A cavallo del Pony

Campare in aria – Aviatori nell’anima – Capitolo 3


Io, io sono un uomo, tutti mi chiamano Joe Temerario
Faccio mille acrobazie col mio aeroplano
E diecimila volte ho già toccato il cielo
Perché, come un falco io

Arrivo a tremila metri e poi mi butto giù in picchiata
Ma che emozione ogni volta sfidare la vita
Rotolando nel cielo sopra il mio aeroplano
Ma ogni sera resto solo, come stasera sono solo …

Ron – “Joe Temerario”

“Che roba! Aveva il carrello fuori e sarà andato al massimo a 50 km/h”; “’’desso ea nasse”, pensai, sfregandomi le mani di nascosto, cominciai a contare.

“Che aereo era?”, Fabietto interruppe bruscamente la conversazione tra le due operatrici; “quello delle Frecce Tricolori”; rispose seccata per l’intrusione; “immaginavo; aggiungi pure 100 e forse non basta, la velocità di stallo del 339 e di circa 84 Nodi, ovvero 155 Km/h, è un padre di famiglia, in certe condizioni, però, mi ha permesso di scendere anche a meno, ma non di tanto”. Memorabile quel giorno, godei come un matto, nel vedere la faccia inebetita della biondina, una new entry del posto.

Diedi alla tipa, una veloce spiegazione sui termini tecnici ma, soprattutto mi premurai di chiarire che, l’utente Fabio Mestriner, era un ex capitano pilota dell’Aeronautica. Mi fermai qui, inutile infierire e, raccontare che, c’era mancato un soffio che varcasse i cancelli della base di Rivolto e lo si vedesse sfrecciare in aria su “Pony 9”; “O mio Dio!”, esclamò la biondina con la mano davanti la bocca.

Non era la prima volta che mi capitava, ovvero che qualcuno si rendesse conto che “loro”, prima erano come “noi” e che, la sottile linea che separa “loro” da “noi”, ammesso che esista, è alquanto labile. Oltrepassare quella linea poi, diventare “loro”, è questione di un attimo, non te accorgi subito, forse non te accorgi mai. Comunque Fabietto, sarebbe sicuramente tornà in qua, come aveva sempre fatto, anche stavolta avrebbe trovato la sua via d’uscita.

Fabietto, in realtà non era basso di statura, lo chiamavano così perché era il più piccolo di tre fratelli ben più grandi di lui. Fin che eravamo bambini, la nostra passione aviatoria veniva ben tollerata dai rispettivi genitori, il massimo del loro sacrificio consisteva nell’esborso di qualche carta da mille per l’acquisto di libri, riviste, modellini e altre troiate del genere. Terminate le medie, si resero conto che non si trattava di un semplice sogno infantile e, iniziarono, quasi contemporaneamente, a prendere le loro contromisure. Cominciarono con l’ignorare i nostri progetti, soprattutto riguardo le scelte scolastiche, passarono poi a infondere sensi di colpa facendo leva sull’età avanzata e la salute precaria. Troppo difficile intavolare seriamente un discorso; eravamo semplicemente insemenii e incocaii, dei deficienti con i quali era inutile parlare; sul nostro futuro decidevano loro, per cui, preferivano la tecnica del non detto, convinti che, alla fine, ci saremo tolti certe idee dalla testa. Specie nei nostri padri, era insita una atavica rassegnazione, fin dal medioevo era sancito che se eri figlio di operai, non potevi far altro che l’operaio; se, eventualmente ti fosse andata bene al massimo l’impiegato; quello era il destino che ci attendeva. Un giorno, spazientito dai miei discorsi, el Bepi, mio padre, mi urlò sulle orecchie; “el pilota, come i cantanti, i attori e … anca i preti, xe mestieri par puttanieri!”, chiuso l’argomento. Ad un certo punto avevamo la netta sensazione che, entrambi i nostri vecchi, ci avessero voluto al mondo esclusivamente per restare in casa a fargli da badanti.

