La rete dell’aeroporto

La rete dell’aeroporto è sempre stata un confine, almeno per chi la vedeva dall’esterno: un limite tra ciò che è accessibile e ciò che è proibito. Per me, invece, quella rete rappresentava molto di più. Era il confine tra fantasia e realtà, tra terra e cielo, tra quotidianità e avventura.  

La prima volta che mi aggrappai a quella rete, avrò avuto sì e no cinque anni. Ricordo ancora mio padre, che mi sollevò dal ferro della sua bicicletta e mi piazzò davanti a quelle maglie di metallo. 

Al di là di quella la rete, scorsi un mondo fantastico, quasi magico: una distesa infinita di asfalto che sfiorava il cielo, gli aerei che dormivano come giganti tranquilli e poi, all’improvviso, il ruggito di un motore, un aereo che prendeva vita, correva veloce e si staccava da terra  

Ero incantato. Ma prima che potessi imprimere quell’immagine nella mia memoria, sentii le mani forti di mio padre che mi staccavano dalla rete, con la stessa decisione con cui strappava le erbacce dai campi. Per lui, il tempo passato lì era inutile. La realtà non era nei cieli, ma nei solchi della terra, nella fatica che ogni giorno lo aspettava. Gli animali da accudire e i campi da coltivare: quello era il suo mondo, il nostro mondo. 

Tornai a casa con le lacrime agli occhi. Ma dentro di me, qualcosa era cambiato. Non riuscivo a smettere di pensare a quell’aereo che si perdeva nell’orizzonte infinito. In quel momento, decisi, anche se non ne capivo ancora il significato, che in quel mondo ci volevo entrare. 

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E adesso dove andiamo?”, mi chiese Lea, la mia amichetta del cuore, con quella luce negli occhi che rendeva ogni sua domanda un invito all’avventura. Lo ricordo come se fosse ieri, quel pomeriggio in cui, in sella alle nostre biciclette, passammo il ponticello sul canale; era come oltrepassare una frontiera invisibile. Per la prima volta i nostri genitori ci avevano dato il permesso di andare oltre, liberi e indipendenti come piccoli esploratori del mondo. 

A vedere gli aerei”, risposi con un sorriso pieno di eccitazione. Non ci fu bisogno di convincerla: Lea mi seguì senza esitazione, pedalando al mio fianco con quell’entusiasmo che sembrava illuminare tutto attorno a lei. 

Anche a Lea piacevano gli aerei. Le avevo trasmesso la mia passione con i miei racconti, e ora condividevamo quel sogno che sembrava fatto d’aria, di ali e di libertà. Lei sognava di diventare una hostess e portare il suo sorriso in ogni angolo del mondo. Quando me ne parlava, io la ascoltavo incantato con una profonda ammirazione. Già allora, in un angolo nascosto del cuore, presagivo che Lea sarebbe andata lontano da quel posto in mezzo ai campi dove abitavamo. Ma in quel momento, in quell’istante perfetto, era ancora al mio fianco. La mia complice. La mia alleata. Il mio tutto. 

L’aeroporto non era proprio a un tiro di schioppo, ma i nostri genitori si fidavano di noi, nonostante avessimo solo dieci anni, pensavano che fossimo ormai grandi. In realtà era Lea a essere grande, e io semplicemente lo diventavo per osmosi, grazie a lei. Possedeva un’intelligenza straordinaria, una simpatia contagiosa e la maturità di una con dieci anni in più. 

Quando ero con Lea, mi sentivo felice, sicuro, ma soprattutto considerato. Non rideva mai di me come facevano gli altri; ascoltava ogni mia parola come se fosse importante, come se contenesse qualcosa di prezioso. Accanto a lei, mi sembrava che il mondo si aprisse davanti ai nostri occhi, infinito e pieno di possibilità. 

Arrivammo lì, con il cuore che ci batteva forte. Quella volta nessuno si affrettò a staccarmi dalla rete, nessuna voce a richiamarmi indietro. Ero libero, finalmente, di guardare. Rimasi immobile, in equilibrio instabile sulla mia bicicletta, mentre un aereo si staccava dalla pista e si lanciava verso il cielo come un’aquila in cerca di vento. Il rombo del motore era un canto profondo, un richiamo antico che sembrava risuonare non solo fuori, ma anche dentro di me. 

In quel momento capii una cosa che non avevo mai osato dire ad alta voce: non volevo rimanere ancorato alla terra. Quella terra che mio padre considerava rifugio e certezza, per me era diventata una gabbia. Una prigione fatta di polvere e sudore, di giorni sempre uguali. Volevo staccare la mia ombra da quella terra che conosceva solo fatica. Volevo spezzare le catene invisibili che mi legavano al suolo. Per farlo, dovevo volare. 

Voltai lo sguardo verso Lea, con una decisione che mai prima avevo avuto il coraggio di esprimere. “Diventerò un pilota,” le dissi, la voce tremante e sicura insieme, come una promessa fatta al vento. Lei sorrise, uno di quei sorrisi che contengono tutta la forza del mondo. “Lo diventerai, ne sono sicura”, rispose, e le sue mani si posarono sulle mie, ancora aggrappate alla rete dell’aeroporto, come a sigillare un patto segreto tra il sogno e la realtà. In quel momento, non c’era più confine tra terra e cielo. C’era solo la promessa del volo. 

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Non credo ci siano tante persone che come me, si sono iscritte, di nascosto dai genitori, al concorso per allievi ufficiali piloti. Era un richiamo a cui non potevo sottrarmi, quasi una ribellione contro una vita che sembrava già scritta, una vita in cui immaginavo ogni passo prima ancora di compierlo. 

Quando arrivò il telegramma di convocazione, che mi comunicava di aver superato la selezione, fu come se avessi ricevuto un passaporto per una vita nuova, una via di fuga verso il cielo. Avevo una settimana di tempo per presentarmi in Accademia a Pozzuoli. A quel punto realizzai che mi trovavo di fronte a una svolta e iniziai a sudare freddo. 

Quella scelta significava soprattutto staccarmi da quei due genitori anziani che contavano su di me, che mi avrebbero voluto al loro fianco, per sempre, quasi come un’ombra fedele. La loro aspettativa era chiara: ero destinato a restare lì, come un badante, a prendermi cura di loro e della casa, a vivere la loro stessa vita. 

Non ci pensai due volte, il mio sogno non si poteva spegnere e così presi la decisione di partire. Raccolsi le mie cose, e me ne andai, letteralmente scappando di casa. Quello era il mio posto, anche se significava perdere qualcosa, allontanarmi dai miei affetti e dall’unico mondo che conoscevo. 

Varcai l’ingresso dell’Accademia Aeronautica senza voltarmi indietro; e, senza mai voltarmi indietro, affrontai i mille ostacoli di quel primo anno, primo fra tutti le angherie dei vecchi. 

Ogni giorno era un sacrificio tra adunate all’alba, marce sfinenti, ore sui banchi e continue selezioni. Per vedermi appuntare quell’aquila turrita sulla giacca ed inseguire il cielo dovetti pagare un certo prezzo ma, alla fine, ne valse la pena. 

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“EJECT, EJECT, EJETC” 

Sento ancora chiaramente quelle terribili parole dal suono metallico che rimbombavano dentro il casco. Era vero quello che avevo sentito raccontare ovvero che, da quell’istante tutto rallenta. I secondi sembravano interminabili minuti. 

Avevo da poco superato la recinzione della base e intravisto le persone che guardavano gli aerei come facevo io da bambino, non mi pareva ci fosse niente di anomalo, solo un gran dolore improvviso su tutto il corpo e le mani che non riuscivano a stringere i comandi. 

Era una sequenza studiata a memoria nei manuali ma, che nessun pilota di augurava di dover fare; perché tirare quel cordino giallo e nero che ti spara fuori dall’aereo era, oltre che un gesto estremo, una sconfitta. 

Dopo, solo quell’immagine del mio corpo che si separava dall’aereo. Più di qualcuno mi ha detto che non era possibile che ricordassi ma io, ancora oggi ce l’ho nitidamente impressa nella mente; perché, quell’istante mi separò da ciò che ero stato fino ad allora: un aviatore, libero e invincibile. 

Dal mio letto di ospedale continuavo a ripetere con quel filo di voce che mi era rimasto “overhead motore”. Il capitano medico della base continuava a scuotere il capo, sembrava non sentire le mie parole ma, solo quelle del medico ospedaliero che gli ripeteva “cardiomiopatia” seguita da altri strani paroloni. 

Quel giorno, quando il mio corpo fu scaraventato fuori dall’aereo, fu come se un’intera vita mi venisse strappata via. Capii che qualcosa dentro di me si era spezzato per sempre. Da quel momento mi ritrovai un uomo vulnerabile e pieno di paure che non avevo mai avuto; prima fra tutte quella della morte. 

Improvvisamente mi trovai di fronte a un futuro incerto, privo di fondamenta solide, senza alcuna motivazione che mi spingesse avanti. 

Anche la mia fede, quella che fino a quel momento credevo di avere, cominciò a sgretolarsi. Dio, che avevo sempre considerato un faro nella tempesta, ora appariva come una creazione umana, un’illusione nata dal bisogno disperato di credere nell’eternità. Ma quell’eternità, per me, si era infranta al suolo, proprio come il mio aereo. 

Ogni mattina era una battaglia per trovare un motivo, anche piccolo, che mi desse la forza di andare avanti. 

Mi scoprivo diverso, quasi uno sconosciuto a me stesso. Sentivo avanzare l’ombra della solitudine, pesante come un fardello invisibile, ma presente in ogni respiro. 

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Il sole del tardo pomeriggio stava calando all’orizzonte, tingendo di arancio il cielo e gli aerei che, da dietro la rete metallica, che separava il mondo dei sogni dal resto della realtà, decollavano e atterravano sulla pista dell’aeroporto. 

«Ti ricordi quando ci venivamo con la bici?» disse Lea, con tono leggero. 

«Certo che mi ricordo» risposi. «Ti ostinavi a chiamarmi comandante anche se non sapevo nemmeno pedalare senza mani.» 

Sorridemmo entrambi, ma il mio sorriso si spense più in fretta. I miei occhi erano fissi quell’Airbus che si preparava al decollo, ma il mio sguardo non aveva più la scintilla di una volta. Era lo sguardo di un uomo che, pur avendo raggiunto le stelle, era caduto giù troppo in fretta. 

Avevo realizzato il mio sogno: ero diventato un pilota. Avevo vissuto quegli anni come in un turbinio di adrenalina e libertà, con il cielo come ufficio e le nuvole come compagne. Ma un incidente mi aveva rimesso a terra per sempre, rendendo fragili non solo il mio corpo, ma anche la mia anima. Ora guardavo gli aerei come un bambino con il naso schiacciato contro la vetrina di un negozio di giocattoli, consapevole che non avrei mai più potuto averli. 

Lea, invece, aveva scelto una strada diversa, una strada che ai miei occhi è sempre apparsa una sequela di compromessi e rinunce. Non era riuscita a diventare una hostess, un sogno che aveva finito per lasciar svanire con il tempo. Non era riuscita nemmeno a completare gli studi e a laurearsi. Eppure, mentre io solcavo i cieli inseguendo la mia libertà, lei costruiva comunque una vita piena, concreta. Si era anche lei allontanata da quel posto in mezzo ai campi, si era sposata, aveva avuto figli. Aveva imparato a vivere, a trovare stabilità accanto a un uomo stimato e ammirato. Lea non temeva il domani; sembrava avere il coraggio che io, una volta a terra, avevo perso. 

Era sempre stata la mia migliore amica, forse qualcosa di più, anche se non avevamo mai trovato il coraggio di dircelo. Forse per paura di rovinare ciò che già avevamo, o forse perché io ero troppo occupato a inseguire il cielo per accorgermi di chi camminava al mio fianco. 

Come se la vita avesse voluto restituirmela proprio nel momento in cui ne avevo più bisogno, Lea era riapparsa, quasi miracolosamente, dopo tanti anni. Ero fragile, un uomo a metà. E lei, come sempre, sapeva esattamente cosa fare. Mi invitò a mangiare una pizza nello stesso locale dove, quel settembre del 1983, tutto orgoglioso, le avevo mostrato il telegramma di convocazione in accademia. Sembrava che il tempo non fosse mai passato, eppure tutto era diverso. Ora ero io a piangere, mentre lei mi guardava con dolcezza, come quella sera lontana in cui le lacrime erano le sue, e io, troppo euforico e ingenuo, non riuscivo a capire il perché. 

Lea aprì la sua borsa e tirò fuori una serie di foto. Me le mostrò a una a una, raccontandomi la storia della sua vita. Erano immagini di momenti felici: lei con i suoi figli, lei con suo marito, lei in mezzo a una vita che io non avevo mai conosciuto. Ma c’era qualcosa che mi colpì. In ogni foto, anche nei sorrisi più belli, c’era uno sguardo velato di malinconia. 

Sembrava quasi che le mancasse qualcosa. E non potei fare a meno di chiedermi se, in mezzo a quella vita piena e semplice, ci fosse ancora uno spazio vuoto, un vuoto che forse avevo lasciato io. 

Non mi ero reso conto che la voglia di volare, di rincorrere i miei sogni e staccare la mia ombra dalla terra, mi aveva portato lontano. Lontano da ciò che contava davvero, lontano dalle persone; e, tra tutte quelle persone, ce n’era una che brillava più degli altri. Qualcuna che, con dolcezza e infinita pazienza, non smise mai di aspettarmi.  

Ormai stava facendo freddo, ma io, come quando ero bambino, facevo fatica a staccare le mie mani da quella rete. 

«Sai» gli dissi, rompendo il silenzio. «Quando ero là sopra, tutto sembrava così piccolo. La vita, i problemi… persino i sogni. Ma ora...» Feci un gesto vago verso la pista. «Ora ho paura anche di salire su un aereo come passeggero. Non sono più lo stesso.» 

Lea mi guardò, cercando le parole giuste. «Forse non sei più quello di prima, ma sei ancora qui. E questo conta. Siamo ancora qui. Come allora. Guarda: non è cambiato niente.»; mentre mi parlava, mi prese delicatamente le mani. 

Sollevai lo sguardo e per un attimo, mi rividi ragazzino, con gli occhi pieni di speranza, accanto alla mia migliore amica o, in realtà qualcosa di più che non avevo colto. Lea aveva ragione. Nonostante tutto, eravamo ancora due bambini a guardare gli aerei attraverso quella rete. 

«Sai cosa penso?» disse Lea. «Che non importa se abbiamo volato davvero o solo con la testa. L’importante è che non smettiamo mai di stare insieme, parlarci e guardare verso il cielo.»  

Sorridendo annuii, e con la mano gli sfiorai i capelli. Forse il tempo ci aveva cambiati, ma non aveva separato le nostre anime. E lì, davanti alla rete, con il vento che portava l’odore di libertà, capii che non serviva volare per sentirmi vivo. 

Perché il sogno, in fondo, non era mai stato dietro quella rete. Era sempre stato dentro di noi. 

