Fotocanzoni – Donna sola

© 2017 Michele Camillo Ph.

Succede spesso, incrocio lo sguardo e parte istintivamente lo scatto.

Ne escono donne che sono canzoni di Mimì

© 2017 Michele Camillo Ph.

© 2019 Michele Camillo Ph.
© 2021 Michele Camillo Ph.
© 2016 Michele Camillo Ph.

Io
Non son più io, mi sento da sola
Qualche cosa dentro me è cambiato, ma cos’è?
Oh-oh, oh, oh 
Oh, non dir di no e lasciami sola
Non dipende più da te

Potresti regalarmi il mondo intero, che me ne farei?
Io cerco solo il vento e una scogliera
Dentro gli occhi miei
E sopra il mare volerei
Per non tornare, credimi 
Sola

Non pensare adesso che
Qualcun altro sia con me 
Oh-oh, oh no
Ti ho detto da sola
Io con la mia anima

Sarà che questo mondo ha rovinato
Tutti i sogni miei
Se non avessi te che sei innocente
Giuro me ne andrei
Ed oltre il mondo volerei
Per non tornare, credimi 
Sola

Per sentirmi libera, finalmente libera
Oh, Sola
Io con la mia anima

Ma chi piangerà, lo so sarò io
Io che resterò sola 
Sola
Resterò (sola) sola
Sola, (sola)
Sola, sola, sola
Sola
Resterò sola, sola, ah
Sola, sola

© 1972 Luigi Albertelli, Dario Baldan Bembo, Bruno Lauzi

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

Poster

Tratto dalla raccolta DEDICHE & RICHIESTE

© 2023 Michele Camillo

Ci sono canzoni che, quando le ascolti, diventano persone, luoghi, pioggia, sole, caldo, freddo, gioia e tristezza.

Canzoni, come Poster di Claudio Baglioni, hanno il potere di trascinarti dentro la scena, sei tu quel personaggio che se ne sta “seduto con le mani in mano sopra una panchina fredda …”; la melodia, ispirata dalla bellissima Valsinha di Vinicius De Moraes e Francisco Buarque De Hollanda, riesce a farti percepire la sensazione di freddo umido; e tu, malinconico spettatore della grigia routine invernale alla quale non riesci a ribellarti, ripensi alla tua vita e, a quell’eterno sogno di fuggire via.

Una delle più belle canzoni … da fotografare

© 2019 Michele Camillo Ph.

Seduto con le mani in mano
Sopra una panchina fredda del metrò
Sei lì che aspetti quello delle 7:30
Chiuso dentro il tuo paletot
Un tizio legge attento le istruzioni
Sul distributore del caffè
E un bambino che si tuffa dentro a un bignè

E l’orologio contro il muro
Segna l’una e dieci da due anni in qua
Il nome di questa stazione
È mezzo cancellato dall’umidità
Un poster che qualcuno ha già scarabocchiato
Dice “vieni in Tunisia”
C’è un mare di velluto ed una palma
E tu che sogni di fuggire via

E andare lontano lontano
Andare lontano lontano

E da una radiolina accesa
Arrivano le note di un’orchestra jazz
Un vecchio con gli occhiali spessi un dito
Cerca la risoluzione a un quiz
Due donne stan parlando
Con le braccia piene di sacchetti dell’Upim
Ed un giornale è aperto
Sulla pagina dei films

E sui binari quanta vita che è passata
E quanta che ne passerà
E due ragazzi stretti stretti
Che si fan promesse per l’eternità
Un uomo si lamenta ad alta voce
Del governo e della polizia
E tu che intanto sogni ancora
Sogni sempre sogni di fuggire via

E andare lontano lontano
Andare lontano lontano

Sei lì che aspetti quello delle 7:30
Chiuso dentro il tuo paletot
Seduto sopra una panchina fredda del metrò

© 1975 – Claudio Baglioni / Antonio Coggio

Dediche & Richieste – Winter Melody

Tratto dalla raccolta DEDICHE & RICHIESTE

© 2023 Michele Camillo

Winter Melody interpretata da Donna Summer uscì in Italia il 9 gennaio 1977, prima traccia dell’album Four season of love.

Donna Summer oltre a essere la regina della disco music, per la sua sensualità, aveva la reputazione di una che faceva canzoni “da letto”; per cui, in radio, questa e altre sue canzoni, venivano trasmesse prevalentemente in orario notturno e, questa in particolare, data la “stagionalità” del titolo, durante le fredde serate invernali.

In realtà, a dispetto delle precedenti love to love you baby e could it be magic, questa canzone non ha nessun contenuto erotico ma bensì, racconta del vuoto e della conseguente solitudine causata da un amore finito, la felicità di colpo stroncata, dall’abbandono della persona amata, quasi venisse congelata da una brezza invernale; insomma, tristezza e malinconia pura. Come per la maggior parte delle canzoni straniere, credo quasi nessuno abbia fatto caso al significato delle parole ma, piuttosto all’emozione che la melodia evoca. Qualsiasi siano le situazioni o le fantasie che vengono in mente, è una classica comfort song, come dicono gli inglesi; ovvero una canzone che funge da coperta calda, profuma di the speziato e ti fa viaggiare fino al tuo ideale posto sicuro. Da ascoltare rintanato al calduccio quando c’è tanto freddo fuori e … dentro di te.

Emptiness and just a memory
Love is gone with nothing left for me
All those wasted feeling for something i no longer have
I never knew that love could hurt so bad

Winter melody, winter melody, winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

I can’t bear to see the sun go down
Casting stormy shadows all around
Nothing seems to matter, i just get by from day to day
I never thought that you would leave this way

Winter melody, winter melody, winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

Winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

Loneliness, that’s all that’s left for me
Happiness is chilled by winter’s breeze
I keep on remembering the day that you came along
And since you left, well i just sing the song

Winter melody, winter melody, winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

Compositori: Donna A. Summer / Donna Summer / Giorgio Moroder / Pete Bellotte

The Christmas Blues

Questi giorni maledetti che sanno di malinconia e panettone

E’ davvero possibile dire a qualcun altro come ci si sente
Lev Tolstoj

Galleria

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© 2021 – 2022 Michele Camillo Ph.

The jingle bells are jingling
The streets are white with snow
The happy crowds are mingling
But there’s no one that I know

I’m sure that you’ll forgive me
If I don’t enthuse
I guess I’ve got the Christmas blues

I’ve done my window shopping
There’s not a store I’ve missed
But what’s the use of stopping
When there’s no one on your list

You’ll know the way I’m feeling
When you love and you lose
I guess I’ve got the Christmas blues

When somebody wants you
Somebody needs you
Christmas is a joy of joys
But friends when you’re lonely
You’ll find that it’s only
A thing for little girls and little boys

May all your days be merry
Your seasons full of cheer
But ‘til it’s January
I’ll just go and disappear

Old Santa may have brought you
Some stars for your shoes
But Santa only brought me the blues
Those brightly packaged tinsel covered
Christmas blues

Old Santa may have brought you
Some stars for your shoes
But Santa only brought me the blues
Those brightly packaged tinsel covered
Christmas blues

Bob Dylan

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

Le Fotocanzoni

Nulla apre gli occhi della memoria come una canzone.

Stephen King

© 2022 – Michele Camillo Ph.

© Michele Camillo Ph 2016 – 2024

Fotocanzoni – E’ nato si dice

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

Allora è arrivato Natale, Natale la festa di tutti
Si scorda chi è stato cattivo, si baciano i belli ed i brutti
Si mandan gli auguri agli amici, scopriamo che c’è il panettone
Bottiglie di vino moscato e c’è il premio di produzione

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

C’è l’angolo per il presepio e l’albero per i bambini
I magi, la stella cometa e tanti altri cosi divini
I preti tirati a parata, la legge racconta che è onesta
Le fabbriche vanno più piano, insomma è un giorno di festa

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

È festa persino in galera e dentro alle case di cura
Soltanto che dopo la festa, la vita ritornerà dura
Ma oggi baciamo il nemico, o quelli che passano accanto
O l’asino dentro la greppia, Natale il giorno più santo.

Pierangelo Bertoli – 1976

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

L’istà da Nane

Tratto dal volume SOLARADIO

© 2022 Michele Camillo

Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti o meglio, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate.

Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar di Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e no, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano, portato, a detta di alcuni esperti di geopolitica, sempre presenti da Nane, da quelli che arrivano con i barconi, assieme alle zanzare tigre. 

Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene. Comunque, c’è l’innegabile vantaggio che, se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada de bovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di copar tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ de schei per il trattamento. Segnalo poi, che quando Denis Sgorlon, Ivan Stevanato e Toni Favaretto uniscono le loro forze per produrre un corale rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile.

Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale, “c’è chi va ai monti, chi va al mare, e chi, va ben, ben in cueo de so mare”.

Purtroppo, anch’io, Paperoga e Paolo “Paolino” Dante, meglio conosciuti da Nane come “quei dea radio”, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana. Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia, siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas.

In passato, abbiamo messo in atto maldestri tentativi per non rimanere nella categoria. Ci abbiamo provato sin da bambini, facendoci spedire in colonia; puntualmente, ogni anno, tornavamo a casa, fiaccati nel corpo e nella mente, come se avessimo fatto vent’anni di naja. In seguito, ci rivolgemmo ai preti, con il risultato di trovarci per dieci giorni ammassati assieme a una ventina di coetanei maschi puzzolenti, dentro una baracca di legno, a duemila e passa metri a batar brocche con delle vesciche giganti ai piedi; nemmeno mio zio Mario, ha fatto una vita simile, quando era militare negli alpini. Nell’estate dell’ottantuno c’era la possibilità di iscriversi al campo scuola di Azione Cattolica, un’occasione ghiotta in quanto era misto, fioi e fie. Le nostre istanze vennero cassate, non fummo ritenuti sufficientemente motivati ovvero, motivati esclusivamente dalla fame di una certa cosa. Passarono invece la selezione, Stefano Trevisan e Riccardo Cazzador, due mandrilloni della prima ora che, però, erano tra i beniamini del prete. Così, da restai, ci siamo dovuti accontentare, sempre presso il bar da Nane, del dettagliato resoconto dei due pii fioi de cesa; a detta loro, era stata una bellissima esperienza, erano riusciti a trombarsi alcune pie fie de cesa di altre parrocchie. Io non ci avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi, pochi giorni dopo, nel campetto dietro il patronato, Riki Cassador darghe dentro de lengua a una tipa, presentatami poco prima dal don, come X della parrocchia Y.

L’istà da Nane, è trovarsi tutti assieme ad ascoltare i componimenti di Paolino Dante che, forse a causa del pesante cognome, è diventato il nostro sommo poeta.

“Istà, istà; ti pol ‘ndar in ferie sol posto più beo che ghe sia ma, se no’ ghe xè figa no’ ti vedi l’ora de vegnir via. E po’, se ti ga da ‘ndar in ferie par menarte l’oseo, basta che ti vaghi ‘pena fora del canceo”

Questo è uno dei suoi pezzi forti estivi; in realtà, più che una poesia mi sembra una specie di postulato da cui deriva un teorema. Continuo a chiedermi, chissà perché, non ha mai sfruttato l’occasione di divulgare le sue opere al mondo intero, recitandole in radio ma, preferisce esibirsi esclusivamente da Nane, di fronte a una ristretta cerchia di raffinati intellettuali.

L’istà da Nane, è tipicamente per soli uomini, non si tratta di una scelta discriminatoria ma bensì conseguenza della triste realtà per cui, a parte qualche rara eccezione, le donne non rientrano nella categoria dei restai. Già a inizio giugno, se hanno figli, vanno a riempire carobere impestae de sorsi, da mille euro a settimana di affitto a Jesolo e dintorni oppure un rosegoto de capana da tremila e passa euro a stagione al Lido; ci ficcano dentro figli, madre e suocera, queste ultime, in realtà, sono delle colf mascherate mentre, el beco, ovvero il marito, o compagno che sia, fa la spola nei fine settimana. Se invece non hanno figli e, speri che un giorno li facciano, possibilmente con te, le devi portare a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo. Che non ti venga in mente di proporre le tue mete preferite, dove ti puoi rilassare, tipo Cabaearin, Corteasso, Fiera o, peggio, rimanere a casa, dove hai tutte le tue comodità e il mutuo da finire di pagare; in questo caso, ti sputano su un occhio e gliela calano, senza obbligo di procreazione, a uno che le porta a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo.

L’istà da Nane, è sempre la stessa e, sempre lo stesso è il dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore. A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso; consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco, vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto; non c’è da stupirsi perché, al Lele, se gli passi una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa.

L’istà da Nane, è sempre la stessa storia. Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta, ripete, come un disco rotto che, “l’istà xe sempre stada foriera de gran disgrassie”, e giù a elencare puntigliosamente, guerre, siccità, incidenti stradali, governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono, prezzi che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono, zanzare che quando pungono, ti fanno morire e, quando non pungono è perché hanno spruzzato nell’aria un veleno cancerogeno.

Dopo essersi rumegà par ben ea pata, gli fa eco Berto Busato; “’scolta ‘more, qua e uniche vere disgrassie xè e partie perse e ea figa che manca”. Essendo il campionato ormai alle spalle, agli astanti non rimane che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune, posti sconti dove c’è sempre mancato un peo par cassarse

Speta che sentimo i recioni dea radio cossa che i ga da dir”; alla fine, c’è sempre qualcuno che, sull’argomento cerca di tirarne in lengua, e qui, il nostro poeta sentenzia; “se no’ ti ea ga vantada quando ti geri fio no’ ea torna più indrio

L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno sembra far sempre più caldo e sembrano esserci sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. Ormai è un continuo susseguirsi di telefonate e scambi verbali che, el manco sbocà, intercala con centinaia di ghesboro, usati al posto della punteggiatura. I parenti si eclissano, lasciando sol gropon del restàea vecia o el vecio o tutti e due; ogni giorno sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato; medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione, medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano.

restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai.

Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori. Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA classe 1978, assieme a lei e a una tanica de Utan, alla sera, andiamo alla ricerca di rimasugli dell’estate italiana. Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano, si sente solo il canto dei grilli; mi distendo su un pontile a godermi lo spettacolo della notte stellata; solo, davanti all’infinito, posso finalmente canticchiare, “Gloria manchi tu nell’aria …”

Non l’ho mai raccontato ai fioi de Nane e mai lo racconterò ma, anch’io, ho avuto un’occasione estiva persa; Gloria, esattamente come uno dei più famosi tormentoni estivi. Vorrei tanto che piovesse e facesse fresco come quel mese di luglio, sento ancora il tepore e il profumo di legno di quella baita che si affacciava sulle Tofane dove, la pioggia incessante aveva fatto incrociare le nostre vite per una manciata di ore; ore passate a raccontarci i nostri sogni e la nostra voglia di fuggire via, condividendo le cibarie che avevamo negli zaini; e poi, dopo la pioggia, un tratto di cammino assieme, che mi è sembrato durare una vita, fino a quando ognuno ha proseguito per la sua meta. Io, a dire il vero, non ne avevo una di precisa, non so ancora perché, con una scusa qualsiasi, non ho continuato a camminare con lei; che mona. Inutile dire che, probabilmente, Gloria di Bassano, non si ricorderà mai di me; io si, per sempre. Le avevo lasciato l’adesivo della radio, al tempo si usava così, era il nostro biglietto da visita. Anche se la nostra radio non “tirava” così distante, nutrivo la speranza che potesse chiamare; non l’ho più sentita. Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano de Nane, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Gloria di Tozzi.

A proposito, de istà, da Nane, li puoi ascoltare SolaRadio, unico bar sulla faccia della terra che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata. Aiuta a combattere, “ea vera disgrassia dell’istà”, la solitudine; parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo come un Nane.

Se d’istà a casa te toca star, serà in apartamento, inpissa ea radio cussì ti sarà un fià più contento. 

Paolo “Paolino” Dante

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Dedico questo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando mi divertivo ad ascoltare le sue “lettere a Luciano” su Radio Capodistria. Ciao Luciano, ciao balubino!


