Decenni

Tratto da Dediche e Richieste

© 2024 Michele Camillo

È da più di quarant’anni, ovvero da quando “faccio radio” che, a notte fonda, metto su dischi per il mondo intero; mi faccio in quattro per riuscire a soddisfare le richieste, persino le più assurde. Eppure, ho una sfiga cosmica: nessuno mette su dischi per me. Sì, avete capito bene, nessuno si prende la briga di dedicarmi una canzone. Così, e vi sembrerò strano, la chiedo al mare; almeno lui non si fa pregare. Non ci crederete, ma accade sempre che la sua brezza mi porta nuove idee e vecchie canzoni, spesso legate al preciso momento che sto vivendo.

Sarà forse perché Amedeo Minghi è uno che nei suoi testi sparge mare ed estate come fosse prezzemolo; la settimana scorsa, una calda folata di Libeccio ha trasportato fino a me le note di “Decenni”. Ma, più probabilmente, credo perché di decenni su questa terra ne ho accumulati ben sei e, quel testo, risalente al primo agosto 1998, ormai è diventato autobiografico e mi ha tirato dentro di brutto.

Io al mare uso parlarci; salgo sulla duna più alta per salutarlo e confidarmi con lui. Il mare ascolta pazientemente, con l’infinita saggezza delle sue onde. Penso a quelle persone che, oltre il suo orizzonte, hanno sempre riposto speranze, come me. Un’umanità bisognosa, disperata, impaurita e rifiutata che cerca oltre quell’orizzonte l’avverarsi di un sogno.

Io e il mare ci capiamo; la mia vita, in fin dei conti, è piatta come la sua superficie calma. Sotto la sabbia di questo pezzo di litorale Adriatico, ho sepolto tutti i miei innumerevoli, maldestri tentativi di diventare un altro. Il mare è l’unico che non si stufa di sentirmi ripetere sempre le stesse storie. Come me, anche lui, in tutti questi decenni, non è mai cambiato: l’orizzonte è sempre lo stesso e, a volte, anche il paesaggio retrostante, come la vecchia colonia che mi ha ospitato dall’età di cinque anni facendomelo conoscere per la prima volta.

Il mare mi conosce e sa che vorrei rimanere per sempre quell’eterno bambino degli anni ’70, la cui unica preoccupazione era che le sue onde non bagnassero i sandaletti di plastica colorati della splendida bambina di cui mi ero innamorato. 

Anche se continuiamo a far finta di niente, i decenni inesorabilmente passano. Però, nonostante le nostre vite si siano perse per infinite strade diverse, io e quella bambina siamo rimasti legati a questo antico e selvaggio pezzo di spiaggia. Saltuariamente capita di incrociarci lungo la battigia; allora, abbassiamo entrambi lo sguardo, fingendo che nulla sia mai stato, ma i nostri occhi, ancora si cercano, rivelando l’insoddisfazione per una vita in cui abbiamo recitato una parte che non era la nostra.

In quell’eterno attimo in cui ci passiamo accanto, sento che le nostre anime riescono a condividere le paure e le insicurezze. Il mare è stato per noi anche quel limite che non abbiamo mai osato varcare, temendo di affrontare qualcosa di immensamente più grande di noi. Abbiamo preferito non osare, soffocando sentimenti e passioni, restando con i piedi sul bagnasciuga e ritirandoci non appena li sentivamo sprofondare leggermente nella sabbia.

La nostra vita, come le onde, va e viene, e noi, spettatori silenziosi, continuiamo a cercare qualcosa che non abbiamo mai avuto il coraggio di afferrare. E in quel breve incontro sulla spiaggia, anche solo per un istante, le nostre anime si riconoscono, condividendo un amore che, pur nascosto, non è mai svanito.

