Tratto dal volume SOLARADIO
© 2024 Michele Camillo
Se non potete essere un pino sulla vetta del monte,
Siate un arbusto nella valle – ma siate
il migliore arbusto sulla sponda del ruscello.
Siate un cespuglio, se non potete essere un albero.
Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero,
Se non potete essere il sole, siate una stella;
Non con la mole vincete o fallite.
Siate il meglio di qualunque cosa siate.
Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati, e poi mettetevi a farlo appassionatamente.
Douglas Malloch
L’umanità che gravita attorno al piccolo universo che è il bar da Nane Sbérega è composta principalmente da personaggi che non si sono mai avventurati al di fuori di un certo perimetro. Questo confine è spesso stabilito dalla distanza che uno riesce a percorrere prima di finire la sigaretta. Non si può dire però che non conoscano il mondo; se gli chiedi, ad esempio, dove si trova un determinato stadio in sud America, ti danno l’indirizzo esatto.
Fra questi non viaggiatori, c’è anche uno dei nostri, un tale Fabio Rochesso, meglio conosciuto tra gli ascoltatori di SolaRadio come DJ Nafta. Un classico esemplare di “rifugiato radiofonico”; tra i primi di una lunga serie di personaggi, che hanno bussato alla nostra porta per chiedere asilo.
A dire il vero, iniziai a prendermi a cuore il suo caso, ancor prima che mettesse piede in radio; ovvero, il primo giorno delle medie; quando, me lo son visto entrare in classe tutto curvo con addosso un paio di pantaloni di due taglie in meno e una maglietta di due taglie in più.
Finì per distrazione, vera o finta che sia, seduto vicino alla bella Valentina Dammaggio che, non appena se ne accorse, lo respinse come una pallina dentro un flipper. Vista la malparata, il tipo, con un bel sorriso da ebete, ripiegò su di me, vanificando di fatto tutte le mie speranze di avere una bella gnocca come compagnia di banco.
Uno così attirò subito l’attenzione dei due pluriripetenti, ora pluripregiudicati, Giordano Malvestio “el rosso” e Amedeo Scantamburlo “el risso” che, gli resero la vita alquanto difficile dentro e fuori la scuola; fortunatamente per lui durò solo un anno in quanto vennero per l’ennesima volta bocciati.
La prima ora del primo giorno di scuola media, ci toccò il prof di francese, tale Nunzio Marano; un calabrese che, faceva fatica a esprimersi in italiano, figurarsi in francese. I primi istanti della prima ora del primo giorno di scuola media monsieur le teron, come venne presto soprannominato, li dedicò, sigaretta in bocca, a farci la classica domanda discriminatoria che io personalmente ho sempre odiato: “che lavoro fa tuo padre?”. Non si pensò nemmeno lontanamente a chiedere notizie sulla madre; monsieur le teron, evidentemente, dava per scontato che la donna se ne stesse tappata in casa a lavar mutande e calzini. Quando tocco al mio compagno, usci un flebile “pensionato”; fu l’unica parola che gli sentii pronunciare quel primo giorno di scuola media.
“Ma chi? To pare o to nono?”, disse ridendo sarcasticamente Adrea Bortoletto, un denigratore specializzato che mi era toccato sorbirmi dalla terza elementare e che, purtroppo avrei dovuto continuare a sopportare per altri tre anni.
Il Marano trattò con sufficienza il Rochesso; non fece altrettanto quando Lucia Simoncello rispose “medico”; spense la sigaretta sul banco del Ballarin e cominciò a chiedergli in ordine, specialità, orari di visita, tariffa e, se ci fosse la possibilità di trattamenti di favore, per lui, familiari, amici e compaesani.
Andò a finire che, nel giro di qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, mi ritrovai il figlio dell’insignificante pensionato bazzicare in casa mia.
La spiegazione era semplice, bastava vedere il posto dove abitava. Una stradina di sassi, detta ea stradea; dove, c’erano solo casette basse prive di fondamenta. Chiamarle villette, era un’offesa per chi, come me, abitava in una vera villetta; sembravano baracche alle quali era stato applicato dell’intonaco grigio e così lasciate senza nemmeno dipingerle; all’interno invece, regnava la muffa. In una camera tre metri per tre dormivano pigiati lui, il fratello Lele e nonna Maria di quasi novant’anni.