Visto come si mettevano le cose, Fabietto giocò d’astuzia, senza dir niente a nessuno, si iscrisse al concorso per Allievo Ufficiale Pilota di Complemento dell’Aeronautica Militare. Quando lo convocarono per la selezione, disse ai suoi che doveva partecipare a un non ben precisato concorso pubblico “zo in bass’Italia”, senza entrare nei dettagli; i vecchi erano tranquilli, concorso pubblico equivaleva a posto fisso ovvero, schei sicuri in scarsea. L’atomica scoppiò nel luglio del 1984, a casa Mestriner arrivò un telegramma che, a prima vista, sembrava la tanto temuta chiamata alla naja per Fabio. Sior Piero, vecchio, con solo la quinta elementare ma, non mona, quando, in barba alla privacy, aprì la busta, e lesse che il figlio doveva presentarsi il 3 settembre presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, mangiò non la foglia ma, l’intero albero, el figher che, a detta della Marisa Manera, quella che in vietta, xe fa i cassi de ‘staltri da ea matina aea sera, perse le foglie a causa delle sue urla.

In tempi in cui non esistevano i social network, il protocollo da seguire in vietta affinché tutti savesse, era sempre lo stesso, finestre aperte e fiato alle corde vocali, “Erce! Dodese anni, cossa femo mi e to’ mare” , 12 anni, in effetti, un po’ lunga come naja. “Ti ga sentio”, era la frase che confermava l’avvenuta ricezione dell’annuncio pubblico; mio padre, mi fulminò con gli occhi, “ti ga fatto anca ti ea stessa roba?”, neanche avessimo ammazzato qualcuno insieme. Lo tranquillizzai, con me non correva pericoli, io ero giovane, avevo appena preso il diploma, ma ero mona.

Da quel giorno, i rapporti con la famiglia, per usare un termine aeronautico, precipitarono in picchiata; ebbe contro pure i fratelli, convinti che fosse una mossa tattica per sfuggire ai doveri verso gli anziani genitori e lasciare sul loro groppone, l’onere di occuparsi dei vecchi. In quel periodo, stava facendo la stagione a Jesolo, non tornò più a casa nei giorni di riposo e, il 2 settembre, zaino in spalla, fece tutta una tirata Jesolo – Pozzuoli, o quasi. Considerato il serio rischio che, in un momento di rabbia, qualcuno dei suoi, buttasse tutto nelle scoasse, con un blitz, degno delle più grandi operazioni segrete della storia, trasferimmo, nella mia cameretta, tutto il suo prezioso materiale “aeronautico” finora accumulato; comprese alcune storiche scatole di montaggio di aerei AIRFIX che, non dovevano essere aperte per nessuna ragione; si era ripromesso che, un giorno, da vecchio pilota pensionato, li avrebbe costruiti.

Purtroppo, non c’era ancora WhatsApp che, ci avrebbe permesso di tenerci aggiornati a vicenda su quante volte si va a pisciare, per cui, dovetti, pazientemente aspettare le sue missive; spesso mi allegava una foto, mi inorgogliva sapere che scriveva solo a me e a nessun altro.

23 settembre 1984

“Sono qui, seduto piedi a penzoloni, sul muretto di una terrazza panoramica a capo Miseno. Causa punizioni e altre menate militaresche , questa è la prima domenica di libera uscita. All’orizzonte, dall’altro capo del golfo, vedo la sagoma della tanto agognata Accademia Aeronautica, quel luogo incantato e fantastico che sognavamo da ragazzi. Non è proprio così; in questo primo periodo è una prova continua, ce la mettono tutta, e anche con una certa dose di sadismo, per farti desistere e tornare a casa. Ho visto ragazzi di venti e passa anni, piangere di nascosto; gli ho chiesto se erano mai stati in colonia a Bibione; ovviamente non hanno capito, tu invece si, vero?

