Caigo e aguasso

Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare.Luigi Pirandello

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Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

© 2009 – 2024 Michele Camillo

Capitolo 17 – Caigo e aguasso

La nottata passata al pronto soccorso con la Bepina, mi ha devastato fisicamente e moralmente. Ho ancora nella testa le urla di Gino e le porte sbattute da Teresa. Come sempre, ero reo di non curarmi della situazione lasciando tutto sulle loro spalle. Sono stato fermo in piedi in mezzo al corridoio della casa nova, paralizzato, senza dir niente; tanto, non c’era niente da dire. 

Una gran bella giornata oggi, pensare che mancano pochi giorni a Natale.  

Sin da bambino, ogni anno, in questo periodo, sogno che arrivi la neve. E invece, solo e sempre: caigo e aguasso, che tristezza! 

È dalle cinque e mezza del mattino che sto guidando a casaccio per desolate stradine di campagna senza una meta precisa e, per giunta, con un tale gaigo da non riuscire a vedere oltre la metà del cofano. Il tepore del riscaldamento e la luce soffusa del cruscotto creano un piacevole senso di isolamento, mi concentro sulla guida quel tanto che basta per non andare a sbattere contro uno dei platani che ne delimitano i bordi.  

Questo graticolato di stradine strettissime lo conosco a memoria, mi pare di guidare a ritroso nel tempo. Da bambini, a farle in bicicletta ci sembravano infinite. Sognavamo il giorno in cui ci saremo comprati la macchina e, da quelle strade saremo partiti sgommando verso posti lontanissimi invece, almeno fino a quattro mesi fa, non siamo mai andati molto lontano. 

Per fortuna la musica sembra non abbandonarmi mai, nella testa echeggia la canzone che trasmettevano alla radio mentre, tutti eccitati e agitati, stavamo andando in aeroporto per il nostro primo vero viaggio. 

Ripenso a tutti gli anni finora scivolati via velocemente nella routine e nella monotonia più piatta che possa esistere, piatta e monotona come i campi che mi circondano. Li contrappongo a questi ultimi mesi vissuti intensamente. Strano come può cambiare in pochi mesi quello che non cambia in anni. 

Il sonno comincia a farsi sentire ma, non ho voglia di tornare a casa. Come un automa mi dirigo verso quello che rimane della nostra Woodstock. Sta lì, dietro quel gruppo di villette a schiera abitate solo il sabato, la domenica e altre feste comandate. El gaigo rende l’atmosfera ovattata amplificando il senso di solitudine, mi deprimo nel vedere le villette addobbate con decorazioni falso country e i babbi Natale che si arrampicano sulle terrazze, il tutto rigorosamente made in China. Mi soffermo per un attimo a guardare la mia immagine riflessa in una delle porte finestre, quasi avessi bisogno della conferma di essere triste.  Inutile illudermi, non esiste più la piccola Woodstock, del luogo dei nostri sogni, era rimasto solo il boschetto di gasie

Eppure, pur sapendo che mi impantanerò tutto, entro nel campo. In fin dei conti è il posto giusto dove stare in un momento come questo. Ho un freddo fastidioso alla punta dei piedi, i capelli ormai tutti bagnati da questa maledetta umidità e il naso che inizia a colarmi, mi frugo in tasca e come sempre quando servono, niente fazzoletti.  

Una lunga inspirazione poi, fuori l’aria piano piano per far durare a lungo la fumata di vapore che esce dalla bocca. Appoggiato con la schiena al parapetto del ponticello, cerco di ricordarmi con precisione il posto dove sorgeva la nostra collina. 

In momenti come questo mi piacerebbe avere il vizio di fumare per potermi accendere una sigaretta, serve quando non si sa che cavolo pensare e soprattutto che cavolo fare. 

Abbiamo avuto la sensazione che quel viaggio in ambulanza sarebbe stato l’ultimo. Dico abbiamo perché la prima è stata lei. In un momento di straordinaria lucidità, mi ha detto che ‘sto giro finalmente andava “di là”.  

Sembrava un’altra, attraverso la maschera dell’ossigeno, serena in volto, mi sorrideva. Invece di strillare continuamente e richiamare l’attenzione del personale come usualmente faceva in occasioni simili, si mise a farmi una sorta di intervista quasi a voler recuperare tutte le informazioni finora perse durante il periodo della sua demenza; mi chiese del viaggio in America. Stesa sulla barella si comportava come una vera mamma desiderosa di ascoltare pazientemente ciò che suo figlio ha da raccontare. Presi allora la palla al balzo e ricominciai con la storia del libro. Mentre le parlavo, fissava il soffitto sorridendo, a un certo punto mi diede un buffetto sulla guancia e sospirò. Io continuavo a farle domande ma lei non disse niente per il resto della nottata. 

Mentre la guardavo, una frase della Bibbia si insinuò nella mia mente, come un sussurro dal passato: “Anche se perde il senno, sii misericordioso ...” Quelle parole, semplici e profonde, mi colpirono con la forza di una verità che avevo a lungo ignorato. Un groviglio di emozioni mi avvolse, e senza poterlo controllare, iniziai a piangere. 

Le lacrime non erano solo un segno di commozione; erano il risultato di anni di sensi di colpa che avevo sepolto sotto strati di orgoglio e ostinazione. Per tutta la vita avevo disprezzato i miei genitori, specie mia madre, sentendoli inadeguati, incapaci di comprendere il mio mondo e di rispondere alle mie aspettative. Li avevo giudicati con durezza, incapace di vedere oltre la mia frustrazione. Non li sentivo all’altezza del loro ruolo, non per quello che mi davano, ma per quello che non riuscivo a ricevere da loro. 

Mi ritornavano in mente le parole di Teresa e Gino, che più volte mi avevano detto che la mia unica preoccupazione era fuggire. Ed era vero. Tutta la mia vita era stata una corsa disperata per sfuggire a quel senso di soffocamento, a quella famiglia che mi sembrava una gabbia. Ogni mia scelta, ogni decisione presa in fretta e furia, aveva un unico scopo: mettermi il più possibile alle spalle quel mondo che mi stava stretto, che non riuscivo ad accettare. 

Li criticavo, li giudicavo con sdegno per il loro carattere, per la loro ignoranza, per il loro essere fuori dal tempo. Mi sembravano arretrati, incapaci di stare al passo con i cambiamenti del mondo moderno. Ma mai, nemmeno per un momento, avevo cercato di mettermi nei loro panni. Non avevo mai provato a vedere la vita attraverso i loro occhi, non avevo mai considerato le sfide che avevano affrontato, le battaglie che avevano combattuto in silenzio. 

Mi resi conto di quanto fossi stato ingiusto. I miei genitori non erano perfetti, ma chi lo è davvero? Avevano fatto del loro meglio con quello che avevano, con le risorse, le esperienze e le conoscenze che possedevano. 

In quel momento, decisi che era tempo di fare pace con il passato, di guardare i miei genitori non più con disprezzo, ma se non con l’affetto, almeno con il rispetto che meritavano. Non potevo cambiare le scelte fatte, ma potevo cambiare il mio atteggiamento verso di loro, riconoscendo finalmente il loro valore. E con questa nuova consapevolezza, sentii che una parte del mio cuore, quella che avevo chiuso a chiave per troppo tempo, si stava finalmente aprendo. 

Le gocce cadono insistenti, prendo il libro che ho in tasca, ho quasi voglia di far cancellare quella frase dalla pioggia in modo da dire addio a tutte le fantasticherie sulle mie origini. 

Niente, non ne ho il coraggio. In fin dei conti quel mistero è giusto che rimanga per sempre.  

Continua

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Blowin’ in the wind

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 16 – Blowin’ in the wind

Alzai lo sguardo verso il cielo, osservai la scia di un aereo che tracciava una linea sottile attraverso una delle poche nuvole sparse in quel mare di azzurro limpido. Un velo di malinconia mi avvolgeva, consapevole che l’indomani ne avrei preso uno che mi avrebbe riportato alla realtà, lontano da quel breve momento di libertà. Avrei ripreso il mio posto nella grigia routine quotidiana, schiacciato da un destino che conoscevo fin troppo bene; sapevo già cosa aspettarmi. 

Mia sorella e mio cognato non mi avrebbero accolto con calore, non ci sarebbero state domande curiose sul viaggio. Anzi, il loro sguardo giudicante avrebbe detto tutto, un muto rimprovero per aver lasciato mia madre sola, per aver scelto l’evasione piuttosto che il dovere. 

In ditta, paron Franzin mi avrebbe accolto con lamentele amare, il solito piangere il morto per i clienti che diminuivano giorno dopo giorno, inghiottiti dalla sempre più numerosa e agguerrita concorrenza. Parole per farmi capire che mi stava stipendiando per puri motivi caritatevoli. 

Avrei sicuramente fatto el sgrandesson con e bee fie della pasticceria. Era un gioco al quale non sapevo rinunciare, una recita che ripetevo con una costanza quasi ossessiva, perché, alla fine, mi piaceva far colpo su di loro, nutrendo quel bisogno insaziabile di essere visto, di apparire qualcosa di più di ciò che realmente ero. 

Qualche attimo di gloria che sarebbe durato il tempo di incontrare lo stronzissimo Riccardo Bellè. Quel tizio aveva l’incredibile talento di trasformare anche il momento più brillante in un’istantanea di pura miseria. Mi avrebbe fatto sentire la solita merda. In fin dei conti eravamo stati “solo” in America. E che sarà mai? Lui c’era già stato per ben due volte!  La prima, in gita familiare con papi e mami. La seconda, in una di quelle vacanze studio sponsorizzata da papi; durante la quale, a detta sua, si era trombato le ragazze che alloggiavano in casa con lui, quella tettona della sua tutor e, la padrona di casa, facendo becco il marito ovviamente.  

E non era finita qui. Avrebbe sicuramente sfoderato la carta vincente: il suo ultimo viaggio a Curaçao, dove aveva fatto immersioni in acque cristalline con la bellissima Sophia, ultima sua compagna in ordine cronologico. Ovviamente, non avrebbe omesso, il racconto, fitto di particolari dei vari slinguacciamenti e porcate varie fatte a ventimila leghe sotto il mare. 

Devo ammetterlo, mi sarebbe piaciuto tornare al paesello con la speranza di sfoderare lo scoop del secolo, la bomba che avrebbe fatto impallidire chiunque: io, non figlio di Joani Nosea e Bepina Milanese, ma di una tale Kate chi-lo-sa, in realtà il vero nome di una famosissima cantautrice folk americana. Già mi immaginavo i titoloni sui giornali, le interviste a raffica in Tv. Vedevo Riccardo Bellè, per una volta, in crisi. Proprio come Gastone, il fortunato cugino di Paperino, costretto a mangiarsi il cappello quando, raramente, la sfiga lo beccava in pieno. 

La realtà, a cui mi ostinavo a non rassegnarmi, era purtroppo ben diversa: ero costretto a confrontarmi con la mia vita di umile tecnico tuttofare, sfruttato e sottopagato, figlio di due poveri contadini. Ogni giorno mi trovavo a fare i conti con la monotonia e la fatica di un lavoro che mi lasciava poco spazio per i sogni. E come se non bastasse, il quadro era ulteriormente reso più amaro dal fatto che non avevo neanche una donna al mio fianco, una compagna di vita con cui condividere l’esistenza. 

Invidiavo chi sembrava aver trovato il proprio posto nel mondo, mentre io mi sentivo intrappolato in una vita che non avevo scelto, una vita che non mi apparteneva. Ogni tanto mi chiedevo se ci fosse davvero qualcosa di più per me, qualcosa oltre quella routine che sembrava non finire mai. Ma ogni risposta che mi davo tornava a scontrarsi con la realtà: quella di un uomo solo, con il cuore pieno di desideri inappagati e con in tasca pochi soldi e tante fantasie. 

Non mi consolava il ricordo di tutte quelle miglia percorse, sospesi tra sogno e asfalto, in sella alle due Harley. Su una, c’eravamo io e James, mentre sull’altra, quella del generoso Tim che, in nome della nostra amicizia ormai consolidata, cedette volentieri il manubrio, viaggiavano Sega e il Bitol. Fu una scoperta di quell’insolita America rurale nascosta ai più, tanto vasta quanto intima, un luogo che sembrava abbracciare l’immensità e al contempo svelare piccoli angoli di autenticità. 

Non so quante pagine Sega abbia riempito nel suo misterioso quadernetto con Snoopy in copertina. Ogni volta che lo vedevo scribacchiare con aria assorta, mi chiedevo quali segreti stesse immortalando su quelle pagine. Era come se quel quaderno fosse una parte di lui, un’estensione della sua mente, e forse anche del suo cuore. Ma non ha mai voluto mostrarcelo, custodendolo come un segreto prezioso, come un tesoro che solo lui poteva capire e apprezzare. Ogni tanto, un sorriso enigmatico si allargava sul suo volto mentre scriveva, e io restavo lì, a metà tra l’ammirazione e la curiosità, consapevole che c’era un mondo intero racchiuso in quei fogli che mi sarebbe rimasto per sempre sconosciuto. 

Non saprei dire cosa stesse architettando il Bitol, sempre intento a stringere mani con fricchettoni dal sorriso largo e dagli occhi pieni di storie. Sembrava essere ovunque, tra la gente, a scambiare idee e a raccogliere frammenti di vita da sconosciuti che, per qualche motivo, si fidavano immediatamente di lui. Era un camminatore instancabile in quel vasto giardino umano, dove ogni incontro sembrava piantare un seme nella sua mente fertile. Ogni volta che lo osservavo, mi colpiva la sua capacità di connettersi con gli altri, di aprire porte che per me rimanevano chiuse, e di far germogliare qualcosa di nuovo da quelle esperienze. 

E poi c’ero io, in piena confusione, ancora intrappolato tra dubbi e incertezze. Mentre loro sembravano raccogliere certezze, io mi ritrovavo a vagare in un labirinto di pensieri irrisolti. Eppure, nonostante tutto, una cosa era chiara: Sega e il Bitol tornavano a casa con idee ben radicate, come semi pronti a germogliare. Forse avevano trovato risposte, o forse solo nuovi interrogativi, ma quelle idee sembravano avere un peso, una sostanza che io ancora cercavo disperatamente. Li guardavo con un misto di invidia e ammirazione, chiedendomi se anche io, un giorno, sarei riuscito a trovare la mia strada, a dare un senso a quel caos che ancora mi avvolgeva. 

Mentre loro piantavano i semi di una nuova comprensione, io mi chiedevo se avessi mai avuto il coraggio di coltivare i miei, di affrontare le mie paure e di trovare, finalmente, un terreno fertile dove far crescere qualcosa di vero.  

I nomi delle persone che incontrammo sembravano persi nel vento, sfuggenti come i paesaggi che scorrevano accanto a noi. Erano nomi che, come granelli di sabbia, scivolavano via dalle mani della memoria, mentre il tempo ci trascinava verso nuove destinazioni. Eppure, nonostante la nostra natura introversa, radicata nella terra come i contadini della razza Piave, li abbiamo abbracciati tutti, uno per uno. Non ci importava chi fossero, da dove venissero o dove fossero diretti. Ciò che importava era quell’istante di connessione, fugace ma reale, in cui le loro vite si intrecciavano con la nostra. 