* * *

Trova qualcuno che ti faccia dimenticare il tuo passato, la tristezza. Trova qualcuno che ti cambi la vita, che la renda migliore, che sostituisca e riempia il vuoto. Trova qualcuno per cui valga la pena sorridere. Marilyn Monroe 

Luce … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2025 Michele Camillo

Volare indietro

M.M. 55018 e M.M. 6933, il primo e l’ultimo; quello di quel maledetto giorno. Strano modo di iniziare una storia; pochissime persone sanno cosa significano queste due sigle, alla maggior parte della gente, non dicono assolutamente niente, non significano nulla; a volte nemmeno a me. Mi chiedo se non siano solo frutto della mia fantasia.

Mi viene spontaneo, alzando gli occhi al cielo, fare un confronto con le scie che osservavo da ragazzo, la fitta ragnatela di strisce bianche, mi dice che ora, si vola più di una volta.  Con lo smartphone, mi diverto a identificare ogni singola scia, per sapere tutto di lei; modello di aereo, origine del volo, destinazione, passeggeri imbarcati, altitudine, velocità e altro; questa applicazione è miracolosa. Se ce l’avessi avuta quella volta, sarebbe stato fantastico ma, mi avrebbe impedito di affinare l’arte di raccontare balle.

La Vale, si beveva tutto quello che le raccontavo; citavo modelli di aerei inesistenti e imprese aviatorie mai avvenute ma, soprattutto, baravo sulla mia vita. Mi ero inventato gran parte del mio passato a cominciare dalla famiglia, mio padre ufficiale di marina e non contadino; mia madre professoressa di lettere e non casalinga; mio fratello all’ultimo anno di medicina e non carrozziere. Infine, mia sorella indossatrice, a quel tempo non si diceva modella; la sorella, invece, non ce l’avevo proprio. Per la Vale e, solo per la Vale, frequentavo un esclusivo collegio militare anziché un banalissimo liceo scientifico. 

Non avevo fatto una gran fatica per attaccar bottone, mi aveva accalappiato lei con la scusa di fare due tiri a tamburello, pensai che doveva essere solamente perché era stufa di giocare con la sorellina.

Per la Vale, la moretta con i capelli a caschetto, avevo preso, come diceva zio Bruno, ‘na bruta scopola. Metteva solo costumi rossi; di vario tipo, interi, due pezzi, in due occasioni, me lo ricordo come se fosse ieri, solo uno, ma, tassativamente rossi.

Erano già tre anni che passavo le vacanze al mare a scrocco da zio Bruno e zia Stella, non avevano figli, ed io, mi facevo volentieri adottare con contratto a tempo determinato, per il solo periodo estivo. Con i miei, non si andava in vacanza, la frase di mio padre era sempre la stessa, “ti occupi tu, della casa, dei campi e dell’orto?”. Anche zio Bruno aveva casa, campi e orto, con la differenza che la loro posizione era esattamente a quattro kilometri e trecentocinquanta metri dal mare, misura verificata con precisione dallo zio. Una distanza, tutto sommato accettabile, anche a farla in sella alla Graziella, con la quale, ti ci volevano dieci pedalate per fare un metro.

Quell’anno, detto “l’anno della Vale”, godevo di massima libertà; mi ero offerto di aiutare la Silvana con il noleggio dei pedalò, giusto per racimolare qualche biglietto da mille ed evitare di dare una mano allo zio nei campi, dove, al massimo, rimediavo qualche decina di punture dalle zanzare. Facevo la vita del gatto ovvero, tornavo a casa dagli zii praticamente solo per mangiare e dormire.

Avrei dovuto pensare alle due materie che mi aspettavano a settembre invece, l’unico libro che aprivo era “il pilota moderno”. Facevo il figo con la Vale sciacquandomi la bocca con nozioni sui principali strumenti per la navigazione aerea, lei faceva la faccia stupita, le pareva impossibile che un ragazzo di sedici anni sapesse quasi pilotare un aereo, almeno era quello che mi piaceva pensasse. Mentre parlavo con lei, facevo delle profonde buche sulla sabbia con i piedi; ero nervoso perché, in realtà, invece di parlare solo di aerei, avrei voluto dirle qualcosa di diverso ma, non ne avevo il coraggio. E’ strano, nella vita, ho avuto il coraggio di alzarmi in volo da solo ma, quando si è trattato di guardare direttamente negli occhi una donna che, con lo sguardo infinitamente dolce e pieno di luce, mi chiedeva di entrare nella sua vita, mi è mancato il coraggio e, come se fossi stato dentro il mio aeroplano, ho preferito virare bruscamente.

Al tramonto, dopo che avevo tirato su l’ultimo pedalò e messo i lucchetti mi sedevo sopra lo scivolo ad osservare la linea dell’orizzonte che, via, via sparisce, fondendo cielo e mare in un unico fondale rosato, avevo l’illusione che il mondo finisse qualche centinaio di metri dalla battigia. Anche credere che sarei diventato pilota probabilmente era solo un’illusione, me ne rendevo conto ma, impennarmi con la Graziella, fingendo di pilotare un F104 e raccontare alla Vale un sacco di cose, più o meno vere, sul volo, in quel momento, mi rendeva felice.

Alle illusioni, quando stavo seduto sul seggiolino eiettabile del M.M. 289546 dovevo starci attento, specie quando volavo a bassa quota sul mare, mai guardare fuori, occhio solo agli strumenti per mantenere l’assetto livellato. Se guardi l’orizzonte, anche se hai il sole alle spalle, rischi di precipitare in un’illusione che, ti fa precipitare, senza darti il tempo di tirare il cordino nero e giallo che sta in mezzo alle gambe.

Forse anche quello che sto raccontando è semplicemente un’illusione, nulla è esistito ma, come diceva il buon Mark Twain, “non separarti dalle illusioni. Quando se ne saranno andate, può darsi che tu ci sia ancora, ma avrai cessato di vivere”.

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Non mi ha mai convinto ‘sta pagliacciata, ma lui, maniaco degli anniversari, aveva deciso così; trovarci al mare, di fronte allo stesso mare, dopo quarantacinque anni esatti. In casa, come capitava con certe missioni particolari, non ho detto dove sarei andato. Decido di non fare l’autostrada ma, la vecchia provinciale alberata; nel tratto finale, non ci sono scorciatoie per arrivare al mare, ti becchi sempre e comunque la coda. Poco male, occasione per soffermarmi a guardare la casa degli zii, ora circondata da un intero quartiere di villette a schiera, ormai non si vede quasi più; dovevo comprarla, potevo comprarla, una tra le tante cose che avrei dovuto e potuto fare.

Anche se l’avrò fatto migliaia di volte, ogni volta che arrivo di fronte al mare provo grande stupore e immensa felicità. E’ dentro quell’infinito orizzonte che ho potuto immagazzinare i miei sogni mentre, le onde che si infrangono sulla battigia, mi restituiscono, pian, piano, le illusioni; è guardando le bianche scie nel cielo che mi ricordo chi sono stato o chi dovevo essere. C’è stato un preciso momento, proprio in riva al mare, in cui due vite o meglio, due anime, si sono divise; una ha inseguito un sogno, un progetto mentre l’altra, si è fermata ad aspettare una persona per l’eternità.

Eccolo che arriva, la camicia a fiori rossi di suo fratello due taglie in più e, il costume ereditato dal cugino, una taglia in meno. 

Uno così, inetto alla vita militare, ammesso che avesse passato il concorso, non avrebbe resistito nemmeno un’ora in Accademia Aeronautica, i vecchi lo avrebbero massacrato e preso di mira, sarebbe schiattato al primo giro di corsa; alla fine, come tanti, piangendo, sarebbe tornato a casa da mamma e papà. 

Uno così, che si illude di essere un allievo pilota, solo perché ha letto qualche pagina, o meglio, guardato le figure di quel noioso manuale di volo, se solo avessi potuto, maledizione, me lo sarei portato al campo e caricato sul Texan; sarebbe bastata un’oretta scarsa per fargli capire cosa significa volare sul serio. Probabilmente sarebbe tornato a terra bianco cadavere e, gli unici aerei che avrebbe avuto il coraggio di toccare, sarebbero stati quelli in scatola di montaggio. Avrei voluto sentire cosa avrebbe raccontato alla Vale il giorno dopo.

Uno così, vale la pena lasciarlo illudersi, farlo scendere dal palco su cui recita, sarebbe devastante.

Non capisco come una ragazza così dolce, carina e brillante, poteva dar credito a uno così; c’è un’unica spiegazione, era veramente innamorata di quell’esemplare da circo.

Lui mi guarda strano, lo vedo diventare triste, mi sembra ansioso, deve essere rimasto deluso dal mio aspetto.

“Allora sei diventato pilota?”

“Non te lo dico ma, ti do un consiglio”

“Sarebbe?”

Va dal moro, comprale un braccialetto e offrigli un gelato, prima di imparare a volare devi saper vivere sulla terra

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“Pensavo che diventare pilota, volare alto e lontano, sopra gli altri, sarebbe servito a riscattarmi. Ho scoperto invece, che il vero riscatto non è diventare qualcuno ma, sapersi liberare dalle proprie paure, dai condizionamenti, dai giudizi, dagli inutili pesi e dai falsi vincoli, per, alla fine, volare liberi.”

Anonimo

Ho trovato questa scritta su un vecchio hangar dismesso presso la Værløse Air Base in Danimarca.

A tutte le Vale del mondo che, guardando le bianche scie in cielo, aspettano pazientemente che scendiamo con i piedi per terra.

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2024 Michele Camillo

Last flight, last day

Sono rimasto sveglio fino a notte fonda, incollato al computer a guardarmi tutte le puntate del video di un tale che insegna a pilotare un B737; osservando Harry, mi viene il vago sospetto che abbia imparato il mestiere in questo modo. C’è, in effetti, una bella differenza, nel percorso che ci ha portato a sederci, fianco a fianco, nel cockpit di questo A320. La più significativa e che lui, o chi per lui, ha dovuto sborsare circa 120.000 Euro mentre io, non ho speso nemmeno una di quelle che erano le vecchie lire; anzi, sin dall’inizio, sono stato pagato. Poca roba, la paghetta, da najone che, l’Aeronautica mi elargiva nei primi periodi di Accademia, riuscivo a malapena a farmi venir fuori quattro pizze al mese, due per me e due da offrire, tanto per fare el sgandesson,  alle indigene del posto che, ci facevano compagnia nelle rare libere uscite. Ad Harry, la pizza gliela pago sempre io; ‘sto ciccionetto occhialuto, ne va ghiotto; andrà a finire che non riuscirà più a entrare in cabina e del suo EASA Class1 Medical, ne faranno pezzettini.

Quando l’ho visto per la prima volta, non ho creduto ai miei occhi, Harry Bernard Charles, il suo nome sforava lo spazio disponibile sul badge, quello che però mi fece cadere letteralmente le palle, era la data di nascita, 14/08/1996. Probabilmente si era appiccicato l’aquila sul taschino e la striscia sulla manica, direttamente sulla divisa che usava al college. Quello che, alla fine è diventato, el me fio de anema, come diciamo noi in volgo, sembrava essere uscito da un film di Harry Potter. Avevo sentito parlare del nuovo programma di addestramento della compagnia per formare giovani piloti ab initio o cadet pilot come li chiamano loro ma, che un giorno, mi sarei trovato di fronte un ragazzino con la pretesa di farmi da primo ufficiale, non l’avrei lontanamente immaginato.

Crew Resource Management, tradotto in parole povere significa, “te lo trovo io quello giusto per pilotare insieme a te”; avessero adottato ‘sto sistema in Aeronautica, non mi sarei trovato un imbecille, seduto sul seggiolino posteriore, a causa del quale, ci mancò poco che dovessimo eiettarci in pieno territorio bosniaco, con quelli di sotto pronti a farne ea succa; vagli a spiegare che dovevamo solo fare delle foto. Io e el bocia inglese, invece, ci intendemmo subito. Non posso negare che quel rosso dal faccione tondo mi fece tenerezza; vidi subito in lui quel genere di figlio che avevo sempre desiderato.

Il discreto “piccolo lord” che, ancora si rivolge a me, dandomi del “Sir”, è sempre stato incuriosito da mio trascorso aviatorio. Sbarrava gli occhi quando gli raccontavo del fortissimo “calcio in culo” che, L’F104, il mitico spillone, ti dava in fase di decollo. Non ho mancato, la meticolosa descrizione, di quella volta a Istrana quando, in atterraggio, ho rischiato di finire lungo e trovarmi in Postumia e, centrare in pieno con il tubo di Pitot, quella Panda azzurrina, della quale riuscii a distinguere perfettamente il vecchio con il cappello che la guidava. Anche se vedo il ragazzo divertito nell’ascoltarmi, la cosa mi rattrista, pensandoci bene, è come se a me un vecchio pilota della II^ guerra mondiale mi raccontasse delle sue avventure con lo SPITFIRE.

Un saggio, di cui non ricordo il nome, dice; “un uomo non è vecchio finché i rimpianti non sostituiscono i sogni”; la frase sembra si adatti alla perfezione a questa giornata. Oggi è il mio “Last flight”, ultimo volo e ultimo giorno di lavoro. “Non pensarci Gian, non puoi lasciar vagare la mente, devi stare concentrato fino al termine del volo“; una parola, mantener fede a questo proposito, ci sono riuscito in migliaia di ore di volo sia da militare che da civile, ma oggi no. Se ne deve essere accorto anche el bocia, la sua espressione è tra il preoccupato e l’imbarazzato; gli do una rassicurante gomitata sulla guancia che però, ha l’effetto di fargli quasi inghiottire il microfono.

Coraggio, la tratta Gatwick – Venezia potrei farla anche con un vecchio biplano Tiger Moth, a forza di guardar fuori dal finestrino, conosco a memoria tutti i punti di riferimento visivi; dopo il decollo dalla Runway 26L , virata a ridosso di Clarks Green, paralleli all’A24; la Leith Hill Tower alla mia destra mi ricorda i mitici pini marittimi dell’A4 che segnavano l’approssimarsi del casello di Padova Est. Posso chiudere gli occhi e, in base ai rumori attorno all’aereo, so esattamente quello che stanno facendo; ora chiudono il portellone bagagli C1, dentro ci sono due mie valigie.

Con ‘sta mascherina sulla bocca, le comunicazioni radio sono problematiche; non ho ricordo di avere avuto la stessa difficoltà ai bei tempi in Aeronautica, quando volavo tutto bardato, con addosso il casco e relativa maschera d’ossigeno.

Ready for pushback”, ci siamo, mi spingono fuori per l’ultima volta, guardo la faccia del Ramp Agent, sembra che goda a farlo, quasi sapesse che non tornerò più; grazie alla mascherina, gli faccio uno sberleffo, tanto non vede. Anche nel 2001 mi hanno spinto fuori, dopo i 18 anni di ferma obbligatoria, sembrava quasi un reality televisivo, “tenente colonello Morotto, per lei l’Aeronautica finisce qui”. In realtà, i colleghi piloti di caccia, me l’hanno sempre detto; siamo come i calciatori di serie A, passati i trentacinque, non vali più niente; si tengono quei pochi rotti in culo raccomandati e li mettono a comandare, gli altri, in ufficio a smazzare carte, oppure, saluti e baci e via.