Ma ti ricordi? Avevamo appena 6 anni; devo ancora capire se ci era toccato andarci perché i nostri, volevano sfruttare quell’occasione di vacanza gratis, concessa da mamma Montedison ai figli sfigati dei dipendenti di fascia bassa oppure, semplicemente, ci volevano fuori dalle palle per un mese.

Me la ricorderò fin che vivrò, la maledetta colonia CIF di Bibione, ci fecero provare l’ebrezza della naja anzitempo; camerate stracolme, alzabandiera, ginnastica all’alba, punizioni e regolamenti ferrei. Per non parlare delle “signorine” preposte alla nostra sorveglianza, puro concentrato di arroganza, stronzaggine e sadismo; il loro corrispondente in Accademia è lo “scelto”, un ragazzo della nostra età che è qui solo da qualche mese in più; almeno lui si comporta così perché gli è stato ordinato e comunque, come dicono i nostri vecchi xe tutta ‘na roda, nel senso che, magari un domani, toccherà pure a me ricoprire un ruolo per il quale forse, verrò odiato.

Ogni mattina ci chiedono se qualcuno deve marcare visita. “Marcare visita”, ma ci pensi? Io e te abbiamo imparato a farlo alla tenera età di 6 anni, non appena scoprimmo che in infermeria si faceva la bella vita; camerette da due con Tv, pranzo e cena serviti a letto, the e biscotti al pomeriggio. Che figata, ti ricordi, io e te da soli a far cuscinate; a me poi, quella volta andò di culo, mi beccai il morbillo così, ma ne tornai a casa comodo, comodo, in taxi. La malattia mi condonò tre settimane di detenzione in quel posto schifoso.

Una settimana fa, durante l’adunata mattutina, mi sono messo a ridere, ci è mancato poco che lo “scelto” mi rifilasse l’ennesima punizione, mi era di colpo venuta in mente la “nostra accademia”, la mitica adunata nel piazzaletto antistante il civico 1 del CEP. Cavolo, avevi ragione, ‘sta accademia assomiglia tantissimo al CEP; c’è sempre qualcuno che manda in culo di sua madre qualcun altro e si alzano in cielo imprecazioni colorite e fantasiose di ogni tipo con la differenza che qui, puoi sentirne la versione in centinaia di dialetti diversi e non solo in venexian. Non ci crederai ma, in fin dei conti, la colonia e la “nostra accademia”, mi sono serviti per prepararmi a questi, spero pochi, mesi di inquadramento militare poi, via a Latina per imparare a volare. Inquadramento, che brutta parola, sono un militare, gli istruttori devono indottrinarti, è il loro mestiere o forse un grande gioco, simile a quello che facemmo noi nell’estate del 1977 per cui, sto al gioco, l’importante è non farsi cambiare dentro.

Anche questo posto mi è familiare, sembra lo stesso muretto della darsena del “Marco Polo”. Ore e ore seduti sempre con i piedi a penzoloni pazientemente ad aspettare l’arrivo di un aereo per poi, di corsa, salire su in terrazza. Lunghe ore di attesa nelle quali gli unici che volavano erano i gabbiani, liberi da qualsiasi vincolo di rotta e orario. Pure qui, sulla scogliera ce ne sono un sacco, tra loro mi pare di vedere Jonathan Livingston, credo di essere come lui, l’importante è volare per la gioia di farlo. Per quanto mi insegneranno che è un mestiere, un dovere verso la patria, dentro di me sarà per sempre e solo una passione, quella che da ragazzino ti me gà petà trascorrendo intere giornate sulla terrazza dell’aeroporto.”

Era destino che, nella nostra vita, ci fosse sempre un muretto su cui stare con i piedi a penzoloni. Quello sul lungomare di Santa Maria al Bagno, nell’agosto del 1988, simboleggiò il ritrovarci dopo ben 4 anni. Con la mia scassatissima Ritmo, percorsi quasi 1000 kilometri per passarci le ferie assieme.