E ciò che li accomunava, più dei loro nomi dimenticati, era la fede. Non una fede cieca in un’autorità lontana, ma una fede profonda in qualcosa di più grande di loro stessi. Credevano in un ideale, in un progetto, in un sogno condiviso che superava i confini delle parole e delle convenzioni. Credevano in Dio, non come un giudice severo, pronto a punire ogni deviazione, ma come una presenza che non giudica né castiga, che accoglie e comprende. La loro religiosità non era fatta di regole e riti vuoti, ma di una spiritualità vissuta, sentita, vibrante. 

Quella loro convinzione, così incrollabile e genuina, sgretolò il fragile palcoscenico su cui si ergeva la mia fede, costruita su una cieca obbedienza ai precetti appresi al catechismo. Era come se avessi stipulato un contratto con Dio, una sorta di polizza assicurativa sulla vita eterna: segui le regole, non farti troppe domande, e sarai ricompensato con l’eternità. Altrimenti, finisce tutto a schifio. 

La mia fede, fino a quel momento, non era stata altro che una negoziazione silenziosa, una transazione in cui il comportamento corretto prometteva un premio ultraterreno, mentre ogni deviazione, anche solo intenzionale, era punita con la dannazione. Ma quella loro certezza, così limpida e priva di compromessi, mi fece rendere conto di quanto fosse vacillante e priva di sostanza la mia fede, spingendomi a mettere in discussione tutto ciò che avevo accettato senza mai veramente comprendere. 

Mi sentii uno senza basi, che immobilizzato dalle sue paure, non riesce a prendere nessuna decisione. Un viandante smarrito in un mondo dove tutto sembrava avere un senso tranne la mia esistenza. Fu come se mi trovassi davanti a uno specchio, e in quello specchio non riconoscessi più me stesso. 

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Quel sabato di fine estate, sul pontile davanti all’ospedale al mare, aleggiava ancora la magia del nostro viaggio. Il Bitol, con il suo chitarrino, che in realtà era un ukulele, riempì l’aria con le note della stessa canzone che, sotto il cielo stellato di quel lontano agosto dell’81, ci aveva fatto sognare in cima alla collinetta della nostra piccola Woodstock domestica. 

How many roads must a man walk down 
Before you call him a man? 
How many seas must a white dove sail 
Before she sleeps in the sand? 
Yes, and how many times must the cannon balls fly 
Before they’re forever banned? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind. 

Yes, and how many years can a mountain exist 
Before it is washed to the sea? 
Yes, and how many years can some people exist 
Before they’re allowed to be free? 
Yes, and how many times can a man turn his head 
And pretend that he just doesn’t see? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind. 

Yes, and how many times must a man look up 
Before he can see the sky? 
Yes, and how many ears must one man have 
Before he can hear people cry? 
Yes, and how many deaths will it take ‘til he knows 
That too many people have died? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind.  

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Quante strade deve percorrere un uomo 
prima che lo si possa chiamare uomo? 
Quanti mari deve sorvolare una colomba bianca 
prima che possa riposare nella sabbia? 
E quante volte le palle di cannone dovranno volare 
prima che siano per sempre bandite? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Quanti anni può esistere una montagna 
prima di venire lavata dal mare? 
Quanti anni devono vivere alcune persone 
prima che possano essere finalmente libere? 
E quante volte un uomo può voltare la testa 
fingendo di non vedere? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto 
prima che riesca a vedere il cielo? 
E quante orecchie deve avere un uomo 
prima che possa sentire la gente piangere? 
E quante morti ci vorranno affinché egli sappia 
che troppe persone sono morte? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Non riuscii a scoprire chi fosse Kate, il suo nome rimase per sempre un enigma avvolto nel mistero delle dolci colline in terra d’America. Ma, attraverso quel viaggio, capii meglio chi fossero Adriano e Armando. E forse, in qualche modo, anche un po’ di più chi ero io. 

Non ho avuto le risposte che cercavo ma, come dice la canzone, forse anche quelle stavano soffiando nel vento. 

Fine della prima parte

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Fioi dei fiori

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 15 – Fioi dei fiori

La prima a parlarci del Vietnam, a noi tre Mul, fu il mio amore, la cara maestra Lauretta. Ricordo ancora con chiarezza come i suoi racconti, seppur dai toni drammatici, non fecero altro che alimentare la nostra immaginazione, trasformandosi in ispirazione per le nostre battaglie con i soldatini. Quelle storie lontane, che allora ci sembravano solo avventure e nulla più, si materializzavano nei nostri giochi, senza che potessimo davvero comprendere la portata di quella tragedia.

Oltre trent’anni dopo, tra le dolci e verdi colline di Bethel, fu James a tenerci la sua personale lezione sul Vietnam. Il tempo e l’esperienza avevano cambiato il modo in cui percepivamo quelle storie, ora non più semplici fantasie infantili, ma riflessioni su una realtà complessa e dolorosa. Le parole di James non erano più solo racconti, ma un ponte tra il passato e il presente, un invito a capire e a ricordare.

Anche il nostro James era un reduce, notammo solo il giorno dopo la protesi alla gamba. ”La mia storia non è diversa da quella di tanti altri”, disse per minimizzare la cosa.

In effetti, purtroppo, era la triste realtà. Fu uno fra i tanti sprovveduti ragazzi ammaliati dagli arruolatori dell’esercito. Come James, la maggior parte di loro, proveniva dalle immense zone rurali degli States, venivano mandati in guerra allo sbaraglio facendogli credere che sarebbero diventati degli eroi. La fortuna, chiamiamola così, volle che, appena giunto al fronte, si beccò una sventagliata di proiettili. Fu rispedito al mittente imbottito di psicofarmaci e senza una gamba.

La vera fortuna, invece, fu quella di abitare a Callicoon, una ventina di miglia da Bethel. Il 14 agosto del ’69, notò un gran trambusto sulla strada che portava a White Lake, mosso dalla curiosità, andò a vedere che cavolo stava succedendo. Non credeva ai suoi occhi, migliaia di persone si stavano dirigendo sulla collina, si sentì subito, però, un pesce fuor d’acqua. Tutta quella gente sembrava molto diversa da lui, sicuramente più felici. 

Per quanto lo riguardava, la felicità l’aveva abbandonato da parecchio tempo, il Vietnam gli aveva dato il colpo di grazia, lo aveva completamente svuotato di tutte le emozioni positive, inoltre, lo stava affliggendo uno dei più grandi mali, la depressione. Non sapeva proprio che fare in mezzo a quella accozzaglia di capelloni, tanto valeva tornare a casa.

“Hey amico, cosa ti è successo?”, bastò quella domanda per farlo tornare sui suoi passi. Quel 14 agosto del ’69, qualcuno iniziò finalmente ad ascoltarlo, a fargli capire che ci sarebbe stato un futuro. Era Tim, quel giorno iniziò la loro storia.

Il 18 agosto del ’69, la zona del mitico raduno, ne uscì alquanto devastata. A noi invece, quarant’anni dopo, offrì uno spettacolo incantevole. Il grosso della gente se ne era andata ordinatamente, quell’ultima sera regnava un silenzio surreale, solo il vento riusciva saltuariamente a contrastarlo facendo ondeggiare il mare d’erba. 

“Come on, Muls, it’s time to say goodbye.” James ci guardò con un sorriso malinconico mentre il sole, una rossa palla di fuoco, si adagiava lentamente dietro le colline, tingendo il cielo di sfumature arancioni e rosse. L’aria era dolce, intrisa del profumo della terra e del ricordo di quel luogo sacro. James aveva scelto questo momento per il nostro addio, proprio lì, accanto a quella lapide che commemorava Woodstock ’69.

Non eravamo presenti a quell’epoca, ma per Tim e James era come se il nostro spirito appartenesse a quei giorni di pace e musica, di ribellione e sogni condivisi. Per loro, noi tre eravamo figli dei fiori, anche se nati in un’epoca diversa, ma con il cuore e l’anima sintonizzati su quelle stesse onde di libertà.

Mentre ci avvicinavamo alla lapide, la luce del sole calante sembrava far brillare le parole incise nella pietra. Il vento soffiava leggero, sussurrando antiche canzoni e portando con sé frammenti di ricordi di chi c’era stato davvero, in quei giorni lontani.

Ci fermammo per un momento in silenzio, lasciando che l’energia del luogo ci attraversasse. Era come se potessimo sentire il battito di quei giorni, l’eco delle voci che avevano cantato per la pace, la risata di chi credeva in un mondo migliore. Non eravamo lì nel ‘69, eppure, in quel momento, sembrava che fossimo sempre stati parte di quel sogno.

Il Bitol, con gli occhi lucidi, si chinò per raccogliere un ciuffo d’erba da portare con sé, come a voler trattenere un pezzetto di quel luogo sacro. 

Sega invece, guardando l’orizzonte ormai scuro, sospirò, consapevole che quel tramonto non segnava solo la fine di un giorno, ma la fine di un capitolo della nostra avventura.

“Addio, Woodstock”, sussurrò, con la voce rotta dall’emozione. Capivo che, almeno per lui e il Bitol, non era un addio definitivo. Quel luogo, quel tempo, sarebbero rimasti come una luce guida delle loro vite; mentre io, continuavo a procedere a tentoni nella fitta oscurità causata da dubbi, paure e incertezze.

“Non importa dove andrete ora e cosa farete”, disse James infine, rompendo il silenzio, “porterete sempre con voi lo spirito di questo posto. Siete figli dei fiori, e lo sarete per sempre.”

Continua …..

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Woodstock 40

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 14 – Woodstock 40

Quella mattina alla stazione dei pullman realizzammo che eravamo giunti al clou del nostro viaggio o meglio della nostra missione. Era assurdo, in pochi giorni avevamo attraversato i cieli di mezzo mondo ma, quando salimmo su quell’autobus, ci prese un’ansia mai provata prima; si avvicinava il momento tanto atteso, il Bitol avrebbe realizzato il suo sogno e io avrei forse scoperto qualcosa su Kate. Le aspettative del criptico Sega non le conoscevo ma, fatto sta che sembrava il più ansioso di tutti.

Al moro, l’autista di quel pullman semivuoto per Monticello, doveva esser parso strano avere a bordo tre turisti stranieri, visto che, ogni tanto, si voltava verso di noi ridendo. Scoprimmo solo dopo che c’erano, in occasione del raduno, delle corse speciali che portavano direttamente sul sito alla velocità della luce.

“I è de legno”, furono le prime parole di Sega una volta scesi; si riferiva ai pali dove erano appesi centinaia di fili. In effetti, una cosa del genere ce la saremo immaginata in uno dei nostri paesini ma non negli evolutissimi Stati Uniti d’America, fatto sta, che quel posto ci parve strano davvero, in netto contrasto con la metropoli. Stava per piovere e non avevamo la ben che minima idea della strada da prendere. Tutti e tre fummo presi dallo scoramento, ci guardammo attorno pensando a che cosa ci stessimo a fare li. In giro non c’era nessuna traccia o indicazione del mitico raduno, tanto da farci dubitare di essere nel posto giusto ma, soprattutto, nel giorno giusto.

Poco convinto Sega disse che intanto sarebbe stato meglio dirigersi verso la Rd. 117, ovvero la strada che portava in direzione di White Lake, sommessamente uscì dalle sue labbra “mal che vaga sea fasem a piè”, ero già parecchio stanco, a sentire quella frase mi caddero i cosiddetti.

All’incrocio con lo stradone, c’era solo un’officina in tutto e per tutto simile a quella del Bitol, tanto era decadente. Solo innumerevoli rottami di vecchi camioncini, nessuna indicazione riguardo la nostra destinazione. Il Bitol sparì improvvisamente al di là della strada, io e Sega cademmo in un profondo disorientamento spaziale e temporale, in quel momento, non ci rendevamo nemmeno conto se fosse mattina, pomeriggio o sera.

Un colpo di clacson ci fece trasalire. Sembrava proprio che il capellone riccioluto che si sporgeva dal finestrino di quella specie di camper grande come un autobus, ce l’avesse con noi. Pensammo che il Bitol, e relativo chitarrino, fossero finiti sotto quel bestione. Fortunatamente dopo due secondi lo vedemmo apparire davanti al muso, si sbracciava come un forsennato facendoci cenno di attraversare e raggiungerlo. Pure il capellone continuava a urlare qualcosa che non riuscivamo a capire; ci guardammo preoccupati e li raggiungemmo. Scoprimmo subito che, mentre noi due eravamo lì impalati, incapaci di intendere e di volere, il nostro intraprendente e avventuroso socio, si era comportato da vero hippie mettendosi a fare l’autostop.

Dopo le reciproche presentazioni, i due proprietari del pullman-camper, tali James e Timothy, Tim per gli amici, ci fecero accomodare dietro il posto di guida, su quello che più che un sedile era un divano a quattro piazze. A giudicare dalla prima impressione, i due, dovevano essere entrambi dei “pezzi originali”, ovvero tra gli hippies presenti al mitico raduno del ’69. 

Il Bitol si stava ancora riprendendo dallo shock anafilattico provocato dalla vista di due Harley Davidson appese sul retro del bestione. Bisognava proprio prenderne atto, in America era tutto più grande, per fare un camper, al posto di un furgone usavano camion o pullman e, al posto delle bici, dietro ci mettevano le moto.

James, il guidatore, quello che gridava dal finestrino, era molto più loquace di Tim. Il suo aspetto, a essere sinceri, non era molto rassicurante ma, vista la precedente esperienza con il “terrorista”, era bene che non mi lasciassi influenzare dal primo approccio. Però, uno così alto e grosso, capelli lunghi e unticci, orecchini, jeans, maglietta nera sgualcita, gilet in pelle con borchie e ovviamente tatuaggi vari, non mi dava certo l’impressione di essere “un fio de cesa”. Sega, irrigidito sul sedile, sussurrava a denti stretti una serie di ottimistiche litanie: il camper era rubato e pieno di droga, i due ci avrebbero rapinato e violentato, se il compare non la avesse smessa con lo strimpellare quel maledetto chitarrino gli avrebbero infilato il manico in quel posto; a parte l’ultima ipotesi, mi pareva stesse esagerando.

A James pareva alquanto strano che tre italiani si trovassero da quelle parti per un evento che considerava come “roba loro”. Immaginai che, per lui, doveva essere come se, appositamente, tre americani, fossero venuti in Italia per partecipare alla nostra sagra parrocchiale. Entrambi i soci indicarono me come causa di quella stranezza; quello designato a dare tutte le spiegazioni del caso. Basta, dopo essermi svuotato con Verena, mi sentivo sfinito e non avevo più voglia di ripetere tutta la storia. Passai all’atto pratico chiedendo informazioni per l’alloggio. Il ciccione si fece una risata, si voltò anche Tim che, finora era stato quasi sempre in silenzio, rassicurandomi con un deciso “no problem”.