Veniamo ora ai genitori; o meglio i vecchi, sior Gino classe 1915 e siora Antonia classe 1924. Aveva ragione il Bortoletto, potevano essere benissimo i suoi nonni e questo, dava fastidio non poco al mio amico tanto che si vergognava di loro; purtroppo non erano solo vecchi anagraficamente ma, soprattutto mentalmente, mai visti dei retrogradi simili.
Il vecchio Gino usava nafta della peggiore qualità per scaldare la catapecchia in cui vivevano, l’aria che usciva dal camino era irrespirabile e tutti i componenti della famiglia puzzavano da nafta; da qui il loro soprannome.
Non c’era quindi da stupirsi se i miei, praticamente lo adottarono; era ospite fisso in cucina e, pure del sedile posteriore della nostra FIAT 128; finimmo addirittura per potarcelo in vacanza.
Sono quasi certo che, in realtà, fu lui a farsi adottare dai miei. Gli faceva comodo nutrirsi a sbafo dei manicaretti di mamma Franca invece della sbobba che gli propinava siora Antonia ma, più di tutto era attratto dall’impianto stereo di papà Adriano e dalla sua ricca collezione di dischi e musicassette.
Mio padre, oltre al preziosissimo impianto MARANTZ e alla relativa dote, aveva altre costosissime passioni, tra le quali la fotografia e i trenini elettrici. Io ormai, con ‘ste cose c’ero cresciuto ma, non faccio fatica a immaginare che, per il buon Fabio Nafta, metter piede in casa nostra equivaleva entrare a Disneyland.
A me, comunque, la cosa non dispiaceva, Fabio era un tipo da compagnia, completamente diverso da quei musoni dei suoi familiari; in più, era dotato di una spiccata fantasia. Grazie al ben di Dio che trovava in casa mia, si inventava di tutto, con lui non credo di essermi annoiato una sola volta. Riuscì a trasformare lo scantinato dove mio papà praticava i suoi hobby in studio televisivo, teatro e discoteca; in poco tempo, quel luogo, divenne una sorta di polo di attrazione per una serie di personaggi, purtroppo, tutti rigorosamente di sesso maschile. L’unico progetto in cui fallì, fu il tentativo di organizzare dei festini ai quali avrebbero dovuto partecipare elementi dell’altro sesso. A tale proposito, devo dire che, non so perché ma, purtroppo, negli anni, una serie di fattori e sfighe hanno sempre remato contro tutte le nostre iniziative nelle quali erano coinvolte delle ragazze.
L’idea più balzana la ebbe quella volta che, sempre in scantinato, vide la CINEPRESA MAX, regalo degli zii; si mise in testa di emulare Mino D’Amato nel famoso programma “A come avventura”. Tra i dischi di mio papà, ebbe la fortuna di trovare le due sigle, ovvero le favolose, “A salty dog” dei Procolarum e “She came in trough the bathroom window” di Joe Cocker.
Memorabile fu il giorno in cui, la troupe composta dal sottoscritto, il Nafta, il Zanella, il De Rossi e lo Scapin si addentrò nel boschetto adiacente la villa del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca. L’idea era quella di immortalare la fauna selvatica che si nascondeva negli anfratti più remoti della fitta boscaglia. Ad un certo punto, venimmo attratti da strani versi; quatti, quatti ci avvicinammo a un vecchio rudere dal quale sembravano provenire; fu così che ci si presentò davanti la scena di due esemplari in calore, il padre di tale Manente di 3^D e la madre di tale Zennaro di 1^F.
Anche se, tra i dischi di papà c’era probabilmente “You can leave you hat on” del Cocker, non era nelle intenzioni del nostro regista, girare un porno. Fu un’occasione mancata, il Nafta avrebbe sicuramente anticipato di un po’ di anni l’idea di Adrian Lyne.
Fortemente motivati dal fatto che a scuola era saltato il programma di educazione sessuale, decidemmo di rimanere in silenzio ad osservare la scena, da noi ritenuta altamente educativa.
