Il mio amico albero

© 2018 Michele Camillo

Albero amico mio
Albero, amico,
tanto simile a me,
così greve di musica
sotto le dita del vento
che ti sfogliano
come una fiaba,
albero
che, come me,
conosci la voce del silenzio
che dondoli
nel profondo le tue ciocche verdi
il fremito delle tue mani vive,
albero amico,
amico mio
perduto come me
perduto nel cielo
perduto nel fango
verniciato di luce danzante
dalla pioggia,
albero,
eco della pena del vento
della gioia degli uccelli,
albero spogliato dall’inverno,
ti guardo per la prima volta…

Minou Drouet

 
 
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Non credo che vedrò mai 
una poesia bella come un albero.
 
Un albero la cui bocca bramosa sia attaccata
al dolce seno fluente di madre Terra. 
 
Un albero rivolto a Dio per tutto il giorno, 
che innalza al cielo le sue frondose braccia
in segno di preghiera.
Un albero che in estate può indossare
un nido di pettirossi tra i capelli.
 
Sopra il cui cuore la neve si stende leggera,
che vive intimamente con le piogge.
Le poesie sono scritte dagli sciocchi come me,
ma solo Dio può creare un albero. 
 
(Joyce Kilmer)
 
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Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli,
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

Giovanni Pascoli

 
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Tu non sai:
ci sono betulle che di notte
levano le loro radici,
e tu non crederesti mai
che di notte gli alberi
camminano o diventano sogni.
Pensa che in un albero c’è un
violino d’amore.
Pensa che un albero canta e ride.
Pensa che un albero sta
in un crepaccio e poi diventa vita.
Te l’ho già detto: i poeti non si redimono,
vanno lasciati volare tra gli alberi
come usignoli pronti a morire.
 
     (Alda Merini)
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Gli alberi rifletton spesso…
Chissà che penseranno mai?
Il capo scuotono perplesso
su tutti i nostri e loro guai.
 
A volte parlano col vento,
il quale sempre gli risponde;
fra loro il fiume scorre lento:
vi si rifletton dalle sponde.
 
Riflette loro l’ acqua bassa
il capo pensieroso e verde,
finché qualcuno in acqua passa
ed il riflesso si disperde,
 
la riflessione si confonde,
le chiare immagini van perse…
Le chiome lor cogitabonde
le piante scuoton sulla Merse.
 
(Marco Bucciarelli)
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Un albero secco
fuori della mia finestra
solitaria
leva nel cielo freddo
i suoi rami bruni.
Il vento rabbioso la neve il gelo
non possono ferirlo.
Ogni giorno quell’albero
mi dà pensieri di gioia:
da quei rami secchi
indovino il verde a venire.
 
(Wang Ya-Ping)
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… in ricordo
 
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A cavallo del Pony

“Che roba! Aveva il carrello fuori e sarà andato al massimo a 50 km/h”; “’’desso ea nasse”, pensai, sfregandomi le mani di nascosto, cominciai a contare.

“Che aereo era?”, Fabietto interruppe bruscamente la conversazione tra le due operatrici; “quello delle Frecce Tricolori”; rispose seccata per l’intrusione; “immaginavo; aggiungi pure 100 e forse non basta, la velocità di stallo del 339 e di circa 84 Nodi, ovvero 155 Km/h, è un padre di famiglia, in certe condizioni, però, mi ha permesso di scendere anche a meno, ma non di tanto”. Memorabile quel giorno, godei come un matto, nel vedere la faccia inebetita della biondina, una new entry del posto.

Diedi alla tipa, una veloce spiegazione sui termini tecnici ma, soprattutto mi premurai di chiarire che, l’utente Fabio Mestriner, era un ex capitano pilota dell’Aeronautica. Mi fermai qui, inutile infierire e, raccontare che, c’era mancato un soffio che varcasse i cancelli della base di Rivolto e lo si vedesse sfrecciare in aria su “Pony 9”; “O mio Dio!”, esclamò la biondina con la mano davanti la bocca.

Non era la prima volta che mi capitava, ovvero che qualcuno si rendesse conto che “loro”, prima erano come “noi” e che, la sottile linea che separa “loro” da “noi”, ammesso che esista, è alquanto labile. Oltrepassare quella linea poi, diventare “loro”, è questione di un attimo, non te accorgi subito, forse non te accorgi mai. Comunque Fabietto, sarebbe sicuramente tornà in qua, come aveva sempre fatto, anche stavolta avrebbe trovato la sua via d’uscita.

Fabietto, in realtà non era basso di statura, lo chiamavano così perché era il più piccolo di tre fratelli ben più grandi di lui. Fin che eravamo bambini, la nostra passione aviatoria veniva ben tollerata dai rispettivi genitori, il massimo del loro sacrificio consisteva nell’esborso di qualche carta da mille per l’acquisto di libri, riviste, modellini e altre troiate del genere. Terminate le medie, si resero conto che non si trattava di un semplice sogno infantile e, iniziarono, quasi contemporaneamente, a prendere le loro contromisure. Cominciarono con l’ignorare i nostri progetti, soprattutto riguardo le scelte scolastiche, passarono poi a infondere sensi di colpa facendo leva sull’età avanzata e la salute precaria. Troppo difficile intavolare seriamente un discorso; eravamo semplicemente insemenii e incocaii, dei deficienti con i quali era inutile parlare; sul nostro futuro decidevano loro, per cui, preferivano la tecnica del non detto, convinti che, alla fine, ci saremo tolti certe idee dalla testa. Specie nei nostri padri, era insita una atavica rassegnazione, fin dal medioevo era sancito che se eri figlio di operai, non potevi far altro che l’operaio; se, eventualmente ti fosse andata bene al massimo l’impiegato; quello era il destino che ci attendeva. Un giorno, spazientito dai miei discorsi, el Bepi, mio padre, mi urlò sulle orecchie; “el pilota, come i cantanti, i attori e … anca i preti, xe mestieri par puttanieri!”, chiuso l’argomento. Ad un certo punto avevamo la netta sensazione che, entrambi i nostri vecchi, ci avessero voluto al mondo esclusivamente per restare in casa a fargli da badanti.

Visto come si mettevano le cose, Fabietto giocò d’astuzia, senza dir niente a nessuno, si iscrisse al concorso per Allievo Ufficiale Pilota di Complemento dell’Aeronautica Militare. Quando lo convocarono per la selezione, disse ai suoi che doveva partecipare a un non ben precisato concorso pubblico “zo in bass’Italia”, senza entrare nei dettagli; i vecchi erano tranquilli, concorso pubblico equivaleva a posto fisso ovvero, schei sicuri in scarsea. L’atomica scoppiò nel luglio del 1984, a casa Mestriner arrivò un telegramma che, a prima vista, sembrava la tanto temuta chiamata alla naja per Fabio. Sior Piero, vecchio, con solo la quinta elementare ma, non mona, quando, in barba alla privacy, aprì la busta, e lesse che il figlio doveva presentarsi il 3 settembre presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, mangiò non la foglia ma, l’intero albero, el figher che, a detta della Marisa Manera, quella che in vietta, xe fa i cassi de ‘staltri da ea matina aea sera, perse le foglie a causa delle sue urla.

In tempi in cui non esistevano i social network, il protocollo da seguire in vietta affinché tutti savesse, era sempre lo stesso, finestre aperte e fiato alle corde vocali, “Erce! Dodese anni, cossa femo mi e to’ mare” , 12 anni, in effetti, un po’ lunga come naja. “Ti ga sentio”, era la frase che confermava l’avvenuta ricezione dell’annuncio pubblico; mio padre, mi fulminò con gli occhi, “ti ga fatto anca ti ea stessa roba?”, neanche avessimo ammazzato qualcuno insieme. Lo tranquillizzai, con me non correva pericoli, io ero giovane, avevo appena preso il diploma, ma ero mona.