Gli ultimi mesi erano tutto un susseguirsi di proposte più o meno indecenti, a cominciare da certi misteriosi personaggi che cominciarono a contattarmi per telefono o, al circolo ufficiali. Si rivolgevano a me, molto spesso, avanzandomi di grado e quindi dandomi del colonello, come quelli che ti danno del dottore a prescindere, giusto per ruffianarsi. Non appena ti stringevano la mano, avevi la sensazione di essere davanti a un viscido serpente, mi parevano tutti dei Sir Biss usciti dal film “la spada nella roccia”. Rifiutai cortesemente tutte quelle, a dir poco, strane proposte e, come la maggior parte dei miei colleghi fuoriusciti, transitai nell’aviazione civile. Le compagnie aeree nascevano come funghi e senza difficoltà ne trovai una che mi promise mari, monti nonché soldi, come se piovesse. Il grassone, non mi ricordo che carica avesse; anche lui, dandomi, in successione i titoli di colonello, dottore e comandante, mi disse che dovevo formare gli equipaggi con la stessa severità dei militari. Mi ricordo invece il suo sigaro acceso nonostante il divieto e che rideva facendo ballare la pancia;  di li a poco, comunque, per i noti fatti accaduti, avrebbe smesso di ridere, ma non di fumare.

Il 19 novembre 2001 me lo ricordo bene, il clima a Tolosa era alquanto deprimente, speravo che in aula entrasse qualcun altro; niente da fare ero l’unico mandolon, come diciamo noi, il più vecchio in assoluto nonché, l’unico europeo. Incontrai per la prima volta le nuove generazioni di piloti civili; ragazzi che, da una mia prima impressione, finora avevano visto gli aerei solo sulle figurine. Cinque di loro, in particolare, avevano delle facce poco raccomandabili, in compenso, parlavano francese in modo impeccabile; erano tre libici e due della Costa d’Avorio. Non arrivarono ad entrare nemmeno nel simulatore, vennero rispediti al mittente assieme ad un altro manipolo di presunti piloti; motivazione, imparare almeno i rudimenti del volo; “e che cavolo!”, dissi tra me e me, giustizia è fatta. Rimanemmo io, quattro cinesi, due indiani, tre russi e un canadese, proprio come nelle barzellette.

Eh già, il simulatore, altra bella botta, imparare a pilotare un aereo senza nemmeno staccare le ruote da terra. D’altronde, due mesi prima, un gruppetto di disgraziati, aveva mostrato a tutto il modo che ciò era possibile ma, quel che è peggio, avevano violentato il magico mondo dell’aviazione. Irrimediabilmente dissolto l’alone di romanticismo che avvolgeva noi aviatori, al quale, anch’io, fin da bambino credevo. Da quel giorno, grazie a loro, ce ne stiamo chiusi a chiave, barricati dentro la cabina di pilotaggio come degli appestati. Non possiamo più tenere aperta quella porticina, dalla quale, ogni tanto, si affacciava incantato, un bambino per chiedere come si fa a diventare pilota.

Monsieur, non sia triste, è solo un corso di pilotaggio”. Antoine sapeva essere anche un po’ psicologo, la persona giusta che mi ci voleva in quel momento. Si esprimeva perfettamente in italiano, a tradirlo solo la classica erre moscia; a sentirmi chiamare monsieur mi pareva di essere un nobile e non gretto ex militare come qualcuno mi stava già definendo. Alto e magro come uno stuzzicadenti, aveva in testa la classica chierica di chi ha portato il casco per migliaia di ore di volo; il suo nome evocava Antoine de Saint-Exupéry ed era, come lui, un aviatore con la A maiuscola. Quando mi disse che era un ex pilota di Mirage; scattò in me la molla e gli chiesi, “ma allora tu eri un Chevaliers du ciel”. Mi riferivo alla mitica serie televisiva degli anni ’70, quella che contribuì ad alimentare in me la passione per il volo; ogni sabato, all’ora di pranzo, me ne stavo incollato davanti alla TV a sognare di pilotare un Mirage. “Je ne conduis pas, je vole” (io non guido, io piloto), replicò con la famosa frase del tenente Tanguy; Antoine, amicone mio!

Tolosa, grazie alla sua sapiente guida, acquistò di colpo splendore; ricordo le piacevoli passeggiate lungo le rive della Garonne e le soste nei locali di Rue des Filatiers. Alla fine, fu pure una passeggiata ottenere l’abilitazione all’Airbus A320. Antoine, quell’ultima sera che soggiornai a Tolosa mi invitò a casa sua, una bellissima villetta, fatalità, in rue Leonard de Vinci a Fonsegrives, un piccolo quartiere residenziale, nei pressi del minuscolo aeroporto di Lasbordes, sede del locale aeroclub, altra fatalità. Il suo grande studio, era pieno zeppo di modellini e moltissimi altri cimeli aeronautici; tornai di colpo bambino. C’era praticamente tutto quello che avevo pilotato; SF-260, MB-339, T-38, Tornado e il mitico F-104 che, affettuosamente, presi subito in mano. Antoine quasi non ci credeva che fossi stato uno degli ultimi fortunati a portarlo in volo, prima che venisse dismesso dall’Aeronautica, solo un vecchio pilota di Mirage, poteva capire, mentre passavo tra le dita la fusoliera del mitico “spillone”, tutta la mia tristezza. Mi stava prendendo un gran magone, una parte della mia vita, la mia giovinezza se ne era andata; niente più looping, tonneau, virate strette al massimo dei G, legato al seggiolino Martin Baker; ora sarei dovuto stare, comodamente seduto, ben vestito, davanti a una miriade di schermi LED e, portare a spasso per il cielo poco più di un centinaio di chiassosi gitanti; “c’est la vie, mon commandant”, il vecchio aviatore mi abbracciò forte.

Eh si, c’est la vie; troppe promesse, tante illusioni; me l’avevano detto che sarebbe stato così nel mondo dei “civili”. Sul Web, abbandonato come un messaggio in bottiglia in mezzo al mare, è rimasto ancora il mio curriculum, fermo a quel momento della mia vita nel quale, illusioni e promesse erano all’apice. La crisi, la continua ricerca di un posto di lavoro; non avrei mai pensato investisse anche me, un pilota non certo di primo pelo; costretto a emigrare addirittura nei paesi arabi, per portare a casa la pagnotta. Poi, per fortuna, arrivò un posto nel “vicino” regno di sua maestà che, alla fine, mi ha permesso, in questi ultimi anni, di tornare a volare sul cielo di Venezia; atterrare e decollare da quell’aeroporto dove, da ragazzi, passavamo intere giornate ad ammirare gli aerei.

Tra i miei “non avrei mai pensato; non avrei mai immaginato”, al vertice della classifica, almeno finora,  è che un infinitesimamente piccolo virus, mettesse di colpo a terra quasi tutti gli aerei del mondo; costringendomi a rimanere per tutti quei mesi a casa, a fissare, stracolmo d’ansia, il cielo vuoto. Proprio io che ero stato addestrato a sopravvivere in tempo di guerra, mi son sentito di colpo perduto e fragile; la più grande paura, non era quella di ammalarmi ma, non sapere se avrei continuato a volare. Più il tempo passava, più il rischio di perdere le abilitazioni e la licenza di volo si faceva concreto; centinaia di telefonate e mail, non si muoveva nulla, non volava nulla.

Nei giorni del lockdown, contravvenendo alle regole, feci qualche kilometro in più in bici; il gioco valeva senz’altro la candela. Avevo più di una pendenza, diciamo, affettiva, nei confronti di un vecchio amico, in pratica, mi ero comportato da stronzo. “Fra quarant’anni esatti …”, mi ricordavo benissimo di quella promessa e dell’appuntamento. Ci sarei dovuto andare, se non altro, per rendere il giusto onore a Fabietto, visto che, non ero riuscito a sapere in tempo del suo ultimo volo. Quel giorno però, mi trovavo nel sud della Spagna coinvolto in un’appassionante fuga d’amore clandestina; questione di priorità.

Peso de quando gerimo fioi nei anni ’70, ne ‘rivarà soeo do o tre al giorno”; seduti sulla mitica panchina in riva al canale che porta alla darsena dell’aeroporto, io e Tiziano, scrutavamo sconsolati l’orizzonte. L’unica cosa positiva era che il tratto di laguna antistante la testata pista, si era ripopolato i uccelli migratori delle più svariate specie;

“Me vien da butarme dentro l’Osein”

“Va in cueo comandante; prima o poi, no so quando, ti riscomissierà a voar”

“Appunto, no so quando”

Camina mona, so sicuro che ti ritorni a pilotar, scometo ‘na cassa de bira

Ripresi, ma poco dopo venni convocato dall’austroungarico brizzolato, soprannominato dal nutrito gruppo di piloti italiani de Roma, “er merda”, nel senso che uno più stronzo di lui è difficile trovarlo. Pur sapendo benissimo chi ero, avrò contribuito a formare non so quanti piloti, non mi salutava e non mi cagava manco di striscio. Mi rivolse la parola solo per dirmi, “alla sua età comandante è giusto che si goda il meritato riposo”; gli risposi che quel, “alla sua età”, mi sembrava fosse arrivato troppo presto; senza salutarlo, girai i tacchi.

Cleared for takeoff”, la mezzeria della pista comincia a scorrere sempre più rapidamente; in tutti questi anni, specie in Aeronautica, ho imparato a pensare rapidamente e, a più cose contemporaneamente; un mio istruttore diceva, “non lasciate mai che l’aereo vi porti in un posto in cui il vostro cervello non sia arrivato almeno cinque minuti prima”. Mi concentro sul decollo, rispondo in sequenza ai check di Harry e, contemporaneamente, ripenso alle mie prime volte che affrontai da solo quella striscia di cemento.

Non so se quel figlio di buona donna di capitano istruttore del 70° di Latina, di cui ho stranamente dimenticato il nome; faceva lo stronzo solo con me o con tutti gli allievi, fatto sta che, quel giorno, dopo avermi per l’ennesima volta riempito di merda, per tutta la durata della missione di addestramento, mi rispinse a forza dentro l’abitacolo; “burba, togliti dai coglioni e vatti a fare un giro da solo”.

Pieno di rabbia, chiusi la cappottina, riaccesi il motore e puntai il muso del 260, diritto verso la pista. Volevo urlare per sfogarmi ma, avevo paura che mi sentissero per radio, per cui, strinsi con forza la cloche e diedi manetta, forse troppo violentemente, fatto sta, che decollai in quasi metà spazio. Una volta in volo, avrei voluto passargli rasente sulla sua testa pelata, ben visibile anche a 300 metri dal suolo. Solo quando, come da tradizione, mi buttarono dentro la piscina, realizzai che quello era stato il mio primo volo da solista; avevo conquistato l’agognato brevetto di pilota d’aeroplano; però, stranamente, questo non mi rese felice come mi sarei aspettato. Era successa la stessa cosa con Caterina; anni a sognare, con fiducia cieca e immutabile, quel giorno in cui avrei trovato il primo amore. Poi; quando finalmente arrivò il tanto atteso momento, ovvero la sera in cui ci mettemmo assieme; nessuna emozione, solo una eterna notte insonne, come dopo il mio primo volo da solista con il 260. Ore passate a rivoltarmi nel letto a chiedermi; “beh, tutto qua?”, non era come lo immaginavo; mistero, non riuscivo a capire, il perché non sprizzassi di felicità.

Diverso fu quell’agosto del 1988. Ci saranno stati cinquanta gradi nel piazzale della Sheppard Air Base eppure, un brivido di freddo mi percorse il corpo dalla testa ai piedi mentre Jeremy, il fido specialista, mi stava assicurando al sedile del mitico T-38 Talon. Erano passati appena sei mesi da quando, in Accademia, mi dissero che “avrei fatto l’americano”, ovvero che ero stato selezionato, assieme ad alcuni paricorso, per addestrarmi presso l’Euro-NATO Joint Jet Pilot Training di Sheppard, nel Texas. Stentavo a crederci; eppure, dopo pochi giorni, mi ritrovai seduto su un Jumbo che mi portava in America; ricordo pure di essermi messo a ridere mentre pensavo, che quella, era la prima volta che “prendevo” l’aereo, pur sapendone pilotare uno.

Tenente, ora è tutto suo. D’ora in poi, faccia di tutto affinché il numero dei suoi atterraggi sia uguale al numero dei suoi decolli; buona fortuna”; Jeremy mi diede il cinque con la sua manona poi, gentilmente accompagnò la discesa del tettuccio. Continuavo a non crederci; io, ai comandi di quel bellissimo aereo che sognavo di pilotare, da quando, assieme a Fabietto, ne costruimmo il modellino, trasformando un vecchio kit Airfix del monoposto F5 Tiger, da cui derivava. Solo nell’abitacolo; percepivo chiaramente il mio respiro attraverso la maschera dell’ossigeno, feci il cenno convenuto a Jeremy che era tutto a posto, sbloccai il freno e mi avviai verso la pista; non era come a Latina, quella era la vera, emozionante, prima volta.

Un calcio in culo; questo è quello che senti quando decolli con quel tipo di aerei; in poco più di un minuto ti trovi a 35.000 piedi; di colpo ti cambia la prospettiva del mondo, non lo vedi più piatto. Prima di partire per la Sheppard, avevo fatto la stessa cosa con la mia vita sentimentale; troncando con Caterina. Un bel calcio in culo, a quel rapporto piatto, reso soffocante dalla sua indole possessiva; in fin dei conti, pensavo, non avevamo nemmeno la nostra canzone; brutto segno per me, che ho sempre avuto una canzone, per tutti i momenti importanti della mia vita.

Quando scesi dalla scaletta del T-38, invece “noi ragazzi di oggi”, risuonava dentro di me; me l’ero sparata a manetta con il walkman per caricarmi prima del briefing.

Noi, ragazzi di oggi, noi
Con tutto il mondo davanti a noi
Viviamo nel sogno di poi
Noi, siamo diversi ma tutti uguali
Abbiam bisogno di un paio d’ali
E stimoli eccezionali…
Avevo finalmente il mio paio d’ali, tornai in Italia fiero della mia aquila turrita appuntata sulla divisa; mentre all’orizzonte, un’altra donna per trovare… stimoli eccezionali.

“Cleared for landing”, eccoci in finale. El ciccio o, el bocia, a seconda di come mi va di chiamarlo che, tranne ovviamente gli omissis, conosce ormai tutto della mia vita; aspetta sempre quella frazione di secondo nella quale giro il capo a destra in cerca del “bosco” e della “vietta”, per lanciarmi la classica occhiata da presa per il culo. E’ colpa mia, gli ho fatto una testa grande come una mongolfiera a son di parlargli di questi due posti cari alla mia giovinezza. Sono pressoché convinto che questi due luoghi, a me ameni, siano ormai sulla bocca di tutti gli abitanti di Dalston; quel minuscolo e umido villaggio del North West dove, el ciccio risiede quando, non viene a scaldarsi le ossa qui a Venezia. Ho le prove che, non sapendo cosa fare tutto il giorno, in quello sparuto gruppetto di casette in meso ai glebani, come si dice dalle mie parti; passava il tempo a sputtanarmi nei pub; perché, quell’unica volta che è riuscito a trascinarmi a casa sua, gli indigeni del posto mi guardavano in modo strano, mettendosi a ridere di nascosto.

