Fio dei Fiori – Parte I^
© 2009 – 2024 Michele Camillo
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Capitolo 9 – ‘Ndemo
Alle cinque di mattina l’aguasso si faceva sentire più che mai contribuendo ad amplificare la mia agitazione, tanto che avevo la pelle d’oca, camminavo nervosamente sotto casa in trepidante attesa di percepire il rumore della macchina di Tony Carrer che si era offerto di accompagnarci all’aeroporto. Continuavo a frugare continuamente nelle tasche del giubbino e in quelle esterne dello zaino con la paura di aver dimenticato qualche documento necessario per il viaggio. Una notte insonne alle spalle passata a tormentarmi con mille se: se l’aereo precipita, se fanno un attentato, se ci rapinano, se mi ammalo, se dimentico qualcosa di acceso o qualche rubinetto aperto, pensiero per cui, nel frattempo, ero già risalito per ben due volte su in casa a controllare.
Il campo de panoce dietro casa emanava l’inconfondibile profumo della campagna. Respirai a fondo con gli occhi chiusi, cercando di imprigionare quell’essenza che mi ricordava la terra, la semplicità, la quiete. Tra qualche ora mi sarei trovato in un luogo completamente diverso, distante migliaia di chilometri. Pensieri da contadino, mi dissi. Il vero viaggiatore non volge mai lo sguardo indietro.
Il rumore di un’auto che rallenta e si immette nella mia viuzza spezzò il silenzio del mattino. Il cuore ebbe un sussulto e iniziò ad aumentare il ritmo. Ci siamo, pensai. È l’ora. Il grande viaggio inizia.
Lo sguardo dei due mul era talmente ebete che gli accolsi con una risata a metà fra il nervoso e il liberatorio, Tony, invece mi salutò fiaccamente, notai subito la faccia cupa. “’ndemo, ‘ndemo!” disse il Bitol battendo fortemente le mani, poi via nella silenziosa campagna mattutina.
Tra la palpabile tensione e la tristezza di Tony, in macchina regnava il silenzio. Sembravamo i tre dell’Apollo 11, chiusi nel pulmino che li avrebbe portati al razzo Saturn. Cercando di vivacizzare quella surreale atmosfera e stemperare la tensione, chiesi a Tony uno dei suoi mitici consigli per una buona caccia ai montarei: “Ste tenti che a fame fa brutti schersi”, disse seriamente. Sega mi fissò scuotendo la testa; non era giornata, probabilmente a causa dei soliti problemi familiari.
Le parole di Tony riassumevano tutta la sua storia: il desiderio di trovare una donna a tutti i costi lo aveva portato a fare scelte frettolose, che pagò per tutta la vita. Aveva dovuto sposarsi giovanissimo, in quanto la Franca era rimasta incinta.
La campagna scorreva veloce sul finestrino, ci stavamo avvicinando all’aeroporto, dall’autoradio uscì una canzone che non avevo mai sentito, mi rese talmente felice da dimenticare le angosce e tutto quello che mi lasciavo alle spalle, quel brano divenne il leitmotiv del viaggio.
Salutammo Tony frettolosamente, lo abbracciai, cosa per me insolita, stringendolo forte, era un gesto di solidarietà, seppur sposato, per come era andata, si poteva considerare a pieno titolo un mul come noi.
Alzai lo sguardo verso il tabellone degli orari, quando scorsi il numero del nostro volo con accanto la scritta “on time – in orario”, il cuore riprese a battere forte e mi presero vampate di calore da donna in menopausa. Al banco check-in, dietro di me, si era piazzato un tipo poco rassicurante, dai tratti mediorientali, cominciamo bene con un potenziale terrorista a bordo. La lunga fila di passeggeri sbuffanti e la faccia scazzata dell’addetta, mi convinsero che viaggiare in aereo era per tutti, tranne che per noi tre, un fatto ordinario.
In fila ai controlli di sicurezza, ci precedeva il mediorientale, volevo proprio vedere se per qualche motivo lo fermavano, passò tranquillamente il controllo facendo la faccia sorridente alla guardia, si stava evidentemente prendendo gioco di loro. Ironia della sorte, rivoltarono il povero Bitolcome un calzino, venne rimandato indietro quasi fosse un appestato, dovette togliersi persino le scarpe mentre, dietro di lui, un paio di business man sbuffavano spazientiti; alla fine, tutto rosso in viso si ricompose, non prima di essere stato mezzo travolto dai quei due stronzi che continuavano a borbottare e a fissarlo con aria di superiorità. ”Xe ciavemo un caffè?”, disse, con il tono tipico di chi aveva appena superato un esame.
