DJ Nafta

Tratto dal volume SOLARADIO

© 2024 Michele Camillo

Se non potete essere un pino sulla vetta del monte,
Siate un arbusto nella valle – ma siate
il migliore arbusto sulla sponda del ruscello.
Siate un cespuglio, se non potete essere un albero.
Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero,
Se non potete essere il sole, siate una stella;
Non con la mole vincete o fallite.
Siate il meglio di qualunque cosa siate.
Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati, e poi mettetevi a farlo appassionatamente.

Douglas Malloch

L’umanità che gravita attorno al piccolo universo che è il bar da Nane Sbérega è composta principalmente da personaggi che non si sono mai avventurati al di fuori di un certo perimetro. Questo confine è spesso stabilito dalla distanza che uno riesce a percorrere prima di finire la sigaretta. Non si può dire però che non conoscano il mondo; se gli chiedi, ad esempio, dove si trova un determinato stadio in sud America, ti danno l’indirizzo esatto.

Fra questi non viaggiatori, c’è anche uno dei nostri, un tale Fabio Rochesso, meglio conosciuto tra gli ascoltatori di SolaRadio come DJ Nafta. Un classico esemplare di “rifugiato radiofonico”; tra i primi di una lunga serie di personaggi, che hanno bussato alla nostra porta per chiedere asilo.

A dire il vero, iniziai a prendermi a cuore il suo caso, ancor prima che mettesse piede in radio; ovvero, il primo giorno delle medie; quando, me lo son visto entrare in classe tutto curvo con addosso un paio di pantaloni di due taglie in meno e una maglietta di due taglie in più. 

Finì per distrazione, vera o finta che sia, seduto vicino alla bella Valentina Dammaggio che, non appena se ne accorse, lo respinse come una pallina dentro un flipper. Vista la malparata, il tipo, con un bel sorriso da ebete, ripiegò su di me, vanificando di fatto tutte le mie speranze di avere una bella gnocca come compagnia di banco.

Uno così attirò subito l’attenzione dei due pluriripetenti, ora pluripregiudicati, Giordano Malvestio “el rosso” e Amedeo Scantamburlo “el risso” che, gli resero la vita alquanto difficile dentro e fuori la scuola; fortunatamente per lui durò solo un anno in quanto vennero per l’ennesima volta bocciati.

La prima ora del primo giorno di scuola media, ci toccò il prof di francese, tale Nunzio Marano; un calabrese che, faceva fatica a esprimersi in italiano, figurarsi in francese. I primi istanti della prima ora del primo giorno di scuola media monsieur le teron, come venne presto soprannominato, li dedicò, sigaretta in bocca, a farci la classica domanda discriminatoria che io personalmente ho sempre odiato: “che lavoro fa tuo padre?”. Non si pensò nemmeno lontanamente a chiedere notizie sulla madre; monsieur le teron, evidentemente, dava per scontato che la donna se ne stesse tappata in casa a lavar mutande e calzini. Quando tocco al mio compagno, usci un flebile “pensionato”; fu l’unica parola che gli sentii pronunciare quel primo giorno di scuola media.

Ma chi? To pare o to nono?”, disse ridendo sarcasticamente Adrea Bortoletto, un denigratore specializzato che mi era toccato sorbirmi dalla terza elementare e che, purtroppo avrei dovuto continuare a sopportare per altri tre anni. 

Il Marano trattò con sufficienza il Rochesso; non fece altrettanto quando Lucia Simoncello rispose “medico”; spense la sigaretta sul banco del Ballarin e cominciò a chiedergli in ordine, specialità, orari di visita, tariffa e, se ci fosse la possibilità di trattamenti di favore, per lui, familiari, amici e compaesani. 

Andò a finire che, nel giro di qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, mi ritrovai il figlio dell’insignificante pensionato bazzicare in casa mia.

La spiegazione era semplice, bastava vedere il posto dove abitava. Una stradina di sassi, detta ea stradea; dove, c’erano solo casette basse prive di fondamenta. Chiamarle villette, era un’offesa per chi, come me, abitava in una vera villetta; sembravano baracche alle quali era stato applicato dell’intonaco grigio e così lasciate senza nemmeno dipingerle; all’interno invece, regnava la muffa. In una camera tre metri per tre dormivano pigiati lui, il fratello Lele e nonna Maria di quasi novant’anni.

Veniamo ora ai genitori; o meglio i vecchi, sior Gino classe 1915 e siora Antonia classe 1924. Aveva ragione il Bortoletto, potevano essere benissimo i suoi nonni e questo, dava fastidio non poco al mio amico tanto che si vergognava di loro; purtroppo non erano solo vecchi anagraficamente ma, soprattutto mentalmente, mai visti dei retrogradi simili.

Il vecchio Gino usava nafta della peggiore qualità per scaldare la catapecchia in cui vivevano, l’aria che usciva dal camino era irrespirabile e tutti i componenti della famiglia puzzavano da nafta; da qui il loro soprannome.

Non c’era quindi da stupirsi se i miei, praticamente lo adottarono; era ospite fisso in cucina e, pure del sedile posteriore della nostra FIAT 128; finimmo addirittura per potarcelo in vacanza.

Sono quasi certo che, in realtà, fu lui a farsi adottare dai miei. Gli faceva comodo nutrirsi a sbafo dei manicaretti di mamma Franca invece della sbobba che gli propinava siora Antonia ma, più di tutto era attratto dall’impianto stereo di papà Adriano e dalla sua ricca collezione di dischi e musicassette.

Mio padre, oltre al preziosissimo impianto MARANTZ e alla relativa dote, aveva altre costosissime passioni, tra le quali la fotografia e i trenini elettrici. Io ormai, con ‘ste cose c’ero cresciuto ma, non faccio fatica a immaginare che, per il buon Fabio Nafta, metter piede in casa nostra equivaleva entrare a Disneyland. 

A me, comunque, la cosa non dispiaceva, Fabio era un tipo da compagnia, completamente diverso da quei musoni dei suoi familiari; in più, era dotato di una spiccata fantasia. Grazie al ben di Dio che trovava in casa mia, si inventava di tutto, con lui non credo di essermi annoiato una sola volta. Riuscì a trasformare lo scantinato dove mio papà praticava i suoi hobby in studio televisivo, teatro e discoteca; in poco tempo, quel luogo, divenne una sorta di polo di attrazione per una serie di personaggi, purtroppo, tutti rigorosamente di sesso maschile. L’unico progetto in cui fallì, fu il tentativo di organizzare dei festini ai quali avrebbero dovuto partecipare elementi dell’altro sesso. A tale proposito, devo dire che, non so perché ma, purtroppo, negli anni, una serie di fattori e sfighe hanno sempre remato contro tutte le nostre iniziative nelle quali erano coinvolte delle ragazze.

L’idea più balzana la ebbe quella volta che, sempre in scantinato, vide la CINEPRESA MAX, regalo degli zii; si mise in testa di emulare Mino D’Amato nel famoso programma “A come avventura”. Tra i dischi di mio papà, ebbe la fortuna di trovare le due sigle, ovvero le favolose, “A salty dog” dei Procolarum e “She came in trough the bathroom window” di Joe Cocker. 

Memorabile fu il giorno in cui, la troupe composta dal sottoscritto, il Nafta, il Zanella, il De Rossi e lo Scapin si addentrò nel boschetto adiacente la villa del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca. L’idea era quella di immortalare la fauna selvatica che si nascondeva negli anfratti più remoti della fitta boscaglia. Ad un certo punto, venimmo attratti da strani versi; quatti, quatti ci avvicinammo a un vecchio rudere dal quale sembravano provenire; fu così che ci si presentò davanti la scena di due esemplari in calore, il padre di tale Manente di 3^D e la madre di tale Zennaro di 1^F.

Anche se, tra i dischi di papà c’era probabilmente “You can leave you hat on” del Cocker, non era nelle intenzioni del nostro regista, girare un porno. Fu un’occasione mancata, il Nafta avrebbe sicuramente anticipato di un po’ di anni l’idea di Adrian Lyne.

Fortemente motivati dal fatto che a scuola era saltato il programma di educazione sessuale, decidemmo di rimanere in silenzio ad osservare la scena, da noi ritenuta altamente educativa.

Purtroppo, fu proprio la fauna selvatica o quasi, ad interrompere quell’estemporanea lezione. Dal nulla si materializzò uno dei cani del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca, filava alla velocità di un ghepardo con il chiaro obiettivo di addentare la prima chiappa che gli fosse capitata a tiro. 

Si dice che, se un branco viene attaccato dal leone, per non morire sbranati, l’importante non è correre più veloci del leone ma, degli altri elementi del branco. In quel caso fummo avvantaggiati; fu esilarante vedere il padre di quel tale Manente impedito nella corsa a causa delle braghe abbassate, tentare di scappare dalle grinfie del bavoso cagnaccio, col bindoeo fora.

Quell’episodio segnò in noi anche una profonda crisi di ideali. Al tempo, i preti ci ammonivano continuamente; se solo avessimo, non dico toccato, ma semplicemente sognato, quella cosa lì; saremmo finiti all’inferno, là dove, sarà pianto e stridore di denti. Noi, da bravi ragazzi, pur tra mille difficoltà, cercavamo di rispettare questo precetto, sentendoci in colpa se sgarravamo; tutto questo fino a quel giorno. La madre di tale Zennaro e il padre di tale Manente erano nientepopodimeno che due assidui basabanchi, sempre in prima fila a messa con le rispettive famiglie; portati in palmo di mano da quel prete che ci faceva le prediche durante gli incontri dell’ACR. Da quel giorno, gradatamente, finimmo per disaffezionarci agli ambienti della Chiesa Cattolica per frequentarne altri meno vincolanti dal punto di vista della morale sessuale. Personalmente mi convinsi del fatto che, se eventualmente fosse esistito l’inferno, ci sarebbe stata, prima di me, molta gente in coda per entrarci, di sicuro mi avrebbero preceduto la madre di tale Zennaro e il padre di tale Manente.