Non riuscii a capire molto quello che mi disse, parlava di una sorta di “camera degli ospiti”, questo mi fece di nuovo preoccupare. Mi tranquillizzai quando, il vecchio James, rivolto verso di me con un sorriso quasi paterno, mi disse: “coraggio Angie”, d’ora in poi mi avrebbe sempre chiamato così, “non vedo l’ora di sentire cos’hai da dirci”.

D’improvviso come se tutto fosse spuntato dal nulla, ci trovammo nella bolgia, una lunga coda di auto e camper, tutti big size ovviamente; il Bitol, riconoscendo i luoghi del mitico Woodstock ’69, ebbe un orgasmo.

La stanza degli ospiti non era altro che una tenda, dalle americanissime generose dimensioni; i nostri due, ormai amici, la tenevano sempre nel camper per ogni evenienza; in men che non si dica, nonostante i nostri maldestri tentativi di aiuto, la montarono accanto al loro camper.

Rimanemmo stupefatti da quanto erano organizzati, dopo la nostra tenda, si misero a installare una sorta di gazebo sotto il quale montarono tavolo e sedie, nel frattempo era uscito il sole e faceva anche caldo per cui, l’ombra fu provvidenziale. Ci rendemmo conto che era ora di mangiare, l’atmosfera del posto e la situazione mi avevano messo una certa fame. “Ora italiani tocca a voi”, disse Tim; da una cassa tirò fuori un cartoccio di pasta e un gigantesco vaso di sugo, “self made”, aggiunse con orgoglio. Ulteriore stupore nell’apprendere che i due vivevano in una sorta di comune agricola, dove producevano alimenti biologici.

È proprio vero che la felicità sta nelle piccole cose, ne ebbi la certezza quel giorno. Fiero come un direttore d’orchestra, rappresentante dell’orgoglio italiano nel mondo, immerso nell’atmosfera vintage di Woodstock, mi esibii nella mia arte culinaria. Mi beccai l’applauso di un piccolo gruppetto di hippies che, vista l’abbondante dose cucinata, ebbero il piacere di unirsi a noi per condividere quella favolosa pasta.

L’improvvisata e chiassosa festicciola mi impedì di sputare il rospo riguardo il nostro viaggio, il pranzo sarebbe stato il momento ideale ma, bisognava attendere che gli inaspettati intrusi se ne andassero. Ero sulle spine, dentro di me intuivo che da quei due sarebbero arrivate delle risposte, in particolar modo il silenzioso Tim, dava l’impressione di essere un intellettuale navigato.

Restammo finalmente solo noi cinque in santa pace, James tirò fuori una vecchia cuccuma per preparare, si fa per dire, del caffè; ormai a quella brodaglia nera ci avevamo fatto il callo. I miei soci, a son di sentirlo, erano nauseati dal mio racconto. Non mi ero accorto che l’imperscrutabile Tim, da un po’ teneva il libro tra le mani fermo sulla pagina della dedica, ormai cosparsa di cenere della sua sigaretta. Secondo me, quello la sapeva lunga e tra un po’ avrebbe sentenziato sulla faccenda, un brivido mi percorse la schiena.

“Quindi, cosa ne pensi, professore?” lo ridestò James con impazienza. “Professore?” A quel punto, preso in prestito da Sega, mi scappò un sonoro “eo savevo mi!”. Tim era niente meno che un docente di storia della musica, appassionato di tutto ciò che riguardava la beat generation. Inoltre, era conduttore radiofonico, scrittore con qualche saggio pubblicato, maestro di yoga e altro ancora che ora non ricordo. Il destino aveva messo quel libro nelle mani giuste. Un piacevole filo di vento portò il profumo dei campi, purificando l’aria dagli odori dei vari barbecue, proprio mentre Tim distolse lo sguardo dal libro e, fissandomi negli occhi, iniziò a parlare lentamente, assicurandosi che capissi ogni parola.

“Angie, so che ti interessa scoprire chi possa essere questa Kate. So che saresti soddisfatto e felice se ti dicessi che sei figlio di una famosa cantante folk; è quello che ti aspetti di sentirti dire da me, vero? Ti conosco da poche ore ma so che faresti salti di gioia e andresti in giro a vantartene con tutti. 

La verità, credimi, è che al momento non ho idea di chi sia. Ma il punto non è questo. Hai davvero letto bene questa frase? Hai letto tutto il libro? Sai quanti viaggi, oltre a quello di questa misteriosa ragazza, ha ispirato? Il bello è che, dopo quarant’anni, ha avuto il potere di ispirarne un altro. Questo è più importante che scoprire chi è Kate! 

Ho sempre creduto che le cose non succedano per caso. Questo libro è riemerso con uno scopo ben preciso. Anche se non te ne sei reso conto, Kate ti ha preso per mano e ti ha condotto qui. 

La domanda è: per fare cosa? Sta a te scoprirlo. 

Guardati attorno. Da quarant’anni, questo luogo è stato il simbolo del motto pace e amore

È il tipo di posto che, come è accaduto a noi, ti fa lasciare ciò che eri e scoprire ciò che sarai. Ora è giunto il momento di fermarsi a pensare e meditare, non solo per te, Angie, ma per tutti e tre.”

Il tono del professore era carico di profonda riflessione e di una suggestiva consapevolezza del significato più profondo delle esperienze umane. Nemmeno don Guerino durante la quaresima era capace di tanto, me ne stetti a testa bassa senza profferir verbo.

Fortunatamente stava per esibirsi Richie Havens che, almeno per quanto mi riguarda, mi tolse dall’imbarazzo. Anche se era un’occasione irripetibile, non avevo voglia di andarci, i “compiti per casa” di Tim mi avevano provocato una certa inquietudine interiore.

Compresi ciò che dovevo fare: isolarmi e camminare a passo svelto. Una terapia che ormai conoscevo bene e che avevo sperimentato per la prima volta a diciassette anni, quando quel bastardo di Riccardo Bellè decise di escludermi intenzionalmente dalla festa di Capodanno. Incredibile come, dopo più di trent’anni, quella rabbia bruci ancora dentro di me, un trauma mai del tutto superato.

Il cielo limpido e la luce del tardo pomeriggio rendevano ancora più suggestivo e rilassante il paesaggio rurale. Più mi allontanavo dall’accampamento, più il frastuono della folla si dissolveva, lasciando spazio al sussurro del vento. Per me, con un legame ancestrale con la campagna inscritto nel DNA, quella vista era infinitamente più affascinante dei grattacieli di New York. L’erba, gli alberi e il profumo nell’aria, nonostante la distanza enorme, richiamavano quelli della mia terra. L’orizzonte, però, era diverso: non piatto come la pianura del Piave, ma animato da dolcissime colline verdi, con fattorie isolate dai colori vivaci con accanto, una sorta di mulino a vento.

I fumetti di Topolino erano la mia unica lettura estiva, momento topico in cui navigavo a lungo con la fantasia, emulando le avventure delle Giovani Marmotte. Mi divertivo a fare l’esploratore, ovviamente nei paraggi di casa e con ciò che avevo a disposizione. Che bello, quello che avevo davanti, era lo stesso paesaggio che attraversava zio Paperino a bordo della mitica 313, quando portava i nipotini in vacanza alla fattoria di nonna Papera.

Dei miei trascorsi da giovane marmotta; purtroppo, ricordo ancora le botte che mi rifilò Joani per aver usato dei paletti di legno che a lui servivano per i pomodori; solo al pensiero, sento ancora bruciare il culo. Ma quel brutto ricordo svanì presto, lasciando spazio a un altro estremamente piacevole: anche noi tre, a cavallo degli anni ’80, avevamo vissuto la nostra Woodstock.

Appena fuori del nostro paesello scavarono un canale scolmatore con relativo bacino di contenimento; la terra estratta venne depositata provvisoriamente sulla riva del bacino. Come sempre succede, le cose provvisorie alla fine restano definitive, poco male però; noi villici locali, in pochi mesi, ci ritrovammo con una pittoresca collinetta e un pescoso laghetto a due passi da casa. La collina, grazie alla buona terra razza Piave, non ci mise molto a rinverdirsi mentre, il continuo calpestio tracciò il sentiero per salirci. Un sant’uomo, probabilmente un ambientalista ante litteram, sulla sommità costruì tre panchine e ci piantò alcuni alberi. Quel pezzo di terra, fortunatamente sottratto all’agricoltura, divenne un piccolo angolo di paradiso. Oggi di quel posto, sopranominato “el Monteo”, dalla vicina zona collinare, non è rimasto più nulla, “el mal dea piera”, di cui vi ho già accennato, ha preso il sopravvento. Se cercate la mitica collina vi troverete solo un agglomerato di anonime villette a schiera.

Ogni estate portava con sé una nuova moda, un gioco che definiva la stagione. C’era l’estate delle biglie in vetro, quella del Subbuteo, e per chi aveva meno da spendere, quella del calcio Atlantic. E come dimenticare le mitiche palle clic-clac, che col loro incessante ticchettio facevano inevitabilmente perdere la pazienza a Joani. Ma l’estate del 1981 fu diversa, speciale, scolpita nella memoria come un capitolo a parte. Tutto iniziò a metà giugno, quando, in un tardo pomeriggio, il Bitol, con la sua chitarra in spalla, ci invitò a seguirlo in cima al Monteo per ascoltare qualche brano. Quello che doveva essere un semplice miniconcerto, divenne presto un rito quotidiano, una sorta di pellegrinaggio musicale.

Sulla sommità della collina, sotto il cielo che si tingeva d’oro e di porpora, nacquero i nostri primi discorsi seri, ispirati dalle note e dalle parole impegnate dei cantautori che il Bitol tanto ammirava. Eravamo ragazzi cresciuti sotto l’ombra di un indottrinamento cattolico che ci portava a evitare certi argomenti, come il sesso, preferendo concentrarci sui sogni per il futuro, su ciò che desideravamo diventare. Col passare delle settimane, il nostro legame si rafforzava, e così pure il tempo che trascorrevamo insieme su quella collina. A volte cenavamo lì, portando con noi cesti da pic-nic carichi di leccornie preparate da casa Sega.

Il culmine di quell’estate lo raggiungemmo una notte di agosto. Dopo una lunga battaglia, ottenemmo da chi, a vari titoli, ci aveva in tutela, il permesso di passare fuori la notte. Lì, in vetta al Monteo, sotto un cielo che sembrava splendere per noi, piantammo una tenda canadese a tre posti. Non dormimmo nemmeno cinque minuti, ma fu una notte indimenticabile. Le ore scivolarono via tra canti, risate, e conversazioni infinite, sotto un firmamento di stelle come mai ne avevamo visto prima. In un momento di pausa, dissi: “Ragazzi, chissà fra trent’anni cosa staremo facendo.”

E ora, senza che fossero passati esattamente trent’anni, eccomi di nuovo in cima a una collina, con quella domanda che riecheggiava ancora nella mia mente. I pensieri mi rimbalzavano in testa come facevano i canali sul vecchio televisore in bianco e nero di casa. Non riuscivo a soffermarmi su un’idea che subito ne affiorava un’altra. Pensavo al senso della mia vita, e l’istante dopo al telefono di ultima generazione che mi ero dimenticato di comprare a New York.

Senza accorgermene, avevo camminato parecchio. Davanti a me si stagliava il mitico Filppini Pond, il laghetto dove, un tempo, gli hippies si tuffavano nudi, abbracciando la libertà in tutte le sue forme. Era pieno di gente, stavano sicuramente rievocando quei giorni gloriosi. Ma io mi sentivo vuoto, inutile, senza uno straccio di ideale o progetto. “Peace & love, pace e amore” Continuavo a ripetere quelle parole come un mantra, ma la parola amore era la più difficile da pronunciare. Facile per Tim invitarmi a cercare l’uomo nuovo dentro di me, che assurdità; l’avevo già sentito dire da svariati preti; come se nessuno potesse davvero inventare qualcosa di nuovo.

A malapena riuscivo a riconoscermi. Mi ritrovai anch’io nudo, in senso metaforico. Non avevo una fede né un ideale da perseguire; una solida base su cui poggiare la mia esistenza. Non ero una persona speciale come quegli hippies; ma, uno fra tanti miliardi di uomini, tutti uguali, concentrati solo sui propri banali bisogni. Altro che pace e amore. Nella mia mente, le priorità erano ben altre: figa, schei e magnar. 

E mentre osservavo il lago, mi chiedevo se la distanza tra ciò che ero e ciò che avrei voluto essere fosse davvero incolmabile.

Continua …..

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Niuiò

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 13 – Niuiò

Mi svegliai con la pioggia che martellava la vetrata con forza, eppure lo skyline dei grattacieli era chiaramente visibile oltre il vetro. Non avevo nessuna intenzione di lasciare il mio comodo letto; quella stanza al trentaduesimo piano, tutta per me, era semplicemente fantastica. Elegantissima, dominata dai toni del bianco, sembrava un rifugio di lusso in mezzo alla città frenetica. 

La sera prima, seppur stravolto dal viaggio, notai che era piena di troiate tecnologiche, compresa una specie di filodiffusione, una vera americanata. Mi imbattei in un canale audio tematico chiamato “Relax & Meditation Music”. Mi lasciai trasportare dalla musica e, senza nemmeno mettermi il pigiama, mi infilai sotto le linde lenzuola, con le tende spalancate e il suono rilassante della pioggia a farmi compagnia. Un senso di benessere mi avvolse completamente facendomi addormentare rapidamente.

Al risveglio, i miei occhi si posarono sui due accappatoi bianchi, piegati ordinatamente ai piedi del letto. Era una camera doppia, e ci finii per pura fortuna, dato che non c’era una tripla e la doppia per una persona sola ce la giocammo a sorte. Chissà quante coppie avevano fatto l’amore in quella stanza con quella vista mozzafiato. E io, uno dei pochi sfigati a passarci la notte da solo, non potevo fare altro che fantasticare. Partirono nella mia mente una serie dei miei famosi film mentali, in cui vedevo indossare il secondo accappatoio a tutte le donne della mia vita, intendo quelle che avevo sognato finora. Non da ultima, Verena.

Verena, con il suo sorriso che illuminava le giornate più cupe, avrebbe adorato quella vista. Immaginai di svegliarmi accanto a lei, di vederla alzarsi pigramente, avvolgersi in quell’accappatoio e dirigersi verso la vetrata, lasciando che la luce del mattino disegnasse contorni di ombre sul suo viso. La pioggia avrebbe continuato a cadere, ma dentro quella stanza ci sarebbe stata solo la calma di un momento condiviso, di sguardi che parlavano senza bisogno di parole.

In quel momento, con la pioggia che batteva ancora sui vetri, mi resi conto che la felicità a volte si nasconde nei piccoli dettagli, nelle fantasie di un cuore solitario che sa ancora sognare. 