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Sguardi sconosciuti

Portraits of women – I

© 2016 – 2025 Photograph by Michele Camillo

Se fotografi uno sconosciuto, nell’istante stesso in cui fai scattare l’otturatore, quella persona smette di esserti estranea, perché la porterai sempre con te.
Giuseppe Tornatore

Lo sguardo spoglia
lo sguardo ricama dolcezza
lo sguardo parla
ammalia, penetra 
urla silenziosamente.
Lo sguardo 
nemico del pudore
nemico della verità
tutto può
tutto colora
tutto nasconde.
Lo sguardo allontana
lo sguardo sogna
desidera, sfiora sorrisi
sfiora i sensi
osa e ragiona.
Lo sguardo
onesto e sincero
brutale e disonesto
tutto può
tutto colora.
Lo sguardo ingenuo
realista e sognatore
si poggia sempre
su fiori profumati
dolce oasi per cuori ammaliati
dolce miele per gli amanti
giovani innamorati
lotta contro gli inganni
si estranea dalla vita
reclama falsi applausi
si nutre di sorrisi
dirige ombre con inchini
notte e giorno
sono il suo contorno.

Giacomo Scimonelli

Quale autore al mondo potrà insegnarvi la bellezza come uno sguardo di donna?
William Shakespeare

Si può capire facilmente che al mondo ci sia sempre qualcuno che aspetta qualcun altro, sia che ci si trovi in un deserto o in una metropoli. E quando arriva il momenti di incontrarsi e gli sguardi si incontrano, passato e futuro non hanno più alcuna importanza. 
Paulo Coelho
Ti faccio spazio dentro di me,
in questo incrocio di sguardi
che riassume milioni di attimi e di parole.

Pablo Neruda
Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere.
Henry David Thoreau

Una fotografia non è né catturata né presa con la forza. Essa si offre. È la foto che ti cattura.
Henri Cartier-Bresson

I colori, i suoni, gli sguardi raccontano il nostro tragitto. Un colore mi può incantare,
uno sguardo mi può far innamorare, un sorriso mi fa sperare.
Monica Vitti
Quando si fotografano persone a colori, si fotografano i loro vestiti. Ma quando si fotografano persone in bianco e nero, si fotografano le loro anime!
Ted Grant

© Michele Camillo Ph 2016 – 2025

Ultime pubblicazioni

Last flight, last day

Sono rimasto sveglio fino a notte fonda, incollato al computer a guardarmi tutte le puntate del video di un tale che insegna a pilotare un B737; osservando Harry, mi viene il vago sospetto che abbia imparato il mestiere in questo modo. C’è, in effetti, una bella differenza, nel percorso che ci ha portato a sederci, fianco a fianco, nel cockpit di questo A320. La più significativa e che lui, o chi per lui, ha dovuto sborsare circa 120.000 Euro mentre io, non ho speso nemmeno una di quelle che erano le vecchie lire; anzi, sin dall’inizio, sono stato pagato. Poca roba, la paghetta, da najone che, l’Aeronautica mi elargiva nei primi periodi di Accademia, riuscivo a malapena a farmi venir fuori quattro pizze al mese, due per me e due da offrire, tanto per fare el sgandesson,  alle indigene del posto che, ci facevano compagnia nelle rare libere uscite. Ad Harry, la pizza gliela pago sempre io; ‘sto ciccionetto occhialuto, ne va ghiotto; andrà a finire che non riuscirà più a entrare in cabina e del suo EASA Class1 Medical, ne faranno pezzettini.

Quando l’ho visto per la prima volta, non ho creduto ai miei occhi, Harry Bernard Charles, il suo nome sforava lo spazio disponibile sul badge, quello che però mi fece cadere letteralmente le palle, era la data di nascita, 14/08/1996. Probabilmente si era appiccicato l’aquila sul taschino e la striscia sulla manica, direttamente sulla divisa che usava al college. Quello che, alla fine è diventato, el me fio de anema, come diciamo noi in volgo, sembrava essere uscito da un film di Harry Potter. Avevo sentito parlare del nuovo programma di addestramento della compagnia per formare giovani piloti ab initio o cadet pilot come li chiamano loro ma, che un giorno, mi sarei trovato di fronte un ragazzino con la pretesa di farmi da primo ufficiale, non l’avrei lontanamente immaginato.

Crew Resource Management, tradotto in parole povere significa, “te lo trovo io quello giusto per pilotare insieme a te”; avessero adottato ‘sto sistema in Aeronautica, non mi sarei trovato un imbecille, seduto sul seggiolino posteriore, a causa del quale, ci mancò poco che dovessimo eiettarci in pieno territorio bosniaco, con quelli di sotto pronti a farne ea succa; vagli a spiegare che dovevamo solo fare delle foto. Io e el bocia inglese, invece, ci intendemmo subito. Non posso negare che quel rosso dal faccione tondo mi fece tenerezza; vidi subito in lui quel genere di figlio che avevo sempre desiderato.

Il discreto “piccolo lord” che, ancora si rivolge a me, dandomi del “Sir”, è sempre stato incuriosito da mio trascorso aviatorio. Sbarrava gli occhi quando gli raccontavo del fortissimo “calcio in culo” che, L’F104, il mitico spillone, ti dava in fase di decollo. Non ho mancato, la meticolosa descrizione, di quella volta a Istrana quando, in atterraggio, ho rischiato di finire lungo e trovarmi in Postumia e, centrare in pieno con il tubo di Pitot, quella Panda azzurrina, della quale riuscii a distinguere perfettamente il vecchio con il cappello che la guidava. Anche se vedo il ragazzo divertito nell’ascoltarmi, la cosa mi rattrista, pensandoci bene, è come se a me un vecchio pilota della II^ guerra mondiale mi raccontasse delle sue avventure con lo SPITFIRE.

Un saggio, di cui non ricordo il nome, dice; “un uomo non è vecchio finché i rimpianti non sostituiscono i sogni”; la frase sembra si adatti alla perfezione a questa giornata. Oggi è il mio “Last flight”, ultimo volo e ultimo giorno di lavoro. “Non pensarci Gian, non puoi lasciar vagare la mente, devi stare concentrato fino al termine del volo“; una parola, mantener fede a questo proposito, ci sono riuscito in migliaia di ore di volo sia da militare che da civile, ma oggi no. Se ne deve essere accorto anche el bocia, la sua espressione è tra il preoccupato e l’imbarazzato; gli do una rassicurante gomitata sulla guancia che però, ha l’effetto di fargli quasi inghiottire il microfono.

Coraggio, la tratta Gatwick – Venezia potrei farla anche con un vecchio biplano Tiger Moth, a forza di guardar fuori dal finestrino, conosco a memoria tutti i punti di riferimento visivi; dopo il decollo dalla Runway 26L , virata a ridosso di Clarks Green, paralleli all’A24; la Leith Hill Tower alla mia destra mi ricorda i mitici pini marittimi dell’A4 che segnavano l’approssimarsi del casello di Padova Est. Posso chiudere gli occhi e, in base ai rumori attorno all’aereo, so esattamente quello che stanno facendo; ora chiudono il portellone bagagli C1, dentro ci sono due mie valigie.

Con ‘sta mascherina sulla bocca, le comunicazioni radio sono problematiche; non ho ricordo di avere avuto la stessa difficoltà ai bei tempi in Aeronautica, quando volavo tutto bardato, con addosso il casco e relativa maschera d’ossigeno.

Ready for pushback”, ci siamo, mi spingono fuori per l’ultima volta, guardo la faccia del Ramp Agent, sembra che goda a farlo, quasi sapesse che non tornerò più; grazie alla mascherina, gli faccio uno sberleffo, tanto non vede. Anche nel 2001 mi hanno spinto fuori, dopo i 18 anni di ferma obbligatoria, sembrava quasi un reality televisivo, “tenente colonello Morotto, per lei l’Aeronautica finisce qui”. In realtà, i colleghi piloti di caccia, me l’hanno sempre detto; siamo come i calciatori di serie A, passati i trentacinque, non vali più niente; si tengono quei pochi rotti in culo raccomandati e li mettono a comandare, gli altri, in ufficio a smazzare carte, oppure, saluti e baci e via.

Gli ultimi mesi erano tutto un susseguirsi di proposte più o meno indecenti, a cominciare da certi misteriosi personaggi che cominciarono a contattarmi per telefono o, al circolo ufficiali. Si rivolgevano a me, molto spesso, avanzandomi di grado e quindi dandomi del colonello, come quelli che ti danno del dottore a prescindere, giusto per ruffianarsi. Non appena ti stringevano la mano, avevi la sensazione di essere davanti a un viscido serpente, mi parevano tutti dei Sir Biss usciti dal film “la spada nella roccia”. Rifiutai cortesemente tutte quelle, a dir poco, strane proposte e, come la maggior parte dei miei colleghi fuoriusciti, transitai nell’aviazione civile. Le compagnie aeree nascevano come funghi e senza difficoltà ne trovai una che mi promise mari, monti nonché soldi, come se piovesse. Il grassone, non mi ricordo che carica avesse; anche lui, dandomi, in successione i titoli di colonello, dottore e comandante, mi disse che dovevo formare gli equipaggi con la stessa severità dei militari. Mi ricordo invece il suo sigaro acceso nonostante il divieto e che rideva facendo ballare la pancia;  di li a poco, comunque, per i noti fatti accaduti, avrebbe smesso di ridere, ma non di fumare.