Il tenente Mestriner era ormai diventato un “sior pilota” o meglio “professor pilota” come l’avevo soprannominato. La sua scuola era il 61° stormo, la sua aula il cielo della Puglia e la sua cattedra l’Aermacchi MB 339. Quell’aereo ci aveva affascinato sin da quando nel settembre del 1981 lo “incontrammo” per la prima volta a Rivolto nella sua bellissima livrea bianco e arancione da prototipo; l’anno seguente, avrebbe sostituito i gloriosi FIAT G91 delle Frecce Tricolori. Il nuovo addestratore dell’Aeronautica Militare, in religioso silenzio, ci soffermammo parecchio tempo al suo cospetto per ammirarlo; di li a qualche anno, se i nostri sogni si fossero avverati, ci sarebbe toccato salirci.

Finora, l’unico a cui il destino aveva riservato questo privilegio era lui, del nostro compagno di “accademia”, il Giand, si erano perse le tracce anche se, Fabietto era quasi sicuro di averlo visto tra i “pinguini” del corso Centauro IV; non gli era stato comunque possibile verificare in quanto, tra gli allievi ufficiali piloti di complemento e loro, i “normali” c’era una specie di barriera inviolabile. Dal giorno della 12^ missione, quando, sul seggiolino posteriore non c’era nessuno, ed era rimasto solo lui a pilotare quell’aereo che, qualche anno prima, tenuto a debita distanza da una transenna, aveva potuto solo guardare; era l’uomo più felice sulla terra. Tra lui e il 339 si instaurò qualcosa che andava al di là del semplice rapporto uomo macchina che non è mai riuscito a spiegarmi. Quando il colonnello, comandante della base, alla fine del corso, gli aveva comunicato che sarebbe rimasto a Galatina, Fabietto, memore dell’esperienza delle superiori, pensò di essere stato rimandato, eppure, non gli sembrava, almeno in fatto di pilotaggio, di essere uno zuccone. E invece no, il mio compagno di accademia, quella del ’77, da quel giorno si sarebbe seduto sul seggiolino posteriore come istruttore.

Per due settimane parlammo solo di aerei e fighe, in entrambi gli argomenti, rispetto al mio amico, ero nettamente in svantaggio; per non sfigurare del tutto, preferivo parlare di aerei.

Non potei esimermi dall’assistere a uno dei suoi voli, d’altronde come ricompensa, mi aveva promesso di strafogarmi a sbaffo al circolo ufficiali nonché una tonnellata di gadget compreso un modellino in ferro delle mitiche Frecce Tricolori. Mentre saliva a bordo, continuava a voltarsi verso di me; pareva un bambino in cerca dello sguardo di approvazione di quel padre che, almeno una volta nella vita, gli dicesse, “bravo!”. La maschera dell’ossigeno e la visiera oscuravano completamente il volto, immaginavo comunque il suo sguardo sorridente e divertito; per me, era il fratello che avrei sempre voluto avere e, del quale andare orgoglioso. Un rombo assordante e, il grigio 339, decollò infilandosi in verticale a bucare con precisione, l’unica nuvoletta presente in quel cielo terso, in pochi attimi, un looping perfetto da sembrare disegnato con il compasso, lo portò ad accarezzare la sommità degli ulivi con le ali poi, di nuovo su a vite fino a fermarsi, incredibile, l’aereo cadde all’indietro in verticale e parve precipitare, un boato, motore al massimo e il compare riprese il controllo del veicolo.