Please contact ground at 121.7” siamo a terra, ormai è finita. Riesco a percepire quel coro di clack clack provocato dal liberatorio slacciarsi di cinture; pensare che devo ancora imboccare il raccordo per la taxiway. Li capisco, molti di loro staranno tirando un sospiro di sollievo, pronti a fuggire da quel cilindro metallico, costretti a stare seduti per ore, con la loro vita in mano a due tizi in cabina di pilotaggio; sperando inoltre che, nessuno dei due, si metta a far el mona. Io invece oggi, non mi muoverei più da questo sedile, settembre 1983, luglio 2019, trentasei anni con le ali addosso; è dura alzarsi da quel posto per l’ultima volta; io e el fio de anema evitiamo di incrociaci con lo sguardo, c’è il serio rischio che ci scappi la lacrima. Metto i documenti nel borsone, ho le mani sudate, non mi era mai capitato; esco frettolosamente dal cockpit senza voltarmi indietro. Scopro che a sorpresa le fie però hanno fatto l’annuncio ai passeggeri e, non appena metto la testa fuori, scoppia un applauso scrosciante. Fortunatamente, a causa della situazione non ci si può abbracciare; avrei pianto come un bambino. Un groppo in gola mi fa a malapena balbettare qualche parola in uno stentato inglese, quasi fossi regredito ai tempi delle scuole medie. Mi fanno tenerezza, povere ragazze, anche per loro i tempi sono cambiati; costrette, tra un volo e l’altro a pulire i sedili e sistemare le toilette per poi, frettolosamente, posarsi sulle ginocchia una vaschetta con il bollino, “meal deal 30% off”, che contraddistingue un insalata prossima alla scadenza.

Negli uffici operativi, al contrario, non c’è nessuna manifestazione di affetto; una ragazzina mai vista finora, probabilmente una neo assunta, senza nemmeno presentarsi, mi chiede il badge, nell’altra mano ha una busta pronta per la spedizione. Mi chiede inoltre che accordi ho riguardo la restituzione della divisa; ribatto che, se mi lascia le scarpe, posso uscire in mutande e canottiera, tanto fuori fa maledettamente caldo; arrossisce di colpo, mi sembra chiaro che sto scherzando.

Come un normale passeggero, mi avvio al nastro riconsegna bagagli, per la prima volta, mi prende l’ansia che non arrivino.  Mamma che bolgia; ci sono centinaia di colli allungati e occhi puntati sulle porte scorrevoli che aspettano l’uscita di qualcuno; almeno oggi mi piacerebbe che ci fosse una sorta di comitato d’accoglienza per festeggiarmi invece, sono solo e frastornato da ‘sto gran vociare; che casino. Appena fuori, una folata di caldo umido, un nodo alla gola e, la saliva che non va ne su ne giù; per un attimo resto immobile, inebetito, non so che direzione prendere, mi ci vuole un buon quarto d’ora per ricordarmi dove avevo parcheggiato l’auto.

Dentro è peggio di un forno, così aspetto prima di salirci; istintivamente volgo lo sguardo verso l’aerostazione, giusto nel momento in cui il mio aereo sbuca dal tetto  e punta nuovamente verso il cielo; osservo la manica della mia giacca distesa, come morta, sul sedile posteriore, quattro strisce e una stella, quanti sacrifici, e ora? “Intanto, torniamo a casa”, dissi tra me e me.

La casa; per i marinai, e anche per noi aviatori, rappresenta un qualcosa con cui abbiamo un rapporto particolare o, quantomeno diverso dalla gente di terra; così, mi trovai a ripassare mentalmente, l’ordine cronologico delle case dove sono vissuto e tutta quella serie di ex ad esse collegate; ex bambino, ex studente, ex moglie, ex famiglia e, via discorrendo; alla fine, mi è rimasta unicamente la ex casa dei nonni, quella del mitico “bosco”. Per accaparrarmela c’è voluto un notevole sforzo economico; sborsai un prezzo molto superiore al suo reale valore ma, era la condizione necessaria per liquidare mio padre e i relativi fratelli, mettendo la parola fine a anni di furibondi litigi sulla spartizione dei beni del vecchio nonno Rino.

La brusca sterzata a destra, per immettermi sulla stradina, lasciando la trafficata circonvallazione, è simile alla manovra di uscita dalla pista di Istrana. Questo però, non è il raccordo che mi porta all’hangar del 122° Gruppo ma, due polverose strisce di terra battuta frammezzate da una di erba bella alta. Non ho mai capito perché questo posto veniva chiamato “il bosco”, che mi ricordi, a parte il forte militare, non è che ci siano mai state grandi zone alberate, solo la tipica piattissima e infinita campagna veneta.

Non mi sarei mai aspettato di vederlo li, in mezzo all’orto, sotto quella cappa di piombo infernale, la cosa mi rese felice perché, Tiziano era proprio la persona che volevo incontrare;

“Direttor ..”

“Direttor de ‘sto casso. Comandante i miei ossequi ..”

“Ex comandante prego ..”

“Ma no! Spiega”

“Da ancuo in tera, finia!”

“Orpo! Pena ricomissià, cossa ti ga combinà?”

“’Sta situassion de merda”

“Mah, no xè che i ga vossuo trovar ‘na scusa par cassarte fora”

“Podaria essar”

“E ‘desso cossa ti fa?”

“No eo so ..”

“Intanto bevemoghe ‘na birretta sora”

Il mio amico era attrezzatissimo, dentro la vecchia baracca, teneva una borsetta frigo ben fornita; tanto da offrirmi la scelta del tipo di birra. La camicia della divisa, mi si era ormai appiccicata addosso ma, non appena feci cenno di andarmene verso casa per cambiarmi, mi strattonò per il braccio; “go ‘na idea”, disse tutto eccitato. In una manciata di secondi mi trovai a posare davanti le piante di pomodoro, con addosso la mitica giacca quattro strisce e una stella, ben in vista e, una vanga in mano. Titolo dell’inquadratura: “dal cielo alla terra; il ritorno”; stavo per mandarlo a cagare ma, la cosa iniziò a divertirmi tanto che gli sottoposi la mia idea. Improvvisammo uno spogliarello in mezzo ai campi per scambiarci gli abiti e farci delle foto.

Cenai abbastanza presto con le verdure che Tiziano mi aveva lasciato; avrei voluto invitarlo a farci una pizza assieme, mi avrebbe fatto un enorme piacere nonché risollevato il morale che giaceva sotto i tacchi ma lui, era già silenziosamente sparito in sella alla sua bicicletta. D’altronde, ultimamente, è sempre stato così, arrivava e spariva in punta di piedi e poi, non credo avrebbe mai accettato l’invito.

Per descriverlo, bastava il soprannome che gli aveva affibbiato mio nonno; “El tegoina rosso”. E’ sempre stato magro da far paura, pesavano più i suoi ricci capelli rossi che tutto il resto, le lentiggini gli davano solo in apparenza un aria furbetta, in realtà, era alquanto introverso. Non credo di aver mai conosciuto una persona più diffidente di lui; ricordo che, quando eravamo bambini, prima di rivolgermi la parola, andò avanti per parecchio tempo a osservarmi di nascosto attraverso le maglie della recinzione che divideva le nostre due case.

La passione per gli aerei, a me e Fabietto, c’è l’ha appiccicata lui; l’unico, ironia del destino, a non essere diventato pilota. Il destino, inoltre, volle che, oltre a essere vicini di casa, lo fossero pure le nostre “dependance” di campagna; ed è qui, che d’estate, in mezzo all’orto di suo papà, abbiamo letteralmente coltivato la nostra passione aviatoria. Ci portavamo da casa i modellini di aerei costruiti nei mesi invernali; le strisce di terra battuta tra le gombìne erano le nostre piste mentre, la baracca dove sior Gino, suo papà, teneva gli attrezzi, il nostro hangar. La mia flotta, credo anche per le mie possibilità economiche, era molto più numerosa e strategicamente più evoluta della sua; potevo contare sui più possenti e avanzati jet da combattimento mentre, quel povero sfigato di Tiziano, si ritrovava, per la maggior parte, con dei vecchi rosegoti a elica della II^ guerra mondiale.

A sior Gino, “l’omo de ‘egno”, come lo chiamava mio nonno, a causa della sua durezza d’animo, non andava affatto che ci divertissimo a giocare in mezzo al suo preziosissimo orto; mi fece capire chiaramente che, Tiziano, non era li per trastullarsi tutto il giorno come me, ma, per dare una mano all’economia familiare, per altro, ci tenne a sottolineare, ben più misera rispetto a quella della mia famiglia.

Un giorno per aver utilizzato inavvertitamente, come territorio di sorvolo ed esercitazione la gombìna con i bisi appena seminati si infuriò come una belva; prese a botte prima Tiziano e poi me. Oggi la cosa sarebbe finita sui giornali; a quel tempo, invece, sancì semplicemente la fine dei rapporti tra le nostre famiglie. Io e Tiziano, perdemmo il nostro fantastico aeroporto e, da quel giorno, continuammo a vederci quasi clandestinamente.

Il bello dell’estate è che dopo cena, puoi fare ancora un sacco di cose. Inforcai la vecchia Bianchi del nonno per farmi un giro giro rinfrescante, prima attorno al forte poi, in direzione del bosco Ottolenghi, per finire a godermi il tramonto, sulla panchina in riva al laghetto del bosco di Franca.

Sedermi su questa panchina è un rito che compio spesso, a fianco c’è un cartello che spiega la storia di Franca; fatta sparire a diciotto anni, durante la dittatura militare in Argentina. Il modo con cui la uccisero, ovvero gettandola in mare da un aereo, i cosiddetti “voli della morte”; lascia, in un pilota come me, una rabbia e una incredulità profonda. Come era possibile che, un mio collega, si fosse prestato come esecutore di una simile atrocità? Ho sempre volato per passione, anche quand’ero pilota militare. Ero perfettamente conscio del fatto che pilotavo sostanzialmente un arma che, avrebbe potuto uccidere altre persone. Quando sono seduto su questa panchina, mi chiedo che differenza c’è tra dare l’ordine di scaraventare giù in mare una decina di persone incatenate e premere un bottone per sganciare una bomba. A me, fortunatamente, esercitazioni a parte, di premere il bottone non è mai capitato, ad altri, si.

Si è fatto scuro e il canto dei grilli si è sostituito a quello delle cicale, l’aguasso dei campi coltivati, rinfresca l’aria. Mentre percorro i trosi di campagna in sella a questa vecchia bici, torno quel bambino che sognava di volare e, si chiedeva continuamente se sarebbe riuscito a farlo. Non so cosa farò da domani ma, so sicuramente quello che non voglio fare, ovvero, starmene con i piedi per terra e vivere di ricordi; è ancora troppo presto.

Penso a Tiziano, il suo sogno stroncato da una famiglia che, sin da piccolo, l’ha oppresso succhiandogli il sangue; non abbiamo mai parlato delle nostre famiglie ma, ho l’impressione che le cose ora, non vadano tanto diversamente. E’ malinconico, si vede che vive soprattutto di sogni; quel “beato ti” che spesso gli sento dire, fa capire che incarno la persona che avrebbe voluto essere; rispecchio, come, in realtà, avrebbe voluto vivere. Scommetto che, in alcuni particolari momenti, gli avrebbe fatto comodo star seduto su un seggiolino eiettabile, tirare la cordicella gialla e nera, e via, sparire.

Siamo in tre seduti sulla mitica panchina in riva al canale che porta alla darsena dell’aeroporto; io, el fio de anema e Tiziano più, un frighetto con le birre; scrutiamo l’orizzonte, ora, per fortuna, sbucano spesso aerei.

Cossa diria Fabietto ‘desso?”

Che mi so stà mona a no diventar pilota, e che ti ti saressi cojon a no partir

Lascio una copia di chiavi del “bosco” a entrambi; spero che Tiziano, oltre a occuparsi della casa e relativi terreni, dia al bocia delle buone verdure, al posto delle usuali schifezze che ingurgita e che, continui, come me, a insegnargli la nostra lingua natia; finora riesce a pronunciare decentemente solo ghesboro e mimorti. Ho fatto un bel discorsetto a Harry; gli ho detto di portare il massimo rispetto allo zio Tiziano perché, anche se non è diventato pilota, è comunque uno di noi; un aviatore nell’anima.

A Veléz la pista è piccola ma, come recitava la pubblicità di un piccolo jet, “una strada di un kilometro non porta da nessuna parte, una pista di un kilometro in tutto il mondo”. Vedrò la polvere rossastra mossa dalle eliche; godrò dei tantissimi giorni di sole, ottimi per volare, per insegnare, ai miei futuri fioi de anema, a volare rasenti la superficie del mare.

Solo l’idea di una nuova emozione, nessuna spinta, nemmeno quella dell’F104 in decollo, è più impetuosa di un pensiero che cresce di tono e che travolge ogni cosa che pensi. Sento che torneranno i giorni di Los Genoveses; sentirò nuovamente il suo profumo, la sola forma di fedeltà che si concede; porta aperta sul meraviglioso, un frammento d’anima.

La birra gelata scende, alla tua salute Fabietto … è ora di andare

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“Il legame che unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del rispetto e della gioia per le reciproche vite. Di rado gli appartenenti ad una famiglia crescono sotto lo stesso tetto. Qualunque cosa tu faccia non pensare mai a cosa diranno gli altri, segui solo te stesso, perché solo tu nel tuo piccolo sai cosa è bene e cosa è male, ognuno ha un proprio punto di vista, non dimenticarlo mai, impara a distinguerti, a uscire dalla massa, non permettere mai a nessuno di catalogarti come “clone di qualcun’altro”, sei speciale perché sei unico, non dimenticarlo mai. Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola.

Richard Bach

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2021 Michele Camillo

A cavallo del Pony

“Che roba! Aveva il carrello fuori e sarà andato al massimo a 50 km/h”; “’’desso ea nasse”, pensai, sfregandomi le mani di nascosto, cominciai a contare.

“Che aereo era?”, Fabietto interruppe bruscamente la conversazione tra le due operatrici; “quello delle Frecce Tricolori”; rispose seccata per l’intrusione; “immaginavo; aggiungi pure 100 e forse non basta, la velocità di stallo del 339 e di circa 84 Nodi, ovvero 155 Km/h, è un padre di famiglia, in certe condizioni, però, mi ha permesso di scendere anche a meno, ma non di tanto”. Memorabile quel giorno, godei come un matto, nel vedere la faccia inebetita della biondina, una new entry del posto.