Da quel giorno, i rapporti con la famiglia, per usare un termine aeronautico, precipitarono in picchiata; ebbe contro pure i fratelli, convinti che fosse una mossa tattica per sfuggire ai doveri verso gli anziani genitori e lasciare sul loro groppone, l’onere di occuparsi dei vecchi. In quel periodo, stava facendo la stagione a Jesolo, non tornò più a casa nei giorni di riposo e, il 2 settembre, zaino in spalla, fece tutta una tirata Jesolo – Pozzuoli, o quasi. Considerato il serio rischio che, in un momento di rabbia, qualcuno dei suoi, buttasse tutto nelle scoasse, con un blitz, degno delle più grandi operazioni segrete della storia, trasferimmo, nella mia cameretta, tutto il suo prezioso materiale “aeronautico” finora accumulato; comprese alcune storiche scatole di montaggio di aerei AIRFIX che, non dovevano essere aperte per nessuna ragione; si era ripromesso che, un giorno, da vecchio pilota pensionato, li avrebbe costruiti.

Purtroppo, non c’era ancora WhatsApp che, ci avrebbe permesso di tenerci aggiornati a vicenda su quante volte si va a pisciare, per cui, dovetti, pazientemente aspettare le sue missive; spesso mi allegava una foto, mi inorgogliva sapere che scriveva solo a me e a nessun altro.

23 settembre 1984

“Sono qui, seduto piedi a penzoloni, sul muretto di una terrazza panoramica a capo Miseno. Causa punizioni e altre menate militaresche , questa è la prima domenica di libera uscita. All’orizzonte, dall’altro capo del golfo, vedo la sagoma della tanto agognata Accademia Aeronautica, quel luogo incantato e fantastico che sognavamo da ragazzi. Non è proprio così; in questo primo periodo è una prova continua, ce la mettono tutta, e anche con una certa dose di sadismo, per farti desistere e tornare a casa. Ho visto ragazzi di venti e passa anni, piangere di nascosto; gli ho chiesto se erano mai stati in colonia a Bibione; ovviamente non hanno capito, tu invece si, vero?

Ma ti ricordi? Avevamo appena 6 anni; devo ancora capire se ci era toccato andarci perché i nostri, volevano sfruttare quell’occasione di vacanza gratis, concessa da mamma Montedison ai figli sfigati dei dipendenti di fascia bassa oppure, semplicemente, ci volevano fuori dalle palle per un mese.

Me la ricorderò fin che vivrò, la maledetta colonia CIF di Bibione, ci fecero provare l’ebrezza della naja anzitempo; camerate stracolme, alzabandiera, ginnastica all’alba, punizioni e regolamenti ferrei. Per non parlare delle “signorine” preposte alla nostra sorveglianza, puro concentrato di arroganza, stronzaggine e sadismo; il loro corrispondente in Accademia è lo “scelto”, un ragazzo della nostra età che è qui solo da qualche mese in più; almeno lui si comporta così perché gli è stato ordinato e comunque, come dicono i nostri vecchi xe tutta ‘na roda, nel senso che, magari un domani, toccherà pure a me ricoprire un ruolo per il quale forse, verrò odiato.

Ogni mattina ci chiedono se qualcuno deve marcare visita. “Marcare visita”, ma ci pensi? Io e te abbiamo imparato a farlo alla tenera età di 6 anni, non appena scoprimmo che in infermeria si faceva la bella vita; camerette da due con Tv, pranzo e cena serviti a letto, the e biscotti al pomeriggio. Che figata, ti ricordi, io e te da soli a far cuscinate; a me poi, quella volta andò di culo, mi beccai il morbillo così, ma ne tornai a casa comodo, comodo, in taxi. La malattia mi condonò tre settimane di detenzione in quel posto schifoso.

Una settimana fa, durante l’adunata mattutina, mi sono messo a ridere, ci è mancato poco che lo “scelto” mi rifilasse l’ennesima punizione, mi era di colpo venuta in mente la “nostra accademia”, la mitica adunata nel piazzaletto antistante il civico 1 del CEP. Cavolo, avevi ragione, ‘sta accademia assomiglia tantissimo al CEP; c’è sempre qualcuno che manda in culo di sua madre qualcun altro e si alzano in cielo imprecazioni colorite e fantasiose di ogni tipo con la differenza che qui, puoi sentirne la versione in centinaia di dialetti diversi e non solo in venexian. Non ci crederai ma, in fin dei conti, la colonia e la “nostra accademia”, mi sono serviti per prepararmi a questi, spero pochi, mesi di inquadramento militare poi, via a Latina per imparare a volare. Inquadramento, che brutta parola, sono un militare, gli istruttori devono indottrinarti, è il loro mestiere o forse un grande gioco, simile a quello che facemmo noi nell’estate del 1977 per cui, sto al gioco, l’importante è non farsi cambiare dentro.

Anche questo posto mi è familiare, sembra lo stesso muretto della darsena del “Marco Polo”. Ore e ore seduti sempre con i piedi a penzoloni pazientemente ad aspettare l’arrivo di un aereo per poi, di corsa, salire su in terrazza. Lunghe ore di attesa nelle quali gli unici che volavano erano i gabbiani, liberi da qualsiasi vincolo di rotta e orario. Pure qui, sulla scogliera ce ne sono un sacco, tra loro mi pare di vedere Jonathan Livingston, credo di essere come lui, l’importante è volare per la gioia di farlo. Per quanto mi insegneranno che è un mestiere, un dovere verso la patria, dentro di me sarà per sempre e solo una passione, quella che da ragazzino ti me gà petà trascorrendo intere giornate sulla terrazza dell’aeroporto.”

Era destino che, nella nostra vita, ci fosse sempre un muretto su cui stare con i piedi a penzoloni. Quello sul lungomare di Santa Maria al Bagno, nell’agosto del 1988, simboleggiò il ritrovarci dopo ben 4 anni. Con la mia scassatissima Ritmo, percorsi quasi 1000 kilometri per passarci le ferie assieme.

Il tenente Mestriner era ormai diventato un “sior pilota” o meglio “professor pilota” come l’avevo soprannominato. La sua scuola era il 61° stormo, la sua aula il cielo della Puglia e la sua cattedra l’Aermacchi MB 339. Quell’aereo ci aveva affascinato sin da quando nel settembre del 1981 lo “incontrammo” per la prima volta a Rivolto nella sua bellissima livrea bianco e arancione da prototipo; l’anno seguente, avrebbe sostituito i gloriosi FIAT G91 delle Frecce Tricolori. Il nuovo addestratore dell’Aeronautica Militare, in religioso silenzio, ci soffermammo parecchio tempo al suo cospetto per ammirarlo; di li a qualche anno, se i nostri sogni si fossero avverati, ci sarebbe toccato salirci.

Finora, l’unico a cui il destino aveva riservato questo privilegio era lui, del nostro compagno di “accademia”, il Giand, si erano perse le tracce anche se, Fabietto era quasi sicuro di averlo visto tra i “pinguini” del corso Centauro IV; non gli era stato comunque possibile verificare in quanto, tra gli allievi ufficiali piloti di complemento e loro, i “normali” c’era una specie di barriera inviolabile. Dal giorno della 12^ missione, quando, sul seggiolino posteriore non c’era nessuno, ed era rimasto solo lui a pilotare quell’aereo che, qualche anno prima, tenuto a debita distanza da una transenna, aveva potuto solo guardare; era l’uomo più felice sulla terra. Tra lui e il 339 si instaurò qualcosa che andava al di là del semplice rapporto uomo macchina che non è mai riuscito a spiegarmi. Quando il colonnello, comandante della base, alla fine del corso, gli aveva comunicato che sarebbe rimasto a Galatina, Fabietto, memore dell’esperienza delle superiori, pensò di essere stato rimandato, eppure, non gli sembrava, almeno in fatto di pilotaggio, di essere uno zuccone. E invece no, il mio compagno di accademia, quella del ’77, da quel giorno si sarebbe seduto sul seggiolino posteriore come istruttore.

Per due settimane parlammo solo di aerei e fighe, in entrambi gli argomenti, rispetto al mio amico, ero nettamente in svantaggio; per non sfigurare del tutto, preferivo parlare di aerei.