Il 19 novembre 2001 me lo ricordo bene, il clima a Tolosa era alquanto deprimente, speravo che in aula entrasse qualcun altro; niente da fare ero l’unico mandolon, come diciamo noi, il più vecchio in assoluto nonché, l’unico europeo. Incontrai per la prima volta le nuove generazioni di piloti civili; ragazzi che, da una mia prima impressione, finora avevano visto gli aerei solo sulle figurine. Cinque di loro, in particolare, avevano delle facce poco raccomandabili, in compenso, parlavano francese in modo impeccabile; erano tre libici e due della Costa d’Avorio. Non arrivarono ad entrare nemmeno nel simulatore, vennero rispediti al mittente assieme ad un altro manipolo di presunti piloti; motivazione, imparare almeno i rudimenti del volo; “e che cavolo!”, dissi tra me e me, giustizia è fatta. Rimanemmo io, quattro cinesi, due indiani, tre russi e un canadese, proprio come nelle barzellette.

Eh già, il simulatore, altra bella botta, imparare a pilotare un aereo senza nemmeno staccare le ruote da terra. D’altronde, due mesi prima, un gruppetto di disgraziati, aveva mostrato a tutto il modo che ciò era possibile ma, quel che è peggio, avevano violentato il magico mondo dell’aviazione. Irrimediabilmente dissolto l’alone di romanticismo che avvolgeva noi aviatori, al quale, anch’io, fin da bambino credevo. Da quel giorno, grazie a loro, ce ne stiamo chiusi a chiave, barricati dentro la cabina di pilotaggio come degli appestati. Non possiamo più tenere aperta quella porticina, dalla quale, ogni tanto, si affacciava incantato, un bambino per chiedere come si fa a diventare pilota.

Monsieur, non sia triste, è solo un corso di pilotaggio”. Antoine sapeva essere anche un po’ psicologo, la persona giusta che mi ci voleva in quel momento. Si esprimeva perfettamente in italiano, a tradirlo solo la classica erre moscia; a sentirmi chiamare monsieur mi pareva di essere un nobile e non gretto ex militare come qualcuno mi stava già definendo. Alto e magro come uno stuzzicadenti, aveva in testa la classica chierica di chi ha portato il casco per migliaia di ore di volo; il suo nome evocava Antoine de Saint-Exupéry ed era, come lui, un aviatore con la A maiuscola. Quando mi disse che era un ex pilota di Mirage; scattò in me la molla e gli chiesi, “ma allora tu eri un Chevaliers du ciel”. Mi riferivo alla mitica serie televisiva degli anni ’70, quella che contribuì ad alimentare in me la passione per il volo; ogni sabato, all’ora di pranzo, me ne stavo incollato davanti alla TV a sognare di pilotare un Mirage. “Je ne conduis pas, je vole” (io non guido, io piloto), replicò con la famosa frase del tenente Tanguy; Antoine, amicone mio!

Tolosa, grazie alla sua sapiente guida, acquistò di colpo splendore; ricordo le piacevoli passeggiate lungo le rive della Garonne e le soste nei locali di Rue des Filatiers. Alla fine, fu pure una passeggiata ottenere l’abilitazione all’Airbus A320. Antoine, quell’ultima sera che soggiornai a Tolosa mi invitò a casa sua, una bellissima villetta, fatalità, in rue Leonard de Vinci a Fonsegrives, un piccolo quartiere residenziale, nei pressi del minuscolo aeroporto di Lasbordes, sede del locale aeroclub, altra fatalità. Il suo grande studio, era pieno zeppo di modellini e moltissimi altri cimeli aeronautici; tornai di colpo bambino. C’era praticamente tutto quello che avevo pilotato; SF-260, MB-339, T-38, Tornado e il mitico F-104 che, affettuosamente, presi subito in mano. Antoine quasi non ci credeva che fossi stato uno degli ultimi fortunati a portarlo in volo, prima che venisse dismesso dall’Aeronautica, solo un vecchio pilota di Mirage, poteva capire, mentre passavo tra le dita la fusoliera del mitico “spillone”, tutta la mia tristezza. Mi stava prendendo un gran magone, una parte della mia vita, la mia giovinezza se ne era andata; niente più looping, tonneau, virate strette al massimo dei G, legato al seggiolino Martin Baker; ora sarei dovuto stare, comodamente seduto, ben vestito, davanti a una miriade di schermi LED e, portare a spasso per il cielo poco più di un centinaio di chiassosi gitanti; “c’est la vie, mon commandant”, il vecchio aviatore mi abbracciò forte.

Eh si, c’est la vie; troppe promesse, tante illusioni; me l’avevano detto che sarebbe stato così nel mondo dei “civili”. Sul Web, abbandonato come un messaggio in bottiglia in mezzo al mare, è rimasto ancora il mio curriculum, fermo a quel momento della mia vita nel quale, illusioni e promesse erano all’apice. La crisi, la continua ricerca di un posto di lavoro; non avrei mai pensato investisse anche me, un pilota non certo di primo pelo; costretto a emigrare addirittura nei paesi arabi, per portare a casa la pagnotta. Poi, per fortuna, arrivò un posto nel “vicino” regno di sua maestà che, alla fine, mi ha permesso, in questi ultimi anni, di tornare a volare sul cielo di Venezia; atterrare e decollare da quell’aeroporto dove, da ragazzi, passavamo intere giornate ad ammirare gli aerei.

Tra i miei “non avrei mai pensato; non avrei mai immaginato”, al vertice della classifica, almeno finora,  è che un infinitesimamente piccolo virus, mettesse di colpo a terra quasi tutti gli aerei del mondo; costringendomi a rimanere per tutti quei mesi a casa, a fissare, stracolmo d’ansia, il cielo vuoto. Proprio io che ero stato addestrato a sopravvivere in tempo di guerra, mi son sentito di colpo perduto e fragile; la più grande paura, non era quella di ammalarmi ma, non sapere se avrei continuato a volare. Più il tempo passava, più il rischio di perdere le abilitazioni e la licenza di volo si faceva concreto; centinaia di telefonate e mail, non si muoveva nulla, non volava nulla.

Nei giorni del lockdown, contravvenendo alle regole, feci qualche kilometro in più in bici; il gioco valeva senz’altro la candela. Avevo più di una pendenza, diciamo, affettiva, nei confronti di un vecchio amico, in pratica, mi ero comportato da stronzo. “Fra quarant’anni esatti …”, mi ricordavo benissimo di quella promessa e dell’appuntamento. Ci sarei dovuto andare, se non altro, per rendere il giusto onore a Fabietto, visto che, non ero riuscito a sapere in tempo del suo ultimo volo. Quel giorno però, mi trovavo nel sud della Spagna coinvolto in un’appassionante fuga d’amore clandestina; questione di priorità.

Peso de quando gerimo fioi nei anni ’70, ne ‘rivarà soeo do o tre al giorno”; seduti sulla mitica panchina in riva al canale che porta alla darsena dell’aeroporto, io e Tiziano, scrutavamo sconsolati l’orizzonte. L’unica cosa positiva era che il tratto di laguna antistante la testata pista, si era ripopolato i uccelli migratori delle più svariate specie;

“Me vien da butarme dentro l’Osein”

“Va in cueo comandante; prima o poi, no so quando, ti riscomissierà a voar”

“Appunto, no so quando”

Camina mona, so sicuro che ti ritorni a pilotar, scometo ‘na cassa de bira

Ripresi, ma poco dopo venni convocato dall’austroungarico brizzolato, soprannominato dal nutrito gruppo di piloti italiani de Roma, “er merda”, nel senso che uno più stronzo di lui è difficile trovarlo. Pur sapendo benissimo chi ero, avrò contribuito a formare non so quanti piloti, non mi salutava e non mi cagava manco di striscio. Mi rivolse la parola solo per dirmi, “alla sua età comandante è giusto che si goda il meritato riposo”; gli risposi che quel, “alla sua età”, mi sembrava fosse arrivato troppo presto; senza salutarlo, girai i tacchi.