Diedi alla tipa, una veloce spiegazione sui termini tecnici ma, soprattutto mi premurai di chiarire che, l’utente Fabio Mestriner, era un ex capitano pilota dell’Aeronautica. Mi fermai qui, inutile infierire e, raccontare che, c’era mancato un soffio che varcasse i cancelli della base di Rivolto e lo si vedesse sfrecciare in aria su “Pony 9”; “O mio Dio!”, esclamò la biondina con la mano davanti la bocca.

Non era la prima volta che mi capitava, ovvero che qualcuno si rendesse conto che “loro”, prima erano come “noi” e che, la sottile linea che separa “loro” da “noi”, ammesso che esista, è alquanto labile. Oltrepassare quella linea poi, diventare “loro”, è questione di un attimo, non te accorgi subito, forse non te accorgi mai. Comunque Fabietto, sarebbe sicuramente tornà in qua, come aveva sempre fatto, anche stavolta avrebbe trovato la sua via d’uscita.

Fabietto, in realtà non era basso di statura, lo chiamavano così perché era il più piccolo di tre fratelli ben più grandi di lui. Fin che eravamo bambini, la nostra passione aviatoria veniva ben tollerata dai rispettivi genitori, il massimo del loro sacrificio consisteva nell’esborso di qualche carta da mille per l’acquisto di libri, riviste, modellini e altre troiate del genere. Terminate le medie, si resero conto che non si trattava di un semplice sogno infantile e, iniziarono, quasi contemporaneamente, a prendere le loro contromisure. Cominciarono con l’ignorare i nostri progetti, soprattutto riguardo le scelte scolastiche, passarono poi a infondere sensi di colpa facendo leva sull’età avanzata e la salute precaria. Troppo difficile intavolare seriamente un discorso; eravamo semplicemente insemenii e incocaii, dei deficienti con i quali era inutile parlare; sul nostro futuro decidevano loro, per cui, preferivano la tecnica del non detto, convinti che, alla fine, ci saremo tolti certe idee dalla testa. Specie nei nostri padri, era insita una atavica rassegnazione, fin dal medioevo era sancito che se eri figlio di operai, non potevi far altro che l’operaio; se, eventualmente ti fosse andata bene al massimo l’impiegato; quello era il destino che ci attendeva. Un giorno, spazientito dai miei discorsi, el Bepi, mio padre, mi urlò sulle orecchie; “el pilota, come i cantanti, i attori e … anca i preti, xe mestieri par puttanieri!”, chiuso l’argomento. Ad un certo punto avevamo la netta sensazione che, entrambi i nostri vecchi, ci avessero voluto al mondo esclusivamente per restare in casa a fargli da badanti.

Visto come si mettevano le cose, Fabietto giocò d’astuzia, senza dir niente a nessuno, si iscrisse al concorso per Allievo Ufficiale Pilota di Complemento dell’Aeronautica Militare. Quando lo convocarono per la selezione, disse ai suoi che doveva partecipare a un non ben precisato concorso pubblico “zo in bass’Italia”, senza entrare nei dettagli; i vecchi erano tranquilli, concorso pubblico equivaleva a posto fisso ovvero, schei sicuri in scarsea. L’atomica scoppiò nel luglio del 1984, a casa Mestriner arrivò un telegramma che, a prima vista, sembrava la tanto temuta chiamata alla naja per Fabio. Sior Piero, vecchio, con solo la quinta elementare ma, non mona, quando, in barba alla privacy, aprì la busta, e lesse che il figlio doveva presentarsi il 3 settembre presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, mangiò non la foglia ma, l’intero albero, el figher che, a detta della Marisa Manera, quella che in vietta, xe fa i cassi de ‘staltri da ea matina aea sera, perse le foglie a causa delle sue urla.

In tempi in cui non esistevano i social network, il protocollo da seguire in vietta affinché tutti savesse, era sempre lo stesso, finestre aperte e fiato alle corde vocali, “Erce! Dodese anni, cossa femo mi e to’ mare” , 12 anni, in effetti, un po’ lunga come naja. “Ti ga sentio”, era la frase che confermava l’avvenuta ricezione dell’annuncio pubblico; mio padre, mi fulminò con gli occhi, “ti ga fatto anca ti ea stessa roba?”, neanche avessimo ammazzato qualcuno insieme. Lo tranquillizzai, con me non correva pericoli, io ero giovane, avevo appena preso il diploma, ma ero mona.

Da quel giorno, i rapporti con la famiglia, per usare un termine aeronautico, precipitarono in picchiata; ebbe contro pure i fratelli, convinti che fosse una mossa tattica per sfuggire ai doveri verso gli anziani genitori e lasciare sul loro groppone, l’onere di occuparsi dei vecchi. In quel periodo, stava facendo la stagione a Jesolo, non tornò più a casa nei giorni di riposo e, il 2 settembre, zaino in spalla, fece tutta una tirata Jesolo – Pozzuoli, o quasi. Considerato il serio rischio che, in un momento di rabbia, qualcuno dei suoi, buttasse tutto nelle scoasse, con un blitz, degno delle più grandi operazioni segrete della storia, trasferimmo, nella mia cameretta, tutto il suo prezioso materiale “aeronautico” finora accumulato; comprese alcune storiche scatole di montaggio di aerei AIRFIX che, non dovevano essere aperte per nessuna ragione; si era ripromesso che, un giorno, da vecchio pilota pensionato, li avrebbe costruiti.

Purtroppo, non c’era ancora WhatsApp che, ci avrebbe permesso di tenerci aggiornati a vicenda su quante volte si va a pisciare, per cui, dovetti, pazientemente aspettare le sue missive; spesso mi allegava una foto, mi inorgogliva sapere che scriveva solo a me e a nessun altro.

23 settembre 1984

“Sono qui, seduto piedi a penzoloni, sul muretto di una terrazza panoramica a capo Miseno. Causa punizioni e altre menate militaresche , questa è la prima domenica di libera uscita. All’orizzonte, dall’altro capo del golfo, vedo la sagoma della tanto agognata Accademia Aeronautica, quel luogo incantato e fantastico che sognavamo da ragazzi. Non è proprio così; in questo primo periodo è una prova continua, ce la mettono tutta, e anche con una certa dose di sadismo, per farti desistere e tornare a casa. Ho visto ragazzi di venti e passa anni, piangere di nascosto; gli ho chiesto se erano mai stati in colonia a Bibione; ovviamente non hanno capito, tu invece si, vero?

Ma ti ricordi? Avevamo appena 6 anni; devo ancora capire se ci era toccato andarci perché i nostri, volevano sfruttare quell’occasione di vacanza gratis, concessa da mamma Montedison ai figli sfigati dei dipendenti di fascia bassa oppure, semplicemente, ci volevano fuori dalle palle per un mese.

Me la ricorderò fin che vivrò, la maledetta colonia CIF di Bibione, ci fecero provare l’ebrezza della naja anzitempo; camerate stracolme, alzabandiera, ginnastica all’alba, punizioni e regolamenti ferrei. Per non parlare delle “signorine” preposte alla nostra sorveglianza, puro concentrato di arroganza, stronzaggine e sadismo; il loro corrispondente in Accademia è lo “scelto”, un ragazzo della nostra età che è qui solo da qualche mese in più; almeno lui si comporta così perché gli è stato ordinato e comunque, come dicono i nostri vecchi xe tutta ‘na roda, nel senso che, magari un domani, toccherà pure a me ricoprire un ruolo per il quale forse, verrò odiato.

Ogni mattina ci chiedono se qualcuno deve marcare visita. “Marcare visita”, ma ci pensi? Io e te abbiamo imparato a farlo alla tenera età di 6 anni, non appena scoprimmo che in infermeria si faceva la bella vita; camerette da due con Tv, pranzo e cena serviti a letto, the e biscotti al pomeriggio. Che figata, ti ricordi, io e te da soli a far cuscinate; a me poi, quella volta andò di culo, mi beccai il morbillo così, ma ne tornai a casa comodo, comodo, in taxi. La malattia mi condonò tre settimane di detenzione in quel posto schifoso.

Una settimana fa, durante l’adunata mattutina, mi sono messo a ridere, ci è mancato poco che lo “scelto” mi rifilasse l’ennesima punizione, mi era di colpo venuta in mente la “nostra accademia”, la mitica adunata nel piazzaletto antistante il civico 1 del CEP. Cavolo, avevi ragione, ‘sta accademia assomiglia tantissimo al CEP; c’è sempre qualcuno che manda in culo di sua madre qualcun altro e si alzano in cielo imprecazioni colorite e fantasiose di ogni tipo con la differenza che qui, puoi sentirne la versione in centinaia di dialetti diversi e non solo in venexian. Non ci crederai ma, in fin dei conti, la colonia e la “nostra accademia”, mi sono serviti per prepararmi a questi, spero pochi, mesi di inquadramento militare poi, via a Latina per imparare a volare. Inquadramento, che brutta parola, sono un militare, gli istruttori devono indottrinarti, è il loro mestiere o forse un grande gioco, simile a quello che facemmo noi nell’estate del 1977 per cui, sto al gioco, l’importante è non farsi cambiare dentro.

Anche questo posto mi è familiare, sembra lo stesso muretto della darsena del “Marco Polo”. Ore e ore seduti sempre con i piedi a penzoloni pazientemente ad aspettare l’arrivo di un aereo per poi, di corsa, salire su in terrazza. Lunghe ore di attesa nelle quali gli unici che volavano erano i gabbiani, liberi da qualsiasi vincolo di rotta e orario. Pure qui, sulla scogliera ce ne sono un sacco, tra loro mi pare di vedere Jonathan Livingston, credo di essere come lui, l’importante è volare per la gioia di farlo. Per quanto mi insegneranno che è un mestiere, un dovere verso la patria, dentro di me sarà per sempre e solo una passione, quella che da ragazzino ti me gà petà trascorrendo intere giornate sulla terrazza dell’aeroporto.”

Era destino che, nella nostra vita, ci fosse sempre un muretto su cui stare con i piedi a penzoloni. Quello sul lungomare di Santa Maria al Bagno, nell’agosto del 1988, simboleggiò il ritrovarci dopo ben 4 anni. Con la mia scassatissima Ritmo, percorsi quasi 1000 kilometri per passarci le ferie assieme.

Il tenente Mestriner era ormai diventato un “sior pilota” o meglio “professor pilota” come l’avevo soprannominato. La sua scuola era il 61° stormo, la sua aula il cielo della Puglia e la sua cattedra l’Aermacchi MB 339. Quell’aereo ci aveva affascinato sin da quando nel settembre del 1981 lo “incontrammo” per la prima volta a Rivolto nella sua bellissima livrea bianco e arancione da prototipo; l’anno seguente, avrebbe sostituito i gloriosi FIAT G91 delle Frecce Tricolori. Il nuovo addestratore dell’Aeronautica Militare, in religioso silenzio, ci soffermammo parecchio tempo al suo cospetto per ammirarlo; di li a qualche anno, se i nostri sogni si fossero avverati, ci sarebbe toccato salirci.

Finora, l’unico a cui il destino aveva riservato questo privilegio era lui, del nostro compagno di “accademia”, il Giand, si erano perse le tracce anche se, Fabietto era quasi sicuro di averlo visto tra i “pinguini” del corso Centauro IV; non gli era stato comunque possibile verificare in quanto, tra gli allievi ufficiali piloti di complemento e loro, i “normali” c’era una specie di barriera inviolabile. Dal giorno della 12^ missione, quando, sul seggiolino posteriore non c’era nessuno, ed era rimasto solo lui a pilotare quell’aereo che, qualche anno prima, tenuto a debita distanza da una transenna, aveva potuto solo guardare; era l’uomo più felice sulla terra. Tra lui e il 339 si instaurò qualcosa che andava al di là del semplice rapporto uomo macchina che non è mai riuscito a spiegarmi. Quando il colonnello, comandante della base, alla fine del corso, gli aveva comunicato che sarebbe rimasto a Galatina, Fabietto, memore dell’esperienza delle superiori, pensò di essere stato rimandato, eppure, non gli sembrava, almeno in fatto di pilotaggio, di essere uno zuccone. E invece no, il mio compagno di accademia, quella del ’77, da quel giorno si sarebbe seduto sul seggiolino posteriore come istruttore.

Per due settimane parlammo solo di aerei e fighe, in entrambi gli argomenti, rispetto al mio amico, ero nettamente in svantaggio; per non sfigurare del tutto, preferivo parlare di aerei.

Non potei esimermi dall’assistere a uno dei suoi voli, d’altronde come ricompensa, mi aveva promesso di strafogarmi a sbaffo al circolo ufficiali nonché una tonnellata di gadget compreso un modellino in ferro delle mitiche Frecce Tricolori. Mentre saliva a bordo, continuava a voltarsi verso di me; pareva un bambino in cerca dello sguardo di approvazione di quel padre che, almeno una volta nella vita, gli dicesse, “bravo!”. La maschera dell’ossigeno e la visiera oscuravano completamente il volto, immaginavo comunque il suo sguardo sorridente e divertito; per me, era il fratello che avrei sempre voluto avere e, del quale andare orgoglioso. Un rombo assordante e, il grigio 339, decollò infilandosi in verticale a bucare con precisione, l’unica nuvoletta presente in quel cielo terso, in pochi attimi, un looping perfetto da sembrare disegnato con il compasso, lo portò ad accarezzare la sommità degli ulivi con le ali poi, di nuovo su a vite fino a fermarsi, incredibile, l’aereo cadde all’indietro in verticale e parve precipitare, un boato, motore al massimo e il compare riprese il controllo del veicolo.

“MIMORTI !!”, l’esclamazione in perfetto slang venexian vulgaris, echeggiò, credo per la prima volta nella storia del 61° stormo, nell’hangar alle mie spalle dove mi ero riparato per cercare un po’ di ombra. I pochi presenti mi guardarono in modo strano, in effetti, era a malapena tollerato che un caveon in divisa estiva d’ordinanza da bueon-casual ovvero; canotta made in China con vistoso alone di sudore e scritta “didas”, pantaloni corti di jeans de marca “Giorgio Armanno” e simil Birkenstock puzzolenti ai piedi; si trovasse in quel luogo sacro alla patria. Mi preoccupò il veloce avvicinarsi di uno smilzo con i Ray-Ban e un sacco di strisce d’orate sulle spalline; ero riuscito, per una serie di fortunate circostanze, a evitare la naja, ma quello aveva tutta l’aria di volermela far fare comunque, a partire dall’indomani; iniziò a tremarmi il culo.

“Che ne dice? E’ pronto?”, era il mitico colonnello, avrà avuto si e no dieci anni più di me caspita, come fanno presto a far carriera in Aeronautica. “Che?”, chiesi stordito dal rombo del 339, che ora stava facendo un velocissimo passaggio a testa in giù, “se lo faccia dire dal suo amico”, rispose sorridente l’alto ufficiale; il culo smise di tremare. Pronto o no, nel suo modo di volare non c’era solo tecnica, ci metteva l’anima. A vederlo solo in cielo, mentre al bordo del torrido piazzale ero l’unico spettatore, faceva pure un po’ di malinconia, sembrava proprio il “Joe Temerario” dell’omonima canzone.