Non potei esimermi dall’assistere a uno dei suoi voli, d’altronde come ricompensa, mi aveva promesso di strafogarmi a sbaffo al circolo ufficiali nonché una tonnellata di gadget compreso un modellino in ferro delle mitiche Frecce Tricolori. Mentre saliva a bordo, continuava a voltarsi verso di me; pareva un bambino in cerca dello sguardo di approvazione di quel padre che, almeno una volta nella vita, gli dicesse, “bravo!”. La maschera dell’ossigeno e la visiera oscuravano completamente il volto, immaginavo comunque il suo sguardo sorridente e divertito; per me, era il fratello che avrei sempre voluto avere e, del quale andare orgoglioso. Un rombo assordante e, il grigio 339, decollò infilandosi in verticale a bucare con precisione, l’unica nuvoletta presente in quel cielo terso, in pochi attimi, un looping perfetto da sembrare disegnato con il compasso, lo portò ad accarezzare la sommità degli ulivi con le ali poi, di nuovo su a vite fino a fermarsi, incredibile, l’aereo cadde all’indietro in verticale e parve precipitare, un boato, motore al massimo e il compare riprese il controllo del veicolo.

“MIMORTI !!”, l’esclamazione in perfetto slang venexian vulgaris, echeggiò, credo per la prima volta nella storia del 61° stormo, nell’hangar alle mie spalle dove mi ero riparato per cercare un po’ di ombra. I pochi presenti mi guardarono in modo strano, in effetti, era a malapena tollerato che un caveon in divisa estiva d’ordinanza da bueon-casual ovvero; canotta made in China con vistoso alone di sudore e scritta “didas”, pantaloni corti di jeans de marca “Giorgio Armanno” e simil Birkenstock puzzolenti ai piedi; si trovasse in quel luogo sacro alla patria. Mi preoccupò il veloce avvicinarsi di uno smilzo con i Ray-Ban e un sacco di strisce d’orate sulle spalline; ero riuscito, per una serie di fortunate circostanze, a evitare la naja, ma quello aveva tutta l’aria di volermela far fare comunque, a partire dall’indomani; iniziò a tremarmi il culo.

“Che ne dice? E’ pronto?”, era il mitico colonnello, avrà avuto si e no dieci anni più di me caspita, come fanno presto a far carriera in Aeronautica. “Che?”, chiesi stordito dal rombo del 339, che ora stava facendo un velocissimo passaggio a testa in giù, “se lo faccia dire dal suo amico”, rispose sorridente l’alto ufficiale; il culo smise di tremare. Pronto o no, nel suo modo di volare non c’era solo tecnica, ci metteva l’anima. A vederlo solo in cielo, mentre al bordo del torrido piazzale ero l’unico spettatore, faceva pure un po’ di malinconia, sembrava proprio il “Joe Temerario” dell’omonima canzone.

La spiegazione, anche se la intuivo, arrivò sotto il cielo stellato a sant’Isidoro, se andava tutto bene, presto avrebbe fatto le valigie per Rivolto, l’estate successiva, tutto il mondo l’avrebbe visto solcare i cieli a cavallo del Pony.

Il viaggio di ritorno mi parve eterno, io e la vecchia Ritmo, stremati dal caldo, risalimmo lentamente al nord. Quasi 1000 kilometri di asfalto rovente, passati a fare il bilancio della mia esistenza. Non provavo invidia nei confronti di Fabietto, era semplicemente la proiezione di quello che avrei voluto essere. In quei giorni era stato parecchio tacchente, non riusciva a capire come mai, non mi fossi iscritto pure io al quel concorso; divagavo magistralmente mentre continuava a tempestarmi di domande riguardo la mia passione aviatoria.

Il fatto è che ero confuso, non avevo il coraggio di confessargli le mie paure, riaffiorate di colpo in quei giorni. Cominciarono quando mi scorrazzò sulla sua moto, mi cagavo addosso quando sfioravamo ad alta velocità i muretti a secco, non vedevo l’ora di arrivare a destinazione e scendere; una volta arrivati al mare mi prese il terrore per il fatto che, in meno di due metri dalla riva, non toccavo già più il fondo. Il massimo del panico lo raggiunsi quando l’amico ventilò l’ipotesi di farmi fare un voletto sul 339, alla sola idea iniziai a grondare di sudore e mi prese la tachicardia galoppante; per fortuna era solo un misero tenentino e non riuscì nell’intento, se fosse stato comandante della base, avrei finito i mei giorni terreni sul seggiolino posteriore colto da infarto, ancor prima di imboccare la pista “pilota de ‘sto casso”, mi dissi impietoso.

L’interminabile A14, il 339 l’avrebbe percorsa in neanche un’ora, la Ritmo procedeva ad andamento lento e con i finestrini aperti, mi superavano persino i camion, lo stesso, finora, era successo nella mia vita, mi avevano superato praticamente tutti. Figurarsi se avrei fatto il concorso in Aeronautica; implicava il dover partecipare a una selezione e quindi, competere con qualcun altro; al solo pensiero la paura mi bloccava.

A casa mi aspettavano le paranoie di Maria, avrebbe continuato a tormentarmi sul perché non l’avevo portata con me in Puglia, anche questo, mentre inesorabili come il tempo, scorrevano le linee della mezzeria, fu un argomento di riflessione. Fabietto, a suo tempo, mi mise in guardia; secondo lui dovevo stare alla larga dalle ragazze di parrocchia, se ti mettevi con una di loro, dovevi, pena bruciare all’inferno, ciecamente sottostare alle leggi emanate dal clero, ovvero tenertela a vita e non trombarla prima del matrimonio e, anche dopo, trombarla solo per fare figli. Lui, per evitare tutto questo, aveva abbandonato da tempo, parrocchia e relativa ragazza, credo, dopo averla pure trombata; ce l’aveva a morte con i preti, non con Dio, precisava, rei di preoccuparsi solo che i giovani non trombassero abusivamente in coppia o, come alternativa, da soli; mentre, se per caso venivano maltrattati in famiglia oppure, non avevano niente da mettere sotto i denti, non era affare loro.

Il mio amico, da innato aviatore, iniziò ben presto a volare alto, mentre io rimanevo statico a terra, non riuscivo a far volare nemmeno i modellini che costruivo; aveva sempre le idee chiare, o era si o era no, mentre io, continuavo a campare con centomila “ma si”.

.. Se tutto andava bene aveva detto il colonello. Il 28 agosto, una nube oscura calò sull’acrobazia aerea, tre Pony cessarono di cavalcare uccidendo i loro piloti e 67 persone. Fabietto capì subito che doveva riporre quella valigia piena di speranze; dopo un po’ lui e pure il “suo” Colonnello dovettero farne un’altra e lasciare per sempre l’azzurro cielo pugliese.

14 ottobre 1988

“ Non credo proprio ti inviterò a passare un po’ di giorni qui in Inghilterra; primo perché quel rutto della tua Ritmo 60 CL alla sola idea, ti pianterebbe all’incrocio di via Bagaron; secondo non ho niente di particolare da offrirti se non birra a fiumi per dimenticare che qua piove un giorno si e un giorno anca.

L’altro ieri, al telefono mia mamma ha esordito con un “ma non ti me disi niente”; ea Pina gli ha detto che ha saputo dalla Marisa che ha sentito da siora Gina, che ero nelle Frecce Tricolori; ho idea, come si dice, che qualcun gà pissà un fià fora dal bocal. Prendi “Aviazione Oggi”, quella che ti ho concesso in comodato d’uso quando partii per Pozzuoli, e che, prima o poi verrò a riprendermi con tutto il resto, leggiti bene tutte le informazioni sul TORNADO; solo dopo, puoi passare in bottega da “Cesco l’onto”, el fritoin, a erudire le pie donne circa la mia carriera in Aeronautica; spero solo di non sentire frasi del tipo, “..’desso el xe in Inghilterra, quasi in America, pilota personal dea Regina”.