“MIMORTI !!”, l’esclamazione in perfetto slang venexian vulgaris, echeggiò, credo per la prima volta nella storia del 61° stormo, nell’hangar alle mie spalle dove mi ero riparato per cercare un po’ di ombra. I pochi presenti mi guardarono in modo strano, in effetti, era a malapena tollerato che un caveon in divisa estiva d’ordinanza da bueon-casual ovvero; canotta made in China con vistoso alone di sudore e scritta “didas”, pantaloni corti di jeans de marca “Giorgio Armanno” e simil Birkenstock puzzolenti ai piedi; si trovasse in quel luogo sacro alla patria. Mi preoccupò il veloce avvicinarsi di uno smilzo con i Ray-Ban e un sacco di strisce d’orate sulle spalline; ero riuscito, per una serie di fortunate circostanze, a evitare la naja, ma quello aveva tutta l’aria di volermela far fare comunque, a partire dall’indomani; iniziò a tremarmi il culo.

“Che ne dice? E’ pronto?”, era il mitico colonnello, avrà avuto si e no dieci anni più di me caspita, come fanno presto a far carriera in Aeronautica. “Che?”, chiesi stordito dal rombo del 339, che ora stava facendo un velocissimo passaggio a testa in giù, “se lo faccia dire dal suo amico”, rispose sorridente l’alto ufficiale; il culo smise di tremare. Pronto o no, nel suo modo di volare non c’era solo tecnica, ci metteva l’anima. A vederlo solo in cielo, mentre al bordo del torrido piazzale ero l’unico spettatore, faceva pure un po’ di malinconia, sembrava proprio il “Joe Temerario” dell’omonima canzone.

La spiegazione, anche se la intuivo, arrivò sotto il cielo stellato a sant’Isidoro, se andava tutto bene, presto avrebbe fatto le valigie per Rivolto, l’estate successiva, tutto il mondo l’avrebbe visto solcare i cieli a cavallo del Pony.

Il viaggio di ritorno mi parve eterno, io e la vecchia Ritmo, stremati dal caldo, risalimmo lentamente al nord. Quasi 1000 kilometri di asfalto rovente, passati a fare il bilancio della mia esistenza. Non provavo invidia nei confronti di Fabietto, era semplicemente la proiezione di quello che avrei voluto essere. In quei giorni era stato parecchio tacchente, non riusciva a capire come mai, non mi fossi iscritto pure io al quel concorso; divagavo magistralmente mentre continuava a tempestarmi di domande riguardo la mia passione aviatoria.

Il fatto è che ero confuso, non avevo il coraggio di confessargli le mie paure, riaffiorate di colpo in quei giorni. Cominciarono quando mi scorrazzò sulla sua moto, mi cagavo addosso quando sfioravamo ad alta velocità i muretti a secco, non vedevo l’ora di arrivare a destinazione e scendere; una volta arrivati al mare mi prese il terrore per il fatto che, in meno di due metri dalla riva, non toccavo già più il fondo. Il massimo del panico lo raggiunsi quando l’amico ventilò l’ipotesi di farmi fare un voletto sul 339, alla sola idea iniziai a grondare di sudore e mi prese la tachicardia galoppante; per fortuna era solo un misero tenentino e non riuscì nell’intento, se fosse stato comandante della base, avrei finito i mei giorni terreni sul seggiolino posteriore colto da infarto, ancor prima di imboccare la pista “pilota de ‘sto casso”, mi dissi impietoso.

L’interminabile A14, il 339 l’avrebbe percorsa in neanche un’ora, la Ritmo procedeva ad andamento lento e con i finestrini aperti, mi superavano persino i camion, lo stesso, finora, era successo nella mia vita, mi avevano superato praticamente tutti. Figurarsi se avrei fatto il concorso in Aeronautica; implicava il dover partecipare a una selezione e quindi, competere con qualcun altro; al solo pensiero la paura mi bloccava.

