Racconto
SolaRadio una radio da leggere
CAPITOLO 10
“Ocio che qua ea nasse!”; nessuno, me compreso, dava peso al vecio Cesarino Spuaccin, nonostante, da giorni, brandendo il suo bastone, scagliasse l’anatema su chiunque incontrasse; d’altronde, non era accreditato presso l’OMS e, per giunta, si fumava una decina di ombre al giorno. “Ma sbirighe in sima … tamorti!”, el ‘Milietto, altra famosa eminenza scientifica del quartiere, ma di tutt’altra scuola, interpretando il pensiero dei più, contribuiva a smorzare i toni allarmistici di quel porta pegoa.
Ciò che, invece, mi convinse riguardo la gravità della faccenda, fu il non vedere più el biondo, scendere giù in garage per pulire l’auto. Era un rito sacro che durava circa tre ore; cominciava con il fracasso dell’idropulitrice che sparava, alla faccia della crisi idrica mondiale, ettolitri d’acqua sull’inerme carrozzeria; seguivano infinite passate di spugna con e senza shampoo; altra botta con l’idropulitrice, la stesura di un intero vasetto di cera con relativa lucidatura. Quando si sentiva un rumore simile a quello di un aereo in fase di decollo, significava che era giunto alla pulizia degli interni, il rumore del turbo bidone aspiratutto copriva di gran lunga quello dell’autoradio tenuta a manetta. Una densa nuvola di spray suggellava, come un amen, la fine de rituale. In condominio, alcuni maligni, spiegavano quel suo morboso attaccamento all’auto con il fatto che, ormai da tempo, la Nico, non gliela calava più.
La GTI bianca, è ormai da parecchi giorni ferma in parcheggio, continuamente sottoposta a un incessante bombardamento da parte di stormi di uccelli che la profanano con il loro schitti. Un tempo, per molto meno, lo avresti visto, bestemmiando in tutte le lingue, terrestri e non, precipitarsi giù per le scale in mutande. Ora se ne sta tappato dentro casa paralizzato; le notizie apprese dai vari social ai quali è iscritto, sono riuscite a convincerlo che, tracce di quel fio de troia di COVID-19, si trovino dappertutto, a cominciare dal sofisticato pannello touchscreen della sua GTI bianca, in quanto prodotto in Cina.
Pensare che, solo alcune settimane fa, ce ne stavamo pigiati come sardine, dentro il bar “da Nane”. La vecchia Cimbali, sparava fuori caffè con una potenza di fuoco incredibile; i cinesi erano ormai fuori gioco da giorni ed era rimasto l’unico bar attivo nel quartiere; anche se lo sentivi dire “poareti”, intravedevi nello sguardo di Silvano, un ghigno di cinica soddisfazione, per l’improvviso notevole incremento del business.
I “te sbiro” e “ta sboro”, a seconda se, donna o uomo, uscivano a raffica dalle bocche, come un mantra che, nell’immaginario collettivo, poteva esorcizzare quel male che, fino a poco tempo fa, era distante migliaia di kilometri; “cassi dea Cina e dei cinesi”, come la maggior parte di noi pensava.
“Maedetti cinesi de merda!”, sentenziò Ivan, un cricco supertatuato; sigillando l’imprecazione con un sonoro rutto aromatizzato Aperol.
“Però te fa comodo che ‘e to’ amighe cinesi te fassa el lavoretto par 30 Euro”. El vecio Vittorio, rizzatosi improvvisamente sul suo deambulatore, lo impietrì. D’altronde, poco prima si era sentito bersaglio di numerose battute, più o meno velate, nei suoi confronti e, degli altri due suoi compari di legge 104; il gruppo di cricchi, li aveva additati come gli unici destinati a sugarsea a causa del virus.
Si vede che i giovinastri, non conoscono a fondo i tre del Deambulatore Club. Da una vita, seguono una dottrina che, ha origini ancora più antiche dello yoga; el ciavarsene. Giusto per capire di cosa si tratta; capita di vederli entrare da Nane, di ritorno dal laboratorio di analisi, sbandierando fogli con una costellazione di asterischi, e farsi ‘na ombra de rosso co’ do fette de musetto al grido di “samorti i dottori !”