Sono qui a Cottesmore, ridente, si fa per dire, villaggio nel mezzo del Countryside inglese, seduto, piedi a penzoloni, su un muretto a secco con vista su un gregge di pecore; all’orizzonte nuvoloni grigi che mi fanno sembrare lontanissimi i tempi di Galatina. Il tempo è perfettamente intonato al mio umore; non mi è per niente facile rassegnarmi a star seduto dietro sul TORNADO; significa fare il navigatore ma, non è come su una macchina da rally, quello purtroppo per trovare la strada su arrangia quasi automaticamente, il mio compito sarà quello, come diciamo noi, de strucar el botton al momento giusto. Me l’hanno venduta come una normale tappa della mia carriera, che presa per il culo, in realtà questo nuovo ruolo in Aeronautica, non piace a nessuno; mi sa, invece, che sarò destinato a finire la carriera sentà da drio a sganciare missili e bombe qua e la.

A volte, per renderti conto di come stanno in realtà le cose, ci metti un sacco di tempo, magari lo sai, fai finta di niente e lasci passare gli anni; sono un militare e, gli aerei che piloto, o meglio, su cui, semplicemente mi siedo sopra, sono delle armi. Un po’ come quando ti dicevo che frequentavi la parrocchia solo per cercare la figa e non per un presunto nobile ideale. Io che, al contrario di te, mi sono tenuto alla larga da preti e affini per cercare la figa al “Ranch”, dove, ti assicuro, ce n’era tanta, non sono comunque mai stato un guerrafondaio. Ti ricordi che quando c’era cagnara io ma, soprattutto te, eravamo sempre quelli che le prendevano; vabbè, ho promesso più di qualche volta che, quando sarei diventato pilota, avrei bombardato i fioi dei paeassoni oppure che, avrei polverizzato quello di elettrotecnica e la sua merdosa bicicletta lanciandogli un missile a guida laser; scherzavo ovviamente e poi, non avrei mai caricato le bombe con esplosivo ma con una buona dose di pisso e merda.

Per cui, caro socio, il momento giusto, spero non arrivi mai.”

Per il capitano Mestriner, Il momento giusto, non tardò ad arrivare, prima la guerra nel golfo e poi quella nei balcani. Non ho mai saputo se, e quante volte, avesse strucà el boton; seduti, con i piedi a penzoloni, sulla riva della darsena in aeroporto, mi raccontava solo dei suoi continui incubi notturni. Cercavamo di far passare il tempo lentamente per assaporare a pieno quei pomeriggi di libertà, parlando di aerei e fighe, poi, come facevamo vent’anni prima, inforcavamo le nostre biciclette e lo accompagnavo, in comunità si cenava presto.

9 ottobre 2004

“Stavolta, socio, tocca a me scrivere. Il posto dove sei ora, ironia della sorte, è vicino a un vecchio campo di aviazione da dove, ai primordi dell’aviazione, decollavano i dirigibili. Mi avevano chiesto di leggere qualcosa ma, come sempre, mi sono cagato addosso, scusami. Pensavo venisse più gente; mi sono reso conto però che eri semplicemente uno scampà de casa par metar ea firma in aviassion e, da quando sei definitivamente “atterrato” a casa, tutti facevano finta di non conoscerti, in fin dei conti, non è bello farsi vedere assieme a un sbaeon, un via de testa; svanite anche tutte le cocche che ti gironzolavano attorno, compresa Simona che, quando eri un promettente capitano del 6° stormo, era pronta a giurare amore eterno, sposandoti. Comunque, hai visto, quel giovane prete ha fatto una bella predica; per forza, gli ho raccontato tutto io e, giuro, non ghe gò messo ea zonta, come mio solito. Abbiamo parlato di te per ore, secondo lui saresti più de cesa tu che tanti altri seduti in primo banco, gli sarebbe piaciuto averti conosciuto, penso sareste diventati amici. Credo che, dall’alto, avrai visto come ti hanno conciato, vestito in divisa, capelli e barba fatta, che paiassada! Avrai anche visto che ti ho fregato l’aquila turrita e lo stemma dei “Diavoli Rossi”, penso sia stato tu a guidare la mia mano lesta; quei ricordi mi spettano di diritto.

Ti mancava la libertà, come quando eravamo in colonia; ora capisco che, come allora, la malattia, è stata la via di uscita per tornare su nel cielo, che fio de bona dona! Era giunto il momento di tirare quella maniglia gialla e nera “ejetc ejetc capitano”, l’accensione del razzo sotto il seggiolino e, in una frazione di secondo sei fuori da quell’abitacolo che ormai è diventato stretto e pericoloso, salvo! Mi consola il fatto che i militari non sono riusciti a cambiarti dentro, per noi due i vari F104, Tornado, F14 e compagnia briscola, rimarranno per sempre degli innocenti modellini venduti a pezzi, da incollare e dipingere. A proposito, le scatole AIRFIX che mi hai lasciato, le conservo sempre in garage, rigorosamente chiuse come mi avevi raccomandato, se un giorno, in tua memoria, posso aprirle e iniziare a costruire i modellini, batti un colpo.

Ciao socio, io rimango qua, seduto con i piedi a penzoloni su un muretto a sognare invidioso di vederti sfrecciare lassù, a cavallo del Pony”.

Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo perché là siete stati e là vorrete tornare. Leonardo da Vinci

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2018 Michele Camillo


7.7.77

“Fra quarant’anni esatti …”.

Una cosa è certa, quarant’anni fa non faceva così caldo, nel pomeriggio poi, si raggiunge il picco di temperatura e il massimo dell’afa; in realtà, sto solo cercando una scusa per non inforcare la bicicletta e raggiungere il piazzale dell’adunata.

“Anche se avevamo tredici anni, una parola data è sempre una parola data”, incalza l’altra parte di me, “ e poi non ti costa nulla, solo dieci minuti di bicicletta, se non viene, pazienza”. Qui sulla terra, eravamo rimasti io e lui, Fabietto aveva già spiccato l’ultimo volo il 4 ottobre del 2004.

Lo schermo del PC è ancora fisso sul suo curriculum; “entra in Accademia Aeronautica a settembre del 1983 con il corso Centauro IV … frequenta il corso alla Sheppard Air Force Base nel Texas dove ottiene il brevetto… nella base aerea di Cottesmore in Gran Bretagna frequenta … arriva al 6° Stormo caccia di Ghedi dove diventa… ha avuto l’onore di pilotare, prima della sua radiazione,  il mitico F104 Starfighter … si congeda con il grado di tenente colonnello … il comandante si occupa ora dell’addrestramento …”.

Era partito bene già con il nome, Gianandrea, quel Gian davanti, lo metteva uno scalino sopra di noi. Bastava vedere le nostre tre case confinanti, quella mia e di Fabietto, un unico piano e, quasi senza fondamenta, la sua, due piani con tanto di taverna e garage gigantesco. Noi non avevamo praticamente giardino, tutto lo spazio esterno era sacrificato all’utilità, ovvero l’orto. La casa di Giand, invece, era circondata da un futile ma, meraviglioso giardino.

Le abitazioni riflettevano lo stato sociale. I nostri padri lavoravano tutti alla Montefibre di Porto Marghera con la differenza che, il mio e quello di Fabietto erano ex agricoltori trasformatisi in operai ovvero, come si diceva, dei metalmezzadri mentre, il papà del Giand, sior Armando, “el Perito”, uno o forse due scalini più su. A dire il vero, ancora oggi, non ho capito, che cavolo di ruolo avesse in fabbrica, ricordo solo che mio padre, usava spesso sciacquarsi la bocca, circa il suo presunto lauto stipendio. In effetti, la famiglia del Giand, era la più benestante della “vietta”, sempre mio padre, a sottolineare la differenza di casta, li chiamava semplicemente “loro” o meglio, “iorillà”. Ironia della sorte, anche le nostre “proprietà” di campagna erano confinanti; mio padre aveva un campetto e una vecchia baracca, lascito del nonno mentre, sior Armando, poteva contare sul “bosco”, ovvero un intero casolare e i relativi campi, proprietà dell’arzillo nonno di Giand.