A casa mi aspettavano le paranoie di Maria, avrebbe continuato a tormentarmi sul perché non l’avevo portata con me in Puglia, anche questo, mentre inesorabili come il tempo, scorrevano le linee della mezzeria, fu un argomento di riflessione. Fabietto, a suo tempo, mi mise in guardia; secondo lui dovevo stare alla larga dalle ragazze di parrocchia, se ti mettevi con una di loro, dovevi, pena bruciare all’inferno, ciecamente sottostare alle leggi emanate dal clero, ovvero tenertela a vita e non trombarla prima del matrimonio e, anche dopo, trombarla solo per fare figli. Lui, per evitare tutto questo, aveva abbandonato da tempo, parrocchia e relativa ragazza, credo, dopo averla pure trombata; ce l’aveva a morte con i preti, non con Dio, precisava, rei di preoccuparsi solo che i giovani non trombassero abusivamente in coppia o, come alternativa, da soli; mentre, se per caso venivano maltrattati in famiglia oppure, non avevano niente da mettere sotto i denti, non era affare loro.

Il mio amico, da innato aviatore, iniziò ben presto a volare alto, mentre io rimanevo statico a terra, non riuscivo a far volare nemmeno i modellini che costruivo; aveva sempre le idee chiare, o era si o era no, mentre io, continuavo a campare con centomila “ma si”.

.. Se tutto andava bene aveva detto il colonello. Il 28 agosto, una nube oscura calò sull’acrobazia aerea, tre Pony cessarono di cavalcare uccidendo i loro piloti e 67 persone. Fabietto capì subito che doveva riporre quella valigia piena di speranze; dopo un po’ lui e pure il “suo” Colonnello dovettero farne un’altra e lasciare per sempre l’azzurro cielo pugliese.

14 ottobre 1988

“ Non credo proprio ti inviterò a passare un po’ di giorni qui in Inghilterra; primo perché quel rutto della tua Ritmo 60 CL alla sola idea, ti pianterebbe all’incrocio di via Bagaron; secondo non ho niente di particolare da offrirti se non birra a fiumi per dimenticare che qua piove un giorno si e un giorno anca.

L’altro ieri, al telefono mia mamma ha esordito con un “ma non ti me disi niente”; ea Pina gli ha detto che ha saputo dalla Marisa che ha sentito da siora Gina, che ero nelle Frecce Tricolori; ho idea, come si dice, che qualcun gà pissà un fià fora dal bocal. Prendi “Aviazione Oggi”, quella che ti ho concesso in comodato d’uso quando partii per Pozzuoli, e che, prima o poi verrò a riprendermi con tutto il resto, leggiti bene tutte le informazioni sul TORNADO; solo dopo, puoi passare in bottega da “Cesco l’onto”, el fritoin, a erudire le pie donne circa la mia carriera in Aeronautica; spero solo di non sentire frasi del tipo, “..’desso el xe in Inghilterra, quasi in America, pilota personal dea Regina”.

Sono qui a Cottesmore, ridente, si fa per dire, villaggio nel mezzo del Countryside inglese, seduto, piedi a penzoloni, su un muretto a secco con vista su un gregge di pecore; all’orizzonte nuvoloni grigi che mi fanno sembrare lontanissimi i tempi di Galatina. Il tempo è perfettamente intonato al mio umore; non mi è per niente facile rassegnarmi a star seduto dietro sul TORNADO; significa fare il navigatore ma, non è come su una macchina da rally, quello purtroppo per trovare la strada su arrangia quasi automaticamente, il mio compito sarà quello, come diciamo noi, de strucar el botton al momento giusto. Me l’hanno venduta come una normale tappa della mia carriera, che presa per il culo, in realtà questo nuovo ruolo in Aeronautica, non piace a nessuno; mi sa, invece, che sarò destinato a finire la carriera sentà da drio a sganciare missili e bombe qua e la.