D’improvviso il sole fece capolino, e il cielo azzurro, densamente velato di nuvole veloci, si rifletteva nei vetri scintillanti dei grattacieli. Fuori, il lamento delle sirene della polizia americana echeggiava, proprio come in una scena da film. La Grande Mela sembrava attendermi con impazienza, per farsi assaporare da un semplice ragazzo di campagna, il figlio di Joani Nosea.

Riuscivo a vedere le strade che brulicavano di vita frenetica, mentre i colori della città risplendevano sotto la luce dorata del sole nascente. Tra i palazzi che si ergevano come monumenti alla modernità, percepivo un’atmosfera di promesse e mistero, pronta a incantare chiunque avesse il coraggio di perdersi tra i suoi viali e le sue piazze.

Tutto questo spettacolo me lo stavo godendo dalla cabina doccia che, altra americanata, aveva uno dei lati vetrati che dava sull’esterno. Mi sentivo come l’imperatore delle docce, immerso nell’idromassaggio con l’acqua calda che scivolava abbondante sul mio corpo. Ero rimasto lì dentro un’eternità, perso tra i getti d’acqua massaggianti e il panorama mozzafiato.

Non avevo sentito nemmeno i due compagni di ventura, che stavano quasi sfondando la porta. Perso nei miei pensieri – principalmente su quanto mi sarebbe piaciuto rivedere Verena e su quanto fosse bello questo posto – non mi accorsi minimamente del casino che i due, ospitati nella camera adiacente, stavano montando fuori dalla mia oasi di vapore.

Mentre quei piacevoli getti massaggiavano ogni muscolo, fantasticavo su Verena, immaginando di raccontarle di questa doccia spaziale e della vista spettacolare. Proprio in quel momento, l’urlo di un grezzo boarotto interruppe i miei pensieri: “Aeora dai che ‘ndemo!”

Da noi in campagna, oltre al “mal dea piera” – quella irrefrenabile ossessione di possedere una casa propria, possibilmente sproporzionata rispetto alle reali esigenze e costruita senza curarsi troppo dei regolamenti edilizi, tanto poi si condona, altrimenti che gusto c’è – c’è spesso anche la smania di possedere ciò che hanno gli altri. Se un nostro parente, amico, vicino o semplice conoscente ha qualcosa, dobbiamo averlo anche noi, e possibilmente meglio di lui. E non parlo solo di oggetti come l’automobile, ma anche di bestiame e, soprattutto, di donne.

Quello che in dialetto chiamiamo “vuiancamì” è una sorta di virus che circola da tempi immemorabili e non è mai stato estirpato. È un desiderio insaziabile di competere e superare gli altri, un gioco che non ha mai fine. Non per fare l’esperto di geopolitica, ma credo che questo stesso impulso sia stato l’elemento scatenante di molte guerre.

La nostra vita in campagna è fatta di queste piccole rivalità quotidiane. Il bisogno di sentirsi superiori, di mostrare il proprio valore attraverso le proprie conquiste, è una costante che modella i rapporti sociali. D’altronde mia nonna Elvira diceva sempre “Se no’ te ghé, no’ te fé; se no’ ti gà, no’ ti pol dir ‘gnanca a”

Fu a causa di questo misterioso virus che, come prima tappa newyorkese cademmo nella trappola tesa dai megastore della 9Th Avenue, il Bitol si salvò solo grazie al fatto che aveva esaurito quasi tutto il suo budget nell’acquisto del famigerato chitarrino. Quella mattina, saranno passate si e no due ore da quando le nostre suole avevano iniziato a consumarsi sui marciapiedi della grande mela, che noi due polli, uscimmo con il tipico sorriso ebete da uno di questi templi del consumismo high-tech, con due buste zeppe di merce e, non appena svoltato l’angolo e trovato un posto appartato, con la stessa furia che hanno i drogati in crisi di astinenza, aprimmo gli imballi contenenti una macchina fotografica, una telecamera più altre decine di costosissime troiate di contorno.

Quei primi costosissimi acquisti almeno furono sfruttati a dovere. Ogni passo, ogni angolo, ogni pizza mangiata e ogni scoiattolo intravisto a Central Park furono immortalati con una dedizione quasi maniacale.

Come turisti fummo un po’ più originali della media. All’ingresso di Central Park, luogo dove su pressione del Bitol bisognava fiondarsi per prima in quanto vi era lo Strawberry Fields Memorial, altra fondamentale tappa del nostro pellegrinaggio laico; notai il cartello “Discover the city by bike”, che figo, la cosa ci stuzzicò. Scoprimmo che ci sarebbe costato quasi come noleggiare un’auto ma, ne valeva sicuramente la pena. Dopo la nottata piovosa, la giornata era tersa, andare alla scoperta della metropoli in bicicletta, sarebbe stata un’esperienza unica e originale. Perdemmo quasi un’ora per scegliere il tipo di bici e a compilare alla cieca i relativi moduli dove, ci sarebbe potuto tranquillamente essere scritto che, ci impegnavamo a versare un milione di dollari ciascuno in caso di reso del mezzo con un leggero striscio.

“Have a nice day guys”, ci disse con un sorriso da quaranta pollici, el toso addetto alla consegna dei potenti mezzi; ebbi l’impressione che ci stesse prendendo per il culo. “El n’a dit recioni”, esclamai risentito, a causa della mia ignoranza linguistica. Ridicolamente bardati con caschetto e pettorina a alta visibilità sulla quale era stampata, a caratteri cubitali, la pubblicità del noleggiatore, tutti eccitati e, all’ennesimo grido di: “dai che ‘ndemo”, iniziammo la nostra avventura ciclistica per le strade di New York.

Incredibile, fino a quel giorno avevamo pedalato esclusivamente per trosi di campagna, mentre ora sfrecciavamo per le gigantesche avenue con il naso all’insù e il sorriso ebete del turista soddisfatto.

“Parem quasi veri”, urlò da dietro il Bitol alludendo al fatto che sembravamo dei fighetti, come quelli che si vedono in televisione. Sega, nel frattempo, stava mettendo seriamente a repentaglio la sua vita riprendendo l’impresa con quella maledetta videocamera che, ormai era diventata la protesi della sua mano.

Nonostante il rumore assordante del traffico, si udivano le nostre grida di felicità, rigorosamente nello slang del basso Piave, ci faceva piacere vedere che, ogni tanto, qualcuno si girava a guardarci divertito, specie se si trattava di qualche bel montareo

Io continuavo a pensare a Verena. Sarebbe stato bello incontrarla, immaginavo di vederla spuntare all’improvviso; avrei fatto il romantico, l’avrei caricata sul tubo della bici come facevano una volta, i ragazzi più intraprendenti e menu introversi di me, con le fie che gli piacevano.

In bici a New York, detti già il titolo a quelle centinaia di scatti, tutti uguali che, alla stregua del peggior turista nipponico, freneticamente continuavo a fare. Il mio narcisismo era alle stelle, in continuazione, rischiando il tamponamento, inchiodavo per passare la macchina a uno dei due soci, perché mi ritraesse in sella, nelle pose più svariate, con lo sfondo dei grattacieli e il classico bicchierone formato large, di caffè in mano.

La vecia mora, ovvero la mia vecchia bici, avrei voluto essere in sella a lei, come me, anche lei si meritava quel felice momento di riscatto. La vecia mora, prima della macchina, fu il mio unico mezzo di locomozione. Antichissima, di quelle ancora con i freni a bacchetta, la ebbi in eredità da un “poro” zio. Non era certamente il massimo ma, è stata una fida compagna per non so quanti anni. La consideravo alla pari di un cavallo nel senso che, con lei ci parlavo pure, specie nei momenti in cui mi sentivo giù di corda.

Anche negli orari più assurdi, quando ero triste o incazzato, montavo in sella alla vecia mora, la chiamavo così in quanto tutta nera, e iniziavo a pedalare a più non posso a tutta velocità per i trosi, fino a quando non mi scoppiava il cuore. Notte, giorno, caldo, freddo, afa, nebbia, pioggia, sole, neve non importava, mi era sufficiente passare un po’ di tempo in sella parlandoci assieme tanto, eravamo soli io e lei, nessuno mi avrebbe preso per matto. Solitario pedalavo immerso nella scenografica campagna del basso Piave che, regalava fresche notti estive rallegrate dal canto dei grilli, folate di vendemmia autunnali, profumo dell’erba appena tagliata sotto il primo timido tepore primaverile e la silenziosa e ovattata atmosfera della nebbia invernale. Avrei voluto essere in sella a lei, quando, come tre cavalieri sulle nostre City Bikes, varcammo i confini di Central Park, diretti allo Strawberry Fields Memorial per celebrare la memoria del guru del Bitol, il mitico John Lennon.

 “Centoquattro dollari e ottanta,” continuava a ripetere all’infinito il Bitol, ovvero la cifra che avevano guadagnato lui e il suo nuovo socio, il chitarrino, durante il loro personalissimo Concert in Central Park. Era iniziato tutto per gioco, quando il Bitol aveva deciso di strimpellare una sua personalissima versione di “Imagine”. Le note, seppur imperfette, avevano un’energia particolare, una sincerità che attirava l’attenzione.

In poco tempo, una piccola folla si radunò attorno a loro. Persone di ogni tipo, affascinate dalla musica e dalla spontaneità del momento, si fermavano ad ascoltare. Tra di loro, un tale in giacca e cravatta, dopo qualche minuto di esitazione, si fece avanti e mise gentilmente una moneta dentro il casco rovesciato in mezzo all’erba. Fu il primo contributo, e ne seguirono molti altri. Monete e banconote di vari tagli iniziarono a riempire il casco, creando un piccolo tesoro improvvisato.

Il Bitol, galvanizzato dal successo inaspettato, continuò a suonare, passando da “Imagine” a brani che non avevo mai sentito prima. Erano pezzi suoi, creazioni originali che sembravano nate in quel momento, cariche di emozioni e storie non dette. La gente applaudiva, incitava, chiedeva il bis. Il tanto bistrattato chitarrino e un sorriso contagioso, faceva da perfetto contraltare, aggiungendo un tocco di magia con le sue note improvvisate.

Fece solo una decina di canzoni; poi, la folla si disperse lentamente, ma l’energia del momento rimase sospesa nell’aria. Il Bitol guardò il casco pieno di denaro con un misto di incredulità e soddisfazione. Non era solo una questione di soldi, era la prova che la sua musica, la sua passione, poteva toccare i cuori delle persone.

“Centoquattro dollari e ottanta,” ripeté ancora una volta, con un sorriso questa volta. Era più di una cifra, era un simbolo di quello che potevano raggiungere insieme. Il chitarrino annuì, e senza bisogno di parole, entrambi sapevano che quella giornata era solo l’inizio di qualcosa di più grande.

“Eo savevo mi”, toccava a lui ora pronunciare quella frase, ovviamente, per la prima volta nella vita, in senso ottimistico. Agitando il casco al fine di farci sentire quanto era pieno, iniziò a farci una paternale per tutte le perplessità che avevamo avuto riguardo l’acquisto del chitarrino. A quel punto potevamo solo star zitti, erano i primi soldi guadagnati con ciò che più nella vita amava fare, non lo diedi a vedere, ma ero commosso. Per quasi un ora, la star, non ci cagò manco di striscio, impegnato com’era, in appassionati confronti con passanti e “colleghi” d’oltreoceano. Pagò lui la cena, in un fast food dalle dubbie norme igieniche, pazienza, non osavamo di certo obiettare.

Sembrava già passata un’eternità da quando eravamo partiti, l’oceano si era frapposto tra me e le mie preoccupazioni contribuendo a tenerle lontane. Nei due giorni di intense pedalate, respirai a pieni polmoni, oltre allo smog, quel senso di libertà che ti dava la grande mela. Ci sentimmo anche noi, come a volte si definiscono gli americani, sons of liberty, figli della libertà, lo testimonia la foto che ritrae noi tre, con le dita a “V”, e la famosa statua sullo sfondo.

L’ultima pedalata la compii in solitudine, fino all’Oak Bridge. Anch’io, come il Bitol, dovevo onorare un rito. Nella mia borsa, custodivo un piccolo sacchetto con un pugno di terra raccolto nel campo di fronte alla casa vecia

Mi guardai un attimo intorno; poi, mi feci coraggio e con il cuore che batteva forte, passai al di là della piccola recinzione che proteggeva la riva del lago. Là, dove i grattacieli si riflettevano nell’acqua, con un cucchiaino sottratto con discrezione dalla sala colazioni, scavai una piccola fossa e vi depositai quella manciata di terra, la nostra terra. “Per Joani, mio padre, e per tutti i miei paesani che hanno invano sognato la loro Niuiò,” sussurrai silenziosamente, mentre stavo lì, in piedi, quasi sull’attenti. 

Tornai sui miei passi furtivo, ma improvvisamente le lacrime iniziarono a scorrere. In quell’istante capii di aver compiuto un gesto significativo, un omaggio a quel sogno americano spezzato, di Joani e di tanti altri suoi compagni.

L’ultima sera la trascorremmo al 102° piano dell’Empire State Building. Nell’aria vibrava l’elettricità della città che non dorme mai, una sinfonia di luci e suoni che catturava l’essenza del sogno americano. Non ero un semplice turista in mezzo a tutto questo; io, il ragazzo di campagna, con gli occhi pieni di meraviglia e il cuore colmo di speranza, mi aprivo al fascino irresistibile di New York. La città, con le sue mille luci, sembrava pronta a svelarmi ogni segreto, a donarmi il ricordo di ogni sfumatura della sua magia e del suo splendore.

Le strade sottostanti, come vene luminose, pulsavano con un’energia che sembrava provenire direttamente dal cuore della metropoli. Ogni angolo, ogni edificio raccontava una storia di sogni e di ambizioni, di successi e di lotte. Sentivo il vento accarezzare il viso, portando con sé il profumo del futuro, un futuro che sembrava brillare come le stelle sopra di noi.

New York mi abbracciava con la sua vastità, mi faceva sentire piccolo ma al contempo parte di qualcosa di immensamente grande. Guardando l’orizzonte, dove i grattacieli sfioravano il cielo, mi sembrava di poter toccare con mano l’infinito. Ogni respiro era un inno alla vita, ogni battito del cuore una promessa di avventure a venire, a cominciare da quella che ci attendeva il giorno dopo; dove forse, avremmo saputo qualcosa di più su Kate.

Quella sera, in alto sopra la città, capii che il sogno americano non era solo un mito, ma una realtà tangibile, un’esperienza da vivere con ogni fibra del proprio essere. E così, con il cuore leggero e l’anima colma di emozioni, lasciai che New York mi conquistasse, promettendo a me stesso di custodire per sempre quel momento, quell’istante di pura magia e splendore.

Continua …..

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Verena

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 12 – Verena

Ai piedi del letto trovai Liza Bitol Minelli in mutande, intento a intonare “New York New York”, el mona stava usando la cornetta del telefono della camera come microfono senza accorgersi che, dall’altro capo una vocina di donna continuava a ripetere “May I help you sir?”; ennesima figura di merda. Sir Sega era sparito, probabilmente, era uscito per una passeggiata meditativa. Io e il bluesman in mutande, ci vestimmo in un millisecondo, non vedevamo l’ora di scendere giù a sfondarse el bueo con una abbondante e tanto decantata colazione inglese.