Erce! Dove ti va? Vien qua! Sta qua!”. Ogni volta che andavo in stradea a prendere Fabio, era una mezza tragedia. Non era facile per Nafta varcare il cancello arrugginito dei Rochesso, sior Gino sbraitava come un matto per non farlo uscire; altro che avventure in giro per il mondo. 

Credo sia stato per ribellarsi a questa situazione opprimente che lo spinse, finite le medie, a iscriversi all’Istituto Nautico. Non vedevo altra spiegazione, non poteva essere che, un timoroso patologico nei confronti dell’elemento acqua, uno che in spiaggia si immergeva al massimo ad una profondità di 50 cm per paura di non toccare il fondo, volesse intraprendere una vita per mare; era chiaramente una sfida nei confronti dei genitori.

Fatto sta che, usando un termine marinaresco, per due anni sparì letteralmente dai radar e, per due estati consecutive, rifiutò di venire in montagna con noi.

A settembre del 1980, sempre usando termini marinareschi, tornò in porto. Il figliol prodigo, si piegò al volere della famiglia e, per compiacere a sior Gino, si iscrisse a ragioneria. Torno a mangiare a sbafo a casa mia e in vacanza con noi nella casetta di Fiera.

Ve go scoltà”; tutte le persone a cui interessava far parte di SolaRadio solitamente iniziavano così la loro verbale “domanda di ammissione”; non fu da meno il Rochesso. Quello che invece mi suonò strano, fu una sua precisa domanda riguardo il raggio d’azione del trasmettitore; gli interessava sapere se arrivasse fino al viale. Il perché di quella domanda l’ho capito solo poco tempo fa, durante una delle mie tante notti insonni; nel viale abitava Valentina.

Nel lontano ottobre del 1980 il Nafta si sedette davanti all’unico microfono che SolaRadio aveva da offrigli e da lì, in tutti questi anni non si è mai mosso; intendo, radiofonicamente parlando. 

Passa il suo tempo radiofonico a mandare in onda vecchie canzoni dimenticate, quelle che, per anni, come dei vecchi abiti, sembrano essere finite in naftalina; per questo Nafta, si è meritato l’appellativo di DJ Nafta.

Spesso, mentre passeggiamo lungo la barena si ferma a osservare malinconico la grande antenna dell’impianto RAI; quella dei nostri sogni, quella che ci avrebbe permesso di varcare certi confini, offrirci la possibilità di riscattarci e soddisfare la nostra smania di approvazione. Ci avrebbe permesso di aprire un canale di comunicazione con persone ormai lontane che, da idioti, abbiamo lasciato andare. 

L’altro giorno, sconsolato mi ha detto, “ghe xé poco da farsemo ‘na radio desmentegada dal Signor”.

Nonostante, già dopo qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, l’abbia avuto praticamente ogni giorno in casa, io e il Nafta non ci siamo mai confrontati sull’argomento Dio. Anche quel giorno, camminando sconsolati fianco a fianco, in silenzio; non abbiamo avuto il coraggio di parlare dei nostri eterni dubbi sull’esistenza di Dio, sorti quel giorno nel boschetto adiacente la villa del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca.

Ciliegina sulla torta; oggi, dopo non so quanti anni, siamo ripiombati in quel casino che era la nostra classe delle medie. La cena con i vecchi compagni di classe è stata tutto fuorché piacevole; un continuo vociare, con l’evidente scopo di primeggiare e rubarsi la scena.

Ad un certo punto Nafta è sparito, l’ho trovato fuori dal locale a fumare come un turco, per terra ci saranno stati almeno cinque mozziconi. Era visibilmente depresso, mi ha riferito che, ancor prima che arrivassero le pizze, aveva trovato:

  • Chi ha avuto più mogli mentre lui sempre la stessa 
  • Chi ha già i figli grandi che stanno facendo il master in non si sa che cosa tra Londra Milano e New York mentre lui di figli nemmeno l’ombra
  • Chi ha il mega SUV mentre lui va in giro ancora con la sua vecchia FIAT Punto del 2009 
  • Chi è amministratore delegato di un’azienda mentre lui è sottoposto al sottoposto del sottoposto del sottoposto dell’amministratore delegato
  • Chi ha la casa in Sardegna mentre lui deve ancora finire di pagare il cinquantennale mutuo di un umile 80mq 

Ha ammesso candidamente di aver tentato di fare el sgrandesson vantandosi di fare il DJ in una radio, ovviamente omettendo i dettagli sul tipo di radio; è venuto fuori subito che la Simoncello, ha una figlia, che vive a Milano, famoso DJ in un altrettanto famoso Network nazionale.

A proposito di Milano, non è mancato Andrea Bortoletto, ora stimato giornalista di una nota testata; non appena ha saputo della storia di SolaRadio, l’unico nostro vanto, si è subito affrettato a prendere per il culo, me e il Nafta; ci mancava proprio uno che si fa trecento e passa chilometri con l’unico scopo di farti sentire una merda.

A riproposito di Milano, Valentina ora abita lì ma, all’ultimo, non è potuta venire.

Nonostante, già dopo qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, l’abbia avuto praticamente ogni giorno in casa, io e il Nafta non ci siamo mai confidati sull’argomento donne. Anche stasera, camminiamo sconsolati fianco a fianco, in silenzio; non abbiamo il coraggio di dircelo, ma entrambi pensavamo venisse quella ragazza che abitava a metà viale, la più bella della classe. Mi bastava sentire il suo passo per farmi battere forte il cuore; vorrei che potesse ascoltarmi quando mando in onda ripetutamente quella canzone che, mentre la canticchiavo, l’aveva fatta voltare verso di me.

Mi sa che entrambi abbiamo accettato di partecipare a questa cena solo per la speranza di vederla; ci sono cose che non ci diremo mai, nemmeno in punto di morte; meglio parlare di canzoni e della radio.

Meglio parlare dei sogni, di quell’antenna altissima, quasi come la Tour Eiffel che ci avrebbe permesso di arrivare ben oltre il viale dove abitava Valentina.

Alla Fine, come l’umanità che gravita attorno al piccolo universo che è il bar da Nane Sbérega, composta principalmente da personaggi che non si sono mai avventurati al di fuori di un certo perimetro; anche SolaRadio non è mai uscita da quel perimetro. DJ Nafta è quello che più la rappresenta, un marinaio mancato che non ha mai avuto il coraggio di prendere il largo verso orizzonti sconosciuti; in bar da Nane, non credo sappiano nemmeno come si chiama, è semplicemente “queo dea radio”. 

Quando hai un padre che, non appena varchi il cancello di casa, ti urla dietro “dove ti va? Vien qua! Sta qua!”, o ti ribelli e sparisci per sempre dalla sua visuale, oppure ti lasci passivamente incatenare dai legami famigliari e relativi ricatti affettivi. Ti accontenti di una vita che non è quella che volevi e, ti limiti a non muoverti oltre il tiro della tua sigaretta.

Fabio è uno dei tanti ai quali SolaRadio ha offerto il suo microfono; un “bisognoso di radio”, lo chiamo io o, più semplicemente, un bisognoso di ascoltatori.

Ho sentito dire, “impara a dire ciò che senti, magari è proprio quello che qualcuno aveva bisogno di ascoltare”. A Fabio basta una tizia carina che gli dice “te go scoltà” per farlo felice; l’ho visto commuoversi, quando uno sfigato bociassa dei paeassoni, lo ha ringraziato per aver mandato in onda questa canzone 

E ti diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte
Ma non è vero, ragazzo, che la ragione sta sempre col più forte
Io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero
E naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo
Chiudi gli occhi, ragazzo, e credi solo a quel che vedi dentro
Stringi i pugni, ragazzo, non lasciargliela vinta neanche un momento
Copri l’amore, ragazzo ma non nasconderlo sotto il mantello
A volte passa qualcuno, a volte c’è qualcuno che deve vederlo

Sogna, ragazzo, sogna
Quando sale il vento nelle vie del cuore
Quando un uomo vive per le sue parole o non vive più
Sogna, ragazzo sogna
Non lasciarlo solo contro questo mondo
Non lasciarlo andare sogna fino in fondo, fallo pure tu
Sogna, ragazzo, sogna
Quando cala il vento ma non è finita
Quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu
Sogna, ragazzo sogna
Non cambiare un verso della tua canzone
Non lasciare un treno fermo alla stazione, non fermarti tu

Lasciali dire che al mondo quelli come te perderanno sempre
Perché hai già vinto, lo giuro e non ti possono fare più niente
Passa ogni tanto la mano su un viso di donna, passaci le dita
Nessun regno è più grande di questa piccola cosa che è la vita
E la vita è così forte che attraversa i muri per farsi vedere
La vita è così vera che sembra impossibile doverla lasciare
La vita è così grande che quando sarai sul punto di morire
Pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire

Sogna, ragazzo, sogna
Quando lei si volta, quando lei non torna
Quando il solo passo che fermava il cuore non lo senti più
Sogna, ragazzo, sogna
Passeranno i giorni, passerrà l’amore
Passeran le notti, finirà il dolore, sarai sempre tu
Sogna, ragazzo, sogna
Piccolo ragazzo nella mia memoria
Tante volte tanti dentro questa storia, non vi conto più
Sogna, ragazzo, sogna
Ti ho lasciato un foglio sulla scrivania
Manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu

(*) Lo voglio scrivere, cancellare e riscrivere
Strappare delle pagine, usar l’inchiostro invisibile
Per poterlo nascondere e non lasciarne traccia
Non so se sarà poesia oppure solo carta straccia
E in fondo c’ho solo vent’anni, ma sai che cosa sento?
Tutta la vita davanti eppure sto perdendo tempo
C’è chi corre perché scappa e poi chi corre perché insegue
Io corro perché solo quello mi fa stare bene
Salgo sopra questo palco per giocare con la vita
Ma se mi si spezza il fiato, se poi spezzo la matita?
Più in basso è il punto di partenza, più alta è la salita
Ma spero che il panorama valga tutta ‘sta fatica
Non so che cos’è l’amore, ma a volte lo percepisco
In un tramonto, uno sguardo, un disco
E se mi guardo attorno penso che son fortunato
Non so chi ha creato il mondo, ma so che era innamorato

© 1999 Roberto Vecchioni

© (*) 2024 Roberto Vecchioni – Andrea De Filippi “Alfa”

Passa alla versione Web per ascoltare il Podcast

HOME

El Xingàno … storia di un’estate fa

Tratto dal volume SOLARADIO

© 2024 Michele Camillo

Ciao, non vi dico il nome altrimenti c’è il rischio che mi riconosciate, vi racconto una bella storia di radio e di … amore.