Tutto ebbe inizio quando, nei primi anni ’70, trasportato sul ferro della bici di mio padre, andai, per la prima volta, a fare quella che, era considerata una classica gita fuori porta, esclusiva della classe operaia ovvero, la spiaggetta di Tessera. Mi pareva alquanto strano poter raggiungere il mare in bicicletta ma, sembrava tutto regolare, ombrelloni, sedie sdraio ecc. Stavo ancora cercando di abituarmi a quell’atmosfera surreale quando, accadde qualcosa di ancora più strabiliante. Uno dei “bagnanti” si destò all’improvviso dalla pennichella e, alzandosi in piedi cominciò a gridare “riva, riva, riva!”, indicando un puntino nero fumante che si stava avvicinando velocemente. Quel punto nero, sempre più grande, aveva acceso ora delle luci, si trattava di un aereo e ci stava venendo addosso. “Mona, la ghe xe l’aeroporto, desso te porto vedar”, fu la secca risposta di mio padre, al mio grido disperato di allarme. Con un fragore assordante, l’aereo bassissimo, ci passò accanto, ricordo distintamente che sembrò andarsi a posare sopra un ombrellone a spicchi bianchi e rossi; “monta su paiasso che desso ‘ndemo a vedarlo da vissin”.

Papà pedalava a più non posso lungo il viale costeggiato dai pini marittimi, entrambi avevamo paura che quell’aereo volasse via di nuovo prima che riuscissimo a vederlo. A ripensarci mi vien da ridere, a quei tempi il turnaround poteva durare ore, altro che i 25 minuti attuali delle low cost.

Arrivammo ai piedi dell’aerostazione, si sentiva un leggero sibilo oltre l’edificio nonché un odore, quello del carburante che, da quel momento sarà per me una sorta di richiamo che, indica la presenza di un aereo.

Papà, anche lui in preda all’eccitazione, appoggiò la bicicletta in malomodo su un palo della luce, tanto che cadde subito; poi, in fretta, senza legarla, la buttò contro la recinzione. Feci fatica a starci dietro quando, a passo sostenuto, si diresse verso la terrazza dell’aerostazione; 100 lire l’ingresso, via su velocemente facendo due a due le scale.

Appena su, la brezza della laguna mi accarezzò il volto, che spettacolo. Non avevo mai visto gli aerei così da vicino, mio papà era visibilmente soddisfatto, per avermi offerto un’occasione di divertimento a buon mercato.

La terrazza era su due livelli, salii subito a quello superiore, mi feci spazio a gomitate per guadagnare un posto in prima fila tanto, pensai, i bambini non li mandano a remengo. Mi ricredetti subito, vedendo l’occhiata minacciosa che mi diede quel signore dotato di binocolo al quale avevo usurpato il posto, durò un attimo; “vuoi guardare?” mi chiese con fare gentile porgendomi lo strumento.

Quell’affare pesava un sacco inoltre, non riuscivo a vedere nulla. Con calma il buon uomo me lo aggiustò e, iniziò a impartirmi quella che fu la mia prima lezione di cultura aeronautica. Sapeva un sacco di cose su quei due aerei; dove erano diretti, quante persone portavano, a che velocità andavano, ecc.

Di tutto quello che mi disse ricordo solo il nome dell’areo che, sulla coda, aveva dipinta la nostra bandiera; Caravelle. Quell’aereo, magicamente, lo ritrovai fra le pagine del libro “de aerei” che, da li a pochi giorni, mio padre mi regalò per il compleanno.

“Ma tu gli aerei li guidi”, gli chiesi istintivamente mentre stava andando via, “una volta, quando ero giovane”, rispose a bassa voce accarezzandomi la testa, “è difficile?”, “no, è bellissimo”, credo sia stato quello il momento in cui si accese in me la miccia della passione; mi piacerebbe rincontrare quell’uomo.

Solo qualche giorno e trascinai nel vortice della passione aviatoria i miei due coetanei, vicini di recinzione, Giand e Fabietto. Da li a qualche anno, la terrazza del Marco Polo divenne casa nostra. Ci si andava ogni qualvolta, meteo e libertà dagli studi, lo permettevano. L’arrivarci, se sceglievamo di percorrere il bordo laguna, anziché la trafficata Triestina, era alquanto disagevole ma, nel contempo, stupendamente avventuroso. Ogni tanto avevamo la fortuna di venir affiancati da un aereo in atterraggio, mi ricordo le grida “è qui il DAN AIR!”, oppure , “arriva il solito ALITALIA”, e ancora, “urca! Il Trident della BEA”, e via, a correre come dei pazzi; le bici sembravano rompersi in mille pezzi, su quella stradina tutta sassi e buche, mentre tentavamo di gareggiare con l’aereo.

Passavamo intere giornate all’aeroporto, già, ci voleva un’intera giornata, per riuscire a vedere l’atterraggio e il decollo di tre aerei, dato che, a quei tempi, non è che ci fosse ‘sto gran traffico. Quando il piazzale aeromobili era vuoto, ingannavamo il tempo in pineta oppure in aerostazione, rompendo le balle allo sfortunato lavoratore aeroportuale che ci capitava a tiro oppure, … in posti dove non dovevamo stare. Quella specie di varco che si era formato sulla recinzione, a causa del cedimento del fossato, era alquanto allettante; come dei conigli ci infilammo sotto e, in un attimo, eravamo dentro. L’avere il cemento del piazzale sotto i piedi ci eccitava da morire, durò un attimo, in men che non si dica piombò a tutta velocità su di noi una macchina dei Carabinieri. Ora, non mi ricordo esattamente tutto il discorso che ci fece quello che, dai gradi, sembrava essere un maresciallo, so solo che ad un tratto disse, “ora vi accompagno a casa da vostro padre”. A quei tempi, almeno per quanto mi riguarda, era meglio se mi condannavano all’ergastolo; al sentire quella frase, iniziarono a bruciarmi le chiappe; credo che, dalle facce, la stessa sensazione la stessero provando anche i miei due compari. Il Caramba aveva sfoderato l’arma più potente che aveva a disposizione e noi mogi, mogi, senza profferir verbo, ce ne tornammo da dove eravamo venuti.

Una mattina d’estate, mentre, pieno di punture di zanzare, ero comandato ai lavori forzati in orto, sentii il rapido avvicinarsi di un aereo, i motori, però emettevano uno strano rumore mai sentito; alzai istintivamente lo sguardo al cielo, la sorpresa fu enorme, credevo di sognare, non era possibile, proprio lui, il mito, ovvero un Boeing 747 Jumbo Jet; finora l’avevo visto solo in foto. “Cossa xeo?”, perfino mio padre, vanga in mano e bocca spalancata, rimase stupito. Reagii come si trattasse di un allarme aereo in tempo di guerra, correndo all’impazzata da un lato all’altro del giardino, gridai ai due soci, di uscire immediatamente di casa. Nel frattempo, incredibile, l’aereo ripassò; la cosa si ripeté puntualmente ogni quarto d’ora circa. Mezzo quartiere era uscito di casa per osservare lo strano fenomeno, noi tre ce la tiravamo sparando nozioni tecniche, più o meno veritiere, a destra e a manca. Il tempo stringeva, urgeva andare a verificare di persona. Con il sole a picco, le nostre bici sfrecciavano sul rovente asfalto della Triestina, rischiavamo di essere, in ogni momento, tirati sotto da un camion; poco ce ne importava, la posta in gioco era alta. Giunti sul vialone dell’aeroporto, notammo subito l’enorme coda del Jumbo che sbucava dall’edificio dell’aerostazione; tirammo una volata finale degna del giro d’Italia. Il nostro informatore di fiducia, ovvero il bigliettaio della terrazza, ci aggiornò circa la presenza del bestione; avevano scelto Venezia per i voli di addestramento, ecco spiegati i continui passaggi sopra le nostre teste.