La spiegazione, anche se la intuivo, arrivò sotto il cielo stellato a sant’Isidoro, se andava tutto bene, presto avrebbe fatto le valigie per Rivolto, l’estate successiva, tutto il mondo l’avrebbe visto solcare i cieli a cavallo del Pony.

Il viaggio di ritorno mi parve eterno, io e la vecchia Ritmo, stremati dal caldo, risalimmo lentamente al nord. Quasi 1000 kilometri di asfalto rovente, passati a fare il bilancio della mia esistenza. Non provavo invidia nei confronti di Fabietto, era semplicemente la proiezione di quello che avrei voluto essere. In quei giorni era stato parecchio tacchente, non riusciva a capire come mai, non mi fossi iscritto pure io al quel concorso; divagavo magistralmente mentre continuava a tempestarmi di domande riguardo la mia passione aviatoria.

Il fatto è che ero confuso, non avevo il coraggio di confessargli le mie paure, riaffiorate di colpo in quei giorni. Cominciarono quando mi scorrazzò sulla sua moto, mi cagavo addosso quando sfioravamo ad alta velocità i muretti a secco, non vedevo l’ora di arrivare a destinazione e scendere; una volta arrivati al mare mi prese il terrore per il fatto che, in meno di due metri dalla riva, non toccavo già più il fondo. Il massimo del panico lo raggiunsi quando l’amico ventilò l’ipotesi di farmi fare un voletto sul 339, alla sola idea iniziai a grondare di sudore e mi prese la tachicardia galoppante; per fortuna era solo un misero tenentino e non riuscì nell’intento, se fosse stato comandante della base, avrei finito i mei giorni terreni sul seggiolino posteriore colto da infarto, ancor prima di imboccare la pista “pilota de ‘sto casso”, mi dissi impietoso.

L’interminabile A14, il 339 l’avrebbe percorsa in neanche un’ora, la Ritmo procedeva ad andamento lento e con i finestrini aperti, mi superavano persino i camion, lo stesso, finora, era successo nella mia vita, mi avevano superato praticamente tutti. Figurarsi se avrei fatto il concorso in Aeronautica; implicava il dover partecipare a una selezione e quindi, competere con qualcun altro; al solo pensiero la paura mi bloccava.

A casa mi aspettavano le paranoie di Maria, avrebbe continuato a tormentarmi sul perché non l’avevo portata con me in Puglia, anche questo, mentre inesorabili come il tempo, scorrevano le linee della mezzeria, fu un argomento di riflessione. Fabietto, a suo tempo, mi mise in guardia; secondo lui dovevo stare alla larga dalle ragazze di parrocchia, se ti mettevi con una di loro, dovevi, pena bruciare all’inferno, ciecamente sottostare alle leggi emanate dal clero, ovvero tenertela a vita e non trombarla prima del matrimonio e, anche dopo, trombarla solo per fare figli. Lui, per evitare tutto questo, aveva abbandonato da tempo, parrocchia e relativa ragazza, credo, dopo averla pure trombata; ce l’aveva a morte con i preti, non con Dio, precisava, rei di preoccuparsi solo che i giovani non trombassero abusivamente in coppia o, come alternativa, da soli; mentre, se per caso venivano maltrattati in famiglia oppure, non avevano niente da mettere sotto i denti, non era affare loro.

Il mio amico, da innato aviatore, iniziò ben presto a volare alto, mentre io rimanevo statico a terra, non riuscivo a far volare nemmeno i modellini che costruivo; aveva sempre le idee chiare, o era si o era no, mentre io, continuavo a campare con centomila “ma si”.

.. Se tutto andava bene aveva detto il colonello. Il 28 agosto, una nube oscura calò sull’acrobazia aerea, tre Pony cessarono di cavalcare uccidendo i loro piloti e 67 persone. Fabietto capì subito che doveva riporre quella valigia piena di speranze; dopo un po’ lui e pure il “suo” Colonnello dovettero farne un’altra e lasciare per sempre l’azzurro cielo pugliese.

14 ottobre 1988

“ Non credo proprio ti inviterò a passare un po’ di giorni qui in Inghilterra; primo perché quel rutto della tua Ritmo 60 CL alla sola idea, ti pianterebbe all’incrocio di via Bagaron; secondo non ho niente di particolare da offrirti se non birra a fiumi per dimenticare che qua piove un giorno si e un giorno anca.

L’altro ieri, al telefono mia mamma ha esordito con un “ma non ti me disi niente”; ea Pina gli ha detto che ha saputo dalla Marisa che ha sentito da siora Gina, che ero nelle Frecce Tricolori; ho idea, come si dice, che qualcun gà pissà un fià fora dal bocal. Prendi “Aviazione Oggi”, quella che ti ho concesso in comodato d’uso quando partii per Pozzuoli, e che, prima o poi verrò a riprendermi con tutto il resto, leggiti bene tutte le informazioni sul TORNADO; solo dopo, puoi passare in bottega da “Cesco l’onto”, el fritoin, a erudire le pie donne circa la mia carriera in Aeronautica; spero solo di non sentire frasi del tipo, “..’desso el xe in Inghilterra, quasi in America, pilota personal dea Regina”.

Sono qui a Cottesmore, ridente, si fa per dire, villaggio nel mezzo del Countryside inglese, seduto, piedi a penzoloni, su un muretto a secco con vista su un gregge di pecore; all’orizzonte nuvoloni grigi che mi fanno sembrare lontanissimi i tempi di Galatina. Il tempo è perfettamente intonato al mio umore; non mi è per niente facile rassegnarmi a star seduto dietro sul TORNADO; significa fare il navigatore ma, non è come su una macchina da rally, quello purtroppo per trovare la strada su arrangia quasi automaticamente, il mio compito sarà quello, come diciamo noi, de strucar el botton al momento giusto. Me l’hanno venduta come una normale tappa della mia carriera, che presa per il culo, in realtà questo nuovo ruolo in Aeronautica, non piace a nessuno; mi sa, invece, che sarò destinato a finire la carriera sentà da drio a sganciare missili e bombe qua e la.

A volte, per renderti conto di come stanno in realtà le cose, ci metti un sacco di tempo, magari lo sai, fai finta di niente e lasci passare gli anni; sono un militare e, gli aerei che piloto, o meglio, su cui, semplicemente mi siedo sopra, sono delle armi. Un po’ come quando ti dicevo che frequentavi la parrocchia solo per cercare la figa e non per un presunto nobile ideale. Io che, al contrario di te, mi sono tenuto alla larga da preti e affini per cercare la figa al “Ranch”, dove, ti assicuro, ce n’era tanta, non sono comunque mai stato un guerrafondaio. Ti ricordi che quando c’era cagnara io ma, soprattutto te, eravamo sempre quelli che le prendevano; vabbè, ho promesso più di qualche volta che, quando sarei diventato pilota, avrei bombardato i fioi dei paeassoni oppure che, avrei polverizzato quello di elettrotecnica e la sua merdosa bicicletta lanciandogli un missile a guida laser; scherzavo ovviamente e poi, non avrei mai caricato le bombe con esplosivo ma con una buona dose di pisso e merda.

Per cui, caro socio, il momento giusto, spero non arrivi mai.”

Per il capitano Mestriner, Il momento giusto, non tardò ad arrivare, prima la guerra nel golfo e poi quella nei balcani. Non ho mai saputo se, e quante volte, avesse strucà el boton; seduti, con i piedi a penzoloni, sulla riva della darsena in aeroporto, mi raccontava solo dei suoi continui incubi notturni. Cercavamo di far passare il tempo lentamente per assaporare a pieno quei pomeriggi di libertà, parlando di aerei e fighe, poi, come facevamo vent’anni prima, inforcavamo le nostre biciclette e lo accompagnavo, in comunità si cenava presto.

9 ottobre 2004

“Stavolta, socio, tocca a me scrivere. Il posto dove sei ora, ironia della sorte, è vicino a un vecchio campo di aviazione da dove, ai primordi dell’aviazione, decollavano i dirigibili. Mi avevano chiesto di leggere qualcosa ma, come sempre, mi sono cagato addosso, scusami. Pensavo venisse più gente; mi sono reso conto però che eri semplicemente uno scampà de casa par metar ea firma in aviassion e, da quando sei definitivamente “atterrato” a casa, tutti facevano finta di non conoscerti, in fin dei conti, non è bello farsi vedere assieme a un sbaeon, un via de testa; svanite anche tutte le cocche che ti gironzolavano attorno, compresa Simona che, quando eri un promettente capitano del 6° stormo, era pronta a giurare amore eterno, sposandoti. Comunque, hai visto, quel giovane prete ha fatto una bella predica; per forza, gli ho raccontato tutto io e, giuro, non ghe gò messo ea zonta, come mio solito. Abbiamo parlato di te per ore, secondo lui saresti più de cesa tu che tanti altri seduti in primo banco, gli sarebbe piaciuto averti conosciuto, penso sareste diventati amici. Credo che, dall’alto, avrai visto come ti hanno conciato, vestito in divisa, capelli e barba fatta, che paiassada! Avrai anche visto che ti ho fregato l’aquila turrita e lo stemma dei “Diavoli Rossi”, penso sia stato tu a guidare la mia mano lesta; quei ricordi mi spettano di diritto.

Ti mancava la libertà, come quando eravamo in colonia; ora capisco che, come allora, la malattia, è stata la via di uscita per tornare su nel cielo, che fio de bona dona! Era giunto il momento di tirare quella maniglia gialla e nera “ejetc ejetc capitano”, l’accensione del razzo sotto il seggiolino e, in una frazione di secondo sei fuori da quell’abitacolo che ormai è diventato stretto e pericoloso, salvo! Mi consola il fatto che i militari non sono riusciti a cambiarti dentro, per noi due i vari F104, Tornado, F14 e compagnia briscola, rimarranno per sempre degli innocenti modellini venduti a pezzi, da incollare e dipingere. A proposito, le scatole AIRFIX che mi hai lasciato, le conservo sempre in garage, rigorosamente chiuse come mi avevi raccomandato, se un giorno, in tua memoria, posso aprirle e iniziare a costruire i modellini, batti un colpo.

Ciao socio, io rimango qua, seduto con i piedi a penzoloni su un muretto a sognare invidioso di vederti sfrecciare lassù, a cavallo del Pony”.

Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo perché là siete stati e là vorrete tornare. Leonardo da Vinci

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2018 Michele Camillo


7.7.77

“Fra quarant’anni esatti …”.

Una cosa è certa, quarant’anni fa non faceva così caldo, nel pomeriggio poi, si raggiunge il picco di temperatura e il massimo dell’afa; in realtà, sto solo cercando una scusa per non inforcare la bicicletta e raggiungere il piazzale dell’adunata.

“Anche se avevamo tredici anni, una parola data è sempre una parola data”, incalza l’altra parte di me, “ e poi non ti costa nulla, solo dieci minuti di bicicletta, se non viene, pazienza”. Qui sulla terra, eravamo rimasti io e lui, Fabietto aveva già spiccato l’ultimo volo il 4 ottobre del 2004.

Lo schermo del PC è ancora fisso sul suo curriculum; “entra in Accademia Aeronautica a settembre del 1983 con il corso Centauro IV … frequenta il corso alla Sheppard Air Force Base nel Texas dove ottiene il brevetto… nella base aerea di Cottesmore in Gran Bretagna frequenta … arriva al 6° Stormo caccia di Ghedi dove diventa… ha avuto l’onore di pilotare, prima della sua radiazione,  il mitico F104 Starfighter … si congeda con il grado di tenente colonnello … il comandante si occupa ora dell’addrestramento …”.

Era partito bene già con il nome, Gianandrea, quel Gian davanti, lo metteva uno scalino sopra di noi. Bastava vedere le nostre tre case confinanti, quella mia e di Fabietto, un unico piano e, quasi senza fondamenta, la sua, due piani con tanto di taverna e garage gigantesco. Noi non avevamo praticamente giardino, tutto lo spazio esterno era sacrificato all’utilità, ovvero l’orto. La casa di Giand, invece, era circondata da un futile ma, meraviglioso giardino.

Le abitazioni riflettevano lo stato sociale. I nostri padri lavoravano tutti alla Montefibre di Porto Marghera con la differenza che, il mio e quello di Fabietto erano ex agricoltori trasformatisi in operai ovvero, come si diceva, dei metalmezzadri mentre, il papà del Giand, sior Armando, “el Perito”, uno o forse due scalini più su. A dire il vero, ancora oggi, non ho capito, che cavolo di ruolo avesse in fabbrica, ricordo solo che mio padre, usava spesso sciacquarsi la bocca, circa il suo presunto lauto stipendio. In effetti, la famiglia del Giand, era la più benestante della “vietta”, sempre mio padre, a sottolineare la differenza di casta, li chiamava semplicemente “loro” o meglio, “iorillà”. Ironia della sorte, anche le nostre “proprietà” di campagna erano confinanti; mio padre aveva un campetto e una vecchia baracca, lascito del nonno mentre, sior Armando, poteva contare sul “bosco”, ovvero un intero casolare e i relativi campi, proprietà dell’arzillo nonno di Giand.

Tutto ebbe inizio quando, nei primi anni ’70, trasportato sul ferro della bici di mio padre, andai, per la prima volta, a fare quella che, era considerata una classica gita fuori porta, esclusiva della classe operaia ovvero, la spiaggetta di Tessera. Mi pareva alquanto strano poter raggiungere il mare in bicicletta ma, sembrava tutto regolare, ombrelloni, sedie sdraio ecc. Stavo ancora cercando di abituarmi a quell’atmosfera surreale quando, accadde qualcosa di ancora più strabiliante. Uno dei “bagnanti” si destò all’improvviso dalla pennichella e, alzandosi in piedi cominciò a gridare “riva, riva, riva!”, indicando un puntino nero fumante che si stava avvicinando velocemente. Quel punto nero, sempre più grande, aveva acceso ora delle luci, si trattava di un aereo e ci stava venendo addosso. “Mona, la ghe xe l’aeroporto, desso te porto vedar”, fu la secca risposta di mio padre, al mio grido disperato di allarme. Con un fragore assordante, l’aereo bassissimo, ci passò accanto, ricordo distintamente che sembrò andarsi a posare sopra un ombrellone a spicchi bianchi e rossi; “monta su paiasso che desso ‘ndemo a vedarlo da vissin”.

Papà pedalava a più non posso lungo il viale costeggiato dai pini marittimi, entrambi avevamo paura che quell’aereo volasse via di nuovo prima che riuscissimo a vederlo. A ripensarci mi vien da ridere, a quei tempi il turnaround poteva durare ore, altro che i 25 minuti attuali delle low cost.

Arrivammo ai piedi dell’aerostazione, si sentiva un leggero sibilo oltre l’edificio nonché un odore, quello del carburante che, da quel momento sarà per me una sorta di richiamo che, indica la presenza di un aereo.