Quando t’ho vista arrivare
Bella così come sei
Non mi sembrava possibile che
Tra tanta gente, che tu t’accorgessi di me
Gino Paoli – Una lunga storia d’amore

No capisso, ea ghe casca a tutti fora che a mi; me par impossibie, bojaissamorti! E ti, cossa ti disi?”. Rimasi in silenzio, non avevo il coraggio di rispondere a Memo Bottacin che, non si doveva preoccupare; eravamo almeno in due, io e lui.

Da quando ho ricordi, l’inizio estate, al bar da Nane Sbérega è sempre stato periodo di bilanci. Sul tavolo le motivazioni principali che tengono in vita noi uomini; ovvero, il campionato di calcio e, ovviamente, ea mona

Del campionato non me fregava niente; non mi interessava sapere che giocatori avrebbe dovuto comprare l’Inter per vincere lo scudetto e non finire al misero quarto posto; ero preoccupato invece, perché, riguardo alla seconda cosa, non si vedeva niente all’orizzonte o, per dirla alla Memo; “no’ me riva gnanca un refoeo de mona”. 

Personalmente poi, dovevo mettere a bilancio un anno scolastico di merda. Su consiglio di Manuel Agnoletto, mi ero iscritto al triennio con indirizzo informatica; perché, a detta di quel gran genio, una volta diplomato, avrei trovato subito un bel lavoro e, avrei preso bene. A fine anno, in effetti, in anticipo con i tempi, avevo già preso bene qualcosa in un determinato posto, rimediando tre materie, tra cui proprio informatica.

Sbirighe in sima, coco”; Milio Vianeo, era solerte farse i cassi de ‘staltri. Pensavo avesse intuito la mia preoccupazione per essere ancora sensa ‘na cocca; invece, non so come, era venuto a conoscenza delle mie disgrazie scolastiche; per consolarmi, attaccò per la centocinquantaseiesima volta a raccontarmi la storia della sua vita.

Milio Vianeo sensa un scheo e curto de oseo; nel piccolo mondo del bar da Nane, lo definivano così per il fatto di essere povero e non aver mai avuto una donna. Era il classico scampà de casa, un mezzo vagabondo che, armato di una vecchia chitarra, campava scimmiottando i cantanti folk americani.

Misteriosamente quel giorno lo ascoltai con più attenzione. Come sempre, iniziò a citarmi l’infinità di posti dove era stato. Per i più, si trattava di balle; a me invece, sembrava attendibile, anche quando parlava di posti lontanissimi come l’India e il Vietnam. L’unica cosa sulla quale facevo fatica a credergli riguardava la miriade di figlie dei fiori che, a suo dire, si era trombato durante il mitico raduno di Woodstock del ’69, al quale aveva partecipato. “Comunque vecio, ricordate che ea strada xe ea vita”; la frase non era sua ma, di tale Jack Kerouac, celeberrimo scrittore, nonché ispiratore dei vagabondi di mezzo mondo.

In tasca, ben accartocciate, avevo centotrenta carte; era la quota di iscrizione al camposcuola di Azione Cattolica che dovevo consegnare a don Gino. Saranno state le parole del vecchio hippie; fatto sta che, mentre le tenevo strette in mano, come per magia, decisi di cambiarne la destinazione d’uso; non sarebbero finite nelle mani del prete ma, servite a finanziare la ricerca della mia vera strada e, anche un’altra cosa, della quale, cominciavo a sentire un prioritario bisogno.

Lunedì 6 luglio 1981, invece di sedermi sul torpedone, direzione Cadore; mi accomodai da primo passeggero, in uno scompartimento dell’espresso Venezia-Bari. Nessuno al mondo sapeva dove stavo andando; nessuno, tranne Denis Sgorlon, al quale avevo chiesto in prestito tenda canadese e sacco a pelo. Pianificai tutto nei minimi dettagli; nei giorni precedenti la partenza; nascosi tenda e sacco a pelo in garage dentro una vecchia valigia, così pure i costumi da bagno, una bandana, i sandali, bermuda e magliette. Il giorno della partenza, travasai il contenuto della valigia nello zaino, riempendo quest’ultima con gli scarponi da montagna e la roba pesante che mia madre, aveva preparato per il camposcuola.

Salii sul treno eccitatissimo, mi sentivo un agente segreto nel pieno di una missione, ovviamente segreta; il controspionaggio, mi avrebbe sgammato subito, per l’emozione sarò andato a pisciare una ventina di volte in tre ore. Con me avevo due libri, “Avere o essere” di Erich Fromm e “Sulla strada” di Jack Kerouac; me li aveva consigliati Milio. Non avevo nessuna intenzione di leggerli; volevo semplicemente fare il figo e imitare Carlo Dezzi; era un mio compagno di classe nonché compagno regolarmente tesserato presso la locale sezione della FIGC. Grasso e brutto come la fame, nonostante questo, grazie alla sua aria da intellettuale e alle citazioni di Prévert, riusciva ad attirare gnocca a gogo. Per cui, con la speranza che lo scompartimento si riempisse di figa, misi i libri in bella vista sul tavolinetto. Purtroppo, ironia della sorte, andò a finire che, quattro di quei cinque posti vuoti, furono occupati da altrettante suore.

Mo sii, sediamoci qua che facciamo compagnia a questo baldo giovine; sorbole, che letture interessanti!”. Non ero riuscito a far sparire per tempo i due libri; avrei probabilmente dovuto sopportare un’imbarazzante conversazione cultural-letteraria alla quale non ero preparato.

“Mo sentiamo dove sta andando ‘sto bravo ragasso?”; altro argomento sul quale non ero preparato. La mia intenzione era quella di scendere a Rimini e cercare un posto dove accamparmi; la scelta era dettata esclusivamente per le alte probabilità di cuccare; vallo a spiegare a delle suore, anche se, a prima vista, mi parevano di un modello piuttosto advanced.

Sto andando dai nonni in vacanza a Rimini”; mi venne fuori bella e pronta.

Mo guarda che nonni sconsiderati che deve avere; hanno il coraggio di far dormire il nipotino in tenda; se fossi in te, gli farei un bel dispetto e, tirerei dritto fino a Gatteo Mare, c’è un bel campeggio e soprattutto tante belle ragasse piene di salute”; la più vecchia del quartetto aveva mangiato la foglia. Sarò per sempre grato a suor Marisa, la madre superiora, per quella dritta; non potevo aspettarmi di meglio da una romagnola o meglio, una da una nativa rivierasca doc.

Mo venga signorina che ce posto, si sieda qui vicino al finestrino, di fronte a questo bel giovanotto, garantiamo noi che tiene le mani a posto, se ci prova, nostro Signore lo fulmina”, disse dandomi una gomitata. Mai e poi mai, mi sarei aspettato che quella tale suor Virginia mi facesse da complice. In effetti, la tipa, anche se, ad occhio, aveva qualche anno più di me, con quella minigonna di jeans, induceva in tentazione; se, citando la frase storica, “Parigi val bene una messa”, Roberta valeva bene una fulminata.

Furono quasi quattro ore di viaggio esilaranti; bastava l’accento romagnolo dei quattro pinguini per farmi piegare in due dalle risate. Non ho idea della quantità industriale di balle che raccontai, per fare il figo con Roberta; solo il loro capo supremo probabilmente, riuscì a quantificarle.

Se non fosse stato per il mio vicino di piazzola, il teutonico signor Otto Kruntz, nome di fantasia ricavato da un personaggio dei fumetti del Corriere dei Ragazzi, sarei ancora alle prese con il montaggio della canadese. Fortunatamente la pluriennale esperienza, dell’ex Giovane Marmotta germanica mi permise di infilarmi nel sacco a pelo prima che sorgesse il sole.

Gianni Togni continuava a martellarmi i timpani con Semplice, infilai la testa completamente dentro il sacco a pelo ma, niente da fare; un incubo, mi pareva di stare abbracciato a una cassa acustica usata nei concerti, tremava anche la terra. Mi ci volle parecchio per capire che non stavo sognando. “Tutto quanto mi sembra giusto, quando fuori è mattina presto …”; col ca**o! Chi ca**o, era ‘sto imbecille che lo stava sparando a manetta; gli avrei piantato volentieri tutti i picchetti in pancia, anche se si fosse trattato dell’amico Otto Kruntz. Passai un bel po’ di tempo per realizzare che non era l’alba ma, le dieci e mezza del mattino.