“Parché non ‘nde vedarlo, feve portar dentro”, disse con tono di sfida, il tipo. Tentar non nuoce, entrammo in aerostazione senza un’idea precisa sul da farsi. “Hei, voi tre, venite qua”, mamma mia, il Caramba, a proposito di farci portar dentro; “coraggio, venite con me”, con il culo che tremava lo seguimmo per uno stretto corridoio. “Marescià so’ anche questi figli suoi?”, la voce di quel poliziotto ci fece tirare un sospiro di sollievo anche perché, un’istante dopo, ci trovammo, stavolta legalmente, sul piazzale. Il buon (ora), carabiniere, mi diede un colpetto in testa, “avanti delinquenti, a bordo”. Il cuore ora batteva a mille, non credo ci avrebbe tradotto in galera a bordo del Jumbo Jet. A vederlo dal vivo, così vicino, era enorme; ai piedi della scaletta le gambe iniziarono a tremarmi dall’emozione. Una volta a bordo, salimmo subito per una ripida scala a chiocciola, sapevo, per averlo letto in “storia dell’aviazione”, che conduceva alla cabina di pilotaggio. “Comandante permette, ho qui altri tre allievi”, quel distinto signore dai capelli brizzolati, ci accolse con un sorriso, invitandoci a entrare nella cabina di pilotaggio; come un mantra, iniziai a ripetere i nomi degli strumenti che avevo imparato sul “libro de aerei”; “Orizzonte artificiale, altimetro, anemometro ..”, il comandante mi guardò sbalordito, “quanti anni hai?”, “undici”, risposi sapendo di stupirlo ancora di più.

“Sarai un bravissimo pilota!”, il brizzolato mi abbracciò forte, divenni rosso paonazzo, neanche fossi stato baciato da Patty Pravo, soggetto dei miei sogni erotici di allora. “Anche i tuoi amici vogliono fare i piloti?”, “Si”, come i tre moschettieri rispondemmo all’unisono, il dado era tratto, allievi piloti.

Stataereo Propaganda, viale dell’Università 4, 00100 Roma. L’indirizzo me lo ricordo tuttora a memoria, in casa conservo ancora il contenuto di quella busta. Consumai con gli occhi, il pieghevole dell’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, unica, o quasi, al tempo, strada da percorrere per diventare piloti, quel luogo mi affascinava più che mai. E’ per questo che, a giugno del 1977, finita la scuola, proposi agli altri due soci, con lo scopo di formarci alla nobile professione di pilota, di fondare la nostra personale Accademia Aeronautica. Il quartiere CEP, fungeva da location ideale; i palazzoni, i relativi piazzali, il campo da calcio e la chiesa potevano vagamente assomigliare all’Accademia di Pozzuoli, in fin dei conti, le abitazioni erano universalmente note come “i casermoni” e quindi, almeno nella fantasia, adibirli a caserma ci stava.

Il “corso” partì immediatamente; affidammo al Giand il ruolo di istruttore, in primo luogo perché, aveva ricevuto un’educazione d’alto borgo e, si esprimeva, come diceva mia madre in itagiano, anziché in volgare dialetto come noi rozzi figli della classe operaia inoltre, date le sue capacità atletiche, era il tipo giusto per il ruolo di addestratore. Organizzò le nostre giornate in “Accademia”, in base a un rigido protocollo stile militare che, ci eravamo imposti, ovvero, sveglia all’alba, adunata, corsa, lezioni, ovvio solo teoriche e , altre menate del genere. Il nostro status di allievi piloti, ci rendeva oltremodo fieri; “in libera uscita”, cercavamo di far colpo sulle ragazze del quartiere, travasandogli addosso le nostre nozioni aeronautiche, che fosse questo il vero scopo di frequentare “l’Accademia”?

Nel tardo pomeriggio del 7 luglio ovvero, il 7/7/77, ripeto, non faceva così caldo come ora, ce ne stavamo seduti con i piedi a penzoloni, sulla riva della darsena aeroportuale; all’orizzonte si profilava la sagoma del “solito” DC9 Alitalia in atterraggio. “Ce la faremo a diventare piloti?”, Fabietto, se ne uscì all’improvviso con questo dubbio esistenziale.

Ognuno di noi aveva in mente un’idea diversa di quella che sarebbe stata la sua futura vita da aviatore. Fabietto si trastullava con avventure erotiche, si immaginava, a fine volo, dentro una camera di un hotel di lusso, a fare lo stallone con tre o quattro gnocche di hostess. Il Giand si vedeva mentre, con il suo F104, dava filo da torcere a due maledetti MIG21 russi, i nemici di allora.

Io la buttavo sul romantico. Il film era sempre lo stesso; sulla lista dei passeggeri scorsi il nome di lei, Marilena Iannone, la compagna di classe della quale mi ero invaghito. Mi vedevo percorrere il corridoio tra i sedili per andare sul posto dove era seduta. Fu un incontro emozionante, rimase sbalordita nel vedermi con la mia elegante divisa sulla cui giacca brillavano l’aquila e le quattro strisce dorate di comandante. Ironia della sorte, Marilena, la bellissima biondina per la quale sbavavo, era invaghita del Giand ma lui, manco la cagava di striscio.

“Allora cadetti, ascoltatemi”, disse il nostro istruttore, percependo l’inizio di una crisi depressiva, “Diventeremo piloti, scommettiamo? Propongo di ritrovarci, diciamo, fra quarant’anni esatti, a quest’ora, nel piazzale dell’adunata. Ci ricorderemo di questo giorno”. Come avevamo visto fare un sacco di volte nei film, con una mano sopra l’altra, sugellammo quel patto.

Ore 17.03, è meglio non essere troppo puntuali, aspettare mi mette ansia. Lo immaginavo, non c’è nessuno, una signora anziana mi guarda con aria sospetta dalla finestra, penserà che sono un ladro intento a fare un sopralluogo.

Ore 17.17, l’unica presenza qui è l’afa soffocante, sugli alberi non si muove una foglia; non avendo entrambi alcun tipo di contatto, non mi resta altro che aspettare. Nell’estate del 1978, finite le medie, il Giand e famiglia, lasciarono la vietta per una non ben precisata, migliore sistemazione, per iorillà, come sentenziò mio padre, la vietta era un posto troppo da poareti; da quella volta, non ho più rivisto il Giand. Nello stesso periodo, il padre di Marilena, finanziere, venne trasferito, per cui, anche di lei persi definitivamente le tracce.

Ore 17.38, l’anziana è scesa scortata dalla badante moldava, decido di rimanere ancora un poco, se vado via subito, do proprio l’impressione di essere un ladro e quella chiama la polizia.

Ore 17.48, vado, destinazione solita panchina, a rimuginare sulla mia esistenza; Fabietto, se eri ancora qui, almeno tu, non saresti mancato all’appuntamento. Giand sarebbe stato sorpreso nel vedere, il percorso stile Camel Trophy, che facevamo per andare in aeroporto trasformato in una ciclabile talmente trafficata da bikers, runners e nordic walkers che si rischia, ogni istante, un incidente. Dal punto di vista aviatorio, idem, è un continuo susseguirsi di aerei in atterraggio; non serve più attendere pazientemente ore per vederne uno. Rispetto a quei tempi però, gli aerei, colori a parte, sono tutti uguali, cambiano solo le proporzioni, sembrano disegnati con il pantografo, i progettisti devono aver perso la fantasia. Che bei tempi quando vedevi Caravelle, Comet, Trident, DC9, Boeing 727, DC8, DC10, BAC 1-11, Viscount e altri come il mitico Concorde; uno diverso dall’altro.

Sono sfinito e depresso, per poco il classico pensionato in canottiera, non mi soffiava la panchina con vista sulla testata pista 04; il posto è mio per diritto, specie oggi che, la nostra Accademia, celebra il 40° della fondazione. Da quando, quasi cinquant’anni fa, scomodamente seduto sul ferro della bicicletta, papà mi portò qui, continuo a venire a vedere, il magico andirivieni di queste meravigliose macchine volanti. Non c’è più quella bellissima terrazza, ora mi devo accontentare di questa panchina arrugginita in riva alla laguna e, godermi solo gli atterraggi. Resta sempre il sogno; seduto in cabina di pilotaggio, sul lato sinistro, quello del comandante, leggo ancora, sulla lista dei passeggeri, il suo nome. I bellissimi occhi verdi gli si illuminano nel vedermi con la mia elegante divisa sulla cui giacca brillano l’aquila e le quattro strisce dorate di comandante.

