Campare in aria – Aviatori nell’anima – Capitolo 4
Semplicemente un pilota
Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola.
Richard Bach
dal libro “Il gabbiano Jonathan Livingston”
“Quello che ci è sempre passato sopra”, non mi viene in mente frase migliore per definirti. Saranno passati quasi quarant’anni da quando ci passavi sopra nel campetto in fianco a casa, tutti noi bambini con gli occhi in allerta non appena sentivamo il rombo, per capire da dove saresti sbucato,un istante e il G91 sfrecciava sopra le nostre teste, “dai che torna”, dicevamo speranzosi, non ci deludevi, concedendoci un altro impressionante passaggio ancora più basso. Al giorno d’oggi, saresti finito sui giornali, quelli di sinistra ti avrebbero definito un cafone pilota di destra mentre, quelli di destra, uno scervellato pilota di sinistra. Ti saresti beccato una collezione di denunce dai genitori fra cui si trova sempre chi ha “il suo avvocato”; ci sarebbe stato un ambientalista dell’ultima ora pronto a affermare con matematica certezza che dal tuo tubo di scarico esce gas radioattivo, i cento e passa metri ai quali ci sorvolavi rendendoci felici, si sarebbero trasformati in dieci scarsi però, caro Libero, almeno della cosa sarebbe rimasto qualche immagine o video girato con lo smartphone, istantaneamente diffuso in rete per far guadagnare centomila “mi piace” al social-narcisista di turno invece, a noi bambini di allora ci rimane solo la memoria oltre a aver acceso in me la passione per il volo.
Il PIPER CUB mi ha sempre affascinato, un aereo che è sinonimo di libertà con il quale puoi atterrare dove vuoi, ti basta un campo, neanche tanto preparato, di un centinaio di metri; di colore giallo poi, “è la morte sua”, come si dice. Quella volta sul greto del Piave quando, come per magia, ne ho visto atterrare uno, decisi di non lasciarmi scappare l’occasione e, con il cuore in gola per lo sforzo e per l’emozione, pedalai a tutta birra per raggiungere il punto dell’atterraggio.
Si vede che sei sempre stato un signore, stavi per voltare il muso e ripartire subito ma, scorgendo quel pazzo in mountainbike che rischiava di ammazzarsi scivolando sul ghiaino, probabilmente per vedere il tuo aereo, hai deciso di spegnere il motore. “Calma giovane son qui e non scappo”, le tue parole abbatterono la mia proverbiale timidezza, non mi pareva vero, eccomi a parlare per la prima volta con aviatore vero, uno che ce l’aveva fatta a staccarsi da terra mentre io, ero rimasto l’eterno allievo pilota. Chissà perché, tirai subito fuori il discorso del campetto, “mi sa proprio che ero io”, quelle tue parole mi provocarono un tuffo al cuore, possibile, il destino.
Eri proprio tu che giovane ufficiale pilota di complemento dell’Aeronautica Militare prendevi di mira quel campetto per sparare una innocua raffica di foto dalla macchina piazzata sul muso del G91R, te lo eri scelto tu quel campetto come obiettivo per pura simpatia, a quei tempi era permesso appunto, ti eri pure accorto di noi bambini ed era proprio per farci contenti che ci ripassavi più volte.
Ti sei reso conto fin dall’inizio di essere un privilegiato a fare qual mestiere, per questo hai sempre avuto un occhio di riguardo per chi stava a terra con il naso all’insù ad ammirarti, “è il mio pubblico”, ammettevi con una punta di orgoglio. Questo tuo modo di pensare, nella tua carriera, ti ha inevitabilmente creato più di qualche grana, non contavi nemmeno più i richiami dei superiori per i passaggi “a pelo di capello” come li chiamavi tu, fatti in fase di atterraggio, al fine di accontentare chi ti ammirava aggrappato alla recinzione della base. Era più forte di te, quando vedevi qualcuno dei tuoi fans li giù gli concedevi quasi sempre il bis, ovvero due giri rasenti suolo prima di atterrare, “capitano, ce li mette lei i soldi del carburante che ha sprecato per le sue esibizioni”, era la frase ricorrente, vabbè, altri tempi e, come ho scritto prima certe cose si potevano ancora fare. Il vero pensiero proibito però lo facesti con il DC9 che tu, continuavi a chiamare tale anche quando divenne MD80, “tanto sempre un DC9 era”, ribadivi, erano gli anni quando ormai civile facevi l’istruttore in Alitalia. Stanco della routine prevista dal circuito di addestramento sull’aeroporto di Venezia ti venne l’idea che, per fortuna della tua carriera rimase tale, di fare un passaggio basso sul litorale del Lido giusto per far divertire i bagnanti sottostanti.