Le urla del Togni uscivano da un casotto in legno, a due braccia di distanza dalla mia tenda, sul quale campeggiava la scritta, “Radio Base Mare International, estiamo insieme!”; scoperto perché la piazzola costava così poco. Mi accorsi che ero uscito in mutande; non è che in quel posto fosse richiesto un dress code particolare ma, le Fruit Of The Loom bianche, o quasi, non erano di certo adeguate; per cui, corsi dentro in tenda a rifarmi il look. Ne uscii, da perfetto beach boy o, almeno pensavo. Bermuda neri “Fioruccio”, maglietta bianca con scritta “Didas”, bandana rossa e occhiali da sole “Raibat”; tutta roba comprata al mercato; tranne gli occhiali, presi, dopo estenuanti trattative, da un marocchino per settemila lire, un affarone.

Hola zingaro, dai che fra un po’ inizia la diretta; da dove vieni?” Probabilmente avevo esagerato con la roba che mi ero messo, il capellone biondo che stava dentro il casotto mi puntò subito.

Sin da piccolo, ho lavorato molto di fantasia e immaginazione, sono sempre state le mie più grandi risorse, alle quali ho attinto in svariati momenti della mia vita, specie quelli dove stavo per toccare il fondo. E’ grazie a tutto questo che, martedì 7 luglio 1981, nacque El xingano; un goffo ragazzo della campagna veneta, che si esprimeva con lo stesso slang usato dagli avventori del bar Nane SbéregaEl xingano, ebbe l’onore di entrare nel casotto e, già nel pomeriggio, divenne l’aiuto Dj del biondo capellone. Le credenziali di DJ, le fabbricai sul momento, rubando praticamente l’identità a Fabio Ballarin detto Paperoga, un fio dei paeassoni, che si dilettava a trasmettere a SolaRadio, una radio libera, con sede sempre nei paeassoni.

Sbirighe in sima cocca, ‘scolta ‘sta canson; che fa anca rima

Mi fai ridere”, la biondina con la coda di cavallo, dopo più di dieci minuti passati a fissarmi, sparò quelle tre parole dirompenti, una scossa di terremoto che mi fece perdere equilibrio e orientamento.

Debora con la acca, avevo il fiato corto, fu un vero e proprio esercizio di respirazione pronunciare quel nome; era la prima volta che una ragazza mi dedicava la sua attenzione; miracoloso, el xingano era nato solo da poche ore e aveva già colpito.

La biondina con la coda di cavallo era a capo di una masnada di ragazzini; ironia della sorte scoprii che si trattava di un campo estivo della locale parrocchia. 

Ma allora i preti, fanno anche i campiscuola in spiaggia?

Fu la prima cosa, dopo il nome, che gli chiesi. 

Lo so, voi contadini del nord, li fate solo in montagna; noi romagnoli siamo più avanti”.

In effetti, me n’ero accorto dalle suore incontrate in treno. 

Non siamo arretrati, i nostri preti non ci portano al mare perché hanno paura che invece della creazione pensiamo alla procreazione”.

La feci cappottare dalle risate.

Prendi queste

Innamorarsi di una ragazza solo per il fatto che sceglie da una ciotola le tre migliori albicocche e, te le porge; sembra un’assurdità ma, a me è capitato così. Quel gesto di attenzione mi fece perdere la testa per Debora con la acca. Ricambiai scegliendo per lei i più bei brani musicali di quell’estate.

Usai sostanzialmente due versioni per raccontare quei giorni, una per Milio Vianeo e l’altra per tutto il resto del mondo, genitori compresi. A questi ultimi, fu solo complicato giustificare l’abbronzatura; me la cavai dicendo che avevamo fatto un’escursione su di un ghiacciaio e, il riflesso della neve mi aveva letteralmente ustionato.

Ti xé goldon vecio; ti xé proprio un gran goldon”; Milio si riferiva al fatto che non mi ero trombato Deborah; ci rimasi male, fu l’unico suo commento, dopo quasi un’ora persa a raccontargli del mio viaggio segreto; francamente mi aspettavo qualcosa di più.

Il 25 luglio 1983, circa tre ore dopo aver sostenuto l’esame orale della maturità, ero di nuovo sull’espresso Venezia-Bari, destinazione Rimini. Quella volta lo scompartimento si riempì di ragazzi che andavano a Taranto per la naja; avrei preferito di gran lunga, le mie amiche suore. Mentre dal finestrino scorreva il torrido paesaggio della pianura padana, pensai che, metaforicamente parlando, sarebbe stato un viaggio di sola andata, nel senso che la mia vita aveva ormai preso una direzione ben precisa e, non sarei mai più tornato indietro sui miei passi.  Il biondo capellone, con il quale nel frattempo avevo avuto un proficuo rapporto epistolare e telefonico, mi stava aspettando con un bel contrattino in mano; all’indomani avrei iniziato a lavorare alla ex Radio Base Mare International; non posso dirvi come si chiama ora, altrimenti verrei facilmente smascherato. El xingano, aveva di nuovo fatto centro.

Per tutto quello che mi è piacevolmente accaduto durante questi decenni di radio-attività, non posso fare a meno di ringraziare Paperoga di SolaRadio; a sua insaputa, contribuì a far nascere in me la passione di “fare radio” e a tracciare la mia vera strada che, non era certo quella dell’informatico, suggeritami da Manuel Agnoletto.

Ringrazio anche il biondo che, ebbe la fortuna di diventare famoso quasi come me. La differenza è che lui, vive alla luce del sole, mentre io, trovo rifugio in uno pseudonimo che, mi consente di avere una comoda doppia vita e, cosa non da poco di questi tempi, un doppio stipendio.

Ma, più di tutti, ringrazio Milio Vianeo; se non ci fosse stato lui, quel giorno, avrei consegnato le centotrenta carte a don Gino. Dal camposcuola sarebbe tornato a casa un bravo e cattolicissimo ragazzo ma, un infelice bravo ragazzo.

Riguardo la biondina con la coda di cavallo, destino volle che persi il foglietto con il suo indirizzo e relativo numero di telefono, lo avevo infilato tra le pagine di “Avere o essere”. Può sembrare strano ma, sono contento che sia andata così; se ci fossimo frequentati e messi assieme; come succede nelle canzoni che narrano gli effimeri amori estivi, probabilmente ci saremo lasciati. Alla fine, non ho subito il dolore di perderla e continua a vivere nei miei sogni.  

Nel periodo che passai in riviera, presi l’abitudine di passeggiare in riva al mare d’inverno; nonostante mi trovassi all’aperto e di fronte a un orizzonte sconfinato, provavo un piacevole senso di clausura, eravamo solo io e il mare al quale, consegnavo sogni, illusioni e delusioni; mentre lui, in cambio, mi passava un sacco di nuove idee. Tra le tante illusioni, vi era quella che, prima o poi, sul pontile dove ascoltavamo “Zingaro” di Tozzi, sarebbe apparsa Deborah.

Niente, anche quest’anno il pontile è deserto, solo io, il mare e tanto vento. Dalla spiaggia alle mie spalle, ho l’illusione di sentir riecheggiare “Ciao mare” di Raul Casadei.

Il vento cancella dalla sabbia i ricordi, ma dal cuore, no il vento non può

Debora con la acca, la biondina con la coda di cavallo, che mi ha offerto quelle tre dolcissime albicocche, continua ancora a camminare al mio fianco, tenendomi la mano, come quell’estate fa.

Un’estate fa
La storia di noi due
Era un po’ come una favola
Ma l’estate va
E porta via con se
Anche il meglio delle favole

L’autostrada è là ma ci dividerà
L’autostrada della vacanza
Segnerà la tua lontananza

Un’estate fa non c’eri che tu
Ma l’estate somiglia a un gioco
È stupenda ma dura poco
Poco, poco, poco

Un’estate fa
La storia di noi due
Era un po’ come una favola
Un’estate in più
Che ci regalerà
Un autunno malinconico

L’autostrada è là ma ci dividerà
L’autostrada della vacanza
Segnerà la tua lontananza

Un’estate fa non c’eri che tu
Ma l’estate assomiglia a un gioco
È stupenda ma dura poco
Poco, poco, poco

E finisce qua la storia di noi due
Sono cose che succedono

L’autostrada della vacanza
Segnerà la tua lontananza

Ma l’estate assomiglia a un gioco
È stupenda ma dura poco
Poco, poco, poco

E finisce qua la storia di noi due
Due persone che si perdono

L’autostrada è là
Ma ci regalerà
Un autunno malinconico

© 1972 – Francesco Califano 

© 1972 – Michel Paul Fugain / Pierre Delanoe titolo originale “Une belle Histoire”

Ti possono interessare anche:

HOME

El Nadal da Nane

Tratto dal volume SOLARADIO

© 2023 Michele Camillo

Silvano, xe ora che tiri fora ea roba”, l’ordine della Mari è perentorio; inizia l’operassion parecio. La cosa curiosa è che, col passare degli anni, il giorno fatidico in cui Silvano Visentin, general manager del bar “Nane Sbérega” è costretto a tirar fuori gli addobbi natalizi, arriva sempre prima. Probabilmente, tra un po’, sarà a ridosso di Ferragosto.