Cleared for takeoff”, la mezzeria della pista comincia a scorrere sempre più rapidamente; in tutti questi anni, specie in Aeronautica, ho imparato a pensare rapidamente e, a più cose contemporaneamente; un mio istruttore diceva, “non lasciate mai che l’aereo vi porti in un posto in cui il vostro cervello non sia arrivato almeno cinque minuti prima”. Mi concentro sul decollo, rispondo in sequenza ai check di Harry e, contemporaneamente, ripenso alle mie prime volte che affrontai da solo quella striscia di cemento.

Non so se quel figlio di buona donna di capitano istruttore del 70° di Latina, di cui ho stranamente dimenticato il nome; faceva lo stronzo solo con me o con tutti gli allievi, fatto sta che, quel giorno, dopo avermi per l’ennesima volta riempito di merda, per tutta la durata della missione di addestramento, mi rispinse a forza dentro l’abitacolo; “burba, togliti dai coglioni e vatti a fare un giro da solo”.

Pieno di rabbia, chiusi la cappottina, riaccesi il motore e puntai il muso del 260, diritto verso la pista. Volevo urlare per sfogarmi ma, avevo paura che mi sentissero per radio, per cui, strinsi con forza la cloche e diedi manetta, forse troppo violentemente, fatto sta, che decollai in quasi metà spazio. Una volta in volo, avrei voluto passargli rasente sulla sua testa pelata, ben visibile anche a 300 metri dal suolo. Solo quando, come da tradizione, mi buttarono dentro la piscina, realizzai che quello era stato il mio primo volo da solista; avevo conquistato l’agognato brevetto di pilota d’aeroplano; però, stranamente, questo non mi rese felice come mi sarei aspettato. Era successa la stessa cosa con Caterina; anni a sognare, con fiducia cieca e immutabile, quel giorno in cui avrei trovato il primo amore. Poi; quando finalmente arrivò il tanto atteso momento, ovvero la sera in cui ci mettemmo assieme; nessuna emozione, solo una eterna notte insonne, come dopo il mio primo volo da solista con il 260. Ore passate a rivoltarmi nel letto a chiedermi; “beh, tutto qua?”, non era come lo immaginavo; mistero, non riuscivo a capire, il perché non sprizzassi di felicità.

Diverso fu quell’agosto del 1988. Ci saranno stati cinquanta gradi nel piazzale della Sheppard Air Base eppure, un brivido di freddo mi percorse il corpo dalla testa ai piedi mentre Jeremy, il fido specialista, mi stava assicurando al sedile del mitico T-38 Talon. Erano passati appena sei mesi da quando, in Accademia, mi dissero che “avrei fatto l’americano”, ovvero che ero stato selezionato, assieme ad alcuni paricorso, per addestrarmi presso l’Euro-NATO Joint Jet Pilot Training di Sheppard, nel Texas. Stentavo a crederci; eppure, dopo pochi giorni, mi ritrovai seduto su un Jumbo che mi portava in America; ricordo pure di essermi messo a ridere mentre pensavo, che quella, era la prima volta che “prendevo” l’aereo, pur sapendone pilotare uno.

Tenente, ora è tutto suo. D’ora in poi, faccia di tutto affinché il numero dei suoi atterraggi sia uguale al numero dei suoi decolli; buona fortuna”; Jeremy mi diede il cinque con la sua manona poi, gentilmente accompagnò la discesa del tettuccio. Continuavo a non crederci; io, ai comandi di quel bellissimo aereo che sognavo di pilotare, da quando, assieme a Fabietto, ne costruimmo il modellino, trasformando un vecchio kit Airfix del monoposto F5 Tiger, da cui derivava. Solo nell’abitacolo; percepivo chiaramente il mio respiro attraverso la maschera dell’ossigeno, feci il cenno convenuto a Jeremy che era tutto a posto, sbloccai il freno e mi avviai verso la pista; non era come a Latina, quella era la vera, emozionante, prima volta.

Un calcio in culo; questo è quello che senti quando decolli con quel tipo di aerei; in poco più di un minuto ti trovi a 35.000 piedi; di colpo ti cambia la prospettiva del mondo, non lo vedi più piatto. Prima di partire per la Sheppard, avevo fatto la stessa cosa con la mia vita sentimentale; troncando con Caterina. Un bel calcio in culo, a quel rapporto piatto, reso soffocante dalla sua indole possessiva; in fin dei conti, pensavo, non avevamo nemmeno la nostra canzone; brutto segno per me, che ho sempre avuto una canzone, per tutti i momenti importanti della mia vita.

Quando scesi dalla scaletta del T-38, invece “noi ragazzi di oggi”, risuonava dentro di me; me l’ero sparata a manetta con il walkman per caricarmi prima del briefing.

Noi, ragazzi di oggi, noi
Con tutto il mondo davanti a noi
Viviamo nel sogno di poi
Noi, siamo diversi ma tutti uguali
Abbiam bisogno di un paio d’ali
E stimoli eccezionali…
Avevo finalmente il mio paio d’ali, tornai in Italia fiero della mia aquila turrita appuntata sulla divisa; mentre all’orizzonte, un’altra donna per trovare… stimoli eccezionali.

“Cleared for landing”, eccoci in finale. El ciccio o, el bocia, a seconda di come mi va di chiamarlo che, tranne ovviamente gli omissis, conosce ormai tutto della mia vita; aspetta sempre quella frazione di secondo nella quale giro il capo a destra in cerca del “bosco” e della “vietta”, per lanciarmi la classica occhiata da presa per il culo. E’ colpa mia, gli ho fatto una testa grande come una mongolfiera a son di parlargli di questi due posti cari alla mia giovinezza. Sono pressoché convinto che questi due luoghi, a me ameni, siano ormai sulla bocca di tutti gli abitanti di Dalston; quel minuscolo e umido villaggio del North West dove, el ciccio risiede quando, non viene a scaldarsi le ossa qui a Venezia. Ho le prove che, non sapendo cosa fare tutto il giorno, in quello sparuto gruppetto di casette in meso ai glebani, come si dice dalle mie parti; passava il tempo a sputtanarmi nei pub; perché, quell’unica volta che è riuscito a trascinarmi a casa sua, gli indigeni del posto mi guardavano in modo strano, mettendosi a ridere di nascosto.

Please contact ground at 121.7” siamo a terra, ormai è finita. Riesco a percepire quel coro di clack clack provocato dal liberatorio slacciarsi di cinture; pensare che devo ancora imboccare il raccordo per la taxiway. Li capisco, molti di loro staranno tirando un sospiro di sollievo, pronti a fuggire da quel cilindro metallico, costretti a stare seduti per ore, con la loro vita in mano a due tizi in cabina di pilotaggio; sperando inoltre che, nessuno dei due, si metta a far el mona. Io invece oggi, non mi muoverei più da questo sedile, settembre 1983, luglio 2019, trentasei anni con le ali addosso; è dura alzarsi da quel posto per l’ultima volta; io e el fio de anema evitiamo di incrociaci con lo sguardo, c’è il serio rischio che ci scappi la lacrima. Metto i documenti nel borsone, ho le mani sudate, non mi era mai capitato; esco frettolosamente dal cockpit senza voltarmi indietro. Scopro che a sorpresa le fie però hanno fatto l’annuncio ai passeggeri e, non appena metto la testa fuori, scoppia un applauso scrosciante. Fortunatamente, a causa della situazione non ci si può abbracciare; avrei pianto come un bambino. Un groppo in gola mi fa a malapena balbettare qualche parola in uno stentato inglese, quasi fossi regredito ai tempi delle scuole medie. Mi fanno tenerezza, povere ragazze, anche per loro i tempi sono cambiati; costrette, tra un volo e l’altro a pulire i sedili e sistemare le toilette per poi, frettolosamente, posarsi sulle ginocchia una vaschetta con il bollino, “meal deal 30% off”, che contraddistingue un insalata prossima alla scadenza.

Negli uffici operativi, al contrario, non c’è nessuna manifestazione di affetto; una ragazzina mai vista finora, probabilmente una neo assunta, senza nemmeno presentarsi, mi chiede il badge, nell’altra mano ha una busta pronta per la spedizione. Mi chiede inoltre che accordi ho riguardo la restituzione della divisa; ribatto che, se mi lascia le scarpe, posso uscire in mutande e canottiera, tanto fuori fa maledettamente caldo; arrossisce di colpo, mi sembra chiaro che sto scherzando.