Incredibile, eri sempre tu anche quello! Io un po’ più grande mentre il campetto si stava riducendo per via di alcune nuove costruzioni però riuscivo sempre a vederti mentre mi passavi sopra e seguivo l’aereo mentre si abbassava all’orizzonte per atterrare a Tessera per poi riapparire, alcuni minuti dopo, nuovamente sopra la mia testa. Erano tempi quelli in cui l’addestramento si faceva “dal vero” con continui touch & go sulla pista, e che pista! E venne fuori tutto il tuo astio nei confronti dei simulatori di volo, “dai, installatelo sul PC che torni a imparare a pilotare”, mi provocavi, capii che eri un pilota all’antica per cui certe cose facevi fatica a digerirle.
“Ascolta, lega da qualche parte quella bici prima che te la freghino che andiamo”
Fu un attimo e quell’affare giallo fatto di legno e tela stava già sorvolando il Piave che, a causa del riflesso del sole, sembrava fatto di carta stagnola, “non eri ancora nato che ero già stufo di volare”, dicesti subito per tranquillizzarmi, niente di più falso, nel tuo caso, ti sei stancato prima di vivere che di volare. Non era tensione quella che tu percepivi in me, quando subito dopo il decollo, ti sei voltato per vedere come se la passava quell’inaspettato passeggero ma, l’inconsolabile tristezza di un aviatore rimasto fermo sul primo gradino della scalata verso il cielo.
Il ricordo di quel giorno quando mi presentai a rapporto dal comandante di corso per annunciarli la mia decisione di uscire dall’Accademia, non si è mai affievolito, sarò stato un debole ma, l’assurdità di quelle regole, le angherie subite da parte dei vecchi e dello “scelto” quel ragazzo che aveva neanche un anno più di me e che, si atteggiava a padrone assoluto della mia libertà, ebbero il sopravvento. Sapevo di buttare al vento tutti i sacrifici fatti per arrivare fin li ma, nei venti giorni che rimasi a Pozzuoli la mia immensa gioia per aver superato prove scritte, colloqui vari nonché accanite visite mediche, si trasformò in pianto per il violento impatto con la vita militare, “fanc.. anche a gradi e stellette, voglio solo volare e basta!” dissi fra me e me. Purtroppo, quel giorno che mi si chiuse alle spalle, senza appello, il portone dell’accademia aeronautica, si chiuse contemporaneamente, sempre ammesso che ce ne avesse uno, il cuore di mio padre. Sottufficiale di marina, non riuscì ad accettare la mia scelta, si era ormai vantato con mezzo mondo di avere un figlio in Accademia che, da li a qualche anno sarebbe diventato un alto ufficiale dell’Aeronautica Militare Italiana, la mia passione per il volo non contava, da quel giorno praticamente non mi parlò più.
“Hai già avuto la tua occasione”, rispose freddo e distaccato al telefono, quando alla scuola di Alghero mi dissero in soldoni, che l’addestramento era a pagamento e, per ottenere la licenza di volo avrei dovuto sborsare una sessantina di milioni di allora, cifra della quale ovviamente non disponevo.
“Si potrebbe ricominciare da Alghero”, certo che mentre mi mettevi la mano sulla spalla, sembravi proprio un prete che aveva appena ascoltato la mia confessione, solo a te poteva saltare in mente di farmi prendere la licenza di volo a quarant’anni suonati, eri stato istruttore pure lì prima che la scuola chiudesse ovviamente, tanto ormai avevo finito di stupirmi, di quell’esperienza, amara per certi versi, ti erano rimasti molti amici quelli che, avrebbero dovuto farmi spiccare nuovamente il volo ma, soprattutto l’amore per quella terra, tale da farti acquistare una casetta dove ogni estate ti trasferivi.
Da quell’estate, non è mancato anno che dalla spiaggia del Lazzaretto commentassimo gli atterraggi e i decolli da Fertilia, la nostra postazione ideale era il chiosco da cui, tra un sorso di birra e un altro inveivi contro quelli che definivi “computer con le ali” per pilotare i quali dicevi bastava fare un corso davanti a un PC e, se superavi l’esame, ti spedivano poi la licenza di volo via mail, esagerato, il bello era che qualcuno che, inevitabilmente ti stava ascoltando, ci credeva, dovevo poi io pensare a rassicurarlo visto che era terrorizzato a tornare a casa a bordo di uno di quei cosi. Avevi pietà solo per i “paperotti” a elica da Aeroclub sui quali avrei dovuto ricominciare amen, per una serie di cose la voglia mi era passata.
Anche quest’anno, sistemati bagagli e famiglia, mi sono presentato puntuale “a rapporto” dove sapevo di trovarti, pensavo scherzassi mentre mi chiedevi come mi chiamavo poi, mi hai parlato di un posto che sapeva una tale puzza di piscio che non avevi sentito nemmeno nei bagni degli avieri, dove saresti dovuto andare a trascorrere il resto dei tuoi giorni. Ripetevi come un mantra le ore di volo che avevi accumulato, le elencavi con precisione per tipo di aereo ma, non riuscivi a ricordare quasi nulla che riguardasse noi due, probabilmente era vero, sei esistito solo nella mia immaginazione, il riflesso di quello che avrei voluto essere, l’amico pilota immaginario.