In realtà, per fare la sopracitata operazione, non ci vuole molto. Le luminarie sono perennemente montate, praticamente le stesse che usa d’estate per el redentor, tranne la stella cometa sopra l’insegna; anche se, quest’ultima, in certe afose notti d’estate, forse a causa di un contatto elettrico, mi è parso di vederla accesa. Anche le altre decorazioni, è possibile comunque ammirarle tutto l’anno; è sufficiente, mentre sei in cesso, alzare lo sguardo. Sulla mensola puoi notare un’albero spelacchiato con cinque palle di numero, uno scanchènico babbo natale e un cartello ingiallito con scritto “buone feste”. Alla fine, sono le uniche cose che Silvano deve tirar fora; ci pensa poi la Mari a portare qualche altra troiata comprata dai cinesi in fondo alla strada.

Ghe semo sà; el taca”; i “fioi”, si divertono a prendere per il culo il povero Silvano, pur consapevoli che, a breve, sarebbe toccato anche a loro. A differenza di Silvano, per loro il calvario è più lungo, si dovranno massacrare la schiena a son di far rampe di scale con pesantissimi e lerci scatoloni. L’anno scorso, Bruno Mestriner, ha rischiato l’invalidità permanente in quanto, per errore, ha portato su alla Lori, lo scatolone che, si trovava accanto a quello del presepio, dove conserva gelosamente alcuni numeri di “Le Ore”.

Memo Bottacin mi squadra minaccioso; “ti e ‘staltri to compari dea radio, vede de no’ tacar xà a svangarme i cojoni”; alludeva al fatto che, l’anno scorso, già da fine novembre, osai mandare in onda, Last Christmas degli Wham a gogo; per lui, un vero e proprio affronto.

Correva l’anno 1984, el Memo, aveva preso ‘na sbindoada per una tale Chiara Bertoldo; alta, bionda con gli occhi verdi; insomma, ‘na bea cocca. A dire il vero, l’intera popolazione di sesso maschile sopra i 14 anni frequentante ea ceseta, sbavava per Chiara; compreso, lasciatemelo dire che ne ho le prove, il prete. Nonostante tutta questa assatanata concorrenza, Memo era convinto di essere il suo preferito e, come cento altri, si considerava in dirittura d’arrivo. Il 24 dicembre, a metà mattina, accadde l’imprevedibile o, secondo me, il prevedibilissimo. Il Memo, da sempre un gran sognatore; quel giorno, sostava davanti a un paio di Rossignol color rosso Ferrari, esposti nel reparto sport dei grandi magazzini Coin. Oltre a trovarse na bea cocca, scopo principale della sua vita; desiderava passare in montagna le vacanze di Natale; proprio come facevano i siori o meglio, i siori fighi. Oltre che per radio, credo non ci fosse posto, almeno nel mondo occidentale, dove non venisse diffusa a nastro Last Christmas e, quel maledetto giorno, i grandi magazzini Coin, non erano certo di meno. Immagino anche che, mentre la ascoltava, il tipo, si stesse mentalmente proiettando un film in cui lui e Chiara rotolavano nudi nella soffice e bianca neve. Quell’attimo di serenità, indotto dalla canzone, venne interrotto, proprio dall’apparire della cocca, a manina con tale Marco Pacini; ho ragione di credere che, nella sua vita, ancora non gli sia capitata una disgrazia peggiore. In effetti fu un duro colpo per tutti noi spasimanti, essere messi di fronte al fatto che la pura e casta, almeno in apparenza, regina dea ceseta, si fosse messa con quel lurido miscredente nonché stronzo del Pacini detto, “el banca”; per il fatto che, praticamente il giorno dopo essersi diplomato ragioniere, mediante un abile operazione di paraculamento patrocinata da un noto politico del P.S.I. locale, finì a lavorare dietro uno sportello della Cassa Di Risparmio. Certe cose, non devono succedere il 24 dicembre; poi va a finire che odierai per sempre il Natale e Last Christmas degli Wham.

Noialtri fioi dea radio, abbiamo anche il potere di salvare vite umane; fortunatamente, almeno quella volta, bastò dedicargli prontamente la canzone antagonista, che uscì quasi contemporaneamente a Last Christmas, par tirarlo in qua. I Queen con Thank God it’s Christmas, ‘na mossarea co ‘e acciughe e un birin, lo fecero desistere dal butarse dentro l’osein.

Soe private i ga xa tacà, co’ i filmeti de nadal”. Un’altra cosa, che sta pesantemente sulle palle alla congrega degli habitué, sono i filmetti di natale americani; dove, come dice Denis Sgorlon, “ti vedi gran cocche che e va in giro coe tette fora e cotoe curte, so strade co’ tre metri de neve parte par parte”; un insulto alla miseria per quelli che, come molti frequentatori di Nane, vivono nella fame cronica di una certa cosa. Gli fa eco Dario Spampinato; “mi vago via de testa, par quee che de inverno va in giro coe cotoe curte e i stivaoni; Mari, ‘more, semo stufi de vedarte sempre in braghe, ti podaressi, almanco par el bianco Natale, darghe un fià de sodisfasion ai to veci amighi”.

E ti, ti podaressi ‘ndar ben, ben in cueo de to mare; fame un piasser, moighea de sparar bueae; prova ti a ‘ndar in giro co’ ea mona al vento, co’ ‘sto aguasso che xè de fora, vedemo se no’ ti te bechi ea cistite. Ve dago mi el Bianco natale, sugheve par ben el caigo e ea spussa de Marghera, che ve sbiro!”.

Non so se si è capito ma, nel microcosmo di Nane Sbérega, non aleggia lo spirito del Natale; l’unico spirito visibile è dentro un vaso, nel quale, ormai da decenni credo, è immersa dell’uvetta. Si tratta di un vero e proprio cimelio; gli storici riferiscono che fu donato, a metà anni settanta, da tale Vittorio Gavagnin, un ex mastro saldatore del Breda, in occasione del suo pensionamento. Purtroppo, il poro Vittorio defunse il giorno dopo; nessuno da allora, per paura che portasse sfiga, ha il coraggio di aprirlo.

Cossa ti ghe tol?”. Altro grossissimo tema, i regali. Allo scopo, vengono puntualmente istituiti degli appositi gruppi di lavoro; cito solo i più numerosi, “profumi e robe da dona”, “xoghi e cassae par i bocia”, “troiae che costa poco ma che fa bea figura”. Recentemente poi, se ne è aggiunto uno di singolare e curioso, “regai par e badanti dei veci”; per ovvie ragioni di pudore, non vi dico qual è il fine ultimo, non dichiarato, di questa particolare tipologia di regali.

Il problema più grosso però sono gli auguri; o meglio, come evitare di farli a chi ti sta sulle palle, ovvero la maggioranza di quelli che incontri involontariamente per strada o al lavoro; quelli che, circa tre mesi prima, ti dicono; “ohi, se no’ se vedemo, auguri”; ai quali vorresti rispondere “tranquio ‘more, che farò de tutto par no’ vedarte de novo

Vincenzino Quinterno, ex teron, ora con regolare cittadinanza veneta ed ex sergente maggiore dell’esercito, conosceva bene le tattiche per evitare il nemico ovvero, i suoi superiori di grado, quando gli era necessario imboscarsi. Ora, mette a disposizione le fini strategie acquisite in campo militare per gli amici avventori de Nane Sbérega, dispensando preziosi consigli su come evitare di incontrare certi musi da mona, per non essere costretti a fargli gli auguri.

A complicare ulteriormente questo già complicatissimo periodo, ci si mettono pure i sensi di colpa. A Natale, si sa, bisogna fare i buoni. “So xa bastansa intrigà a pensar dei cassi mii; figurarse se go tempo par quei de ‘staltri”. Questo è il pensiero comune, la filosofia di vita dei Nanesbéreghesi e, oserei dire, della maggior parte degli abitanti dell’universo; fa sì che, il dover fare i buoni, venga visto come un’altra grossa rogna da affrontare, un ostacolo insormontabile.

Se non si sta attenti, c’è il pericolo che, durante questi eterni e dolorosi giorni, ansia e depressione prendano il sopravvento. Ogni volta che l’illustre dottor Scarpa, l’ormai ex e, aggiungo, non ancora rimpiazzato, medico della mutua di quartiere, fa capolino nel bar, trova sempre qualcuno che gli chiede, “dotor, no capisso par cossa ‘sto periodo stago cussì mal”; arriva prontamente la diagnosi; “par forsa, ti sta mal parché semo sotto e feste de nadal; e fa anca rima

Noialtri dea radio, comunque, ci siamo. Sempre in prima linea contro tristezza e solitudine; sguardo puntato sull’Osein, per far in modo che a nessuno venga voglia di buttarcisi dentro; anche perché, rispetto al 1984 è ancora più sporco e pieno di melma. Coraggio; questo travagliato periodo passerà velocemente; torneremo finalmente alla serena routine quotidiana, dove non ci saranno più persone che si rattristano ascoltando Last Christmas degli Wham e, dove non ci si dovrà più preoccupare di fare gli addobbi, i regali, gli auguri e … i falsi buoni.

Aea fine i xe desmentega sempre de quel poro fantoin; bastaria ricordarse cossa che el ga dito e che fine che el ga fatto

Milio Vianeo, 20 dicembre ’23. 

Frase pronunciata, alle ore 17.45 circa, dopo la quarta ombra de bianco, indicando il minuscolo presepe sul bancone, semi nascosto dal famoso vaso di uvetta sotto spirito.