Papà, anche lui in preda all’eccitazione, appoggiò la bicicletta in malomodo su un palo della luce, tanto che cadde subito; poi, in fretta, senza legarla, la buttò contro la recinzione. Feci fatica a starci dietro quando, a passo sostenuto, si diresse verso la terrazza dell’aerostazione; 100 lire l’ingresso, via su velocemente facendo due a due le scale.

Appena su, la brezza della laguna mi accarezzò il volto, che spettacolo. Non avevo mai visto gli aerei così da vicino, mio papà era visibilmente soddisfatto, per avermi offerto un’occasione di divertimento a buon mercato.

La terrazza era su due livelli, salii subito a quello superiore, mi feci spazio a gomitate per guadagnare un posto in prima fila tanto, pensai, i bambini non li mandano a remengo. Mi ricredetti subito, vedendo l’occhiata minacciosa che mi diede quel signore dotato di binocolo al quale avevo usurpato il posto, durò un attimo; “vuoi guardare?” mi chiese con fare gentile porgendomi lo strumento.

Quell’affare pesava un sacco inoltre, non riuscivo a vedere nulla. Con calma il buon uomo me lo aggiustò e, iniziò a impartirmi quella che fu la mia prima lezione di cultura aeronautica. Sapeva un sacco di cose su quei due aerei; dove erano diretti, quante persone portavano, a che velocità andavano, ecc.

Di tutto quello che mi disse ricordo solo il nome dell’areo che, sulla coda, aveva dipinta la nostra bandiera; Caravelle. Quell’aereo, magicamente, lo ritrovai fra le pagine del libro “de aerei” che, da li a pochi giorni, mio padre mi regalò per il compleanno.

“Ma tu gli aerei li guidi”, gli chiesi istintivamente mentre stava andando via, “una volta, quando ero giovane”, rispose a bassa voce accarezzandomi la testa, “è difficile?”, “no, è bellissimo”, credo sia stato quello il momento in cui si accese in me la miccia della passione; mi piacerebbe rincontrare quell’uomo.

Solo qualche giorno e trascinai nel vortice della passione aviatoria i miei due coetanei, vicini di recinzione, Giand e Fabietto. Da li a qualche anno, la terrazza del Marco Polo divenne casa nostra. Ci si andava ogni qualvolta, meteo e libertà dagli studi, lo permettevano. L’arrivarci, se sceglievamo di percorrere il bordo laguna, anziché la trafficata Triestina, era alquanto disagevole ma, nel contempo, stupendamente avventuroso. Ogni tanto avevamo la fortuna di venir affiancati da un aereo in atterraggio, mi ricordo le grida “è qui il DAN AIR!”, oppure , “arriva il solito ALITALIA”, e ancora, “urca! Il Trident della BEA”, e via, a correre come dei pazzi; le bici sembravano rompersi in mille pezzi, su quella stradina tutta sassi e buche, mentre tentavamo di gareggiare con l’aereo.

Passavamo intere giornate all’aeroporto, già, ci voleva un’intera giornata, per riuscire a vedere l’atterraggio e il decollo di tre aerei, dato che, a quei tempi, non è che ci fosse ‘sto gran traffico. Quando il piazzale aeromobili era vuoto, ingannavamo il tempo in pineta oppure in aerostazione, rompendo le balle allo sfortunato lavoratore aeroportuale che ci capitava a tiro oppure, … in posti dove non dovevamo stare. Quella specie di varco che si era formato sulla recinzione, a causa del cedimento del fossato, era alquanto allettante; come dei conigli ci infilammo sotto e, in un attimo, eravamo dentro. L’avere il cemento del piazzale sotto i piedi ci eccitava da morire, durò un attimo, in men che non si dica piombò a tutta velocità su di noi una macchina dei Carabinieri. Ora, non mi ricordo esattamente tutto il discorso che ci fece quello che, dai gradi, sembrava essere un maresciallo, so solo che ad un tratto disse, “ora vi accompagno a casa da vostro padre”. A quei tempi, almeno per quanto mi riguarda, era meglio se mi condannavano all’ergastolo; al sentire quella frase, iniziarono a bruciarmi le chiappe; credo che, dalle facce, la stessa sensazione la stessero provando anche i miei due compari. Il Caramba aveva sfoderato l’arma più potente che aveva a disposizione e noi mogi, mogi, senza profferir verbo, ce ne tornammo da dove eravamo venuti.

Una mattina d’estate, mentre, pieno di punture di zanzare, ero comandato ai lavori forzati in orto, sentii il rapido avvicinarsi di un aereo, i motori, però emettevano uno strano rumore mai sentito; alzai istintivamente lo sguardo al cielo, la sorpresa fu enorme, credevo di sognare, non era possibile, proprio lui, il mito, ovvero un Boeing 747 Jumbo Jet; finora l’avevo visto solo in foto. “Cossa xeo?”, perfino mio padre, vanga in mano e bocca spalancata, rimase stupito. Reagii come si trattasse di un allarme aereo in tempo di guerra, correndo all’impazzata da un lato all’altro del giardino, gridai ai due soci, di uscire immediatamente di casa. Nel frattempo, incredibile, l’aereo ripassò; la cosa si ripeté puntualmente ogni quarto d’ora circa. Mezzo quartiere era uscito di casa per osservare lo strano fenomeno, noi tre ce la tiravamo sparando nozioni tecniche, più o meno veritiere, a destra e a manca. Il tempo stringeva, urgeva andare a verificare di persona. Con il sole a picco, le nostre bici sfrecciavano sul rovente asfalto della Triestina, rischiavamo di essere, in ogni momento, tirati sotto da un camion; poco ce ne importava, la posta in gioco era alta. Giunti sul vialone dell’aeroporto, notammo subito l’enorme coda del Jumbo che sbucava dall’edificio dell’aerostazione; tirammo una volata finale degna del giro d’Italia. Il nostro informatore di fiducia, ovvero il bigliettaio della terrazza, ci aggiornò circa la presenza del bestione; avevano scelto Venezia per i voli di addestramento, ecco spiegati i continui passaggi sopra le nostre teste.

“Parché non ‘nde vedarlo, feve portar dentro”, disse con tono di sfida, il tipo. Tentar non nuoce, entrammo in aerostazione senza un’idea precisa sul da farsi. “Hei, voi tre, venite qua”, mamma mia, il Caramba, a proposito di farci portar dentro; “coraggio, venite con me”, con il culo che tremava lo seguimmo per uno stretto corridoio. “Marescià so’ anche questi figli suoi?”, la voce di quel poliziotto ci fece tirare un sospiro di sollievo anche perché, un’istante dopo, ci trovammo, stavolta legalmente, sul piazzale. Il buon (ora), carabiniere, mi diede un colpetto in testa, “avanti delinquenti, a bordo”. Il cuore ora batteva a mille, non credo ci avrebbe tradotto in galera a bordo del Jumbo Jet. A vederlo dal vivo, così vicino, era enorme; ai piedi della scaletta le gambe iniziarono a tremarmi dall’emozione. Una volta a bordo, salimmo subito per una ripida scala a chiocciola, sapevo, per averlo letto in “storia dell’aviazione”, che conduceva alla cabina di pilotaggio. “Comandante permette, ho qui altri tre allievi”, quel distinto signore dai capelli brizzolati, ci accolse con un sorriso, invitandoci a entrare nella cabina di pilotaggio; come un mantra, iniziai a ripetere i nomi degli strumenti che avevo imparato sul “libro de aerei”; “Orizzonte artificiale, altimetro, anemometro ..”, il comandante mi guardò sbalordito, “quanti anni hai?”, “undici”, risposi sapendo di stupirlo ancora di più.

“Sarai un bravissimo pilota!”, il brizzolato mi abbracciò forte, divenni rosso paonazzo, neanche fossi stato baciato da Patty Pravo, soggetto dei miei sogni erotici di allora. “Anche i tuoi amici vogliono fare i piloti?”, “Si”, come i tre moschettieri rispondemmo all’unisono, il dado era tratto, allievi piloti.

Stataereo Propaganda, viale dell’Università 4, 00100 Roma. L’indirizzo me lo ricordo tuttora a memoria, in casa conservo ancora il contenuto di quella busta. Consumai con gli occhi, il pieghevole dell’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, unica, o quasi, al tempo, strada da percorrere per diventare piloti, quel luogo mi affascinava più che mai. E’ per questo che, a giugno del 1977, finita la scuola, proposi agli altri due soci, con lo scopo di formarci alla nobile professione di pilota, di fondare la nostra personale Accademia Aeronautica. Il quartiere CEP, fungeva da location ideale; i palazzoni, i relativi piazzali, il campo da calcio e la chiesa potevano vagamente assomigliare all’Accademia di Pozzuoli, in fin dei conti, le abitazioni erano universalmente note come “i casermoni” e quindi, almeno nella fantasia, adibirli a caserma ci stava.

Il “corso” partì immediatamente; affidammo al Giand il ruolo di istruttore, in primo luogo perché, aveva ricevuto un’educazione d’alto borgo e, si esprimeva, come diceva mia madre in itagiano, anziché in volgare dialetto come noi rozzi figli della classe operaia inoltre, date le sue capacità atletiche, era il tipo giusto per il ruolo di addestratore. Organizzò le nostre giornate in “Accademia”, in base a un rigido protocollo stile militare che, ci eravamo imposti, ovvero, sveglia all’alba, adunata, corsa, lezioni, ovvio solo teoriche e , altre menate del genere. Il nostro status di allievi piloti, ci rendeva oltremodo fieri; “in libera uscita”, cercavamo di far colpo sulle ragazze del quartiere, travasandogli addosso le nostre nozioni aeronautiche, che fosse questo il vero scopo di frequentare “l’Accademia”?

Nel tardo pomeriggio del 7 luglio ovvero, il 7/7/77, ripeto, non faceva così caldo come ora, ce ne stavamo seduti con i piedi a penzoloni, sulla riva della darsena aeroportuale; all’orizzonte si profilava la sagoma del “solito” DC9 Alitalia in atterraggio. “Ce la faremo a diventare piloti?”, Fabietto, se ne uscì all’improvviso con questo dubbio esistenziale.

Ognuno di noi aveva in mente un’idea diversa di quella che sarebbe stata la sua futura vita da aviatore. Fabietto si trastullava con avventure erotiche, si immaginava, a fine volo, dentro una camera di un hotel di lusso, a fare lo stallone con tre o quattro gnocche di hostess. Il Giand si vedeva mentre, con il suo F104, dava filo da torcere a due maledetti MIG21 russi, i nemici di allora.

Io la buttavo sul romantico. Il film era sempre lo stesso; sulla lista dei passeggeri scorsi il nome di lei, Marilena Iannone, la compagna di classe della quale mi ero invaghito. Mi vedevo percorrere il corridoio tra i sedili per andare sul posto dove era seduta. Fu un incontro emozionante, rimase sbalordita nel vedermi con la mia elegante divisa sulla cui giacca brillavano l’aquila e le quattro strisce dorate di comandante. Ironia della sorte, Marilena, la bellissima biondina per la quale sbavavo, era invaghita del Giand ma lui, manco la cagava di striscio.

“Allora cadetti, ascoltatemi”, disse il nostro istruttore, percependo l’inizio di una crisi depressiva, “Diventeremo piloti, scommettiamo? Propongo di ritrovarci, diciamo, fra quarant’anni esatti, a quest’ora, nel piazzale dell’adunata. Ci ricorderemo di questo giorno”. Come avevamo visto fare un sacco di volte nei film, con una mano sopra l’altra, sugellammo quel patto.

Ore 17.03, è meglio non essere troppo puntuali, aspettare mi mette ansia. Lo immaginavo, non c’è nessuno, una signora anziana mi guarda con aria sospetta dalla finestra, penserà che sono un ladro intento a fare un sopralluogo.

Ore 17.17, l’unica presenza qui è l’afa soffocante, sugli alberi non si muove una foglia; non avendo entrambi alcun tipo di contatto, non mi resta altro che aspettare. Nell’estate del 1978, finite le medie, il Giand e famiglia, lasciarono la vietta per una non ben precisata, migliore sistemazione, per iorillà, come sentenziò mio padre, la vietta era un posto troppo da poareti; da quella volta, non ho più rivisto il Giand. Nello stesso periodo, il padre di Marilena, finanziere, venne trasferito, per cui, anche di lei persi definitivamente le tracce.

Ore 17.38, l’anziana è scesa scortata dalla badante moldava, decido di rimanere ancora un poco, se vado via subito, do proprio l’impressione di essere un ladro e quella chiama la polizia.

Ore 17.48, vado, destinazione solita panchina, a rimuginare sulla mia esistenza; Fabietto, se eri ancora qui, almeno tu, non saresti mancato all’appuntamento. Giand sarebbe stato sorpreso nel vedere, il percorso stile Camel Trophy, che facevamo per andare in aeroporto trasformato in una ciclabile talmente trafficata da bikers, runners e nordic walkers che si rischia, ogni istante, un incidente. Dal punto di vista aviatorio, idem, è un continuo susseguirsi di aerei in atterraggio; non serve più attendere pazientemente ore per vederne uno. Rispetto a quei tempi però, gli aerei, colori a parte, sono tutti uguali, cambiano solo le proporzioni, sembrano disegnati con il pantografo, i progettisti devono aver perso la fantasia. Che bei tempi quando vedevi Caravelle, Comet, Trident, DC9, Boeing 727, DC8, DC10, BAC 1-11, Viscount e altri come il mitico Concorde; uno diverso dall’altro.

Sono sfinito e depresso, per poco il classico pensionato in canottiera, non mi soffiava la panchina con vista sulla testata pista 04; il posto è mio per diritto, specie oggi che, la nostra Accademia, celebra il 40° della fondazione. Da quando, quasi cinquant’anni fa, scomodamente seduto sul ferro della bicicletta, papà mi portò qui, continuo a venire a vedere, il magico andirivieni di queste meravigliose macchine volanti. Non c’è più quella bellissima terrazza, ora mi devo accontentare di questa panchina arrugginita in riva alla laguna e, godermi solo gli atterraggi. Resta sempre il sogno; seduto in cabina di pilotaggio, sul lato sinistro, quello del comandante, leggo ancora, sulla lista dei passeggeri, il suo nome. I bellissimi occhi verdi gli si illuminano nel vedermi con la mia elegante divisa sulla cui giacca brillano l’aquila e le quattro strisce dorate di comandante.

Come un disco rotto, continuo a chiedermi perché di noi tre, sono l’unico a non essere diventato pilota. Mi sarei vergognato dover dire al Giand che, per vivere, aggiusto attrezzature per bar, o peggio, che, ho preso l’aereo solo due volte e, per giunta, me la sono letteralmente fatta sotto.

In realtà, le spiegazioni ci sono, solo che preferisco non pensarci; troppo doloroso ammettere le mie paure, riesumare l’amarezza per il vissuto e i rimpianti per le occasioni perse; meglio il bel ricordo dell’estate 1977.

Tu Fabietto lo sai, diventare pilota, per me, non era l’obiettivo da raggiungere da adulto ma, il sogno che mi aiutava e, tuttora mi aiuta, a vivere il momento presente.