Purtroppo, fu proprio la fauna selvatica o quasi, ad interrompere quell’estemporanea lezione. Dal nulla si materializzò uno dei cani del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca, filava alla velocità di un ghepardo con il chiaro obiettivo di addentare la prima chiappa che gli fosse capitata a tiro.
Si dice che, se un branco viene attaccato dal leone, per non morire sbranati, l’importante non è correre più veloci del leone ma, degli altri elementi del branco. In quel caso fummo avvantaggiati; fu esilarante vedere il padre di quel tale Manente impedito nella corsa a causa delle braghe abbassate, tentare di scappare dalle grinfie del bavoso cagnaccio, col bindoeo fora.
Quell’episodio segnò in noi anche una profonda crisi di ideali. Al tempo, i preti ci ammonivano continuamente; se solo avessimo, non dico toccato, ma semplicemente sognato, quella cosa lì; saremmo finiti all’inferno, là dove, sarà pianto e stridore di denti. Noi, da bravi ragazzi, pur tra mille difficoltà, cercavamo di rispettare questo precetto, sentendoci in colpa se sgarravamo; tutto questo fino a quel giorno. La madre di tale Zennaro e il padre di tale Manente erano nientepopodimeno che due assidui basabanchi, sempre in prima fila a messa con le rispettive famiglie; portati in palmo di mano da quel prete che ci faceva le prediche durante gli incontri dell’ACR. Da quel giorno, gradatamente, finimmo per disaffezionarci agli ambienti della Chiesa Cattolica per frequentarne altri meno vincolanti dal punto di vista della morale sessuale. Personalmente mi convinsi del fatto che, se eventualmente fosse esistito l’inferno, ci sarebbe stata, prima di me, molta gente in coda per entrarci, di sicuro mi avrebbero preceduto la madre di tale Zennaro e il padre di tale Manente.
“Erce! Dove ti va? Vien qua! Sta qua!”. Ogni volta che andavo in stradea a prendere Fabio, era una mezza tragedia. Non era facile per Nafta varcare il cancello arrugginito dei Rochesso, sior Gino sbraitava come un matto per non farlo uscire; altro che avventure in giro per il mondo.
Credo sia stato per ribellarsi a questa situazione opprimente che lo spinse, finite le medie, a iscriversi all’Istituto Nautico. Non vedevo altra spiegazione, non poteva essere che, un timoroso patologico nei confronti dell’elemento acqua, uno che in spiaggia si immergeva al massimo ad una profondità di 50 cm per paura di non toccare il fondo, volesse intraprendere una vita per mare; era chiaramente una sfida nei confronti dei genitori.
Fatto sta che, usando un termine marinaresco, per due anni sparì letteralmente dai radar e, per due estati consecutive, rifiutò di venire in montagna con noi.
A settembre del 1980, sempre usando termini marinareschi, tornò in porto. Il figliol prodigo, si piegò al volere della famiglia e, per compiacere a sior Gino, si iscrisse a ragioneria. Torno a mangiare a sbafo a casa mia e in vacanza con noi nella casetta di Fiera.
“Ve go scoltà”; tutte le persone a cui interessava far parte di SolaRadio solitamente iniziavano così la loro verbale “domanda di ammissione”; non fu da meno il Rochesso. Quello che invece mi suonò strano, fu una sua precisa domanda riguardo il raggio d’azione del trasmettitore; gli interessava sapere se arrivasse fino al viale. Il perché di quella domanda l’ho capito solo poco tempo fa, durante una delle mie tante notti insonni; nel viale abitava Valentina.
Nel lontano ottobre del 1980 il Nafta si sedette davanti all’unico microfono che SolaRadio aveva da offrigli e da lì, in tutti questi anni non si è mai mosso; intendo, radiofonicamente parlando.
Passa il suo tempo radiofonico a mandare in onda vecchie canzoni dimenticate, quelle che, per anni, come dei vecchi abiti, sembrano essere finite in naftalina; per questo Nafta, si è meritato l’appellativo di DJ Nafta.