Thank God it’s Christmas

Oh, my love, we’ve had our share of tears
Oh, my friends, we’ve had our hopes and fears
Oh, my friends, it’s been a long hard year

But now it’s Christmas
Yes, it’s Christmas
Thank God it’s Christmas

The moon and stars seem awful cold and bright
Let’s hope the snow will make this Christmas right
My friends, the world will share this special night

Because it’s Christmas
Yes, it’s Christmas
Thank God it’s Christmas
For one night

Thank God it’s Christmas, yeah
Thank God it’s Christmas
Thank God it’s Christmas

Can it be Christmas?
Let it be Christmas
Every day

Oh, my love, we live in troubled days
Oh, my friend, we have the strangest ways
All my friends on this one day of days

Thank God it’s Christmas
Yes, it’s Christmas
Thank God it’s Christmas
For one day

Thank God it’s Christmas
Yes, it’s Christmas
Thank God it’s Christmas
Ooh, yeah
Thank God it’s Christmas
Yes, yes, yes, yes it’s Christmas
Thank God it’s Christmas
For one day
A very merry Christmas to you all

© 1984 Brian May – Roger Taylor

HOME

Fotocanzoni – Il mio canto libero

Le canzoni sono ricordi del passato e desideri del futuro.

© 2017 Michele Camillo Ph.

In un mondo che
Non ci vuole più
Il mio canto libero sei tu
E l’immensità
Si apre intorno a noi
Al di là del limite degli occhi tuoi

Nasce il sentimento
Nasce in mezzo al pianto
E s’innalza altissimo e va
E vola sulle accuse della gente
A tutti i suoi retaggi indifferente
Sorretto da un anelito d’amore
Di vero amore

In un mondo che
Prigioniero è
Respiriamo liberi io e te
E la verità
Si offre nuda a noi
E limpida è l’immagine
Ormai

Nuove sensazioni
Giovani emozioni
Si esprimono purissime in noi
La veste dei fantasmi del passato
Cadendo lascia il quadro immacolato
E s’alza un vento tiepido d’amore
Di vero amore
E riscopro te

Dolce compagna che
Non sai domandare, ma sai
Che ovunque andrai
Al fianco tuo mi avrai
Se tu lo vuoi

Pietre, un giorno case
Ricoperte dalle rose selvatiche
Rivivono, ci chiamano
Boschi abbandonati
E perciò sopravvissuti vergini
Si aprono, ci abbracciano

In un mondo che
Prigioniero è
Respiriamo liberi
Io e te
E la verità
Si offre nuda a noi
E limpida è l’immagine ormai

Nuove sensazioni
Giovani emozioni
Si esprimono purissime in noi
La veste dei fantasmi del passato
Cadendo lascia il quadro immacolato
E s’alza un vento tiepido d’amore
Di vero amore
E riscopro te

© 1972 Lucio Battisti / Mogol

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

Fotocanzoni – Donna sola

© 2017 Michele Camillo Ph.

Succede spesso, incrocio lo sguardo e parte istintivamente lo scatto.

Ne escono donne che sono canzoni di Mimì

© 2017 Michele Camillo Ph.

© 2019 Michele Camillo Ph.
© 2021 Michele Camillo Ph.
© 2016 Michele Camillo Ph.

Io
Non son più io, mi sento da sola
Qualche cosa dentro me è cambiato, ma cos’è?
Oh-oh, oh, oh 
Oh, non dir di no e lasciami sola
Non dipende più da te

Potresti regalarmi il mondo intero, che me ne farei?
Io cerco solo il vento e una scogliera
Dentro gli occhi miei
E sopra il mare volerei
Per non tornare, credimi 
Sola

Non pensare adesso che
Qualcun altro sia con me 
Oh-oh, oh no
Ti ho detto da sola
Io con la mia anima

Sarà che questo mondo ha rovinato
Tutti i sogni miei
Se non avessi te che sei innocente
Giuro me ne andrei
Ed oltre il mondo volerei
Per non tornare, credimi 
Sola

Per sentirmi libera, finalmente libera
Oh, Sola
Io con la mia anima

Ma chi piangerà, lo so sarò io
Io che resterò sola 
Sola
Resterò (sola) sola
Sola, (sola)
Sola, sola, sola
Sola
Resterò sola, sola, ah
Sola, sola

© 1972 Luigi Albertelli, Dario Baldan Bembo, Bruno Lauzi

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

The Christmas Blues

Questi giorni maledetti che sanno di malinconia e panettone

E’ davvero possibile dire a qualcun altro come ci si sente
Lev Tolstoj

Galleria

Seleziona le foto per visualizzarle

© 2021 – 2022 Michele Camillo Ph.

The jingle bells are jingling
The streets are white with snow
The happy crowds are mingling
But there’s no one that I know

I’m sure that you’ll forgive me
If I don’t enthuse
I guess I’ve got the Christmas blues

I’ve done my window shopping
There’s not a store I’ve missed
But what’s the use of stopping
When there’s no one on your list

You’ll know the way I’m feeling
When you love and you lose
I guess I’ve got the Christmas blues

When somebody wants you
Somebody needs you
Christmas is a joy of joys
But friends when you’re lonely
You’ll find that it’s only
A thing for little girls and little boys

May all your days be merry
Your seasons full of cheer
But ‘til it’s January
I’ll just go and disappear

Old Santa may have brought you
Some stars for your shoes
But Santa only brought me the blues
Those brightly packaged tinsel covered
Christmas blues

Old Santa may have brought you
Some stars for your shoes
But Santa only brought me the blues
Those brightly packaged tinsel covered
Christmas blues

Bob Dylan

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

Le Fotocanzoni

Nulla apre gli occhi della memoria come una canzone.

Stephen King

© 2022 – Michele Camillo Ph.

© Michele Camillo Ph 2016 – 2024

Fotocanzoni – E’ nato si dice

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

Allora è arrivato Natale, Natale la festa di tutti
Si scorda chi è stato cattivo, si baciano i belli ed i brutti
Si mandan gli auguri agli amici, scopriamo che c’è il panettone
Bottiglie di vino moscato e c’è il premio di produzione

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

C’è l’angolo per il presepio e l’albero per i bambini
I magi, la stella cometa e tanti altri cosi divini
I preti tirati a parata, la legge racconta che è onesta
Le fabbriche vanno più piano, insomma è un giorno di festa

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

È festa persino in galera e dentro alle case di cura
Soltanto che dopo la festa, la vita ritornerà dura
Ma oggi baciamo il nemico, o quelli che passano accanto
O l’asino dentro la greppia, Natale il giorno più santo.

Pierangelo Bertoli – 1976

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

Sensa ‘na cocca

Tratto dal volume SOLARADIO

© 2022 Michele Camillo

Goals for job success

L’oggetto della mail arrivò a provocarmi un prolasso fulminante dei testicoli, i quali, tracciarono due profondi solchi per terra, da casa mia, fino all’ingresso del bar da Nane. Ogni inizio di ottobre, da un po’ di tempo, in azienda, c’è l’usanza di rompere i maroni, convocando una riunione plenaria di tutti i sudditi di sua maestà el CEO, per dirla alla trevigiana. Lo scopo è sempre quello, farti lavorare di più per meno soldi; i vertici, per essere convincenti, minacciano di far decollare giganteschi cetrioli volanti, pronti a colpirti alle spalle o, per essere più precisi, un po’ più giù.

Fortunatamente, da quando c’è ‘sto cavolo di pandemia, queste riunioni non si fanno più in presenza e io, non sono più costretto a prendere l’aereo e, un litro di benzodiazepine per non cagarmi addosso; anzi, con questo sistema della videoconferenza o webinar che sia, mi diverto a mandare i sopracitati vertici in determinati posti o, a farmi fare certi particolari lavoretti, facendo fior, fior di gesti con le mani a mutande abbassate, ovviamente il tutto con la telecamera rigorosamente spenta; la scusa per non attivarla, era sempre la stessa, ovvero mi succhiava banda e quindi avevo difficoltà a connettermi. Tutte le strategie e i sotterfugi da usarsi durante le videoconferenze le avevo imparate da mio nipote Filippo, così pure la mimica da usarsi a telecamera spenta che, lui adottava nei confronti dei prof; quasi due anni di didattica a distanza, almeno gli erano serviti per diventare un esperto in materia.

Decisi di collegarmi dalla radio, quale posto migliore per una diretta; ma, soprattutto quale occasione migliore per sistemare la scaletta notturna, sostituendo i tormentoni estivi con qualcosa di più adatto alla stagione; tanto, le stronzate che dovevo sentire erano le stesse da anni.

Il giorno convenuto, passai prima da Nane Sbérega, avevo estremo bisogno di farmi una dose massiccia. L’idea era di fumarmi un caffè quadruplo ristretto e un krapfen, beo onto, alla crema; la voglia di drogarmi era tanta che avrei corso il rischio di trangugiare quello che giaceva sulla vetrinetta del bancone, ormai da una decina di giorni.

Ohi, vecio; xe ‘pena passada ea cocca del comune”; avevo riconosciuto Gino Bottacin dalla voce roca e dai pantaloni rosso stinto che porta ormai da più di dieci anni; in genere, quando è seduto fuori dal bar, il viso è sempre avvolto da una cortina fumogena generata dalla robaccia che fuma.

Il suo compito istituzionale, da quando è in pensione, è quello di stendere un dettagliato report sul passaggio di cocche. Dovete sapere che da Nane, le cocche passano ma, non si fermano mai; nemmeno se gli dovesse servire urgentemente il bagno, preferirebbero tenersela o farla dietro un albero.