Manetta FULL … freni rilasciati … 145 nodi … V1 … 150 nodi … rotazione … muso a 45° … 160 nodi …V2 … carrello su … via libero! L’ombra si stacca da terra, dalla realtà. Volare, volare il più alto possibile sopra tutto e tutti, aviatore nell’anima.

“Quel vecchio aereo con i finestrini triangolari, come si chiamava?”, in un millisecondo le parole mi escono di bocca, “Sud Aviation SE 210 Caravelle, il più bell’aereo del mondo”, una scarica di extrasistole, troppo giovane però la voce. Mi volto, due ragazzini in divisa da quasi pilota; allievi di qualche scuola di volo privata, dove, in poco tempo e con tanti soldi, passi dal giocare con la Playstation ai comandi di un AIRBUS 320.

“Lei è pilota?”, mi chiede il rosso ricciolino figlio di papà. “Una volta, … quand’ero giovane”

Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare. Jim Morrison

A Fabietto … libero per sempre di volare.

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2018 Michele Camillo

Libero

Semplicemente un pilota

“Quello che ci è sempre passato sopra”, non mi viene in mente frase migliore per definirti. Saranno passati quasi quarant’anni da quando ci passavi sopra nel campetto in fianco a casa, tutti noi bambini con gli occhi in allerta non appena sentivamo il rombo, per capire da dove saresti sbucato,un istante e il G91 sfrecciava sopra le nostre teste, “dai che torna”, dicevamo speranzosi, non ci deludevi, concedendoci un altro impressionante passaggio ancora più basso. Al giorno d’oggi, saresti finito sui giornali, quelli di sinistra ti avrebbero definito un cafone pilota di destra mentre, quelli di destra, uno scervellato pilota di sinistra. Ti saresti beccato una collezione di denunce dai genitori fra cui si trova sempre chi ha “il suo avvocato”; ci sarebbe stato un ambientalista dell’ultima ora pronto a affermare con matematica certezza che dal tuo tubo di scarico esce gas radioattivo, i cento e passa metri ai quali ci sorvolavi rendendoci felici, si sarebbero trasformati in dieci scarsi però, caro Libero, almeno della cosa sarebbe rimasto qualche immagine o video girato con lo smartphone, istantaneamente diffuso in rete per far guadagnare centomila “mi piace” al social-narcisista di turno invece, a noi bambini di allora ci rimane solo la memoria oltre a aver acceso in me la passione per il volo.

Il PIPER CUB mi ha sempre affascinato, un aereo che è sinonimo di libertà con il quale puoi atterrare dove vuoi, ti basta un campo, neanche tanto preparato, di un centinaio di metri; di colore giallo poi, “è la morte sua”, come si dice. Quella volta sul greto del Piave quando, come per magia, ne ho visto atterrare uno, decisi di non lasciarmi scappare l’occasione e, con il cuore in gola per lo sforzo e per l’emozione, pedalai a tutta birra per raggiungere il punto dell’atterraggio.

Si vede che sei sempre stato un signore, stavi per voltare il muso e ripartire subito ma, scorgendo quel pazzo in mountainbike che rischiava di ammazzarsi scivolando sul ghiaino, probabilmente per vedere il tuo aereo, hai deciso di spegnere il motore. “Calma giovane son qui e non scappo”, le tue parole abbatterono la mia proverbiale timidezza, non mi pareva vero, eccomi a parlare per la prima volta con aviatore vero, uno che ce l’aveva fatta a staccarsi da terra mentre io, ero rimasto l’eterno allievo pilota. Chissà perché, tirai subito fuori il discorso del campetto, “mi sa proprio che ero io”, quelle tue parole mi provocarono un tuffo al cuore, possibile, il destino.

Eri proprio tu che giovane ufficiale pilota di complemento dell’Aeronautica Militare prendevi di mira quel campetto per sparare una innocua raffica di foto dalla macchina piazzata sul muso del G91R, te lo eri scelto tu quel campetto come obiettivo per pura simpatia, a quei tempi era permesso appunto, ti eri pure accorto di noi bambini ed era proprio per farci contenti che ci ripassavi più volte.

Ti sei reso conto fin dall’inizio di essere un privilegiato a fare qual mestiere, per questo hai sempre avuto un occhio di riguardo per chi stava a terra con il naso all’insù ad ammirarti, “è il mio pubblico”, ammettevi con una punta di orgoglio. Questo tuo modo di pensare, nella tua carriera, ti ha inevitabilmente creato più di qualche grana, non contavi nemmeno più i richiami dei superiori per i passaggi “a pelo di capello” come li chiamavi tu, fatti in fase di atterraggio, al fine di accontentare chi ti ammirava aggrappato alla recinzione della base. Era più forte di te, quando vedevi qualcuno dei tuoi fans li giù gli concedevi quasi sempre il bis, ovvero due giri rasenti suolo prima di atterrare, “capitano, ce li mette lei i soldi del carburante che ha sprecato per le sue esibizioni”, era la frase ricorrente, vabbè, altri tempi e, come ho scritto prima certe cose si potevano ancora fare. Il vero pensiero proibito però lo facesti con il DC9 che tu, continuavi a chiamare tale anche quando divenne MD80, “tanto sempre un DC9 era”, ribadivi, erano gli anni quando ormai civile facevi l’istruttore in Alitalia. Stanco della routine prevista dal circuito di addestramento sull’aeroporto di Venezia ti venne l’idea che, per fortuna della tua carriera rimase tale, di fare un passaggio basso sul litorale del Lido giusto per far divertire i bagnanti sottostanti.

Incredibile, eri sempre tu anche quello! Io un po’ più grande mentre il campetto si stava riducendo per via di alcune nuove costruzioni però riuscivo sempre a vederti mentre mi passavi sopra e seguivo l’aereo mentre si abbassava all’orizzonte per atterrare a Tessera per poi riapparire, alcuni minuti dopo, nuovamente sopra la mia testa. Erano tempi quelli in cui l’addestramento si faceva “dal vero” con continui touch & go sulla pista, e che pista! E venne fuori tutto il tuo astio nei confronti dei simulatori di volo, “dai, installatelo sul PC che torni a imparare a pilotare”, mi provocavi, capii che eri un pilota all’antica per cui certe cose facevi fatica a digerirle.

Ascolta, lega da qualche parte quella bici prima che te la freghino che andiamo

Fu un attimo e quell’affare giallo fatto di legno e tela stava già sorvolando il Piave che, a causa del riflesso del sole, sembrava fatto di carta stagnola, “non eri ancora nato che ero già stufo di volare”, dicesti subito per tranquillizzarmi, niente di più falso, nel tuo caso, ti sei stancato prima di vivere che di volare. Non era tensione quella che tu percepivi in me, quando subito dopo il decollo, ti sei voltato per vedere come se la passava quell’inaspettato passeggero ma, l’inconsolabile tristezza di un aviatore rimasto fermo sul primo gradino della scalata verso il cielo.

Il ricordo di quel giorno quando mi presentai a rapporto dal comandante di corso per annunciarli la mia decisione di uscire dall’Accademia, non si è mai affievolito, sarò stato un debole ma, l’assurdità di quelle regole, le angherie subite da parte dei vecchi e dello “scelto” quel ragazzo che aveva neanche un anno più di me e che, si atteggiava a padrone assoluto della mia libertà, ebbero il sopravvento. Sapevo di buttare al vento tutti i sacrifici fatti per arrivare fin li ma, nei venti giorni che rimasi a Pozzuoli la mia immensa gioia per aver superato prove scritte, colloqui vari nonché accanite visite mediche, si trasformò in pianto per il violento impatto con la vita militare, “fanc.. anche a gradi e stellette, voglio solo volare e basta!” dissi fra me e me. Purtroppo, quel giorno che mi si chiuse alle spalle, senza appello, il portone dell’accademia aeronautica, si chiuse contemporaneamente, sempre ammesso che ce ne avesse uno, il cuore di mio padre. Sottufficiale di marina, non riuscì ad accettare la mia scelta, si era ormai vantato con mezzo mondo di avere un figlio in Accademia che, da li a qualche anno sarebbe diventato un alto ufficiale dell’Aeronautica Militare Italiana, la mia passione per il volo non contava, da quel giorno praticamente non mi parlò più.

Hai già avuto la tua occasione”, rispose freddo e distaccato al telefono, quando alla scuola di Alghero mi dissero in soldoni, che l’addestramento era a pagamento e, per ottenere la licenza di volo avrei dovuto sborsare una sessantina di milioni di allora, cifra della quale ovviamente non disponevo.

Si potrebbe ricominciare da Alghero”, certo che mentre mi mettevi la mano sulla spalla, sembravi proprio un prete che aveva appena ascoltato la mia confessione, solo a te poteva saltare in mente di farmi prendere la licenza di volo a quarant’anni suonati, eri stato istruttore pure lì prima che la scuola chiudesse ovviamente, tanto ormai avevo finito di stupirmi, di quell’esperienza, amara per certi versi, ti erano rimasti molti amici quelli che, avrebbero dovuto farmi spiccare nuovamente il volo ma, soprattutto l’amore per quella terra, tale da farti acquistare una casetta dove ogni estate ti trasferivi.

Da quell’estate, non è mancato anno che dalla spiaggia del Lazzaretto commentassimo gli atterraggi e i decolli da Fertilia, la nostra postazione ideale era il chiosco da cui, tra un sorso di birra e un altro inveivi contro quelli che definivi “computer con le ali” per pilotare i quali dicevi bastava fare un corso davanti a un PC e, se superavi l’esame, ti spedivano poi la licenza di volo via mail, esagerato, il bello era che qualcuno che, inevitabilmente ti stava ascoltando, ci credeva, dovevo poi io pensare a rassicurarlo visto che era terrorizzato a tornare a casa a bordo di uno di quei cosi. Avevi pietà solo per i “paperotti” a elica da Aeroclub sui quali avrei dovuto ricominciare amen, per una serie di cose la voglia mi era passata.

Anche quest’anno, sistemati bagagli e famiglia, mi sono presentato puntuale “a rapporto” dove sapevo di trovarti, pensavo scherzassi mentre mi chiedevi come mi chiamavo poi, mi hai parlato di un posto che sapeva una tale puzza di piscio che non avevi sentito nemmeno nei bagni degli avieri, dove saresti dovuto andare a trascorrere il resto dei tuoi giorni. Ripetevi come un mantra le ore di volo che avevi accumulato, le elencavi con precisione per tipo di aereo ma, non riuscivi a ricordare quasi nulla che riguardasse noi due, probabilmente era vero, sei esistito solo nella mia immaginazione, il riflesso di quello che avrei voluto essere, l’amico pilota immaginario.

Signore, scusi, lei è Massimo vero, il comandante Max”, a quella donna con accento dell’est che, sopraggiunse alle mie spalle, avevi ormai demandato la custodia della tua memoria, comandante, ho fatto fatica a trattenere le lacrime, mi avevi promosso pilota Honoris Causa, d’altronde ripetevi spesso che per te “ero comunque un aviatore” in quanto ne possedevo lo spirito, sorridevi con gli occhi fissi a fissare il mare come un bambino che lo vede per la prima volta poi, abbassando volutamente lo sguardo per sfuggire al mio, penso per vergogna, ti allontanasti frettolosamente a braccetto di quella donna, “Olga, si ricordi di dare al comandante quella cosa, mi raccomando … quella cosa”.

Hey Libero, hai visto, sto salendo a bordo di un MD82 ah no, scusa, un DC9, hai proprio ragione, sbirciando in cabina di pilotaggio si vedono ancora tanti strumenti belli tondi con le lancette, altro che schermi LCD e poi, il comandate, ha l’età che si merita per portare in aria questo bell’aereo filante, non è certo uno di quei “sbarbati” sulla trentina che vedi ai comandi nelle compagnie low cost. “A quell’età quattro botte sulle spalline! Quattro calci nel culo gli darei, non a loro, ma a chi li mette ai comandi di quei cosi”, il tuo sfogo riecheggiava tra i sedili. “Buongiorno”, salutai il brizzolato ai comandi, “Le porto il saluto di Libero, se lo ricorda? Sarà stato sicuramente lui che le ha insegnato il mestiere”, avrei voluto dire.

E’ proprio come dicevi tu Libero, senti come ‘sto DC9 stacca veloce dalla pista infuocata di Olbia, in quanto a velocità di salita non c’è AIRBUS che gli possa tenere testa, l’isola di Tavolara è l’ultima cosa della Sardegna che vedi prima che sparisca all’orizzonte, dietro le tue spalle. Prima di venire in aeroporto mi sono fermato nella minuscola caletta, scoperta assieme, da dove si gode un’ottima vista di Tavolara, ho appoggiato il diario su una roccia in modo che le sue pagine si impregnassero per l’ultima volta di quel vento caldo.

In quanti posti ci sei passato sopra ma, soprattutto in quante occasioni.

Ci sei passato sopra, quando la tua amata Aeronautica Militare non ha voluto abilitarti al tanto sognato “Spillone”, l’F104. A trentacinque anni per loro eri già vecchio, lodandoti e dicendoti che avevi già dato molto per la patria, ti hanno fatto capire che la tua carriera di ufficiale pilota di complemento, per quanto gli riguardava, poteva finire li.

Ci sei passato sopra, quando la compagnia ha deciso di mettere a terra l’intera flotta di MD80 dicendoti che, uno con la tua esperienza avrebbe potuto trovar facilmente lavoro in qualche sperduto angolo del pianeta dove, quei dinosauri volanti, continuavano ancora a volare.

Ci sei passato sopra, anche al fatto di non esserti mai fatto una famiglia regolare, ormai era andata così.

Non ci sei passato sopra, quando si è trattato di perdere definitivamente la tua libertà, se non altro per onorare il nome che porti.

Una frazione di secondo dopo il segnale delle cinture e avevo già la piccola Ely pronta a condividere con me il minuscolo oblò, quasi per miracolo, con i nasi spiaccicati e il fiato che lo appannava tutto, le nostre facce riuscivano a starci dentro.

Stai guardando se lo vedi vero?   Papà … come si diventa pilota?”

Si dice: Un pilota non muore mai, è solo volato più in alto

Il giorno dopo il nostro incontro, Libero sparì da casa, gli ultimi a vederlo furono i ragazzi del chiosco, malgrado la brutta mareggiata, se ne stava seduto serenamente a gambe incrociate davanti al mare agitato. A oggi, non è mai stato ritrovato.

Libero, in realtà Libero Antonio, deve il suo nome al fatto di essere nato il 28 aprile 1945. In piena euforia per la liberazione il padre, convinto antifascista, non ci pensò due volte a dargli quel nome, lasciò invece il secondo nome alla scelta della moglie. Iniziò molto presto il suo stretto rapporto con gli aerei, da quando il papà, tecnico alla FIAT AVIAZIONE, all’età di cinque anni, iniziò a portarlo al campo di volo.

Tutto questo e, ovviamente molto altro l’ho trovato nel diario che mi ha lasciato in custodia, sarebbe da scriverci un libro … probabilmente lo farò.

Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola. Richard Bach

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Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2016 Michele Camillo