Come un normale passeggero, mi avvio al nastro riconsegna bagagli, per la prima volta, mi prende l’ansia che non arrivino.  Mamma che bolgia; ci sono centinaia di colli allungati e occhi puntati sulle porte scorrevoli che aspettano l’uscita di qualcuno; almeno oggi mi piacerebbe che ci fosse una sorta di comitato d’accoglienza per festeggiarmi invece, sono solo e frastornato da ‘sto gran vociare; che casino. Appena fuori, una folata di caldo umido, un nodo alla gola e, la saliva che non va ne su ne giù; per un attimo resto immobile, inebetito, non so che direzione prendere, mi ci vuole un buon quarto d’ora per ricordarmi dove avevo parcheggiato l’auto.

Dentro è peggio di un forno, così aspetto prima di salirci; istintivamente volgo lo sguardo verso l’aerostazione, giusto nel momento in cui il mio aereo sbuca dal tetto  e punta nuovamente verso il cielo; osservo la manica della mia giacca distesa, come morta, sul sedile posteriore, quattro strisce e una stella, quanti sacrifici, e ora? “Intanto, torniamo a casa”, dissi tra me e me.

La casa; per i marinai, e anche per noi aviatori, rappresenta un qualcosa con cui abbiamo un rapporto particolare o, quantomeno diverso dalla gente di terra; così, mi trovai a ripassare mentalmente, l’ordine cronologico delle case dove sono vissuto e tutta quella serie di ex ad esse collegate; ex bambino, ex studente, ex moglie, ex famiglia e, via discorrendo; alla fine, mi è rimasta unicamente la ex casa dei nonni, quella del mitico “bosco”. Per accaparrarmela c’è voluto un notevole sforzo economico; sborsai un prezzo molto superiore al suo reale valore ma, era la condizione necessaria per liquidare mio padre e i relativi fratelli, mettendo la parola fine a anni di furibondi litigi sulla spartizione dei beni del vecchio nonno Rino.

La brusca sterzata a destra, per immettermi sulla stradina, lasciando la trafficata circonvallazione, è simile alla manovra di uscita dalla pista di Istrana. Questo però, non è il raccordo che mi porta all’hangar del 122° Gruppo ma, due polverose strisce di terra battuta frammezzate da una di erba bella alta. Non ho mai capito perché questo posto veniva chiamato “il bosco”, che mi ricordi, a parte il forte militare, non è che ci siano mai state grandi zone alberate, solo la tipica piattissima e infinita campagna veneta.

Non mi sarei mai aspettato di vederlo li, in mezzo all’orto, sotto quella cappa di piombo infernale, la cosa mi rese felice perché, Tiziano era proprio la persona che volevo incontrare;

“Direttor ..”

“Direttor de ‘sto casso. Comandante i miei ossequi ..”

“Ex comandante prego ..”

“Ma no! Spiega”

“Da ancuo in tera, finia!”

“Orpo! Pena ricomissià, cossa ti ga combinà?”

“’Sta situassion de merda”

“Mah, no xè che i ga vossuo trovar ‘na scusa par cassarte fora”

“Podaria essar”

“E ‘desso cossa ti fa?”

“No eo so ..”

“Intanto bevemoghe ‘na birretta sora”

Il mio amico era attrezzatissimo, dentro la vecchia baracca, teneva una borsetta frigo ben fornita; tanto da offrirmi la scelta del tipo di birra. La camicia della divisa, mi si era ormai appiccicata addosso ma, non appena feci cenno di andarmene verso casa per cambiarmi, mi strattonò per il braccio; “go ‘na idea”, disse tutto eccitato. In una manciata di secondi mi trovai a posare davanti le piante di pomodoro, con addosso la mitica giacca quattro strisce e una stella, ben in vista e, una vanga in mano. Titolo dell’inquadratura: “dal cielo alla terra; il ritorno”; stavo per mandarlo a cagare ma, la cosa iniziò a divertirmi tanto che gli sottoposi la mia idea. Improvvisammo uno spogliarello in mezzo ai campi per scambiarci gli abiti e farci delle foto.

Cenai abbastanza presto con le verdure che Tiziano mi aveva lasciato; avrei voluto invitarlo a farci una pizza assieme, mi avrebbe fatto un enorme piacere nonché risollevato il morale che giaceva sotto i tacchi ma lui, era già silenziosamente sparito in sella alla sua bicicletta. D’altronde, ultimamente, è sempre stato così, arrivava e spariva in punta di piedi e poi, non credo avrebbe mai accettato l’invito.

Per descriverlo, bastava il soprannome che gli aveva affibbiato mio nonno; “El tegoina rosso”. E’ sempre stato magro da far paura, pesavano più i suoi ricci capelli rossi che tutto il resto, le lentiggini gli davano solo in apparenza un aria furbetta, in realtà, era alquanto introverso. Non credo di aver mai conosciuto una persona più diffidente di lui; ricordo che, quando eravamo bambini, prima di rivolgermi la parola, andò avanti per parecchio tempo a osservarmi di nascosto attraverso le maglie della recinzione che divideva le nostre due case.

La passione per gli aerei, a me e Fabietto, c’è l’ha appiccicata lui; l’unico, ironia del destino, a non essere diventato pilota. Il destino, inoltre, volle che, oltre a essere vicini di casa, lo fossero pure le nostre “dependance” di campagna; ed è qui, che d’estate, in mezzo all’orto di suo papà, abbiamo letteralmente coltivato la nostra passione aviatoria. Ci portavamo da casa i modellini di aerei costruiti nei mesi invernali; le strisce di terra battuta tra le gombìne erano le nostre piste mentre, la baracca dove sior Gino, suo papà, teneva gli attrezzi, il nostro hangar. La mia flotta, credo anche per le mie possibilità economiche, era molto più numerosa e strategicamente più evoluta della sua; potevo contare sui più possenti e avanzati jet da combattimento mentre, quel povero sfigato di Tiziano, si ritrovava, per la maggior parte, con dei vecchi rosegoti a elica della II^ guerra mondiale.

A sior Gino, “l’omo de ‘egno”, come lo chiamava mio nonno, a causa della sua durezza d’animo, non andava affatto che ci divertissimo a giocare in mezzo al suo preziosissimo orto; mi fece capire chiaramente che, Tiziano, non era li per trastullarsi tutto il giorno come me, ma, per dare una mano all’economia familiare, per altro, ci tenne a sottolineare, ben più misera rispetto a quella della mia famiglia.

Un giorno per aver utilizzato inavvertitamente, come territorio di sorvolo ed esercitazione la gombìna con i bisi appena seminati si infuriò come una belva; prese a botte prima Tiziano e poi me. Oggi la cosa sarebbe finita sui giornali; a quel tempo, invece, sancì semplicemente la fine dei rapporti tra le nostre famiglie. Io e Tiziano, perdemmo il nostro fantastico aeroporto e, da quel giorno, continuammo a vederci quasi clandestinamente.

Il bello dell’estate è che dopo cena, puoi fare ancora un sacco di cose. Inforcai la vecchia Bianchi del nonno per farmi un giro giro rinfrescante, prima attorno al forte poi, in direzione del bosco Ottolenghi, per finire a godermi il tramonto, sulla panchina in riva al laghetto del bosco di Franca.

Sedermi su questa panchina è un rito che compio spesso, a fianco c’è un cartello che spiega la storia di Franca; fatta sparire a diciotto anni, durante la dittatura militare in Argentina. Il modo con cui la uccisero, ovvero gettandola in mare da un aereo, i cosiddetti “voli della morte”; lascia, in un pilota come me, una rabbia e una incredulità profonda. Come era possibile che, un mio collega, si fosse prestato come esecutore di una simile atrocità? Ho sempre volato per passione, anche quand’ero pilota militare. Ero perfettamente conscio del fatto che pilotavo sostanzialmente un arma che, avrebbe potuto uccidere altre persone. Quando sono seduto su questa panchina, mi chiedo che differenza c’è tra dare l’ordine di scaraventare giù in mare una decina di persone incatenate e premere un bottone per sganciare una bomba. A me, fortunatamente, esercitazioni a parte, di premere il bottone non è mai capitato, ad altri, si.