Non ho mai visto entrare una cocca da Nane; a parte ea Mary, la milfona banconiera, morosa del Silvano, patron di Nane Sberega, le uniche presenze femminili abituali sono un gruppo di femministe sessantottine capitanate da Irma Marangon detta sottuttomi. Pure il loro outfit risale al 1968, i larghi cotoeoni a fiori che indossano, antitesi della favolosa invenzione di Mary Quant, sono contro ogni possibile arrapamento; nemmeno a Denis Sgorlon, in assoluto il più affamato de mona, nel raggio di dieci chilometri, verrebbe voglia de cassarse, con una di loro. Hanno anche il grave difetto di essere delle naturiste; mentre la maggior parte degli avventori de Nane, sublima la mancanza di quella cosa che fa girare il mondo, con poenta e sopressa, loro, presumo, sempre per sopperire a una certa mancanza, si riempiono di roba come tofu e seitan. Più di una volta, qualcuno gli ha chiesto se ‘ste sostanze, è meglio arrotolarle su una cartina e fumarle oppure, è consigliabile sniffarle direttamente.

Dal piccolo studio che usiamo per montare i programmi, si gode di una bella vista sul viale centrale dei paeassoni. In questo periodo, le foglie degli alberi cominciano a cambiare colore, el sofego estivo ormai è solo un ricordo, per me, è il più bel momento dell’anno; mi sento rinascere. Non mi ricordo da dove salta fuori, ma, c’è una teoria secondo la quale, ognuno di noi ha il suo inizio di anno che, non coincide per forza con il primo gennaio. Verissimo, per me l’inizio dell’anno è sempre stato il primo ottobre, giorno in cui, una volta, iniziava l’anno scolastico. Pensare che, ancora oggi, per celebrare questo bel giorno, vado da sior Romeo a compare un quaderno o una matita. In quella cartoleria, il tempo sembra essersi fermato, oltre ai vecchi arredi, è rimasto il tipico profumo di carta, ricordo degli anni di scuola elementare. I primi giorni di ottobre, qui in radio, sono sempre stati dedicati alla programmazione delle attività; un eccitante fervore di idee che nascevano attorno a un tavolo stracolmo di bagigi, vino, cioccolata calda e dolcetti venexiani; purtroppo, la mia azienda, ha pensato ben bene di rovinarmi questo magico periodo dell’anno.

Dopo i saluti iniziali, praticamente un concerto per violini e lingue, partì la mattonata, “Goals for job success”, sullo schermo apparve un tizio dotato di arco, intento a scagliare una freccia. Le slide scorrevano lente, il tempo sembrava non passare mai, e io continuavo a sbadigliare. Lo studio funge anche da deposito dei vecchi LP in vinile, approfittai per dare una riordinata e, sospirare quando mi capitavano sottomano le compilation dance degli anni ’80; che tempi ragazzi! Non mi potevo però distrarre più di tanto, c’era quel maledetto questionario finale da compilare.

Obiettivo, obiettivo, obiettivo; tutta la presentazione era un continuo martellare su questo termine. Obiettivi presenti, passati e futuri, obiettivi raggiunti e obiettivi da raggiungere; che due coglioni!

La riunione finalmente finì; mi comportai da bravo soldatino, risposi esattamente al questionario, mettendo le crocette su una serie di cazzate, distanti anni luce dal mio modo di pensare. Alla fine, però, questo maledetto obiettivo continuava a farmi innervosire, credo per il fatto di non averne, finora, mai centrato uno; parlo della vita ovviamente; anzi, la vera questione era capire se, ne avevo mai avuto uno.

Ho la convinzione che, in certi momenti, una qualche misteriosa entità sovrannaturale, mi invii dei messaggi. Proprio nell’istante in cui stavo pensando a ‘sta faccenda dell’obiettivo, la workstation nella quale stavo inserendo la scaletta notturna si mise a riprodurre “a fifth of Beethoven”; uno dei brani che hanno segnato la mia vita, il leitmotiv della mia passione. Spopolava in quel lontano febbraio del 1977 quando, a soli tredici anni, iniziai a trasmettere in radio e, il mio obiettivo era quello di diventare un famoso DJ attorniato da una moltitudine di cocche; inutile dire, che il target, per usare un termine anglosassone, non è stato raggiunto.

A quasi sessant’anni, mi chiedo se, alla fine, mi interessava di più fare il DJ o, essere circondato da una moltitudine di cocche. Giù da Nane, c’era uno che, più di altri, poteva darmi una mano riguardo a questo dilemma; inoltre, considerato il fatto che, l’azienda, ci aveva affidato il compito di riflettere sui nostri obiettivi, non potevo fare niente di meglio che scendere a fare due chiacchere con il vecchio Bottacin.

Sono anni che ormai è in pensione, invece di fare come tanti, che vanno a guardare i cantieri, lui passa la giornata da Nane per guardare le cocche che transitano davanti. Non è un tipo molto loquace, lo si sente ogni tanto sospirare e poi dire, “se ognun gavesse ea so cocca, nissuna bufera lo tocca”. Per tirar in lengua Gino sull’argomento cocca, è sufficiente chiedergli perché è così triste; all’inizio, la risposta è sempre la stessa, “me toca morir sensa essar ‘nda mai in quel posto, peso ancora, sensa averlo mai visto”. Mi feci offrire una sigaretta e introdussi la questione dell’obiettivo, Gino fu categorico; “cossa ti vol che te diga; da quando che esistemo, el scopo dell’omo, gira e gira, xe sempre queo. Chi che, come mi, no’ ghe xe riussio, bisogna che xe sforsa de pensar ad altro, altrimenti el riscia de ‘ndar via de meona; come xe dise, se uno no’ va in cocca xe fasie che prima de ‘staltri da ‘sta tera sea mocca”. Nel frattempo, sopraggiunse Paperoga, il socio fingeva che l’argomento non lo riguardasse ma, in realtà, ascoltava attentamente.

Vien qua beo, ti che te ga studià, spieghighe a quei dea radio, parchè noialtri semo sensa ‘na cocca

Il beo era rivolto a Ciano Menin, storico personaggio di spicco del team sensa cocca. El Ciano non aspettava altro, si fece offrire pure lui una sigaretta da Gino e attaccò con la conferenza.

Per primo, bisogna sapere che, per i sensa cocca, esiste una definizione internazionale ovvero INCEL, acronimo di Involuntary Celibate, tradotto, celibi involontari. Inoltre, nella categoria, sono implicitamente inclusi tipi come me e il Paperoga che, una cocca, bene o male, l’avevano avuta ma, almeno da più di sei mesi, si trovano nell’impossibilità di praticare l’attività più salubre e importante della vita.

Secondo, gli INCEL, non sono INCEL per caso ma, perché, scartati da donne che, scelgono il partner unicamente in base al criterio LMS, acronimo di Look, Money and Status; ovvero, una cocca ti sceglie solo se sei bello, oppure se hai soldi o, in alternativa, se sei qualcuno che conta.

A questo punto intervenne Gino; “el sciensiato qua, ga scoperto l’acqua calda; da sempre se dise che ea dona tea caea, se ti xe beo, o col scheo o sora el scagneo e, mi ghe sonto, … o sempre pronto co’ l’oseo”.  “Speta che ‘desso vien el mejo; dighe cossa che ne ga combinà e femministe”; Gino tornò a incalzare il Menin.

Praticamente, gli INCEL, sostengono che la liberazione sessuale e il conseguente sviluppo del movimento femminista, hanno segnato la loro definitiva rovina. Il professor Menin prese un sasso per terra e, sul muro esterno de Nane, a mo’ di lavagna, disegnò la situazione prima del ’68 dove, ad ogni cocca, corrispondeva solo un cocco, il classico rapporto uno a uno. Nello schema successivo, post ’68, si poteva notare che, solo alcuni cocchi, erano oggetto di attenzione di più cocche contemporaneamente, un fenomeno chiamato ipergamia. Questo perché prima del ‘68, le cocche, al fine di garantire la naturale conservazione della specie, si adattavano ad accoppiarsi con qualsiasi uomo; successivamente, con la rivoluzione sessuale, hanno iniziato a montarsi la testa, calandogliela solo a quelli che soddisfano il criterio LMS. Gli INCEL definiscono CHAD, tipi come Riccardo Cazzador, giusto per fare un nome; sono quelli con un alto punteggio LMS che, trombandosene più di una, gli sottraggono quella cocca che, prima del ’68, sarebbe sicuramente spettata a loro; analogamente, avviene nel mondo animale, dove più femmine si concedono solo ai maschi alfa. Notai però, nel nostro insegnante, una malcelata invidia nei confronti del sopracitato Riky Cassador che, comunque, si è prodigato per la conservazione della specie, seminando figli in giro, ovviamente, avuti con cocche diverse.

Ah no! A si ciò! Aeora, radiofonici, cossa ve par de ‘ste robe?” Paperoga si era organizzato appuntando tutto sullo smartphone; ci disse che, sull’argomento, si sarebbe potuto buttar su un programmone; avremo fatto un’audience degno dei migliori talk show. “ Tasi, tasi, che almanco ghe si voialtri dea radio”; el Gino scosse la testa e, cicca in bocca, inforcò la bici sparendo dall’orizzonte.

Tutto frastornato, tornai su, era ora di andare in onda; dalla finestra si potevano vedere molte cocche passare, nessuna però si sarebbe fermata da Nane, nemmeno se gli serviva di andare urgentemente in bagno. Non potevo fare a meno di pensare all’elucubrazione dell’esimio Ciano Menin; era stata senz’altro più interessante di “goals for job success”, comprese le originali e incisive, nel vero senso della parola, “slide”, lasciate sul muro de Nane; alla fine, si era parlato di un obiettivo che, tanti definiscono “il fine ultimo”. Arrivai alla conclusione che probabilmente il criterio di selezione LMS, esiste davvero con la sottile differenza che, siamo più noi uomini ad applicarlo; dividiamo l’universo femminile in cocche e non cocche, dove, queste ultime, vengono relegate ad appartenere a una casta inferiore. Quando poi, le cocche, non sono più cocche, non ci interessano più e le abbandoniamo in mezzo a una strada; ancora peggio, reagiamo violentemente, se si rifiutano di essere cocche di nostra esclusiva proprietà.