Come un disco rotto, continuo a chiedermi perché di noi tre, sono l’unico a non essere diventato pilota. Mi sarei vergognato dover dire al Giand che, per vivere, aggiusto attrezzature per bar, o peggio, che, ho preso l’aereo solo due volte e, per giunta, me la sono letteralmente fatta sotto.

In realtà, le spiegazioni ci sono, solo che preferisco non pensarci; troppo doloroso ammettere le mie paure, riesumare l’amarezza per il vissuto e i rimpianti per le occasioni perse; meglio il bel ricordo dell’estate 1977.

Tu Fabietto lo sai, diventare pilota, per me, non era l’obiettivo da raggiungere da adulto ma, il sogno che mi aiutava e, tuttora mi aiuta, a vivere il momento presente.

Manetta FULL … freni rilasciati … 145 nodi … V1 … 150 nodi … rotazione … muso a 45° … 160 nodi …V2 … carrello su … via libero! L’ombra si stacca da terra, dalla realtà. Volare, volare il più alto possibile sopra tutto e tutti, aviatore nell’anima.

“Quel vecchio aereo con i finestrini triangolari, come si chiamava?”, in un millisecondo le parole mi escono di bocca, “Sud Aviation SE 210 Caravelle, il più bell’aereo del mondo”, una scarica di extrasistole, troppo giovane però la voce. Mi volto, due ragazzini in divisa da quasi pilota; allievi di qualche scuola di volo privata, dove, in poco tempo e con tanti soldi, passi dal giocare con la Playstation ai comandi di un AIRBUS 320.

“Lei è pilota?”, mi chiede il rosso ricciolino figlio di papà. “Una volta, … quand’ero giovane”

Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare. Jim Morrison

A Fabietto … libero per sempre di volare.

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2018 Michele Camillo

Libero

Semplicemente un pilota

“Quello che ci è sempre passato sopra”, non mi viene in mente frase migliore per definirti. Saranno passati quasi quarant’anni da quando ci passavi sopra nel campetto in fianco a casa, tutti noi bambini con gli occhi in allerta non appena sentivamo il rombo, per capire da dove saresti sbucato,un istante e il G91 sfrecciava sopra le nostre teste, “dai che torna”, dicevamo speranzosi, non ci deludevi, concedendoci un altro impressionante passaggio ancora più basso. Al giorno d’oggi, saresti finito sui giornali, quelli di sinistra ti avrebbero definito un cafone pilota di destra mentre, quelli di destra, uno scervellato pilota di sinistra. Ti saresti beccato una collezione di denunce dai genitori fra cui si trova sempre chi ha “il suo avvocato”; ci sarebbe stato un ambientalista dell’ultima ora pronto a affermare con matematica certezza che dal tuo tubo di scarico esce gas radioattivo, i cento e passa metri ai quali ci sorvolavi rendendoci felici, si sarebbero trasformati in dieci scarsi però, caro Libero, almeno della cosa sarebbe rimasto qualche immagine o video girato con lo smartphone, istantaneamente diffuso in rete per far guadagnare centomila “mi piace” al social-narcisista di turno invece, a noi bambini di allora ci rimane solo la memoria oltre a aver acceso in me la passione per il volo.

Il PIPER CUB mi ha sempre affascinato, un aereo che è sinonimo di libertà con il quale puoi atterrare dove vuoi, ti basta un campo, neanche tanto preparato, di un centinaio di metri; di colore giallo poi, “è la morte sua”, come si dice. Quella volta sul greto del Piave quando, come per magia, ne ho visto atterrare uno, decisi di non lasciarmi scappare l’occasione e, con il cuore in gola per lo sforzo e per l’emozione, pedalai a tutta birra per raggiungere il punto dell’atterraggio.

Si vede che sei sempre stato un signore, stavi per voltare il muso e ripartire subito ma, scorgendo quel pazzo in mountainbike che rischiava di ammazzarsi scivolando sul ghiaino, probabilmente per vedere il tuo aereo, hai deciso di spegnere il motore. “Calma giovane son qui e non scappo”, le tue parole abbatterono la mia proverbiale timidezza, non mi pareva vero, eccomi a parlare per la prima volta con aviatore vero, uno che ce l’aveva fatta a staccarsi da terra mentre io, ero rimasto l’eterno allievo pilota. Chissà perché, tirai subito fuori il discorso del campetto, “mi sa proprio che ero io”, quelle tue parole mi provocarono un tuffo al cuore, possibile, il destino.

Eri proprio tu che giovane ufficiale pilota di complemento dell’Aeronautica Militare prendevi di mira quel campetto per sparare una innocua raffica di foto dalla macchina piazzata sul muso del G91R, te lo eri scelto tu quel campetto come obiettivo per pura simpatia, a quei tempi era permesso appunto, ti eri pure accorto di noi bambini ed era proprio per farci contenti che ci ripassavi più volte.

Ti sei reso conto fin dall’inizio di essere un privilegiato a fare qual mestiere, per questo hai sempre avuto un occhio di riguardo per chi stava a terra con il naso all’insù ad ammirarti, “è il mio pubblico”, ammettevi con una punta di orgoglio. Questo tuo modo di pensare, nella tua carriera, ti ha inevitabilmente creato più di qualche grana, non contavi nemmeno più i richiami dei superiori per i passaggi “a pelo di capello” come li chiamavi tu, fatti in fase di atterraggio, al fine di accontentare chi ti ammirava aggrappato alla recinzione della base. Era più forte di te, quando vedevi qualcuno dei tuoi fans li giù gli concedevi quasi sempre il bis, ovvero due giri rasenti suolo prima di atterrare, “capitano, ce li mette lei i soldi del carburante che ha sprecato per le sue esibizioni”, era la frase ricorrente, vabbè, altri tempi e, come ho scritto prima certe cose si potevano ancora fare. Il vero pensiero proibito però lo facesti con il DC9 che tu, continuavi a chiamare tale anche quando divenne MD80, “tanto sempre un DC9 era”, ribadivi, erano gli anni quando ormai civile facevi l’istruttore in Alitalia. Stanco della routine prevista dal circuito di addestramento sull’aeroporto di Venezia ti venne l’idea che, per fortuna della tua carriera rimase tale, di fare un passaggio basso sul litorale del Lido giusto per far divertire i bagnanti sottostanti.

Incredibile, eri sempre tu anche quello! Io un po’ più grande mentre il campetto si stava riducendo per via di alcune nuove costruzioni però riuscivo sempre a vederti mentre mi passavi sopra e seguivo l’aereo mentre si abbassava all’orizzonte per atterrare a Tessera per poi riapparire, alcuni minuti dopo, nuovamente sopra la mia testa. Erano tempi quelli in cui l’addestramento si faceva “dal vero” con continui touch & go sulla pista, e che pista! E venne fuori tutto il tuo astio nei confronti dei simulatori di volo, “dai, installatelo sul PC che torni a imparare a pilotare”, mi provocavi, capii che eri un pilota all’antica per cui certe cose facevi fatica a digerirle.

Ascolta, lega da qualche parte quella bici prima che te la freghino che andiamo

Fu un attimo e quell’affare giallo fatto di legno e tela stava già sorvolando il Piave che, a causa del riflesso del sole, sembrava fatto di carta stagnola, “non eri ancora nato che ero già stufo di volare”, dicesti subito per tranquillizzarmi, niente di più falso, nel tuo caso, ti sei stancato prima di vivere che di volare. Non era tensione quella che tu percepivi in me, quando subito dopo il decollo, ti sei voltato per vedere come se la passava quell’inaspettato passeggero ma, l’inconsolabile tristezza di un aviatore rimasto fermo sul primo gradino della scalata verso il cielo.