Dalle vetrate, grazie alla giornata limpida, si godeva una bellissima vista sulla laguna, Sega, con la tazza in mano, era incantato a guardare la sagoma di Venezia che si stagliava all’orizzonte mentre a me e al Bitol stava venendo il torcicollo a son di seguire con lo sguardo la moltitudine di montarei che si aggiravano lì attorno.
“Hasta la victoria siempre comandante Calzavara!” Gridò all’improvviso un tizio in tuta bianca da meccanico di aerei in direzione di uno con la divisa da pilota seduto ad un tavolino. Fu in quel momento che riconobbi il tipo del pontile; scoperto perché passava il tempo ad osservare le scie degli aerei. “Xe vedemo anca qua ‘desso”. Per la prima volta ci sorridemmo e ci parlammo. “Buon viaggio”, aggiunse mentre, con avidità si fiondò su una brioche; com’è piccolo il mondo, oltre a parlare al mare, abbiamo in comune l’essere entrambi dei “fugassetta”.
“Signore, le è caduta la carta di imbarco”, sentii sbiascicare dietro le spalle. Una bambina in carrozzina stava richiamando la mia attenzione, osservai per un attimo quel minuto corpicino racchiuso in una grande tuta rosa, era completamente senza capelli e una mascherina le pendeva dal collo. La ringraziai raccogliendo ciò che mi era caduto; mi augurò buon viaggio mentre, a fatica, tentava di mangiare uno yoghurt; Sega mi strattonò per il braccio, non ebbi il coraggio di voltarmi a guardarla ancora una volta, in fine dei conti, tutti e due viaggiavamo con una speranza.
Non ce la facevo proprio a stare seduto nell’attesa dell’imbarco, continuavo a guardare fuori il via vai frenetico degli aerei, lo stesso stava facendo il mio amico pilota del pontile, con la stessa faccia malinconica che aveva al mare. I miei pensieri erano concentrati sul mediorientale, aveva smesso di leggere un libretto dalla copertina nera, sicuramente si trattava del corano, ora si era alzato e fissava l’aereo con uno strano sguardo, quasi di sfida, un brivido mi partì dal fondo schiena.
Quando varcammo il cancelletto di imbarco il montareo addetto al gate, a momenti svenne a causa del tanfo che emanavamo da sotto le ascelle. Mi vergognai a morte e sperai che non ci rimandassero indietro. Ci sedemmo io al finestrino, Sega in mezzo e il Bitol lato corridoio con la promessa di scambiarci il posto al finestrino negli altri voli. Sull’altro lato del corridoio era seduto lui, il mediorientale, il rischio che usasse il Bitol come ostaggio, minacciandolo di ucciderlo se il comandante non gli avesse aperto la porta della cabina di pilotaggio, era alto. Non riuscivo a capire una mazza di tutti quegli annunci in inglese che uscivano a raffica dall’altoparlante, doveva essere roba di routine, visto che nessuno si agitava più di tanto, nervosamente continuavo a sistemarmi la cintura poi, presi a consultare, con le mani intrise di sudore, il foglio plastificato che illustrava come uscire da quel tubo di ferro in caso di disgrazia.
Mi consolai nel vedere gli altri due soci alquanto in ansia, il Bitol stava agitando le ginocchia così intensamente che le vibrazioni si trasmettevano anche al mio sedile, quando poi, la hostess spiegò come indossare le maschere di ossigeno, si portò, senza alcun riguardo nei confronti degli altri passeggeri, le mani sulle parti intime e, mollò una potentissima sfiatata dal deretano, fortunatamente solo sonora, che non ebbe conseguenze significative per il ristretto ambiente nel quale ci trovavamo. Fu allora che, il mediorientale, scoppiò in una risata liberatoria. Un terrorista non ride in quel modo, il poverino doveva essere agitato quanto noi, ne ebbi la conferma subito dopo, quando scambiò due parole col Bitol e gli offrì una gomma da masticare allo scopo di farsi coraggio e stemperare la tensione.
Ancora ben piantati a terra, fermi in attesa di imboccare la pista, osservai l’andirivieni dei motoscafi sul canale. Sega, sprigionando ottimismo da tutti i pori, mi disse che potevano essere le ultime scene di vita terrestre che avremo visto; a quel punto pensai bene di imitare il gesto scaramantico del Bitol visto che, da li a poco, ci saremo staccati da terra e chissà come sarebbe andata. Ci muoviamo, tocca a noi, le pulsazioni e la sudorazione aumentano, poi il rombo dei motori che cresce, l’accelerazione mi spinge sullo schienale, il paesaggio lagunare scorre sempre più velocemente, tutto vibra, secondi interminabili nei quali sembra che la pista non finisca più, il Bitol che nervosamente grida “vai, vai!”, poi, eccolo, il momento tanto atteso, l’aereo si inclina e si allontana rapidamente da terra, sul corpo una strana sensazione, “oooh, ooh, uuh”, di nuovo la voce del Bitol. Sotto di me la laguna, con il sole ormai quasi a picco che si riflette nell’acqua, viriamo, ecco il mare e la spiaggia, chissà se stiamo sorvolando il nostro pontile. Mi rendo conto di aver monopolizzato il finestrino con il mio testone, mentre gli altri due allungano disperatamente il collo nella speranza di godersi una fetta di spettacolo, per rimediare, mi misi a fare un dettagliato resoconto di quello che si vedeva.