Fino a quel momento non avrei mai immaginato di mangiare a colazione uova strapazzate, pancetta, salsiccia, formaggio, pomodori spadellati e funghi. Se qualcuno prima me lo avesse proposto sarei inorridito, però, Fugassetta, non poteva certo fare un torto a sua maestà, esimendosi dal trangugiare un full breakfast come tutti gli altri suoi sudditi. Gli altri due, che si accontentarono del classico pane tostato con burro e marmellata, più un pezzo di torta, rimasero alquanto schifati nel vedermi ingurgitare tutta quella roba e bere mezzo litro di quella specie di caffè annacquato.

La seconda giornata londinese fu alquanto pesante. Eravamo ormai proiettati verso l’America, e oltre alla stanchezza generale, soprattutto del nostro capo comitiva, c’era l’ansia di arrivare puntuali in aeroporto. Dopo aver lasciato gli zaini al deposito bagagli, adempiemmo subito al rito imposto da Bitol: attraversare le famose strisce pedonali di Abbey Road.

Neanche a farlo apposta, trovammo una piccola folla di italiani che, a suon di pose improbabili, stava bloccando il traffico. Fortuna che i malcapitati automobilisti britannici erano dotati del tradizionale self-control: da noi, ti avrebbero prima assordato con il clacson e poi, se insistevi imperterrito, ti avrebbero travolto senza pietà con un SUV da centomila tonnellate.

Ci unimmo al rituale con fervore, e permettemmo anche al nostro uomo di sostare per alcuni minuti in religioso silenzio, respirando profondamente la stessa quantità e qualità di smog dei suoi quattro maestri di vita, dei quali, secondo lui, in quella strada aleggiava ancora lo spirito.

Dopo vari scatti, pose, e tentativi di imitare i Beatles in tutte le acrobazie possibili e immaginabili (compresi alcuni che sembravano più cadute di stile che altro), decidemmo di proseguire il tour. Ma prima di andare via, Bitol, con aria solenne, si inginocchiò sulle strisce, fece un gesto quasi mistico e proclamò: “Qui, dove i Beatles camminarono, cammineremo anche noi!” La cosa più comica fu che mentre lui recitava questo sermone da prete del rock, un ciclista londinese, con un’aria di puro disprezzo, lo sorpassò mormorando: “Fuck you”

Ridemmo fino alle lacrime, mentre il traffico riprendeva a scorrere e il nostro sogno di attraversare l’oceano per ’ndar de là si stava avvicinando a grandi passi.

Ci fiondammo a Portobello Road, convinti più che mai che avremmo fatto grandi affari nonché trovato l’oggetto più rappresentativo della nostra permanenza a Londra. Fu una mezza delusione, le bancarelle parevano l’una la fotocopia dell’altra, proponendo spesso l’immancabile “made in China”. Io e il Sega acquistammo due tascapane, lui modello militare con il classico simbolo della pace, io, invece, uno in cuoio da fighetto inglese. Quest’ultimo, invece, si fece prendere dalla sindrome dell’acquisto compulsivo, girovagava tra bancarelle e negozi come un assatanato; “speteme, rivo subito”, ci disse prima di sparire tra la folla. Capimmo l’antifona, considerando il tempo che ci avrebbe impiegato, non ci restava altro che spararci una birretta accompagnata da un hot dog unto e bisunto. Lo vedemmo arrivare da distante mentre agitava in aria una piccola chitarra, tipo quella che regalano ai bambini; lo sguardo disperato del Sega diceva tutto, scossi la testa e gridai: “El xè mona”.

Iniziò subito a giustificare l’acquisto cercando di convincerci che non era un giocattolo: suonava per davvero e, per giunta bene. Fu inutile cercare di farlo ragionare circa il fatto che eravamo risicati con il bagaglio, l’uomo sembrava rimbambito. La sparò grossa, asserendo che, tra lui e il chitarrino, c’era stato un richiamo vicendevole, qualcosa di spirituale. In effetti, probabilmente, gli era rimasto dello spirito, nel senso di alcool, dalla serata precedente.

Scovammo, nei pressi di Notting Hill, una minuscola tea room ubicata nel seminterrato di un vecchio edificio, un posto veramente particolare gestito da due giovani ragazze irlandesi. Ormai potevamo considerarci degli inglesi a tutti gli effetti, e quindi, non potevamo rinunciare al rito del the, ovviamente arricchito da alcuni sandwich. Il Bitol, che, con quella sottospecie di strumento musicale, stava veramente fracassando i cosiddetti, a noi e, anche agli altri avventoridistolse l’attenzione dal giocattolo nuovo. Schioccò le dita e chiese alla cameriera qualcosa di forte, da uomini veri, che dovevano prepararsi a varcare l’oceano. Accanto alle tazze di the, apparvero tre bicchieri di ottimo, a detta della ragazza, whisky irlandese torbato, una vera schifezza ma, pazienza, qualche cazzata bisognava farla.

Un’occhiata all’orologio a muro fece sussultare i nostri cuori, era ora di lasciare il vecchio continente. Mi prese nuovamente la stessa trepidazione della mattina prima, le mani cominciarono a sudare, frugai nervosamente nello zainetto per controllare se c’erano tutti i documenti, presi la bandana finita sul fondo e la strinsi forte.

L’aeroporto di Heatrow ci sembrava più grande di Gatwick, i controlli di sicurezza ingigantiti e, l’aereo era molto più grande di quello del giorno prima; forse l’anticipazione che in America sarebbe stato tutto più grande.

“Siete italiani?”, una biondina ricciolina dall’accento straniero, seduta sul sedile di fronte al mio, ancor prima che riuscissimo a sistemarci, ci rivolse la parola, “scusa, mi faresti il favore di scambiarci di posto”, ce l’aveva con il Sega, “sai ho problemi alle gambe e, mi farebbe comodo stare vicino al corridoio per potermi alzare”. A mio primo e modesto giudizio, l’unico problema che potevano avere le sue gambe stava nel fatto che erano coperte da una gonna troppo lunga e ai piedi aveva dei modestissimi infradito anziché un tacco dodici come avrebbe meritato di essere. La verità era che, ai due lati, aveva da una parte un Pakistano, o giù di lì, che emanava un forte odore di cipolla mista a aglio, mentre, dall’altra, una signora oversize di colore che, le stava invadendo parte del sedile. Il povero Sega, mangiò la foglia e, dandomi con discrezione di gomito, accettò lo scambio mentre il Bitol, in un attimo in cui la biondina era girata, non perse l’occasione per fregarsi le mani e tirare fuori la lingua. Una vecchietta seduta sull’altra fila notò la cosa, facendo una evidente faccia di disgusto, figura di merda numero quattro, se non erro.

Verena, questo era il suo nome, mi inebriò da subito con il suo dolcissimo profumo. Aveva frequentato l’accademia di belle arti a Venezia e parlava l’italiano in maniera stupefacente, con un accento che mi faceva impazzire. Veniva da un paesino austriaco, dal nome impronunciabile, situato in riva a un lago famoso per la produzione di ceramiche. Stava andando a New York dalla sorella che gestiva l’atelier dell’azienda di famiglia, ovviamente di ceramiche.

Mi colpirono i suoi orecchini, composti da sottilissime foglioline color blu cobalto attaccate a un filo rosso che sembrava di rame. Non so come mi uscì la frase: “Che belli.” Fatto sta che colpii nel segno. Gli si illuminarono gli occhi e mi disse che si trattava di esemplari unici, fatti da una sua cara amica artista come lei. Ebbi la netta sensazione che quell’inaspettato complimento servì a mettermi in buona luce.

Con lei accanto, non vissi quel mio secondo volo con la stessa ansia del giorno prima. Avevamo già intavolato una conversazione riguardo il nostro viaggio e aspettai con trepidazione che si spegnesse la spia delle cinture per recuperare libro e bandana dallo zaino sulla cappelliera. In meno di mezz’ora, le versai addosso tutta la mia storia, cercando inoltre di apparire romantico ai suoi occhi.

Mi ascoltava con attenzione, lo si capiva da quei bellissimi occhi che mi fissavano: l’iride di color smeraldo era di una trasparenza finora mai vista. A causa della mia timidezza, non riuscivo a ricambiare lo sguardo; giravo il capo nelle direzioni più disparate, credo di esserle sembrato alquanto scortese, per non dire peggio. Non riuscivo proprio a sbloccarmi.

“Perché cerchi questa signora? Non vuoi bene a chi ti ha allevato?” Mi arrivò una stilettata dritta alla bocca dello stomaco. Possibile che le donne siano così crudelmente perspicaci? Il volo era appena iniziato, per arrivare a New York ci sarebbero volute ancora parecchie ore e, seduto sul sedile di mezzo, mi sentivo privato di ogni possibilità di fuga.

La dolcissima Verena aspettava impaziente una risposta, possibilmente sincera. Cercavo nuovamente di evitare il suo sguardo; a testa bassa, con le mani sudate e il libro in mano, osservavo le sue infradito bianche tempestate di minuscole perline. Le unghie curatissime erano smaltate di un bellissimo azzurro lucente. Niente, il mio cervello era andato in blocco come una caldaia guasta.

All’improvviso, appoggiò la sua mano sul mio ginocchio. “Da quello che mi hai raccontato, ho la sensazione che tu abbia ricevuto poco affetto. Stai sempre tutto curvo con lo sguardo rivolto verso il basso, tipico di chi da piccolo non ha ricevuto sufficienti carezze e attenzioni.” Ci mancava anche una saccente psicologa dilettante.

Ma guarda chi mi è capitato vicino, pensai. Poco fa mi parlava con passione di vasetti, terrine e teiere, e ora, ha la pretesa di aprire il mio intimo profondo come una scatoletta, vuole mandarmi in mille pezzi, come se fossi anch’io di ceramica. Quel suo modo di fare mi dette alquanto fastidio.

Durò poco, però. Il tempo di sentire la sua mano che, delicatamente, tirava il mio mento verso di lei. “Hey, parlo con te, guardami negli occhi. A cosa stai pensando?”

Mi sentii di colpo scivolare sul sedile, sentivo la mia faccia arrossire come se avessi trangugiato un’intera damigiana de vin clinto. Era la prima volta che mi capitava di essere ascoltato con così grande interesse da una donna. Il cervello si riattivò e spalancò le porte del magazzino del mio vissuto che, come un fiume in piena, riversai su di lei.

Quel senso di alleggerimento non l’avevo mai provato, nemmeno quelle rare volte che mi confessavo dal vecio Piovan. Mi stupii di come fosse fluido il mio modo di parlare, senza le autocensure che spesso mi imponevo. Per continuare a stare in sintonia con Verena e, anche perché faceva figo, ordinai anch’io per cena il menù vegano.

“Anch’io sai con mio figlio…” Quella strana polpetta verdognola che mi avevano portato, si fermò esattamente a metà strada nel tubo digerente. Mi stava dando dei consigli che avrebbero potuto aiutarmi nel districare un po’ la matassa della mia esistenza ma, al sentir quelle parole, il cervello si resettò di brutto; per l’ennesima volta era caduto il palco e partii per la tangente.

Un figlio, chi l’avrebbe mai immaginato. Dov’è il suo uomo? Forse è separata? Perché non ha portato con sé il bambino? Madre snaturata, avrà certo lasciato il figlio a qualcun altro mentre se la spassa in giro per il mondo. Non riuscivo a pensare ad altro, tutto quello che mi aveva detto fino a quel momento perso, svanito nel nulla.

Verena sembrava essersi accorta del mio turbamento. Appoggiò la mano sulla mia, e il calore del suo tocco mi riportò alla realtà. “So che è difficile,” mi disse con dolcezza, “ma a volte, aprirsi con qualcuno può fare la differenza. Io ci sono passata e so cosa significa sentirsi persi.” I suoi occhi smeraldo mi scrutavano con una comprensione che mi disarmava. Lentamente, riuscii a respirare di nuovo.

Lei sorrise, un sorriso che sembrava illuminare tutto l’aereo. “Coraggio, continua a raccontare, mi interessa davvero quello che hai da dire.”

Quell’ultima frase sciolse l’ultimo nodo di diffidenza nel mio cuore. Continuammo a parlare, e ogni parola sembrava avvicinarci di più. Non ero mai stato così aperto con nessuno, e la sua presenza rendeva tutto più semplice, più naturale. La cosa aveva dell’incredibile: fino a quel momento, una situazione del genere, nella mia testa, era considerata pura fantascienza.

Fu in quel momento che pensai che, anche se non l’avessi trovata; Kate, facendomi ritrovare quel libro aveva già compiuto un miracolo. Grazie a quel viaggio, stavo pian piano uscendo dal pantano della mia piatta esistenza. 

Le ore passavano senza che me ne rendessi conto. Le raccontai di sogni dimenticati, di paure nascoste, di speranze mai confessate. Lei ascoltava con attenzione, i suoi occhi di smeraldo fissi nei miei, illuminati da una luce che rifletteva la profondità delle sue emozioni.

Ad un certo punto, mi resi conto che il mondo intorno a noi era svanito. L’aereo, gli altri passeggeri, il tempo stesso: tutto sembrava sospeso in un momento eterno. C’era solo lei, con il suo sorriso radioso e la sua voce che mi avvolgeva come una melodia incantata. Mi trovai a desiderare che quel volo non finisse mai, che potessimo continuare a parlare e a conoscerci all’infinito.

Ad un certo punto ci alzammo per sgranchirci le gambe. “Aeora?” I due soci erano li che mi aspettavano al varco sghignazzando. Mi chiesero, ovviamente, di fargli un dettagliato report; li liquidai in fretta, con un generico “vi dirò”.

Al mio ritorno, trovai Verena profondamente addormentata. Aveva invaso parte del mio sedile, così, con delicatezza, le spostai la testa, indugiando nell’accarezzare i suoi bellissimi ricci. Mi comportai da vero gentleman, d’altronde ero appena stato a Londra, tirando la gonna in senso contrario rispetto a quello che mi suggeriva l’istinto, per coprirle le gambe. Però, ripeto, che spettacolo sarebbe stato con la gonna corta e il tacco dodici.

Atterrammo al “Kennedy” che sembravamo degli zombie. Perfino il fido Sega era andato in palla. Per fortuna, la cara Verena, da scafata frequentatrice del posto, ci scortò attraverso i lunghissimi corridoi e ci fece da assistente per passare gli sfinenti controlli. Da vera mamma premurosa, si assicurò che avessimo capito alla lettera le istruzioni per raggiungere l’albergo.

Il suo interminabile e forte abbraccio mi lasciò paralizzato. Abbandonato a lei, con un groppo in gola, cercavo di nascondere le lacrime, celando il viso tra i suoi riccioli mentre il suo profumo si mescolava alla mia puzza di sudore.