“Signore, scusi, lei è Massimo vero, il comandante Max”, a quella donna con accento dell’est che, sopraggiunse alle mie spalle, avevi ormai demandato la custodia della tua memoria, comandante, ho fatto fatica a trattenere le lacrime, mi avevi promosso pilota Honoris Causa, d’altronde ripetevi spesso che per te “ero comunque un aviatore” in quanto ne possedevo lo spirito, sorridevi con gli occhi fissi a fissare il mare come un bambino che lo vede per la prima volta poi, abbassando volutamente lo sguardo per sfuggire al mio, penso per vergogna, ti allontanasti frettolosamente a braccetto di quella donna, “Olga, si ricordi di dare al comandante quella cosa, mi raccomando … quella cosa”.
Hey Libero, hai visto, sto salendo a bordo di un MD82 ah no, scusa, un DC9, hai proprio ragione, sbirciando in cabina di pilotaggio si vedono ancora tanti strumenti belli tondi con le lancette, altro che schermi LCD e poi, il comandate, ha l’età che si merita per portare in aria questo bell’aereo filante, non è certo uno di quei “sbarbati” sulla trentina che vedi ai comandi nelle compagnie low cost. “A quell’età quattro botte sulle spalline! Quattro calci nel culo gli darei, non a loro, ma a chi li mette ai comandi di quei cosi”, il tuo sfogo riecheggiava tra i sedili. “Buongiorno”, salutai il brizzolato ai comandi, “Le porto il saluto di Libero, se lo ricorda? Sarà stato sicuramente lui che le ha insegnato il mestiere”, avrei voluto dire.
E’ proprio come dicevi tu Libero, senti come ‘sto DC9 stacca veloce dalla pista infuocata di Olbia, in quanto a velocità di salita non c’è AIRBUS che gli possa tenere testa, l’isola di Tavolara è l’ultima cosa della Sardegna che vedi prima che sparisca all’orizzonte, dietro le tue spalle. Prima di venire in aeroporto mi sono fermato nella minuscola caletta, scoperta assieme, da dove si gode un’ottima vista di Tavolara, ho appoggiato il diario su una roccia in modo che le sue pagine si impregnassero per l’ultima volta di quel vento caldo.
In quanti posti ci sei passato sopra ma, soprattutto in quante occasioni.
Ci sei passato sopra, quando la tua amata Aeronautica Militare non ha voluto abilitarti al tanto sognato “Spillone”, l’F104. A trentacinque anni per loro eri già vecchio, lodandoti e dicendoti che avevi già dato molto per la patria, ti hanno fatto capire che la tua carriera di ufficiale pilota di complemento, per quanto gli riguardava, poteva finire li.
Ci sei passato sopra, quando la compagnia ha deciso di mettere a terra l’intera flotta di MD80 dicendoti che, uno con la tua esperienza avrebbe potuto trovar facilmente lavoro in qualche sperduto angolo del pianeta dove, quei dinosauri volanti, continuavano ancora a volare.
Ci sei passato sopra, anche al fatto di non esserti mai fatto una famiglia regolare, ormai era andata così.
Non ci sei passato sopra, quando si è trattato di perdere definitivamente la tua libertà, se non altro per onorare il nome che porti.
Una frazione di secondo dopo il segnale delle cinture e avevo già la piccola Ely pronta a condividere con me il minuscolo oblò, quasi per miracolo, con i nasi spiaccicati e il fiato che lo appannava tutto, le nostre facce riuscivano a starci dentro.
“Stai guardando se lo vedi vero? Papà … come si diventa pilota?”
Si dice: Un pilota non muore mai, è solo volato più in alto
Il giorno dopo il nostro incontro, Libero sparì da casa, gli ultimi a vederlo furono i ragazzi del chiosco, malgrado la brutta mareggiata, se ne stava seduto serenamente a gambe incrociate davanti al mare agitato. A oggi, non è mai stato ritrovato.
Libero, in realtà Libero Antonio, deve il suo nome al fatto di essere nato il 28 aprile 1945. In piena euforia per la liberazione il padre, convinto antifascista, non ci pensò due volte a dargli quel nome, lasciò invece il secondo nome alla scelta della moglie. Iniziò molto presto il suo stretto rapporto con gli aerei, da quando il papà, tecnico alla FIAT AVIAZIONE, all’età di cinque anni, iniziò a portarlo al campo di volo.
Tutto questo e, ovviamente molto altro l’ho trovato nel diario che mi ha lasciato in custodia, sarebbe da scriverci un libro … probabilmente lo farò.