In base a calcoli approssimativi sulla rotta, ci stavamo dirigendo verso ovest. Presto avremmo dovuto scorgere in lontananza la nostra beneamata campagna. Ecco il Piave, serpente d’argento che si snoda tra le terre. E poi i campi, rettangoli di diverse tonalità che, visti dall’alto, sembrano tracciati con il righello, opere d’arte della natura e dell’uomo.
Con la testa appoggiata sul finestrino, sentivo le vibrazioni dell’aereo attraversare il mio corpo. Era un momento solenne. Sorvolavo quei campi che conoscevo fin da bambino, il primo dei Nosea a staccare la sua ombra da terra e volare. Ne ero fiero, in quel momento mi sentivo un esploratore del cielo, un pioniere in un’avventura poetica, abbracciando il cielo sopra la nostra terra amata.
Ora che la tensione era visibilmente calata, con una lattina di birra strapagata e tre bicchieri di plastica, brindammo felicemente al nostro primo volo. Persino il “terrorista” mediorientale partecipava a modo suo, sorridendo rivolto a noi e facendo il gesto di asciugarsi il sudore dalla fronte. Cominciava a starmi sempre più simpatico, soprattutto perché mi resi conto che non era un terrorista, ma solo un tipo ansioso come noi.
La scena era degna di un film comico: noi tre, con i nostri bicchieri di plastica alzati come se stessimo festeggiando la fine della guerra, e lui, che sembrava il personaggio buffo venuto fuori da una sit-com, che sorrideva e annuiva, probabilmente senza capire una parola di quello che dicevamo.
Sega propose un brindisi, “Alla nostra prima volta in cielo!” e Bitol, con la solennità di un predicatore, aggiunse: “E a non dover usare quei ridicoli sacchetti di carta per il vomito!” Risate generali. La hostess passò di lì in quel momento, ci guardò con un mix di pietà e divertimento, e ci lasciò dei salatini come premio di consolazione per la nostra piccola festa in alta quota.
Chi l’avrebbe detto che il nostro primo volo sarebbe diventato una scena da bar, a 10.000 metri d’altezza? E che avremmo trovato un nuovo amico nel più improbabile dei compagni di viaggio?
Scoprii che il sibilo del motore contribuiva a rilassarmi, avvolgendomi in una sorta di armonia celestiale. Provai un piacevole senso di isolamento, come se fossi sospeso tra cielo e terra. Reclinai lo schienale e mi appoggiai sul fianco, sentendo la tensione allentarsi, e il sonno arretrato si fece sentire. Mi addormentai cullato dal rumore dell’aereo, una ninna nanna inattesa e sorprendentemente dolce.
Di tanto in tanto, i miei occhi si aprivano e osservavo il paesaggio sottostante scorrere lentamente, come un quadro in movimento. Le montagne sembravano sollevarsi maestose, e il mare di bambagia delle nuvole si stendeva all’infinito, soffice e invitante. Mentre ci scivolavamo sopra, mi sentivo parte di un mondo sospeso, un viaggiatore tra le correnti del cielo, avvolto in un sogno sereno e infinito.
C’era voluto un energico scossone di Sega per svegliarmi e dirmi che eravamo sopra il canale della Manica. Vista dall’alto, la campagna inglese sembrava avere un aspetto più signorile della nostra, senz’altro più verde e ordinata, come se anche l’erba fosse stata educata in qualche prestigioso collegio britannico.
Mentre l’aereo si avvicinava a terra, i particolari diventavano più nitidi. Potevo quasi vedere gli inglesi che ci salutavano con la loro tipica compostezza.
Poi, un tonfo seguito da una forte decelerazione ci fece sobbalzare sui sedili. Ed eccoci a terra. Il Bitol, con l’entusiasmo di un tifoso allo stadio, iniziò ad applaudire, seguito da qualche altro passeggero italiano altrettanto grezzo.