“Tutti uguali voi uomini, insomma. Se dovete piangere, piangete, senza tante storie!” aggiunse poi, “ricordati delle cose che ti ho detto.” Ciao Verena, che bello averti incontrata. Ricorderò per sempre il suono delle kappa e delle acca del tuo italiano ma, soprattutto, il delicato bacio sulla bocca.

Continua …..

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Le mie donne

© 2024 Michele Camillo

“Un attimo di attenzione”

Ritratti di donna – II

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Minnie & Dave

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 11 – Minnie & Dave

Giungemmo esausti nei pressi del pub, tanto da aver voglia di fare marcia indietro e andare a letto senza cena. Ci colpì l’aspetto del locale, almeno visto da fuori sembrava un vero pub frequentato da indigeni locali e non un’attrazione per turisti come alcuni in centro a Londra poi, il ritmo del blues che proveniva dall’interno ci diede uno slancio di energia supplementare ed entrammo.

Fino a quel momento non avevo mai avuto una particolare attrazione per il blues, ma quella sera tutto cambiò. Dave, il leader della band cantava suonando in maniera, oserei dire, acrobatica, un vecchio organo Hammond dal legno tutto consumato. Ci metteva una tale foga che mi aspettavo di veder, da un istante all’altro, spaccarsi in due quel cimelio risalente, a detta dell’esperto compare Bitol, almeno a cinquant’anni orsono. Il nostro amico, di fronte all’esibizione dei “colleghi” d’Oltremanica, entrò quasi subito in uno stato di trance, tale da dover provvedere noi all’ordinazione per suo conto.

Ancora non so come tutto sia iniziato. La stanchezza e la birra mi avevano creato una sorta di buco nero nella memoria. Fatto sta che, uscito dal bagno, vidi il Bitol alla chitarra accanto a Dave. Pensai subito che si trattasse di uno strano e surreale effetto collaterale della faticosa giornata da turista, sommato alla troppa birra trangugiata. 

La “strana coppia” rese l’atmosfera incandescente. Il ritmo del blues stava vorticosamente trascinando i presenti in frenetici balli. Non feci in tempo ad avvicinarmi al minuscolo palco per rendermi conto di quello che stava succedendo, che venni trascinato nella mischia da quel beo montareo di cameriera, che soprannominai Minnie, a causa della minigonna nera con vistosi pois bianchi. La tipa mi prese per mano spiaccicandomi addosso al suo corpo; il primo punto di contatto furono le sue gigantesche bocce. Contemporaneamente, qualcosa, che fino a quel momento era rimasto tranquillo, iniziò ad attivarsi.

Niente panico, pensai, sarebbe stato, al contrario, preoccupante se in quella situazione non si fosse mosso niente. Da noi in campagna c’è un vecchio detto: “tira più un peo de mona che un paro de bo’,” niente di più vero. Adeguatamente stimolato, mi trasformai improvvisamente in uno scioltissimo ballerino blues, sempre ammesso che esista un modo di ballare il blues.

La situazione continuò a degenerare in modo esilarante. Bitol, con una passione che non gli avevamo mai visto prima, suonava la chitarra come se fosse nato per quel momento. Dave sembrava divertirsi un mondo, incoraggiando il nostro amico con occhiate compiaciute e sorrisi complici. Sega, dal canto suo, stava immortalando tutto con una dedizione maniacale, ridendo a crepapelle dietro l’obiettivo.

Nel frattempo, Minnie si dimostrò una ballerina esperta, guidandomi in una serie di mosse che non avrei mai pensato di saper fare. Ogni tanto mi lanciava uno sguardo complice, e il suo sorriso malizioso mi faceva sentire come se fossi l’unico uomo nella stanza. Il pubblico ci guardava, alcuni applaudivano, altri ridevano, ma tutti sembravano divertirsi un mondo.

A un certo punto, Bitol decise che non era abbastanza essere solo un musicista improvvisato. Con un colpo di scena degno di un film comico, iniziò a cantare una versione completamente inventata di “Sweet Home Chicago”, mescolando parole in inglese e dialetto veneto. Il risultato fu un disastro esilarante, con il pubblico che rideva così forte che alcuni dovettero appoggiarsi ai tavoli per non cadere.

Non bastò; ad un tratto l’improvvisato, e ormai famoso bluesman italiano, nel bel mezzo della canzone intonò: “el Fuga xé pusa, el Fuga xé pusa, ohi fioi ! Bum bum, stasera, bum bum, el Fugassa, xé cassaaaa!! Ooooh yeah!”. 

“Che cosa sta dicendo?”, mi urlò nell’orecchio Minnie, per ben tre volte prima che riuscissi a capire cosa voleva sapere, “niente, niente, un pezzo di una vecchia canzone italiana”, risposi, senza riuscire a trattenere una sonora risata. Mentre me ne stavo avvinghiato alla tettona pensai che il viaggio stava iniziando già a dare i suoi frutti, insomma, soldi ben spesi, inoltre, Il detto di Tony Carrer: “co ghe xé odor de figa no se sente tristessa né fadiga”, mi sembrava pienamente azzeccato.

Alla chiusura del locale, ci trovammo seduti sul muretto antistante, noi, i tre della locale band e, sorpresa, Minnie, ovvero Debbie, titolare del pub. Il Bitol doveva aver perso la tramontana, stava fumando con estrema soddisfazione una sigaretta offerta da Dave. Si dimenticò del fatto che erano più di quattro anni che aveva smesso; come rifiutare però una sigaretta offerta da un così illustre collega. Sir Sega parafrasò Enrico IV “Londra val bene una sigaretta”, che uomo di cultura!

“Tiralo fuori”, menomale che non l’aveva detto Minnie, altrimenti il mio amico sarebbe tornato ad agitarsi, el Bitol si riferiva al libro che, assieme alla bandana, tenevo nello zainetto. I soci, mentre me ne stavo chiuso in bagno per un’ultima pisciatina, avevano spifferato tutto riguardo la nostra “missione”. 

Sotto la luce fioca del lampione, il gruppetto di inglesi, compresi gli altri due della band dei quali non ricordavo i nomi, esaminò attentamente la frase di Kate. Mi ritrovai improvvisamente quattro paia di occhi puntati addosso, compresi quelli lucidi di Minnie. Cercavo di abbozzare una frase quando Dave mi strinse in un abbraccio solidale, portando con sé un odore penetrante di fumo, sudore e birra.

I quattro nostri amici inglesi si riunirono per porsi le nostre stesse domande su Kate. Come noi Mul, anche loro cercavano di ripercorrere a memoria le biografie delle cantanti folk che conoscevano. La discussione li appassionava visibilmente e sentivo un tuffo al cuore ogni volta che udivo un nome che nelle nostre ricerche non era emerso. Tuttavia, alla fine ammisero che la questione era complicata.

Il batterista, di cui ricordavo solo i vistosi tatuaggi sulle braccia, ci assicurò che avrebbe utilizzato i suoi contatti per aiutarci; roba da matti, il primo batterista 007 che incontravo. 

Minnie, dotata di un’ottima calligrafia, trascrisse la frase di Kate e altri dati rilevanti sul blocchetto usato per le ordinazioni. La notte era avvolta da un senso di mistero e urgenza, mentre ci immergevamo sempre di più in quel labirinto di domande senza risposta.

La band ci propose di farci scoprire un lato insolito di Londra, ci incamminammo lungo alcune stradine che, a detta loro, ci avrebbero condotti in un posto magnifico. In altre circostanze la cosa poteva preoccuparmi ma, avevo Minnie appiccicata al fianco che mi cingeva la vita con la mano, per cui, non mi importava nulla di tutto quello che accadeva attorno; ero tutto preso dall’emozione di quel inaspettato contatto, più intimo e intenso del ballo. Attraverso le parti del mio corpo a contatto con il suo cercavo di immaginare la sua pelle nuda, ovviamente, anche il mio amico sotto i pantaloni si era ridestato.

Intercalavo monosillabi o al massimo qualche “yes”, alle sue parole, non capivo una mazza di quello che diceva, facevo una fatica boia a concentrarmi, le pause di silenzio erano imbarazzanti, niente da fare, non mi veniva fuori uno straccio di frase; da irreversibile introverso, fui solo capace di lanciare un messaggio subliminale, fischiettando Somebody to love dei Queen.

Entrammo in un immenso parco, in cima alla collina di Hampstead, dal punto panoramico, ci sembrò che Londra stesse ai nostri piedi, uno spettacolo che sembrava riservato a pochi intimi. Ritto in piedi sopra una specie di basamento Lord Armando Bitol Semensa proclamò un discorso sull’ormai sancita alleanza con i bluesman inglesi; seguì l’annuncio ufficiale di una tournee del gruppo in terra veneta, della quale, lui, sarebbe stato l’organizzatore. 

“Bravo mona, cussì va a finir come quea volta”, la voce secca del fatalista Sega gli ricordò uno spiacevole episodio, stroncando l’uomo che, mogio, mogio, scese subito dal piedestallo.

Trovai il pessimismo del Sega eccessivo, non era il caso di spegnere così brutalmente gli entusiasmi del povero Bitol per giunta poi, in una magica serata come quella Riuscii a stupire me stesso per il modo deciso con cui intervenni. Rimisi a forza il socio sopra il piedestallo insieme a me, e poi via con il sermone.

“Esimi colleghi mul, abbiamo avuto la fortuna di incontrare, all’inizio di questo nostro primo vero viaggio, delle belle persone, (pensavo a Minnie) le quali, complice la musica, sembrano essere amici da una vita. Sinceramente non credevo che già il primo giorno facessimo una così bella esperienza (continuavo a pensare a Minnie), apprezzo quindi la lodevole iniziativa del qui presente Lord Armando Bitol Zago duca di Semensa, di invitare i nostri nobili amici a diffondere le loro piacevoli melodie lungo le rive del sacro Piave. Personalmente mi impegnerò a rimuovere qualsivoglia ostacolo che si frapponesse nel percorso, eventuali stronzi compresi! Chiedo ora a Sir Sega di tradurre per gli amici”, scoppiò l’applauso generale, mentre Minnie mi guardò divertita.

Erano quasi le due di notte quando, davanti agli scalini d’ingresso dell’albergo, l’aria si impregnava di baci, abbracci e scambi di email. In quel breve, intenso frammento di una notte londinese, avevamo scoperto, complice la musica, un altro incanto di un viaggio con la V maiuscola: l’incontro con persone destinate a diventare amici veri, per sempre.

Ogni sorriso, ogni gesto, ogni parola scambiata nell’oscurità vibrante di quella sera, era un seme gettato nel giardino del nostro destino, pronto a germogliare e a fiorire in legami che nessun tempo o distanza avrebbero potuto sradicare. In quel momento, la città, con il suo rumore sommesso e le luci sfocate, sembrava tessere un arazzo di ricordi destinati a durare, dove ogni incontro, ogni sguardo incrociato, era un capitolo nuovo, un frammento di eternità condiviso sotto il cielo delle mille storie.

Quella notte, rientrando in albergo, mi resi conto che avevamo vissuto un’esperienza unica e indimenticabile, fatta di musica, risate e una buona dose di follia. Il pensiero che tutto fosse iniziato con una semplice serata in un pub mi riempiva di meraviglia. L’eco delle risate e delle canzoni cantate a squarciagola risuonava ancora nelle mie orecchie, mentre i volti sorridenti dei nuovi amici mi accompagnavano come ombre gentili lungo il corridoio silenzioso.

Fu in quel momento che compresi qualcosa di più profondo: per qualche donna, forse, potevo essere una persona interessante, qualcuno che aveva qualcosa da dire. Questa realizzazione accese una scintilla di autostima nel mio cuore, una luce calda che mi avvolse mentre mi infilavo sotto le coperte.

Addormentarmi quella mia prima notte in terra straniera, con il cuore leggero e colmo di speranza, mi sembrò la conclusione perfetta di una giornata straordinaria. Sotto il manto della notte londinese, sognai di futuri incontri, di altre serate piene di vita, e di quella sensazione dolce e rara di sentirsi, anche solo per un attimo, al posto giusto nel momento giusto.

Continua …..

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Three boarotti in London

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 10 – Three boarotti in London

Nonostante la velocità, il trenino filava silenzioso e discreto tra la verde campagna come fosse un gentleman inglese. Scemata la tensione per il volo, ero felice e euforico: tra poco avrei incontrato la metropoli. Il Bitol aveva ripreso ad agitarsi e frugava in continuazione nello zaino; per ben due volte rischiai di essere accecato dal tagliente angolo della cartina di Londra che nervosamente continuava a rigirare. L’intensità e l’odore della sua sudorazione erano aumentati, così gli dissi che non appena arrivati in albergo avrebbe dovuto fare una doccia coatta. Ritornai ai miei pensieri. Era quasi un miracolo: erano passate solo alcune ore e mi trovavo a viaggiare su un treno con persone delle più svariate nazionalità, in un luogo così lontano dal mio paesino. Dal finestrino vedevo scorrere un paesaggio con abitazioni architettonicamente molto diverse; mi sentivo già un viaggiatore provetto.

Osservai il mio faccione riflesso sullo sfondo della campagna inglese, che sembrava cullarsi sotto il sole pomeridiano. I campi verdi si estendevano a perdita d’occhio, punteggiati qua e là da casette di pietra e piccoli boschi, come se fossero usciti da un quadro romantico. Il mio riflesso mi pose una domanda: a cosa sarebbe servito questo viaggio? Probabilmente a niente, nel senso che non avrebbe cambiato di una virgola l’andazzo della mia vita. Una volta tornato, mi sarei trovato di fronte agli irrisolti problemi di sempre: non avere una donna, non avere un lavoro serio e appagante, gestire la Bepina evitando i conflitti con mia sorella e mio cognato.

Le abitazioni cominciavano a farsi sempre più fitte, sempre più grandi e sempre più squallide; stavamo pian piano entrando nella grande metropoli. Anche gli altri due miei compagni guardavano fuori dal finestrino in silenzio, con aria preoccupata. Fu un impatto forte: il treno stava entrando nella grande città che finora avevo visto solo in televisione. A vederla, sembrava una giungla pericolosa pronta a inghiottirti e a farti sparire per sempre. Mi chiesi per l’ennesima volta che cosa ci ero venuto a fare. La metropoli era per gente sveglia, furba e veloce; solo quel genere di persone potevano sentirsi a loro agio, non certo un boarotto come me.

Eppure, nonostante i miei timori, c’era qualcosa di affascinante in quella prospettiva. L’idea di perdersi tra le strade affollate, di scoprire angoli nascosti e incrociare sguardi sconosciuti, di vivere esperienze nuove e inaspettate. Immaginai i grandi parchi, il mercato di Portobello Road, i mitici pub dove potermi sedere e osservare la vita della città scorrere. Pensai alle luci della sera, che avrebbero illuminato le strade con un bagliore dorato, e al rombo dei tipici taxi neri che avrebbero attraversato le strade come saette. Forse, dopotutto, questo viaggio avrebbe potuto aprirmi nuovi orizzonti, farmi vedere il mondo con occhi diversi e, chissà, magari anche trovare una parte di me che ancora non conoscevo.