Credo sia per questo che, la funesta predizione, al momento, non si è avverata; Vittorio, Berto e Gino sono gli unici che continuano, anche se chiuso, a sostare davanti al bar “da Nane”; superstiti della movida, in un quartiere dalle sembianze post atomiche. Rigorosamente mascherati, escono con la scusa ufficiale di andare dal Gianca a prendere il giornale; il che fa strano, in quanto, non ho ricordi di averli mai visti prima con un quotidiano in mano, a parte la Gazzetta dello Sport, per giunta, presa a prestito. Si sa che, el Gianca, tiene in edicola anche una minuscola macchinetta per il caffè; vista la situazione, i tre, come ai tempi del proibizionismo in America, non mancano di approfittarne.
Vorrei essere come loro ma, da quando c’è in giro ‘sta roba, mi sento ogni giorno, un sintomo di questo maledetto virus. Già prima, quando mi capitava di incappare in un programma televisivo di medicina, istantaneamente, mi autodiagnosticavo la malattia oggetto della trasmissione; ora, che ti propinano, come se piovesse, immagini di terapie intensive e obitori zeppi, sono praticamene paralizzato dal terrore. Le mie già esigue ore di sonno, si sono ulteriormente ridotte a son di consultare grafici che riportano casi, ricoveri e decessi più, una serie infinita di pareri, spesso in contraddizione tra loro, di virologi o, presunti tali.
Ora che non si può più andare da Nane per starsene li a cazzeggiare e parlare di calcio; trovo terapeutico, il mettermi in coda da sior Ugo, un rarissimo casoin, glorioso esempio di baluardo contro l’invasione degli ipermercati che, in questo periodo, è ritornato ai vecchi fasti di un tempo. La gente fuori in coda, è più o meno a stessa che trovavo al bar.
“So drio cagarme ‘dosso”; ea vedo longa, ‘sta storia no finisse più, xè peso de ‘na guera”
“Se no morimo par el virus, moriremo de fame e, sensa funerae”
“’ndarà tutto ben, ‘sto per de cojoni; ghemo poco da cantar sui balconi”
“No i ne a conta giusta, i diseva che gera ‘na influensa e varda come semo ciapai; ea verità xè che ‘gnanca i sciensiati sa cossa casso far”
“No meo cava nessun daea testa, ‘sto virus i io ga fabricà i cinesi”
“No; xe stai i americani par tirar xo dae spese i cinesi”
“No xe stai i russi par tirar zo dae spese i cinesi e i americani”
“Sveieve! I neo ga portà quei che riva coi barconi”
“So stufo de star serà in casa a non far niente”
“Ma se no ti ga mai fatto un casso anca co ti disevi de ‘ndar a lavorar”
“Mettite ea ascherina”
“E ti stroppite el cueo che i ga dito che e scorese trasmette el virus”
“Vardè i americani, i ga più bombe atomiche de mascherine”
“Sento che ‘sto giro ea me toca, so ciavà! Se salvarà soeo i soiti rotti in cueo de politici e quei pieni de schei”
“Eh no vecio, ‘sto giro a ghe toca anca a iorillà”
Quando succede qualcosa di brutto a iorillà; gli animi si placano e tutti si rasserenano; eh si, bisogna ammetterlo, un po’ ci godiamo nel vedere che, questo democratico virus, se la prende anche con iorillà. Eh si, perché, ognuno di noi ha dei iorillà da odiare; ovvero quelle persone che, per svariati motivi, ci stanno sulle palle e, con le quali, a volte, abbiamo un conto da saldare per episodi che risalgono addirittura, alla prima infanzia. In genere identifichiamo in iorillà; politici, popoli, etnie, furbetti o, semplicemente, qualcuno che ha qualcosa in più di noi. Sono sempre più convinto che, in realtà, nel subconscio, invidiamo gli iorillà perché alla fine, ci piacerebbe essere al loro posto e, al loro posto, ci comporteremo nella stessa maniera.