Si è fatto scuro e il canto dei grilli si è sostituito a quello delle cicale, l’aguasso dei campi coltivati, rinfresca l’aria. Mentre percorro i trosi di campagna in sella a questa vecchia bici, torno quel bambino che sognava di volare e, si chiedeva continuamente se sarebbe riuscito a farlo. Non so cosa farò da domani ma, so sicuramente quello che non voglio fare, ovvero, starmene con i piedi per terra e vivere di ricordi; è ancora troppo presto.

Penso a Tiziano, il suo sogno stroncato da una famiglia che, sin da piccolo, l’ha oppresso succhiandogli il sangue; non abbiamo mai parlato delle nostre famiglie ma, ho l’impressione che le cose ora, non vadano tanto diversamente. E’ malinconico, si vede che vive soprattutto di sogni; quel “beato ti” che spesso gli sento dire, fa capire che incarno la persona che avrebbe voluto essere; rispecchio, come, in realtà, avrebbe voluto vivere. Scommetto che, in alcuni particolari momenti, gli avrebbe fatto comodo star seduto su un seggiolino eiettabile, tirare la cordicella gialla e nera, e via, sparire.

Siamo in tre seduti sulla mitica panchina in riva al canale che porta alla darsena dell’aeroporto; io, el fio de anema e Tiziano più, un frighetto con le birre; scrutiamo l’orizzonte, ora, per fortuna, sbucano spesso aerei.

Cossa diria Fabietto ‘desso?”

Che mi so stà mona a no diventar pilota, e che ti ti saressi cojon a no partir

Lascio una copia di chiavi del “bosco” a entrambi; spero che Tiziano, oltre a occuparsi della casa e relativi terreni, dia al bocia delle buone verdure, al posto delle usuali schifezze che ingurgita e che, continui, come me, a insegnargli la nostra lingua natia; finora riesce a pronunciare decentemente solo ghesboro e mimorti. Ho fatto un bel discorsetto a Harry; gli ho detto di portare il massimo rispetto allo zio Tiziano perché, anche se non è diventato pilota, è comunque uno di noi; un aviatore nell’anima.

A Veléz la pista è piccola ma, come recitava la pubblicità di un piccolo jet, “una strada di un kilometro non porta da nessuna parte, una pista di un kilometro in tutto il mondo”. Vedrò la polvere rossastra mossa dalle eliche; godrò dei tantissimi giorni di sole, ottimi per volare, per insegnare, ai miei futuri fioi de anema, a volare rasenti la superficie del mare.

Solo l’idea di una nuova emozione, nessuna spinta, nemmeno quella dell’F104 in decollo, è più impetuosa di un pensiero che cresce di tono e che travolge ogni cosa che pensi. Sento che torneranno i giorni di Los Genoveses; sentirò nuovamente il suo profumo, la sola forma di fedeltà che si concede; porta aperta sul meraviglioso, un frammento d’anima.

La birra gelata scende, alla tua salute Fabietto … è ora di andare

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“Il legame che unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del rispetto e della gioia per le reciproche vite. Di rado gli appartenenti ad una famiglia crescono sotto lo stesso tetto. Qualunque cosa tu faccia non pensare mai a cosa diranno gli altri, segui solo te stesso, perché solo tu nel tuo piccolo sai cosa è bene e cosa è male, ognuno ha un proprio punto di vista, non dimenticarlo mai, impara a distinguerti, a uscire dalla massa, non permettere mai a nessuno di catalogarti come “clone di qualcun’altro”, sei speciale perché sei unico, non dimenticarlo mai. Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola.

Richard Bach

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2021 Michele Camillo

La pandemia del 1981 – parte V

Tratto dal volume La pandemia del 1981

© 2021 Michele Camillo


E rimane la paura …

La pandemia del 1981, ha cambiato il destino alla quasi totalità delle persone. Io, ad esempio, non ho mai visto il politecnico di Milano e, ovviamente, non so, se ha una scalinata tipo quella del Pacinotti. Non ho mai costruito aerei veri, mi sono limitato a quelli di plastica; non ho nemmeno finito quello in balsa che mi ha regalato Gigi, quando è stato assunto fisso in fabbrica a Porto Marghera; la scatola deve essere da qualche parte, ancora intonsa.

Ho costruito però tante radio; in molte parti del mondo; felice, di averne piazzate alcune nei posti più socialmente disagiati del nostro pianeta dove, possedere una radiolina ed alzare l’antenna per, ascoltare una voce consolatrice o semplicemente della buona musica, non è una cosa scontata.

Nella soffitta non ci ho mai abitato; era destinata a rimanere tutta per me, invece, alla fine, sono stati sfrattati anche i modellini di aerei. Ne è rimasto solo uno, un biplano Tiger Moth giallo scala 1/48, regalo di Francesca per i miei 18 anni; elemento di spicco della mia collezione di cimeli, assieme allo stereo Marantz color champagne e luci blu. Tre anni fa, sior Attilio, giaceva in un letto d’ospedale, più de là che de qua; riuscii a stento a capire le sue parole, “passa in magazen, ghe xè ‘na roba par ti”; vi trovai il Marantz con un post-it appiccicato, “per Bebo”. El moro, fortunatamente, è ancora qui tra noi ma, quel magnifico stereo, me lo sono tenuto; dopo più di quarant’anni, suona ancora che è una meraviglia; alla sua salute ovviamente. 

Ormai, questo ufficio che, in origine, doveva essere la mia camera da letto, è diventato praticamente una specie di museo; quarant’anni di radio e altre cose.

Ufficialmente, tutto è cominciato il primo aprile del 1981 ma, per me, l’avventura ebbe inizio quando, dieci giorni prima, la Fiat 131 Panorama del moro imboccò el troso dei Nosea stracarica di apparecchiature che servivano a “fare una radio”.

I giorni successivi, mentre Ivano e relativo babbo, si dedicavano a una serie infinita di prove tecniche di trasmissione; io, riaprii la mitica agendina del sindacato, questa volta mi feci coraggio e alzai la cornetta; ne uscì lo staff di Epiradio.

Per evitare i contagi, una sola persona per volta, poteva salire in soffitta a trasmettere; tutte le altre attività, comprese le riunioni di “redazione” le facevamo all’aperto, sotto el vecio morer, detto anche “l’albero delle idee”, da quante ne partorimmo alla sua ombra.

Le Compact Cassette furono i piccioni viaggiatori di quel periodo; su quei nastri arrivarono in radio le lezioni degli insegnanti, le messe con annesse le prediche fiume di don Fernando, nonché, svariati consigli di medici o, presunti tali. Tutto quel viavai di cassette ispirò “C60”, la trasmissione che divenne il cavallo di battaglia di Epiradio. Ogni ascoltatore poteva inviare qualcosa da mandare in onda; aveva a disposizione un’ora, ovvero la durata dei nastri C60. Fu un successo; si alternarono comici più o meno divertenti, barzellettieri, più o meno “puliti”, cantanti più o meno intonati ma, quello che prese maggiormente piede, fu la lettura recitata di libri. 

Visto il successo della cosa; anch’io, per non essere da meno, mi cimentai nel leggere racconti in radio, i miei; il programma si intitolava “tee conti che e par vere”. Era la frase che pronunciava la maestra quando mi riconsegnava il temino del lunedì; che, spesso consisteva nello stendere il resoconto del fine settimana. Ea siora Visentin, sapeva benissimo che, in casa mia, non succedeva mai niente di particolare; inoltre, come tutte le famiglie di contadini, bisognava tenere il culo attaccato ai campi, per cui, non si andava mai da nessuna parte; il che, mi costringeva, per buttar giù le due righe del lunedì, a darci dentro di brutto con la fantasia. E’ da quei tempi che riempio quaderni interi di storie dove, spesso, non c’è né un tempo né un luogo preciso ma, la trasposizione in una vita fantastica; quella che, in sostanza, mi sarebbe piaciuto vivere; storie che spesso celano, i miei pensieri e sentimenti più reconditi. D’altronde, come dice Italo Calvino, “Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga scoperto”.

Così, più volte la settimana, a tarda sera, un mio piccolo racconto, allietava le notti insonni e stracolme d’ansia, di molti nostri ascoltatori, compreso chi era finito in ospedale. Condivo il tutto con tanta musica; senza parlarci sopra, perché, ho scoperto che fare radio è anche saper ascoltare. Avevo due pezzi fissi che usavo come sigle; “A mano a mano” di Cocciante e “Sailing” di Christopher Cross, delle autentiche poesie.