Spesso, mentre passeggiamo lungo la barena si ferma a osservare malinconico la grande antenna dell’impianto RAI; quella dei nostri sogni, quella che ci avrebbe permesso di varcare certi confini, offrirci la possibilità di riscattarci e soddisfare la nostra smania di approvazione. Ci avrebbe permesso di aprire un canale di comunicazione con persone ormai lontane che, da idioti, abbiamo lasciato andare.
L’altro giorno, sconsolato mi ha detto, “ghe xé poco da far, semo ‘na radio desmentegada dal Signor”.
Nonostante, già dopo qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, l’abbia avuto praticamente ogni giorno in casa, io e il Nafta non ci siamo mai confrontati sull’argomento Dio. Anche quel giorno, camminando sconsolati fianco a fianco, in silenzio; non abbiamo avuto il coraggio di parlare dei nostri eterni dubbi sull’esistenza di Dio, sorti quel giorno nel boschetto adiacente la villa del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca.
Ciliegina sulla torta; oggi, dopo non so quanti anni, siamo ripiombati in quel casino che era la nostra classe delle medie. La cena con i vecchi compagni di classe è stata tutto fuorché piacevole; un continuo vociare, con l’evidente scopo di primeggiare e rubarsi la scena.
Ad un certo punto Nafta è sparito, l’ho trovato fuori dal locale a fumare come un turco, per terra ci saranno stati almeno cinque mozziconi. Era visibilmente depresso, mi ha riferito che, ancor prima che arrivassero le pizze, aveva trovato:
- Chi ha avuto più mogli mentre lui sempre la stessa
- Chi ha già i figli grandi che stanno facendo il master in non si sa che cosa tra Londra Milano e New York mentre lui di figli nemmeno l’ombra
- Chi ha il mega SUV mentre lui va in giro ancora con la sua vecchia FIAT Punto del 2009
- Chi è amministratore delegato di un’azienda mentre lui è sottoposto al sottoposto del sottoposto del sottoposto dell’amministratore delegato
- Chi ha la casa in Sardegna mentre lui deve ancora finire di pagare il cinquantennale mutuo di un umile 80mq
Ha ammesso candidamente di aver tentato di fare el sgrandesson vantandosi di fare il DJ in una radio, ovviamente omettendo i dettagli sul tipo di radio; è venuto fuori subito che la Simoncello, ha una figlia, che vive a Milano, famoso DJ in un altrettanto famoso Network nazionale.
A proposito di Milano, non è mancato Andrea Bortoletto, ora stimato giornalista di una nota testata; non appena ha saputo della storia di SolaRadio, l’unico nostro vanto, si è subito affrettato a prendere per il culo, me e il Nafta; ci mancava proprio uno che si fa trecento e passa chilometri con l’unico scopo di farti sentire una merda.
A riproposito di Milano, Valentina ora abita lì ma, all’ultimo, non è potuta venire.
Nonostante, già dopo qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, l’abbia avuto praticamente ogni giorno in casa, io e il Nafta non ci siamo mai confidati sull’argomento donne. Anche stasera, camminiamo sconsolati fianco a fianco, in silenzio; non abbiamo il coraggio di dircelo, ma entrambi pensavamo venisse quella ragazza che abitava a metà viale, la più bella della classe. Mi bastava sentire il suo passo per farmi battere forte il cuore; vorrei che potesse ascoltarmi quando mando in onda ripetutamente quella canzone che, mentre la canticchiavo, l’aveva fatta voltare verso di me.
Mi sa che entrambi abbiamo accettato di partecipare a questa cena solo per la speranza di vederla; ci sono cose che non ci diremo mai, nemmeno in punto di morte; meglio parlare di canzoni e della radio.
Meglio parlare dei sogni, di quell’antenna altissima, quasi come la Tour Eiffel che ci avrebbe permesso di arrivare ben oltre il viale dove abitava Valentina.
Alla Fine, come l’umanità che gravita attorno al piccolo universo che è il bar da Nane Sbérega, composta principalmente da personaggi che non si sono mai avventurati al di fuori di un certo perimetro; anche SolaRadio non è mai uscita da quel perimetro. DJ Nafta è quello che più la rappresenta, un marinaio mancato che non ha mai avuto il coraggio di prendere il largo verso orizzonti sconosciuti; in bar da Nane, non credo sappiano nemmeno come si chiama, è semplicemente “queo dea radio”.