Mentre il treno rallentava, segno che stavamo per arrivare, un senso di eccitazione mista a paura mi pervase. Ero pronto a lasciare il mio segno in quella metropoli, a viverla con intensità, a cercare la mia strada in quel labirinto di possibilità. Forse non sarei mai diventato un cittadino, ma ero deciso a fare del mio meglio per non essere solo un altro volto anonimo tra la folla. Con questo pensiero, mi preparai a scendere, pronto ad abbracciare l’avventura che mi aspettava.

Victoria Station non aveva quell’aria di squallore che ero pronto a trovare; in effetti, ero stato un po’ troppo prevenuto. Si vedevano ristoranti, negozi e persino un fiorista, e nessuno finora, preso dalla fretta, ci aveva urtato violentemente come mi sarei aspettato. Io e il compare Bitol, che continuava a emanare folate di sudore acido, stavamo a bocca aperta e con il naso all’insù come bambini al luna park. Intanto, il capo comitiva aveva già sapientemente smanettato con la biglietteria automatica, acquistando i biglietti giornalieri per la metro.

Iniziammo subito a dar spettacolo: il Bitol, con tutto il suo bagaglio, rimase incastrato nel tornello automatico di ingresso. Prima figura di merda. Coraggio, dovevamo farci il callo e prenderla con filosofia, visto che non sarebbe stata l’unica. 

Il capo comitiva, ormai abituato ai nostri disastri, ci guardava con una pazienza che meritava un premio. Arrivati finalmente al binario giusto, ci trovammo davanti al treno della metro che sembrava uscito da un film di fantascienza. Le porte si aprirono e tentammo di entrare con la nostra tipica grazia da elefanti: il Bitol, ovviamente, rimase incastrato tra le porte automatiche. Seconda figura di merda. La gente intorno ci guardava con una mescolanza di compassione e divertimento.

Qualcuno avrebbe dovuto filmarci in metropolitana mentre, guardinghi e diffidenti, tenevamo tutti e tre la mano in tasca dove avevamo il portafoglio. Fissai il Sega e gli chiesi: “Ti eo ga vero el corteo?” E via a ridere tutti e tre come scemi.

Ansiosi, cercavamo di capire come leggere la mappa della metro, la paura di finire dopo un migliaio di cambi treno, come nel Monopoli, al punto di partenza, era tanta. A quel punto, a dar spettacolo fui io, mentre tentavo di pronunciare i nomi delle stazioni.

Mi accorsi che un gruppo di ragazze alle mie spalle se la stava ridendo alla grande. Io continuavo imperterrito, ignorando tutto. Alla fine, decisi che era meglio abbandonare ogni tentativo di pronuncia corretta e mi lanciai in una performance teatrale. Finsi di essere un DJ che annuncia le stazioni come fossero titoli di un concerto rock. Il Bitol, dal canto suo, sembrava ancora più spaesato. Con la faccia contrita dal sudore acido, cercava di capire se doveva ridere o piangere.

E così, tra una stazione e l’altra, tra una risata e l’altra, ci ritrovammo a navigare la metro di Londra come tre esploratori persi in un labirinto di risate. Chissà, forse era proprio questo il segreto per godersi al massimo una città sconosciuta: ridere di sé stessi e lasciarsi trasportare dall’umorismo, anche quando la mappa della metro sembra un puzzle impossibile.

Ogni fermata era un’avventura, ogni scala mobile una sfida, ogni sguardo un motivo di ilarità. Alla fine del viaggio in metro, ci sentivamo come degli eroi sopravvissuti a una battaglia epica. Quando finalmente uscimmo alla luce del sole, ci guardammo intorno con la consapevolezza di essere pronti ad affrontare qualsiasi cosa la grande città avesse in serbo per noi.

Sega, con il percorso ben memorizzato nella zucca, procedeva spedito a piè sospinto verso l’albergo; a fatica riuscivamo a stargli dietro, nemmeno il tempo di guardarci attorno per assaporare i primi momenti di vita londinese. Il traffico era assordante, fortunatamente, attraversato lo stradone a quattro corsie, ci immettemmo in una piccola strada in salita e, d’improvviso il paesaggio cambiò, ci trovammo in un tipico quartiere inglese pieno di edifici in stile vittoriano, uno di questi era il nostro minuscolo albergo, “that’s England!” esclamò con fare saccente la nostra guida.

Il nostro primo test di inglese fu rimandato per il semplice fatto che la ragazza alla reception era italiana. Il Sega rimase deluso per non aver potuto sfoderare le frasi da tempo preparate per l’occasione. El Bitol, impaziente come sempre, non attese nemmeno che la tipa, tra l’altro un bel montareo, terminasse le formalità di rito per la registrazione. Le chiese subito, in mezzo dialetto, dove si poteva mangiare nei paraggi. 

I nostri soggiorni in albergo si potevano contare sulla punta delle dita di una sola mano e, tutte le volte, la prima domanda del Bitol era sempre la stessa. Speravo che almeno stavolta, nella terra di sua Maestà la Regina dove noblesse oblige, evitasse di comportarsi da grezzo.

El montareo, sorridente e con fare gentile, fornì al boaro abbondanti informazioni, invitandoci tra l’altro a visitare il villaggio (così definivano il quartiere) attorno all’albergo. Il socio ebbe un’erezione, non tanto per le bocce della tipa che facilmente si riuscivano a intravvedere, quanto per una dritta che quella ci passò. La sera stessa, nell’unico pub del villaggio, dove, tra l’altro, avrebbero servito dell’ottimo cibo, ci sarebbe stato un concerto blues di un tipo, a suo dire, molto in gamba.

“Non mancheremo per nessuna ragione al mondo” disse il Sega con la cadenza tipica di un maggiordomo inglese. “Musicisti?” chiese la nostra amica. “Quasi”, fu la risposta. In effetti, definire il Bitol un musicista sarebbe stato spararla grossa.

Dopo aver armeggiato per alcuni minuti a testa con la chiave elettronica e aver pronunciato centinaia di “lassame far a mi”, riuscimmo finalmente a entrare in camera. Il “musicista”, un attimo dopo aver posato lo zaino, cominciò a saltare da un letto all’altro come un bambino, facendo finta di suonare la chitarra e improvvisando un medley dei Beatles. Lo lasciammo fare per il tempo che ci servì ad andare al bagno, almeno aveva avuto la decenza di togliersi le scarpe.

Calcolammo di avere poco più di ventiquattrore a disposizione per il nostro tour londinese, come missili ci fiondammo in metropolitana direzione Green Park, optammo per quella fermata perché, in teoria, era una delle più centrali sul percorso della nostra linea e poi, il nome evocava un parco; in effetti il parco c’era. Da buon Fugassetta decisi di prendermi la mia prima soddisfazione londinese, nonostante l’ora, mi fermai al primo chiosco che trovai e ordinai un bicchierone maxi di caffè aromatizzato alla cannella e una ciambellona; non riuscii a capire quanto dovevo pagare, per non sbagliare gli sganciai un bigliettone da dieci Pound, senza nemmeno controllare che il resto fosse giusto, con quel bollente bicchierone in mano, mi sentii pienamente realizzato, il caffè mi rese subito euforico, Londra era ai miei piedi.

“Quanto hai pagato ‘sta porcheria?”, Sega cercò di spegnere il mio entusiasmo, non lo badai, sentivo già l’irresistibile richiamo di quella bella erbetta soffice che avevo innanzi. Mi distesi sul prato testa appoggiata sullo zainetto, occhi al cielo e cannuccia in bocca, Sega mi imitò, il terzo uomo dovette adeguarsi alla maggioranza.

Ero incantato dalla bellezza del posto. Forse era il contrasto tra il luogo dove sono nato, in cui ogni cosa che sbucava dal suolo era asservita all’utilità, e questo giardino inglese, dove tutto sembrava progettato per rendere l’ambiente bello e rilassante. Mi voltai su un fianco per osservare meglio la superficie del manto erboso. Lo tastai più volte, cercando di carpire le differenze con “l’erba di casa mia”. Era senz’altro più folta, quasi fosse fatta apposta per distendersi sopra.

Mi persi in quella sensazione, affondando le mani tra i fili d’erba morbida e fresca. Ogni singolo stelo sembrava curato con amore, come se qualcuno avesse dedicato ore a pettinarli uno ad uno. Era una sensazione nuova, un lusso inaspettato che mi fece chiudere gli occhi e immaginare di essere in un quadro dipinto a mano.

Mi sentii sopraffatto da un senso di gratitudine per quel momento, per quella semplice e pura bellezza che mi circondava. In quel momento, lontano dalle mie paranoie quotidiane, mi sentii rinascere.

 “No par vero”, anche Sega, faccia a quel cielo azzurro con qualche sporadica nuvoletta, si stava gustando il primo traguardo in terra straniera. 

El Bitol, con fare da orangotango, gesticolava selvaggiamente e emetteva “hu hu hu” mentre ci pregava di alzarci in piedi alla svelta. Stava porgendo la macchina fotografica a una ragazzina per scattare la nostra prima foto ufficiale di gruppo. L’inglesina, una mezza punk dotata di grande spirito artistico, ci sorprese: volle fotografarci tutti e tre distesi sull’erba, perché, a suo dire, era più “cool”. Quegli scatti, in effetti, rimasero indimenticabili.

Mentre l’orango continuava a saltellare attorno scattando foto all’impazzata, io e Sega, rimanendo distesi sull’erba a osservare le nuvole che accarezzavano le chiome degli alberi, ragionammo su quello che doveva essere lo spirito del viaggio. Non dovevamo assolutamente farci prendere dall’ansia di vedere tutto, ma piuttosto assaporare con lentezza quello che ci sarebbe capitato lungo il percorso. “Vedi,” disse il saggio Sega, “è lo stesso con il cibo. Se non lo assapori lentamente, non riuscirai mai ad apprezzarlo e sentirti appagato.” Stava parlando a uno che, posseduto dallo spirito demoniaco del Fugassetta, ingurgitava sempre tutto con avidità e in fretta, pensando già a quello che avrebbe mangiato dopo.

“Rimetto la guida nello zaino e, da ora in poi, cammineremo guidati solo dal nostro istinto o dal caso,” dissi. “C’è il serio rischio di perdersi, ma è veramente figo, ci sto!” rispose Sega. L’orango, messo al corrente delle nuove linee guida, era un po’ meno convinto, ma con la garanzia che per cena saremmo andati in quel pub, che avremmo visitato qualche negozio di musica e, l’indomani, attraversato le strisce pedonali di Abbey Road, ci diede il suo nulla osta.

Miracolosamente non ci perdemmo affatto. Riuscimmo, in assoluta tranquillità, a schiacciarci contro la cancellata di Buckingham Palace, a intingere nell’acqua di Hyde Park i nostri piedi gonfi, a fare ordinatamente la fila per prendere uno dei famosi autobus rossi a due piani, a mangiare dei gustosissimi sandwich fatti fare “su misura” e a farci spintonare dalla folla a Covent Garden.

El Bitol, sempre lui, ogni tanto ci sorprendeva con i suoi scatti d’entusiasmo, come quando provò a fare l’equilibrista sul bordo di una fontana, finendo inevitabilmente con un piede in acqua e strappando risate ai passanti. Io e Sega, con il nostro nuovo mantra del “viaggio lento”, ci godevamo ogni singolo momento, ogni dettaglio della città che si svelava davanti a noi come un libro da sfogliare pagina dopo pagina.

Fu una giornata perfetta, fatta di piccoli miracoli e grandi risate, con l’orango che saltellava attorno come un bambino iperattivo, Sega che dispensava saggezza a ogni angolo e io che mi perdevo nella bellezza di Londra, finalmente libero dall’ansia di vedere tutto e, pronto a vivere ogni attimo con serenità.

Continua …..

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‘Ndemo

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 9 – ‘Ndemo

Alle cinque di mattina l’aguasso si faceva sentire più che mai contribuendo ad amplificare la mia agitazione, tanto che avevo la pelle d’oca, camminavo nervosamente sotto casa in trepidante attesa di percepire il rumore della macchina di Tony Carrer che si era offerto di accompagnarci all’aeroporto. Continuavo a frugare continuamente nelle tasche del giubbino e in quelle esterne dello zaino con la paura di aver dimenticato qualche documento necessario per il viaggio. Una notte insonne alle spalle passata a tormentarmi con mille se: se l’aereo precipita, se fanno un attentato, se ci rapinano, se mi ammalo, se dimentico qualcosa di acceso o qualche rubinetto aperto, pensiero per cui, nel frattempo, ero già risalito per ben due volte su in casa a controllare.

Il campo de panoce dietro casa emanava l’inconfondibile profumo della campagna. Respirai a fondo con gli occhi chiusi, cercando di imprigionare quell’essenza che mi ricordava la terra, la semplicità, la quiete. Tra qualche ora mi sarei trovato in un luogo completamente diverso, distante migliaia di chilometri. Pensieri da contadino, mi dissi. Il vero viaggiatore non volge mai lo sguardo indietro.

Il rumore di un’auto che rallenta e si immette nella mia viuzza spezzò il silenzio del mattino. Il cuore ebbe un sussulto e iniziò ad aumentare il ritmo. Ci siamo, pensai. È l’ora. Il grande viaggio inizia.

Lo sguardo dei due mul era talmente ebete che gli accolsi con una risata a metà fra il nervoso e il liberatorio, Tony, invece mi salutò fiaccamente, notai subito la faccia cupa. “’ndemo, ‘ndemo!” disse il Bitol battendo fortemente le mani, poi via nella silenziosa campagna mattutina.

Tra la palpabile tensione e la tristezza di Tony, in macchina regnava il silenzio. Sembravamo i tre dell’Apollo 11, chiusi nel pulmino che li avrebbe portati al razzo Saturn. Cercando di vivacizzare quella surreale atmosfera e stemperare la tensione, chiesi a Tony uno dei suoi mitici consigli per una buona caccia ai montarei: “Ste tenti che a fame fa brutti schersi”, disse seriamente. Sega mi fissò scuotendo la testa; non era giornata, probabilmente a causa dei soliti problemi familiari.

Le parole di Tony riassumevano tutta la sua storia: il desiderio di trovare una donna a tutti i costi lo aveva portato a fare scelte frettolose, che pagò per tutta la vita. Aveva dovuto sposarsi giovanissimo, in quanto la Franca era rimasta incinta.

La campagna scorreva veloce sul finestrino, ci stavamo avvicinando all’aeroporto, dall’autoradio uscì una canzone che non avevo mai sentito, mi rese talmente felice da dimenticare le angosce e tutto quello che mi lasciavo alle spalle, quel brano divenne il leitmotiv del viaggio.

Salutammo Tony frettolosamente, lo abbracciai, cosa per me insolita, stringendolo forte, era un gesto di solidarietà, seppur sposato, per come era andata, si poteva considerare a pieno titolo un mul come noi.