Io, Sega e pure l’ex terrorista ci vergognammo a morte. Cercammo di sprofondare nei nostri sedili, sperando che il rumore degli applausi coprisse il suono delle nostre dignità che sprofondavano. Ma alla fine, non potemmo fare a meno di ridere di noi stessi e della nostra esilarante avventura. Ah, il primo volo: un’esperienza che ricorderemo sempre, anche se magari con un po’ di rossore sulle guance!
Una grande metropoli si vede anche dal suo aeroporto: tutto era più grande, più maestoso. Percorremmo in processione con gli altri passeggeri dei corridoi interminabili, con il rumore dei trolley che mi penetrava nel cervello. Ora bisognava capire se accettavano volentieri l’ingresso di tre mul di campagna in terra di Sua Maestà. L’ansia riprese a farsi sentire, soprattutto vedendo la tipa del controllo passaporti, che con il viso sorretto dal braccio appoggiato sul bancone, aveva l’aria alquanto strafottente.
Mi fece cenno con la mano di avvicinarmi, mi strappò il passaporto dalle mani e mi chiese qualcosa. Panico. Rimasi fermo immobile come un ebete. “Ha chiesto da dove viene”, mi disse gentilmente una signora italiana in fila dietro di me. Iniziai a balbettare il nome del mio minuscolo paese, ma non feci nemmeno in tempo a finire che la tipa, squadrandomi dalla testa ai piedi con aria di sufficienza, sbuffò.
“Veneto?” disse, come se avesse appena sentito il nome di un pianeta lontano. Con un cenno distratto, mi lasciò passare.
Sega e Bitol, dietro di me, stavano trattenendo il fiato, pronti a esplodere in una risata non appena fossimo stati fuori dalla vista della donna.
“Milady, vanta questa!” Oltre alla risata, dal retrobottega del Bitol esplose, un’altra emissione potente, ‘stavolta fortemente maleodorante; la tempesta perfetta. Roba che gli agenti dell’antiterrorismo lo arrestino per attacco chimico ai sudditi di sua maestà.
E così, finalmente, ci trovammo in Inghilterra, tre mul di campagna catapultati nel cuore di una grande metropoli. Mentre i trolley continuavano a far eco ai nostri passi, Sega sussurrò: “Beh, benvenuti nel mondo civilizzato, ragazzi.” Non potei fare a meno di ridere, pensando che il nostro arrivo era stato un vero e proprio spettacolo degno di una commedia.
Facendoci largo a malo modo tra gli altri passeggeri, ci fiondammo sui nostri bagagli che erano già sul nastro trasportatore, presi dalla paura che venissero risucchiati nel tunnel da dove erano usciti. “Good luck guys and have a good trip!”, mi commosse il saluto del simpaticissimo ex terrorista, non so cosa, forse quel suo sguardo sorridente, ma mi dava l’impressione che mi avesse scrutato dentro e conoscesse tutta la mia storia.
Appena la porta automatica si aprì sulla hall degli arrivi, ci fermammo per alcuni secondi in religioso silenzio. Un leggero sussurro di aria fresca ci accolse, portando con sé l’eco di mille storie e viaggi. La vastità della hall si aprì davanti a noi, un mare di volti, voci e lingue diverse che si intrecciavano come onde di un oceano cosmopolita.
In quel momento, ogni ansia e timore sembrarono dissolversi. Eravamo lì, noi tre, con i nostri cuori che battevano all’unisono, fieri di aver superato le nostre paure. Un sentimento di conquista ci pervase, come se avessimo scalato una montagna e ora guardassimo dall’alto il panorama mozzafiato delle possibilità infinite.
Il mondo sembrava allargarsi davanti a noi, invitandoci a esplorare, a scoprire, a vivere. Ogni passo che facevamo era un battito di ali verso nuove esperienze, ogni respiro un assaggio dell’avventura che ci attendeva. Sentivamo il peso della nostra storia, delle nostre radici, e al contempo la leggerezza del volo, pronti ad affrontare a testa alta la nostra avventura in terra straniera.
Sega, con un sorriso che rifletteva la luce della speranza, fece un passo avanti, seguito da Bitol, i cui occhi brillavano di curiosità. Io, con il cuore gonfio di emozioni, li seguii, sentendo una forza nuova crescere dentro di me. Insieme, varcammo quella soglia, lasciandoci alle spalle le ombre del passato e abbracciando il futuro con coraggio e determinazione.
In quel silenzio solenne, eravamo più che semplici viaggiatori: eravamo esploratori di un mondo nuovo, protagonisti di una storia ancora da scrivere, pronti a immergerci nell’avventura che ci attendeva, con la consapevolezza che, qualunque cosa ci riservasse il destino, l’avremmo affrontata insieme, con il cuore saldo e lo sguardo rivolto all’orizzonte.
Continua …..
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