“ Tasi, tasi, che almanco ghe si voialtri dea radio”. Grazie Gino, noi della radio, di questa piccola radio; possiamo, di fronte alla mancanza di un qualcosa di grande e misterioso, vera forza e motore del mondo, solo “mettere su” qualcosa …

E per la barca che è volata in cielo
Che i bimbi ancora stavano a giocare
Che gli avrei regalato il mare intero
Pur di vedermeli arrivare

Per il poeta che non può cantare
Per l’operaio che ha perso il suo lavoro
Per chi ha vent’anni e se ne sta a morire
In un deserto come in un porcile

E per tutti i ragazzi e le ragazze
Che difendono un libro, un libro vero
Così belli a gridare nelle piazze
Perché stanno uccidendo il pensiero

Per il bastardo che sta sempre al sole
Per il vigliacco che nasconde il cuore
Per la nostra memoria gettata al vento
Da questi signori del dolore

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo

Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore

Perché le idee sono come farfalle
Che non puoi togliergli le ali
Perché le idee sono come le stelle
Che non le spengono i temporali
Perché le idee sono voci di madre
Che credevano di avere perso
E sono come il sorriso di dio
In questo sputo di universo

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà ben finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Continua a scrivere la vita
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Che è così vera in ogni uomo

Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore

Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo

Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Perché noi siamo amore

© 2011 Claudio Guidetti – Roberto Vecchioni

HOME

L’istà da Nane

Tratto dal volume SOLARADIO

© 2022 Michele Camillo

Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti o meglio, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate.

Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar di Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e no, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano, portato, a detta di alcuni esperti di geopolitica, sempre presenti da Nane, da quelli che arrivano con i barconi, assieme alle zanzare tigre. 

Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene. Comunque, c’è l’innegabile vantaggio che, se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada de bovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di copar tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ de schei per il trattamento. Segnalo poi, che quando Denis Sgorlon, Ivan Stevanato e Toni Favaretto uniscono le loro forze per produrre un corale rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile.

Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale, “c’è chi va ai monti, chi va al mare, e chi, va ben, ben in cueo de so mare”.

Purtroppo, anch’io, Paperoga e Paolo “Paolino” Dante, meglio conosciuti da Nane come “quei dea radio”, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana. Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia, siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas.

In passato, abbiamo messo in atto maldestri tentativi per non rimanere nella categoria. Ci abbiamo provato sin da bambini, facendoci spedire in colonia; puntualmente, ogni anno, tornavamo a casa, fiaccati nel corpo e nella mente, come se avessimo fatto vent’anni di naja. In seguito, ci rivolgemmo ai preti, con il risultato di trovarci per dieci giorni ammassati assieme a una ventina di coetanei maschi puzzolenti, dentro una baracca di legno, a duemila e passa metri a batar brocche con delle vesciche giganti ai piedi; nemmeno mio zio Mario, ha fatto una vita simile, quando era militare negli alpini. Nell’estate dell’ottantuno c’era la possibilità di iscriversi al campo scuola di Azione Cattolica, un’occasione ghiotta in quanto era misto, fioi e fie. Le nostre istanze vennero cassate, non fummo ritenuti sufficientemente motivati ovvero, motivati esclusivamente dalla fame di una certa cosa. Passarono invece la selezione, Stefano Trevisan e Riccardo Cazzador, due mandrilloni della prima ora che, però, erano tra i beniamini del prete. Così, da restai, ci siamo dovuti accontentare, sempre presso il bar da Nane, del dettagliato resoconto dei due pii fioi de cesa; a detta loro, era stata una bellissima esperienza, erano riusciti a trombarsi alcune pie fie de cesa di altre parrocchie. Io non ci avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi, pochi giorni dopo, nel campetto dietro il patronato, Riki Cassador darghe dentro de lengua a una tipa, presentatami poco prima dal don, come X della parrocchia Y.

L’istà da Nane, è trovarsi tutti assieme ad ascoltare i componimenti di Paolino Dante che, forse a causa del pesante cognome, è diventato il nostro sommo poeta.

“Istà, istà; ti pol ‘ndar in ferie sol posto più beo che ghe sia ma, se no’ ghe xè figa no’ ti vedi l’ora de vegnir via. E po’, se ti ga da ‘ndar in ferie par menarte l’oseo, basta che ti vaghi ‘pena fora del canceo”

Questo è uno dei suoi pezzi forti estivi; in realtà, più che una poesia mi sembra una specie di postulato da cui deriva un teorema. Continuo a chiedermi, chissà perché, non ha mai sfruttato l’occasione di divulgare le sue opere al mondo intero, recitandole in radio ma, preferisce esibirsi esclusivamente da Nane, di fronte a una ristretta cerchia di raffinati intellettuali.

L’istà da Nane, è tipicamente per soli uomini, non si tratta di una scelta discriminatoria ma bensì conseguenza della triste realtà per cui, a parte qualche rara eccezione, le donne non rientrano nella categoria dei restai. Già a inizio giugno, se hanno figli, vanno a riempire carobere impestae de sorsi, da mille euro a settimana di affitto a Jesolo e dintorni oppure un rosegoto de capana da tremila e passa euro a stagione al Lido; ci ficcano dentro figli, madre e suocera, queste ultime, in realtà, sono delle colf mascherate mentre, el beco, ovvero il marito, o compagno che sia, fa la spola nei fine settimana. Se invece non hanno figli e, speri che un giorno li facciano, possibilmente con te, le devi portare a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo. Che non ti venga in mente di proporre le tue mete preferite, dove ti puoi rilassare, tipo Cabaearin, Corteasso, Fiera o, peggio, rimanere a casa, dove hai tutte le tue comodità e il mutuo da finire di pagare; in questo caso, ti sputano su un occhio e gliela calano, senza obbligo di procreazione, a uno che le porta a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo.

L’istà da Nane, è sempre la stessa e, sempre lo stesso è il dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore. A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso; consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco, vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto; non c’è da stupirsi perché, al Lele, se gli passi una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa.

L’istà da Nane, è sempre la stessa storia. Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta, ripete, come un disco rotto che, “l’istà xe sempre stada foriera de gran disgrassie”, e giù a elencare puntigliosamente, guerre, siccità, incidenti stradali, governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono, prezzi che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono, zanzare che quando pungono, ti fanno morire e, quando non pungono è perché hanno spruzzato nell’aria un veleno cancerogeno.

Dopo essersi rumegà par ben ea pata, gli fa eco Berto Busato; “’scolta ‘more, qua e uniche vere disgrassie xè e partie perse e ea figa che manca”. Essendo il campionato ormai alle spalle, agli astanti non rimane che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune, posti sconti dove c’è sempre mancato un peo par cassarse

Speta che sentimo i recioni dea radio cossa che i ga da dir”; alla fine, c’è sempre qualcuno che, sull’argomento cerca di tirarne in lengua, e qui, il nostro poeta sentenzia; “se no’ ti ea ga vantada quando ti geri fio no’ ea torna più indrio

L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno sembra far sempre più caldo e sembrano esserci sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. Ormai è un continuo susseguirsi di telefonate e scambi verbali che, el manco sbocà, intercala con centinaia di ghesboro, usati al posto della punteggiatura. I parenti si eclissano, lasciando sol gropon del restàea vecia o el vecio o tutti e due; ogni giorno sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato; medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione, medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano.

restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai.

Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori. Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA classe 1978, assieme a lei e a una tanica de Utan, alla sera, andiamo alla ricerca di rimasugli dell’estate italiana. Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano, si sente solo il canto dei grilli; mi distendo su un pontile a godermi lo spettacolo della notte stellata; solo, davanti all’infinito, posso finalmente canticchiare, “Gloria manchi tu nell’aria …”

Non l’ho mai raccontato ai fioi de Nane e mai lo racconterò ma, anch’io, ho avuto un’occasione estiva persa; Gloria, esattamente come uno dei più famosi tormentoni estivi. Vorrei tanto che piovesse e facesse fresco come quel mese di luglio, sento ancora il tepore e il profumo di legno di quella baita che si affacciava sulle Tofane dove, la pioggia incessante aveva fatto incrociare le nostre vite per una manciata di ore; ore passate a raccontarci i nostri sogni e la nostra voglia di fuggire via, condividendo le cibarie che avevamo negli zaini; e poi, dopo la pioggia, un tratto di cammino assieme, che mi è sembrato durare una vita, fino a quando ognuno ha proseguito per la sua meta. Io, a dire il vero, non ne avevo una di precisa, non so ancora perché, con una scusa qualsiasi, non ho continuato a camminare con lei; che mona. Inutile dire che, probabilmente, Gloria di Bassano, non si ricorderà mai di me; io si, per sempre. Le avevo lasciato l’adesivo della radio, al tempo si usava così, era il nostro biglietto da visita. Anche se la nostra radio non “tirava” così distante, nutrivo la speranza che potesse chiamare; non l’ho più sentita. Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano de Nane, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Gloria di Tozzi.

A proposito, de istà, da Nane, li puoi ascoltare SolaRadio, unico bar sulla faccia della terra che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata. Aiuta a combattere, “ea vera disgrassia dell’istà”, la solitudine; parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo come un Nane.

Se d’istà a casa te toca star, serà in apartamento, inpissa ea radio cussì ti sarà un fià più contento. 

Paolo “Paolino” Dante

__________________________

Dedico questo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando mi divertivo ad ascoltare le sue “lettere a Luciano” su Radio Capodistria. Ciao Luciano, ciao balubino!


HOME