Alzai lo sguardo verso il tabellone degli orari, quando scorsi il numero del nostro volo con accanto la scritta “on time – in orario”, il cuore riprese a battere forte e mi presero vampate di calore da donna in menopausa. Al banco check-in, dietro di me, si era piazzato un tipo poco rassicurante, dai tratti mediorientali, cominciamo bene con un potenziale terrorista a bordo. La lunga fila di passeggeri sbuffanti e la faccia scazzata dell’addetta, mi convinsero che viaggiare in aereo era per tutti, tranne che per noi tre, un fatto ordinario.

In fila ai controlli di sicurezza, ci precedeva il mediorientale, volevo proprio vedere se per qualche motivo lo fermavano, passò tranquillamente il controllo facendo la faccia sorridente alla guardia, si stava evidentemente prendendo gioco di loro. Ironia della sorte, rivoltarono il povero Bitolcome un calzino, venne rimandato indietro quasi fosse un appestato, dovette togliersi persino le scarpe mentre, dietro di lui, un paio di business man sbuffavano spazientiti; alla fine, tutto rosso in viso si ricompose, non prima di essere stato mezzo travolto dai quei due stronzi che continuavano a borbottare e a fissarlo con aria di superiorità. ”Xe ciavemo un caffè?”, disse, con il tono tipico di chi aveva appena superato un esame.

Dalle vetrate, grazie alla giornata limpida, si godeva una bellissima vista sulla laguna, Sega, con la tazza in mano, era incantato a guardare la sagoma di Venezia che si stagliava all’orizzonte mentre a me e al Bitol stava venendo il torcicollo a son di seguire con lo sguardo la moltitudine di montarei che si aggiravano lì attorno. 

“Hasta la victoria siempre comandante Calzavara!” Gridò all’improvviso un tizio in tuta bianca da meccanico di aerei in direzione di uno con la divisa da pilota seduto ad un tavolino. Fu in quel momento che riconobbi il tipo del pontile; scoperto perché passava il tempo ad osservare le scie degli aerei. “Xe vedemo anca qua ‘desso”. Per la prima volta ci sorridemmo e ci parlammo. “Buon viaggio”, aggiunse mentre, con avidità si fiondò su una brioche; com’è piccolo il mondo, oltre a parlare al mare, abbiamo in comune l’essere entrambi dei “fugassetta”.

Signore, le è caduta la carta di imbarco”, sentii sbiascicare dietro le spalle. Una bambina in carrozzina stava richiamando la mia attenzione, osservai per un attimo quel minuto corpicino racchiuso in una grande tuta rosa, era completamente senza capelli e una mascherina le pendeva dal collo. La ringraziai raccogliendo ciò che mi era caduto; mi augurò buon viaggio mentre, a fatica, tentava di mangiare uno yoghurt; Sega mi strattonò per il braccio, non ebbi il coraggio di voltarmi a guardarla ancora una volta, in fine dei conti, tutti e due viaggiavamo con una speranza.

Non ce la facevo proprio a stare seduto nell’attesa dell’imbarco, continuavo a guardare fuori il via vai frenetico degli aerei, lo stesso stava facendo il mio amico pilota del pontile, con la stessa faccia malinconica che aveva al mare. I miei pensieri erano concentrati sul mediorientale, aveva smesso di leggere un libretto dalla copertina nera, sicuramente si trattava del corano, ora si era alzato e fissava l’aereo con uno strano sguardo, quasi di sfida, un brivido mi partì dal fondo schiena.

Quando varcammo il cancelletto di imbarco il montareo addetto al gate, a momenti svenne a causa del tanfo che emanavamo da sotto le ascelle. Mi vergognai a morte e sperai che non ci rimandassero indietro. Ci sedemmo io al finestrino, Sega in mezzo e il Bitol lato corridoio con la promessa di scambiarci il posto al finestrino negli altri voli. Sull’altro lato del corridoio era seduto lui, il mediorientale, il rischio che usasse il Bitol come ostaggio, minacciandolo di ucciderlo se il comandante non gli avesse aperto la porta della cabina di pilotaggio, era alto. Non riuscivo a capire una mazza di tutti quegli annunci in inglese che uscivano a raffica dall’altoparlante, doveva essere roba di routine, visto che nessuno si agitava più di tanto, nervosamente continuavo a sistemarmi la cintura poi, presi a consultare, con le mani intrise di sudore, il foglio plastificato che illustrava come uscire da quel tubo di ferro in caso di disgrazia.

Mi consolai nel vedere gli altri due soci alquanto in ansia, il Bitol stava agitando le ginocchia così intensamente che le vibrazioni si trasmettevano anche al mio sedile, quando poi, la hostess spiegò come indossare le maschere di ossigeno, si portò, senza alcun riguardo nei confronti degli altri passeggeri, le mani sulle parti intime e, mollò una potentissima sfiatata dal deretano, fortunatamente solo sonora, che non ebbe conseguenze significative per il ristretto ambiente nel quale ci trovavamo. Fu allora che, il mediorientale, scoppiò in una risata liberatoria. Un terrorista non ride in quel modo, il poverino doveva essere agitato quanto noi, ne ebbi la conferma subito dopo, quando scambiò due parole col Bitol e gli offrì una gomma da masticare allo scopo di farsi coraggio e stemperare la tensione.

Ancora ben piantati a terra, fermi in attesa di imboccare la pista, osservai l’andirivieni dei motoscafi sul canale. Sega, sprigionando ottimismo da tutti i pori, mi disse che potevano essere le ultime scene di vita terrestre che avremo visto; a quel punto pensai bene di imitare il gesto scaramantico del Bitol visto che, da li a poco, ci saremo staccati da terra e chissà come sarebbe andata. Ci muoviamo, tocca a noi, le pulsazioni e la sudorazione aumentano, poi il rombo dei motori che cresce, l’accelerazione mi spinge sullo schienale, il paesaggio lagunare scorre sempre più velocemente, tutto vibra, secondi interminabili nei quali sembra che la pista non finisca più, il Bitol che nervosamente grida “vai, vai!”, poi, eccolo, il momento tanto atteso, l’aereo si inclina e si allontana rapidamente da terra, sul  corpo una strana sensazione, “oooh, ooh, uuh”, di nuovo la voce del Bitol. Sotto di me la laguna, con il sole ormai quasi a picco che si riflette nell’acqua, viriamo, ecco il mare e la spiaggia, chissà se stiamo sorvolando il nostro pontile. Mi rendo conto di aver monopolizzato il finestrino con il mio testone, mentre gli altri due allungano disperatamente il collo nella speranza di godersi una fetta di spettacolo, per rimediare, mi misi a fare un dettagliato resoconto di quello che si vedeva.

In base a calcoli approssimativi sulla rotta, ci stavamo dirigendo verso ovest. Presto avremmo dovuto scorgere in lontananza la nostra beneamata campagna. Ecco il Piave, serpente d’argento che si snoda tra le terre. E poi i campi, rettangoli di diverse tonalità che, visti dall’alto, sembrano tracciati con il righello, opere d’arte della natura e dell’uomo.

Con la testa appoggiata sul finestrino, sentivo le vibrazioni dell’aereo attraversare il mio corpo. Era un momento solenne. Sorvolavo quei campi che conoscevo fin da bambino, il primo dei Nosea a staccare la sua ombra da terra e volare. Ne ero fiero, in quel momento mi sentivo un esploratore del cielo, un pioniere in un’avventura poetica, abbracciando il cielo sopra la nostra terra amata.

Ora che la tensione era visibilmente calata, con una lattina di birra strapagata e tre bicchieri di plastica, brindammo felicemente al nostro primo volo. Persino il “terrorista” mediorientale partecipava a modo suo, sorridendo rivolto a noi e facendo il gesto di asciugarsi il sudore dalla fronte. Cominciava a starmi sempre più simpatico, soprattutto perché mi resi conto che non era un terrorista, ma solo un tipo ansioso come noi.

La scena era degna di un film comico: noi tre, con i nostri bicchieri di plastica alzati come se stessimo festeggiando la fine della guerra, e lui, che sembrava il personaggio buffo venuto fuori da una sit-com, che sorrideva e annuiva, probabilmente senza capire una parola di quello che dicevamo.

Sega propose un brindisi, “Alla nostra prima volta in cielo!” e Bitol, con la solennità di un predicatore, aggiunse: “E a non dover usare quei ridicoli sacchetti di carta per il vomito!” Risate generali. La hostess passò di lì in quel momento, ci guardò con un mix di pietà e divertimento, e ci lasciò dei salatini come premio di consolazione per la nostra piccola festa in alta quota.

Chi l’avrebbe detto che il nostro primo volo sarebbe diventato una scena da bar, a 10.000 metri d’altezza? E che avremmo trovato un nuovo amico nel più improbabile dei compagni di viaggio?

Scoprii che il sibilo del motore contribuiva a rilassarmi, avvolgendomi in una sorta di armonia celestiale. Provai un piacevole senso di isolamento, come se fossi sospeso tra cielo e terra. Reclinai lo schienale e mi appoggiai sul fianco, sentendo la tensione allentarsi, e il sonno arretrato si fece sentire. Mi addormentai cullato dal rumore dell’aereo, una ninna nanna inattesa e sorprendentemente dolce.

Di tanto in tanto, i miei occhi si aprivano e osservavo il paesaggio sottostante scorrere lentamente, come un quadro in movimento. Le montagne sembravano sollevarsi maestose, e il mare di bambagia delle nuvole si stendeva all’infinito, soffice e invitante. Mentre ci scivolavamo sopra, mi sentivo parte di un mondo sospeso, un viaggiatore tra le correnti del cielo, avvolto in un sogno sereno e infinito.

C’era voluto un energico scossone di Sega per svegliarmi e dirmi che eravamo sopra il canale della Manica. Vista dall’alto, la campagna inglese sembrava avere un aspetto più signorile della nostra, senz’altro più verde e ordinata, come se anche l’erba fosse stata educata in qualche prestigioso collegio britannico.

Mentre l’aereo si avvicinava a terra, i particolari diventavano più nitidi. Potevo quasi vedere gli inglesi che ci salutavano con la loro tipica compostezza. 

Poi, un tonfo seguito da una forte decelerazione ci fece sobbalzare sui sedili. Ed eccoci a terra. Il Bitol, con l’entusiasmo di un tifoso allo stadio, iniziò ad applaudire, seguito da qualche altro passeggero italiano altrettanto grezzo.

Io, Sega e pure l’ex terrorista ci vergognammo a morte. Cercammo di sprofondare nei nostri sedili, sperando che il rumore degli applausi coprisse il suono delle nostre dignità che sprofondavano. Ma alla fine, non potemmo fare a meno di ridere di noi stessi e della nostra esilarante avventura. Ah, il primo volo: un’esperienza che ricorderemo sempre, anche se magari con un po’ di rossore sulle guance!

Una grande metropoli si vede anche dal suo aeroporto: tutto era più grande, più maestoso. Percorremmo in processione con gli altri passeggeri dei corridoi interminabili, con il rumore dei trolley che mi penetrava nel cervello. Ora bisognava capire se accettavano volentieri l’ingresso di tre mul di campagna in terra di Sua Maestà. L’ansia riprese a farsi sentire, soprattutto vedendo la tipa del controllo passaporti, che con il viso sorretto dal braccio appoggiato sul bancone, aveva l’aria alquanto strafottente.

Mi fece cenno con la mano di avvicinarmi, mi strappò il passaporto dalle mani e mi chiese qualcosa. Panico. Rimasi fermo immobile come un ebete. “Ha chiesto da dove viene”, mi disse gentilmente una signora italiana in fila dietro di me. Iniziai a balbettare il nome del mio minuscolo paese, ma non feci nemmeno in tempo a finire che la tipa, squadrandomi dalla testa ai piedi con aria di sufficienza, sbuffò.

“Veneto?” disse, come se avesse appena sentito il nome di un pianeta lontano. Con un cenno distratto, mi lasciò passare.

Sega e Bitol, dietro di me, stavano trattenendo il fiato, pronti a esplodere in una risata non appena fossimo stati fuori dalla vista della donna. 

“Milady, vanta questa!” Oltre alla risata, dal retrobottega del Bitol esplose, un’altra emissione potente, ‘stavolta fortemente maleodorante; la tempesta perfetta. Roba che gli agenti dell’antiterrorismo lo arrestino per attacco chimico ai sudditi di sua maestà.

E così, finalmente, ci trovammo in Inghilterra, tre mul di campagna catapultati nel cuore di una grande metropoli. Mentre i trolley continuavano a far eco ai nostri passi, Sega sussurrò: “Beh, benvenuti nel mondo civilizzato, ragazzi.” Non potei fare a meno di ridere, pensando che il nostro arrivo era stato un vero e proprio spettacolo degno di una commedia.

Facendoci largo a malo modo tra gli altri passeggeri, ci fiondammo sui nostri bagagli che erano già sul nastro trasportatore, presi dalla paura che venissero risucchiati nel tunnel da dove erano usciti. “Good luck guys and have a good trip!”, mi commosse il saluto del simpaticissimo ex terrorista, non so cosa, forse quel suo sguardo sorridente, ma mi dava l’impressione che mi avesse scrutato dentro e conoscesse tutta la mia storia.

Appena la porta automatica si aprì sulla hall degli arrivi, ci fermammo per alcuni secondi in religioso silenzio. Un leggero sussurro di aria fresca ci accolse, portando con sé l’eco di mille storie e viaggi. La vastità della hall si aprì davanti a noi, un mare di volti, voci e lingue diverse che si intrecciavano come onde di un oceano cosmopolita.

In quel momento, ogni ansia e timore sembrarono dissolversi. Eravamo lì, noi tre, con i nostri cuori che battevano all’unisono, fieri di aver superato le nostre paure. Un sentimento di conquista ci pervase, come se avessimo scalato una montagna e ora guardassimo dall’alto il panorama mozzafiato delle possibilità infinite.

Il mondo sembrava allargarsi davanti a noi, invitandoci a esplorare, a scoprire, a vivere. Ogni passo che facevamo era un battito di ali verso nuove esperienze, ogni respiro un assaggio dell’avventura che ci attendeva. Sentivamo il peso della nostra storia, delle nostre radici, e al contempo la leggerezza del volo, pronti ad affrontare a testa alta la nostra avventura in terra straniera.

Sega, con un sorriso che rifletteva la luce della speranza, fece un passo avanti, seguito da Bitol, i cui occhi brillavano di curiosità. Io, con il cuore gonfio di emozioni, li seguii, sentendo una forza nuova crescere dentro di me. Insieme, varcammo quella soglia, lasciandoci alle spalle le ombre del passato e abbracciando il futuro con coraggio e determinazione.

In quel silenzio solenne, eravamo più che semplici viaggiatori: eravamo esploratori di un mondo nuovo, protagonisti di una storia ancora da scrivere, pronti a immergerci nell’avventura che ci attendeva, con la consapevolezza che, qualunque cosa ci riservasse il destino, l’avremmo affrontata insieme, con il cuore saldo e lo sguardo rivolto all’orizzonte.

Continua …..

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