempo quel divario tra religione e Dio che lacera e divide l’umanità; forma e sostanza, giusto per tirare in ballo Aristotele.
Lo stesso istinto che nei momenti cruciali della vita mi ha fatto cambiare strada, anche fisicamente. Come quella volta che vidi da distante venirmi incontro Vera. Era un po’ che mi tallonava, il mio fiuto mi suggerì di svoltare repentinamente per una stradina laterale, se ci fossimo incontrati, probabilmente, mi sarei trovato a vivere una vita che non avrei voluto.
Paperoga se n’è andato, ora tocca a me starmene a osservare il piazzale deserto della chiesa, non oso aprire la finestra, c’è il serio rischio che entri il tanfo della brodaglia di Elvira, e con quello, i brutti ricordi. Mi volto verso le postazioni microfoniche, dove sono seduti WWanda e gli altri; è questa la vita che volevo. Mi piace anche far due chiacchere con Lui sui misteri e le assurdità di questo mondo; gli chiedo se bastano diecimila passi al giorno, per far in modo che il giorno del “passaggio” arrivi il più tardi possibile.
“Da parte mia per Lui”, credo che nessuno dei miei ascoltatori sia in grado di comprendere il significato di questa frase quando mando in onda My Way del vecchio Frank; spero solo che Lui, possa capirmi e perdonarmi.