Ci sono poi staltri, quelli ai quali ghe xé tocà, su cui purtroppo, si è abbattuta la sventura e qui, entra in gioco la distanza che, può essere fisica, di età o condizione sociale. Finché la distanza tra noi e staltri, rimane entro certi limiti, non ci preoccupiamo più di tanto; quando invece, iniziamo a percepire che si sta accorciando; allora, non va più bene. Non accettiamo che, la sventura, inizi a sfiorare pericolosamente la nostra vita; è ingiusto; iniziamo a cagarci addosso.
A me, è capitato, quando ho visto le erbacce che iniziavano a intrufolarsi tra i raggi dei costosissimi cerchi in lega della GTI bianca.
“La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità.”
Così, una sera piovosa, un uomo solo, vestito di bianco, parlò al mondo; probabilmente alludeva proprio al biondo; magari, mi avrebbe consolato e semplificato le cose; invece, oltre al terrore di ammalarmi, si sono aggiunti inevitabilmente altri pensieri; vabbè, ho capito che il tempo non mi sarebbe mancato.
Tutto improvvisamente si fermò, a partire dal lavoro, quello ufficiale per intenderci. Mi trovai, dalla sera alla mattina, a camminare per il vialone del quartiere in una atmosfera da eterno ferragosto; in giro, solo il buon Vincenzo, Censi l’infermier; uno che, insieme alla vecia Irma, conosce a memoria tutti i culi del circondario; preciso, a suon di bucarli con l’ago della siringa.
Le autorità ti concedevano di muoverti solo per comprovate necessità. Con la coscienza ero a posto; fare radio, per me, era una necessità nonché, una valida terapia per combattere la scaga.
Per quanto mi riguarda, il distanziamento sociale, la medicina del momento, non è per niente amara da parar giù, è una gran fortuna che ‘sta roba sia imposta; mi sottrae al pesante onere di fornire delle spiegazioni, quando ho voglia di starmene per i cazzi miei; ovvero, quasi sempre. Ho dalla mia parte anche il grande Fabrizio De André, che diceva; “La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà”, parole sante. Mi godo questo stato positivo che, gli inglesi, chiamano solitude, diverso, dall’isolamento e abbandono, per riferirsi al quale, usano il termine loneliness; si imparano tante cose dalle canzoni.
Devo essere sincero, quaranta e passa anni fa, pensavo, o meglio speravo, che il microfono dal quale parlavo, avrebbe attirato, come la carta moschicida, una quantità industriale di gnocca o, quantomeno, mi avrebbe aiutato a rivalermi nei confronti di qualche iorillà; mi accorgo invece che, forse a causa del magnete che ha all’interno, non ha fatto altro che calamitare loneliness la quale, in questo tempo sospeso, è cresciuta esponenzialmente come le curve del contagio.
E’ un microfono strano, sembra avere un’anima in grado di comprendere la solitudine; condivide la paura che la malattia arrivi e ti tolga il respiro. No, per carità, non adesso che, la solitudine ci ha fatto capire che finora abbiamo passato una vita in difesa, preoccupandoci solo che la sventura non ci toccasse. La stessa paura che ci ha fatto prendere strade diverse da quelle che, invece, ci suggeriva il cuore.
Questi sono i miei ascoltatori, persone con pochi “like” nella vita, quelli delle occasioni mancate, con il desiderio sempre acceso che qualcuno si accorga di loro. A me non resta che “mettergli su” canzoni, proprio come si fa con la pasta.
Oggi è l’otto maggio; cinquant’anni fa esatti, usciva “let it be”, anche se vedo che è passata la voglia di cantare dai balconi, apro la finestra dello studio e la faccio uscire; lascio che le sue note, oltre che nell’etere, si propaghino nell’aria tersa:
let it be, lascia perdere, lascia stare … sbirighe in sima
“Con un microfono puoi farti ascoltare ma, soprattutto, ascoltarti”
Ellen DeGeneres
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