Il ricordo di quel giorno quando mi presentai a rapporto dal comandante di corso per annunciarli la mia decisione di uscire dall’Accademia, non si è mai affievolito, sarò stato un debole ma, l’assurdità di quelle regole, le angherie subite da parte dei vecchi e dello “scelto” quel ragazzo che aveva neanche un anno più di me e che, si atteggiava a padrone assoluto della mia libertà, ebbero il sopravvento. Sapevo di buttare al vento tutti i sacrifici fatti per arrivare fin li ma, nei venti giorni che rimasi a Pozzuoli la mia immensa gioia per aver superato prove scritte, colloqui vari nonché accanite visite mediche, si trasformò in pianto per il violento impatto con la vita militare, “fanc.. anche a gradi e stellette, voglio solo volare e basta!” dissi fra me e me. Purtroppo, quel giorno che mi si chiuse alle spalle, senza appello, il portone dell’accademia aeronautica, si chiuse contemporaneamente, sempre ammesso che ce ne avesse uno, il cuore di mio padre. Sottufficiale di marina, non riuscì ad accettare la mia scelta, si era ormai vantato con mezzo mondo di avere un figlio in Accademia che, da li a qualche anno sarebbe diventato un alto ufficiale dell’Aeronautica Militare Italiana, la mia passione per il volo non contava, da quel giorno praticamente non mi parlò più.

Hai già avuto la tua occasione”, rispose freddo e distaccato al telefono, quando alla scuola di Alghero mi dissero in soldoni, che l’addestramento era a pagamento e, per ottenere la licenza di volo avrei dovuto sborsare una sessantina di milioni di allora, cifra della quale ovviamente non disponevo.

Si potrebbe ricominciare da Alghero”, certo che mentre mi mettevi la mano sulla spalla, sembravi proprio un prete che aveva appena ascoltato la mia confessione, solo a te poteva saltare in mente di farmi prendere la licenza di volo a quarant’anni suonati, eri stato istruttore pure lì prima che la scuola chiudesse ovviamente, tanto ormai avevo finito di stupirmi, di quell’esperienza, amara per certi versi, ti erano rimasti molti amici quelli che, avrebbero dovuto farmi spiccare nuovamente il volo ma, soprattutto l’amore per quella terra, tale da farti acquistare una casetta dove ogni estate ti trasferivi.

Da quell’estate, non è mancato anno che dalla spiaggia del Lazzaretto commentassimo gli atterraggi e i decolli da Fertilia, la nostra postazione ideale era il chiosco da cui, tra un sorso di birra e un altro inveivi contro quelli che definivi “computer con le ali” per pilotare i quali dicevi bastava fare un corso davanti a un PC e, se superavi l’esame, ti spedivano poi la licenza di volo via mail, esagerato, il bello era che qualcuno che, inevitabilmente ti stava ascoltando, ci credeva, dovevo poi io pensare a rassicurarlo visto che era terrorizzato a tornare a casa a bordo di uno di quei cosi. Avevi pietà solo per i “paperotti” a elica da Aeroclub sui quali avrei dovuto ricominciare amen, per una serie di cose la voglia mi era passata.

Anche quest’anno, sistemati bagagli e famiglia, mi sono presentato puntuale “a rapporto” dove sapevo di trovarti, pensavo scherzassi mentre mi chiedevi come mi chiamavo poi, mi hai parlato di un posto che sapeva una tale puzza di piscio che non avevi sentito nemmeno nei bagni degli avieri, dove saresti dovuto andare a trascorrere il resto dei tuoi giorni. Ripetevi come un mantra le ore di volo che avevi accumulato, le elencavi con precisione per tipo di aereo ma, non riuscivi a ricordare quasi nulla che riguardasse noi due, probabilmente era vero, sei esistito solo nella mia immaginazione, il riflesso di quello che avrei voluto essere, l’amico pilota immaginario.

Signore, scusi, lei è Massimo vero, il comandante Max”, a quella donna con accento dell’est che, sopraggiunse alle mie spalle, avevi ormai demandato la custodia della tua memoria, comandante, ho fatto fatica a trattenere le lacrime, mi avevi promosso pilota Honoris Causa, d’altronde ripetevi spesso che per te “ero comunque un aviatore” in quanto ne possedevo lo spirito, sorridevi con gli occhi fissi a fissare il mare come un bambino che lo vede per la prima volta poi, abbassando volutamente lo sguardo per sfuggire al mio, penso per vergogna, ti allontanasti frettolosamente a braccetto di quella donna, “Olga, si ricordi di dare al comandante quella cosa, mi raccomando … quella cosa”.

Hey Libero, hai visto, sto salendo a bordo di un MD82 ah no, scusa, un DC9, hai proprio ragione, sbirciando in cabina di pilotaggio si vedono ancora tanti strumenti belli tondi con le lancette, altro che schermi LCD e poi, il comandate, ha l’età che si merita per portare in aria questo bell’aereo filante, non è certo uno di quei “sbarbati” sulla trentina che vedi ai comandi nelle compagnie low cost. “A quell’età quattro botte sulle spalline! Quattro calci nel culo gli darei, non a loro, ma a chi li mette ai comandi di quei cosi”, il tuo sfogo riecheggiava tra i sedili. “Buongiorno”, salutai il brizzolato ai comandi, “Le porto il saluto di Libero, se lo ricorda? Sarà stato sicuramente lui che le ha insegnato il mestiere”, avrei voluto dire.

E’ proprio come dicevi tu Libero, senti come ‘sto DC9 stacca veloce dalla pista infuocata di Olbia, in quanto a velocità di salita non c’è AIRBUS che gli possa tenere testa, l’isola di Tavolara è l’ultima cosa della Sardegna che vedi prima che sparisca all’orizzonte, dietro le tue spalle. Prima di venire in aeroporto mi sono fermato nella minuscola caletta, scoperta assieme, da dove si gode un’ottima vista di Tavolara, ho appoggiato il diario su una roccia in modo che le sue pagine si impregnassero per l’ultima volta di quel vento caldo.

In quanti posti ci sei passato sopra ma, soprattutto in quante occasioni.

Ci sei passato sopra, quando la tua amata Aeronautica Militare non ha voluto abilitarti al tanto sognato “Spillone”, l’F104. A trentacinque anni per loro eri già vecchio, lodandoti e dicendoti che avevi già dato molto per la patria, ti hanno fatto capire che la tua carriera di ufficiale pilota di complemento, per quanto gli riguardava, poteva finire li.

Ci sei passato sopra, quando la compagnia ha deciso di mettere a terra l’intera flotta di MD80 dicendoti che, uno con la tua esperienza avrebbe potuto trovar facilmente lavoro in qualche sperduto angolo del pianeta dove, quei dinosauri volanti, continuavano ancora a volare.

Ci sei passato sopra, anche al fatto di non esserti mai fatto una famiglia regolare, ormai era andata così.

Non ci sei passato sopra, quando si è trattato di perdere definitivamente la tua libertà, se non altro per onorare il nome che porti.

Una frazione di secondo dopo il segnale delle cinture e avevo già la piccola Ely pronta a condividere con me il minuscolo oblò, quasi per miracolo, con i nasi spiaccicati e il fiato che lo appannava tutto, le nostre facce riuscivano a starci dentro.

Stai guardando se lo vedi vero?   Papà … come si diventa pilota?”

Si dice: Un pilota non muore mai, è solo volato più in alto

Il giorno dopo il nostro incontro, Libero sparì da casa, gli ultimi a vederlo furono i ragazzi del chiosco, malgrado la brutta mareggiata, se ne stava seduto serenamente a gambe incrociate davanti al mare agitato. A oggi, non è mai stato ritrovato.

Libero, in realtà Libero Antonio, deve il suo nome al fatto di essere nato il 28 aprile 1945. In piena euforia per la liberazione il padre, convinto antifascista, non ci pensò due volte a dargli quel nome, lasciò invece il secondo nome alla scelta della moglie. Iniziò molto presto il suo stretto rapporto con gli aerei, da quando il papà, tecnico alla FIAT AVIAZIONE, all’età di cinque anni, iniziò a portarlo al campo di volo.

Tutto questo e, ovviamente molto altro l’ho trovato nel diario che mi ha lasciato in custodia, sarebbe da scriverci un libro … probabilmente lo farò.

Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola. Richard Bach

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2016 Michele Camillo