A volte, per renderti conto di come stanno in realtà le cose, ci metti un sacco di tempo, magari lo sai, fai finta di niente e lasci passare gli anni; sono un militare e, gli aerei che piloto, o meglio, su cui, semplicemente mi siedo sopra, sono delle armi. Un po’ come quando ti dicevo che frequentavi la parrocchia solo per cercare la figa e non per un presunto nobile ideale. Io che, al contrario di te, mi sono tenuto alla larga da preti e affini per cercare la figa al “Ranch”, dove, ti assicuro, ce n’era tanta, non sono comunque mai stato un guerrafondaio. Ti ricordi che quando c’era cagnara io ma, soprattutto te, eravamo sempre quelli che le prendevano; vabbè, ho promesso più di qualche volta che, quando sarei diventato pilota, avrei bombardato i fioi dei paeassoni oppure che, avrei polverizzato quello di elettrotecnica e la sua merdosa bicicletta lanciandogli un missile a guida laser; scherzavo ovviamente e poi, non avrei mai caricato le bombe con esplosivo ma con una buona dose di pisso e merda.

Per cui, caro socio, il momento giusto, spero non arrivi mai.”

Per il capitano Mestriner, Il momento giusto, non tardò ad arrivare, prima la guerra nel golfo e poi quella nei balcani. Non ho mai saputo se, e quante volte, avesse strucà el boton; seduti, con i piedi a penzoloni, sulla riva della darsena in aeroporto, mi raccontava solo dei suoi continui incubi notturni. Cercavamo di far passare il tempo lentamente per assaporare a pieno quei pomeriggi di libertà, parlando di aerei e fighe, poi, come facevamo vent’anni prima, inforcavamo le nostre biciclette e lo accompagnavo, in comunità si cenava presto.

9 ottobre 2004

“Stavolta, socio, tocca a me scrivere. Il posto dove sei ora, ironia della sorte, è vicino a un vecchio campo di aviazione da dove, ai primordi dell’aviazione, decollavano i dirigibili. Mi avevano chiesto di leggere qualcosa ma, come sempre, mi sono cagato addosso, scusami. Pensavo venisse più gente; mi sono reso conto però che eri semplicemente uno scampà de casa par metar ea firma in aviassion e, da quando sei definitivamente “atterrato” a casa, tutti facevano finta di non conoscerti, in fin dei conti, non è bello farsi vedere assieme a un sbaeon, un via de testa; svanite anche tutte le cocche che ti gironzolavano attorno, compresa Simona che, quando eri un promettente capitano del 6° stormo, era pronta a giurare amore eterno, sposandoti. Comunque, hai visto, quel giovane prete ha fatto una bella predica; per forza, gli ho raccontato tutto io e, giuro, non ghe gò messo ea zonta, come mio solito. Abbiamo parlato di te per ore, secondo lui saresti più de cesa tu che tanti altri seduti in primo banco, gli sarebbe piaciuto averti conosciuto, penso sareste diventati amici. Credo che, dall’alto, avrai visto come ti hanno conciato, vestito in divisa, capelli e barba fatta, che paiassada! Avrai anche visto che ti ho fregato l’aquila turrita e lo stemma dei “Diavoli Rossi”, penso sia stato tu a guidare la mia mano lesta; quei ricordi mi spettano di diritto.

Ti mancava la libertà, come quando eravamo in colonia; ora capisco che, come allora, la malattia, è stata la via di uscita per tornare su nel cielo, che fio de bona dona! Era giunto il momento di tirare quella maniglia gialla e nera “ejetc ejetc capitano”, l’accensione del razzo sotto il seggiolino e, in una frazione di secondo sei fuori da quell’abitacolo che ormai è diventato stretto e pericoloso, salvo! Mi consola il fatto che i militari non sono riusciti a cambiarti dentro, per noi due i vari F104, Tornado, F14 e compagnia briscola, rimarranno per sempre degli innocenti modellini venduti a pezzi, da incollare e dipingere. A proposito, le scatole AIRFIX che mi hai lasciato, le conservo sempre in garage, rigorosamente chiuse come mi avevi raccomandato, se un giorno, in tua memoria, posso aprirle e iniziare a costruire i modellini, batti un colpo.

Ciao socio, io rimango qua, seduto con i piedi a penzoloni su un muretto a sognare invidioso di vederti sfrecciare lassù, a cavallo del Pony”.

Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo perché là siete stati e là vorrete tornare.
(Leonardo da Vinci)

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