Quando hai un padre che, non appena varchi il cancello di casa, ti urla dietro “dove ti va? Vien qua! Sta qua!”, o ti ribelli e sparisci per sempre dalla sua visuale, oppure ti lasci passivamente incatenare dai legami famigliari e relativi ricatti affettivi. Ti accontenti di una vita che non è quella che volevi e, ti limiti a non muoverti oltre il tiro della tua sigaretta.
Fabio è uno dei tanti ai quali SolaRadio ha offerto il suo microfono; un “bisognoso di radio”, lo chiamo io o, più semplicemente, un bisognoso di ascoltatori.
Ho sentito dire, “impara a dire ciò che senti, magari è proprio quello che qualcuno aveva bisogno di ascoltare”. A Fabio basta una tizia carina che gli dice “te go scoltà” per farlo felice; l’ho visto commuoversi, quando uno sfigato bociassa dei paeassoni, lo ha ringraziato per aver mandato in onda questa canzone
E ti diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte
Ma non è vero, ragazzo, che la ragione sta sempre col più forte
Io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero
E naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo
Chiudi gli occhi, ragazzo, e credi solo a quel che vedi dentro
Stringi i pugni, ragazzo, non lasciargliela vinta neanche un momento
Copri l’amore, ragazzo ma non nasconderlo sotto il mantello
A volte passa qualcuno, a volte c’è qualcuno che deve vederlo
Sogna, ragazzo, sogna
Quando sale il vento nelle vie del cuore
Quando un uomo vive per le sue parole o non vive più
Sogna, ragazzo sogna
Non lasciarlo solo contro questo mondo
Non lasciarlo andare sogna fino in fondo, fallo pure tu
Sogna, ragazzo, sogna
Quando cala il vento ma non è finita
Quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu
Sogna, ragazzo sogna
Non cambiare un verso della tua canzone
Non lasciare un treno fermo alla stazione, non fermarti tu
Lasciali dire che al mondo quelli come te perderanno sempre
Perché hai già vinto, lo giuro e non ti possono fare più niente
Passa ogni tanto la mano su un viso di donna, passaci le dita
Nessun regno è più grande di questa piccola cosa che è la vita
E la vita è così forte che attraversa i muri per farsi vedere
La vita è così vera che sembra impossibile doverla lasciare
La vita è così grande che quando sarai sul punto di morire
Pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire
Sogna, ragazzo, sogna
Quando lei si volta, quando lei non torna
Quando il solo passo che fermava il cuore non lo senti più
Sogna, ragazzo, sogna
Passeranno i giorni, passerrà l’amore
Passeran le notti, finirà il dolore, sarai sempre tu
Sogna, ragazzo, sogna
Piccolo ragazzo nella mia memoria
Tante volte tanti dentro questa storia, non vi conto più
Sogna, ragazzo, sogna
Ti ho lasciato un foglio sulla scrivania
Manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu
(*) Lo voglio scrivere, cancellare e riscrivere
Strappare delle pagine, usar l’inchiostro invisibile
Per poterlo nascondere e non lasciarne traccia
Non so se sarà poesia oppure solo carta straccia
E in fondo c’ho solo vent’anni, ma sai che cosa sento?
Tutta la vita davanti eppure sto perdendo tempo
C’è chi corre perché scappa e poi chi corre perché insegue
Io corro perché solo quello mi fa stare bene
Salgo sopra questo palco per giocare con la vita
Ma se mi si spezza il fiato, se poi spezzo la matita?
Più in basso è il punto di partenza, più alta è la salita
Ma spero che il panorama valga tutta ‘sta fatica
Non so che cos’è l’amore, ma a volte lo percepisco
In un tramonto, uno sguardo, un disco
E se mi guardo attorno penso che son fortunato
Non so chi ha creato il mondo, ma so che era innamorato
© 1999 Roberto Vecchioni
© (*) 2024 Roberto Vecchioni – Andrea De Filippi “Alfa”
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