I racconti e le canzoni che mandavo in onda, innescarono parecchie storie d’amore; divenni sostanzialmente una sorta di Cupido radiofonico, con tanto di ringraziamenti dai “bersagliati”. “El scarper va via coe scarpe rote”, mai detto popolare fu più azzeccato; per me, invece, la miccia, non si accese. Nonostante, da dietro un microfono, detenessi una posizione privilegiata che, in teoria, mi avrebbe consentito di buttar sardoni a gogò; non successe niente o, per dirla in maniera assai volgare; no ea me xè mai cascada. Francesca continuava a stare con el Deny; e a me, per straviarme, non restava altro che sognare la misteriosa biondina dea ceseta; quella tipa, a dire il vero, ancora oggi, non me la sono tolta dalla testa.

A dispetto di quello che pensava el moro; i “baracchini” iniziarono a diffondersi nelle case. In pochissimo tempo, nel quartiere erano diventati quasi tutti dei provetti radioamatori, vecchi e bambini compresi. Di sera, si formavano numerosi QSO, gruppi di persone che si mettevano a chiacchierare via radio per tenersi compagnia; delle vere e proprie chat ante litteram. Non so se fu grazie alla mia idea, fatto sta che la cosa dilagò in tutta Italia.

El moro esaurì ben presto le scorte, impossibile ordinare gli apparati, anche le case produttrici li avevano finiti; per cui, iniziammo a costruirli noi di Epiradio; ricordo ore e ore passate a saldare circuiti, anche di notte. Specie tra noi fioi, ci si divertiva a “truccarli”, per aumentarne la potenza, proprio come si faceva con i motorini; c’era poi la gara per chi aveva quello che gli “tirava” di più, nel senso di raggio d’azione ovviamente.

Le frequenze radio iniziarono a intasarsi e, più di qualcuno, iniziò a tirar sacramenti in quanto, a causa delle interferenze provocate, non si riusciva a guardare la TV. Visto il contesto emergenziale, la Polizia Postale chiudeva tutti gli occhi che aveva, compresi quelli che avrebbero dovuto posarsi sul trasmettitore di Epiradio; a tale proposito, una leggenda narra che, i piloti di un aereo in atterraggio, in attesa di ricevere l’autorizzazione dalla torre, furono allietati dal nostro programma di dediche e richieste.

Dove non riuscivano ad arrivare le onde radio, ci pensavano le nostre biciclette; ricordo di copertoni consumati a son di portare generi di prima necessità e conforto, a chi, non poteva uscire di casa, a causa della quarantena o altre rogne. Otto, stufo di assistere alle numerose cadute del carico e relativo ciclista sopra il medesimo; durante una notte insonne, progettò un piccolo rimorchio da agganciare al tubo della sella. La produzione di quei geniali carrellini iniziò dopo pochi giorni, giusto il tempo per dare modo a Gigi di procurargli, in maniera non proprio legale, i pezzi. Oggi Otto sarebbe finito sui giornali per aver dato vita a una startup innovativa nel settore della mobilità sostenibile mentre Gigi, in galera; inchiodato dai più bravi penalisti al soldo delle fabbriche di Porto Marghera. Ormai sono passati quarant’anni e l’eventuale reato è caduto in prescrizione e poi, le fabbriche, che potrebbero reclamare il maltolto, sono chiuse da decenni.

Marconista ‘na volta, marconista par sempre”. Così analogamente è stato per me “fare radio”, è una di quelle cose che, una volta che inizi a farle, sono per sempre.

Non sono diventato un costruttore di macchine volanti ma, posso comunque asserire di aver fatto volare, almeno con la fantasia, tanta gente; a differenza della televisione, ascoltando la radio sei costretto a immaginare. La fantasia ti fa volare sopra i problemi e i giorni tristi; ti può portare in un attimo in un sacco di posti, basta chiudere gli occhi e, anche una canzonetta senza pretese, può renderti, almeno per un attimo, felice.

Attorno al “ranch” dei Nosea, si è sviluppata la mia azienda; facciamo radio, insegniamo a fare radio e, altre cose per comunicare.

Non ho avuto il coraggio di far demolire il traliccio sopra la soffitta. El Moro aveva chiesto un antenna bella alta e solida e Otto lo accontentò; lo progettò e, insieme a Gigi, lo costruì in tempo record. Per farlo, i due svaligiarono il locale ferovecio e fusero la saldatrice. 

In quel traliccio e nei campi retrostanti ea casa vecia, aleggia lo spirito di mio papà. Non vado mai al cimitero come facevano le mie zie; le persone che non ci sono più, preferisco ricordarle nei luoghi dove sono vissute. Con Otto, non ci siamo mai parlati tanto; mi piaceva però osservarlo mentre, malinconico, vagava tra i campi, per poi, soffermarsi immobile a guardare l’orizzonte, con quell’aria da eterno insoddisfatto; sembrava chiedere alla vita perché non gli avesse dato qualcosa in più.  Quel qualcosa in più, non ho mai capito, in realtà, cosa fosse; non credo aspirasse a un maggiore benessere economico; magari desiderava che il  mondo apprezzasse le sue doti di inventore, o, chissà, semplicemente sognava un grande amore; diverso da quello imposto “d’ufficio”, dalle usanze del tempo. D’altronde, è sempre stato criptico; i suoi ultimi giorni, chiamava ripetutamente una misteriosa Anna; poi, si abbracciava forte da solo, “dai vecio coragio che semo soeo mi e ti”.

Mamma è ancora viva, anche se abita in un mondo tutto suo; un po’ me lo aspettavo, in famiglia è sempre stata l’eterna assente. “Metime su quea cansoneta”, crede ancora che stia dietro un microfono pronto ad accettare dediche e richieste; ovviamente non si ricorda il titolo, per cui, me la canta. “Sta qua ancora un fià, che ‘desso te fasso pan buro e succaro”; è sempre difficile il momento in cui la devo salutare; lasciarle quella mano che stringe forte la mia. 

No sta mai farte meraveja de ‘staltri”; ogni tanto, continua a lanciarmi uno dei suoi classici moniti; tradotto, non pensare mai, “io non farò mai la fine di Tizio o Caio, non sarò mai come loro”; per poi, finire col dire; “no me saria mai immaginà”. Non sempre le cose vanno come te le eri immaginate; però, a una certa cosa, ci tenevo più di tutto. 

Alla fine è successo quello che più temevo; sono praticamente rimasto un mul; avrò costruito tante radio ma, nessuna vera famiglia. Ho cercato di dare la colpa al maledetto 1981 ma, in realtà, nemmeno io ho dato retta al consiglio dello zio Mario. Mi sono fatto frettolosamente incatenare dalle pressioni sociali e dalle mie paure, anziché lasciarmi guidare dal cuore.

Eh si, la paura, è il bubbone che la peste del 1981, ha inesorabilmente lasciato in molte persone. C’è gente che ancora oggi fa fatica ad uscire di casa, vede virus presenti ovunque e continua ad andar in giro coverta. Con la paura; psicoterapeuti più o meno regolari, fabbricanti di medicine o spacciate per tali, governi, sette religiose e, la stessa chiesa; ci sono andati a nozze; per loro, come si dice in dialetto, è ‘na bea teta da monsar.

Da quell’ultimo giorno di carnevale, la paura mi è entrata dentro e non se ne è più andata; ogni strano segnale del corpo, ogni linea di febbre in più, non mi fanno dormire. Si aggiunge poi, la paura di venir condannato alla dannazione eterna, per la colpa di essere uno di quei rotti in culo che è sopravvissuto, a scapito di altri che, non si sono potuti procurare le cure necessarie. 

Tutto questo, ogni tanto, mi fa correre in ceseta. Col passare del tempo ci sono sempre meno certezze e sempre più interrogativi; il silenzio continua a dominare la scena; il rumore del vento fuori, sembra sempre quello di sottofondo di una radio che, non riceve nessun segnale; forse, semplicemente, pur avendo costruito tante radio, non so più ascoltare.

Se non ci fosse la paura però; Francesca, la mia migliore amica, non correrebbe a cercarmi per abbracciarmi.

Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. 

Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. 

Ma su un punto non c’è dubbio. 

Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.

HARUKI MURAKAMI, Kafka sulla spiaggia

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