I decenni passano ma, il mare resta testimone silenzioso delle nostre vite, delle nostre speranze infrante e dei nostri desideri segreti. È il custode delle nostre confidenze, l’amico fedele che non tradisce mai. E così, ogni volta che mi ritrovo sulla duna più alta, sento che, nonostante tutto, non sono solo. Il mare è lì, con la sua immutabile presenza, a ricordarmi che, anche nelle onde più calme, c’è sempre una profondità in attesa di essere scoperta.

“Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi” CESARE PAVESE

Tradiscono i decenni
Saranno gli anni fa
Il tempo li fa belli
Questi anni non li avrai
Se non li perderai

Tradiscono i decenni
Vedrai che ti vedrai
Nel taglio dei capelli
Ahi quanti ne tagliai
Nel mare ti vedrai

Nel mentre la canzone
L’estate è bella assai
Nel mentre la canzone
E tu scontenta stai
Prestata agli anni tuoi

Poi dopo penserai
Quel certo sole dov’è mai?
Negli anni, gli anni tuoi
Che vivi dopo in penombra
Sfogliando foto, riguardando un film

Questi anni ormai finiti
Che non c’è vita più
Ma strampalati miti
E quanti ne vedrai
Passare e andare via

La storia è lì che sta
In un disegno che guardai
L’estate è bella assai
E la canzone
I minuti della mia vita
Tenera con me

Tradiscono i decenni
Puoi farci quel che vuoi
Ma non ci fai l’amore
Perché quegli anni mai
Ti amarono così

Guardandomi da qui
Non è sicuro, c’ero anch’io
Guardandolo da qui
Fu un bel decennio
Troppo allegro
Ma non mi pare
Io non lo notai

Tradiscono i decenni
Decennio che volò
Nell’auto e sulla moto
Su quei modelli andò
Stilistico volò

Fatico a ritornare
Ed erano anni miei
Decennio che è passato
Sfrecciato, andato via
Questi anni non li avrai

Tradiscono i decenni
Saranno gli anni fa
Il tempo li fa belli
Questi anni non li avrai
Se non li perderai

© 1998 Pasquale Panella – Amedeo Minghi

Ascolta il podcast

Tratto da DEDICHE & RICHIESTE

© 2024 Michele Camillo

Ultime pubblicazioni

L’indagine

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 8 – L’indagine

Sabato mi ero recato al mare; avevo scelto di non mandare i soliti due messaggi ai compari Mul, sentivo il bisogno di stare da solo per riordinare le idee. Sul “nostro” pontile regnava il silenzio, solo io e quel tipo solitario che trascorre le sue giornate a osservare con malinconia le scie degli aerei. Da una vita lo vedo sempre lì; anche se d’estate ci incontriamo quasi ogni sabato, non abbiamo mai scambiato una parola, solo un timido abbozzo di saluto.

In genere, la domenica successiva ad un sabato passato al mare è impensabile che mi alzi presto ma, la necessità di intercettare “casualmente” mia zia Teresina alla messa mattutina, detta “delle vecchie”, imponeva lo sforzo dell’alzataccia. Sarebbe seguita la visita domenicale alla Bepina; in quella sede avrei dovuto affrontare l’argomento viaggio con il parentame.

Il mio fisico cercava in tutti i modi di ribellarsi a quell’ultimo impegno che avevo in agenda, i cervicali iniziarono a mandarmi le prime avvisaglie di un gran mal di testa in arrivo.

Arrivai in chiesa con due minuti di ritardo, cosa non grave se si trattasse di una normalissima parrocchia di città, nella chiesetta del mio paesello invece si rischia grosso. Ogni sforzo per passare inosservato a causa dei sinistri scricchiolii del pesantissimo portone risultò vano. Le pie donne presenti alla cerimonia si girarono tutte assieme verso la porta di ingresso fulminandomi all’istante, con uno sguardo indignato, riservato al peggiore dei peccatori. Oltre che su di me, quelle occhiatacce ricaddero anche sulla zia Teresina a sottolineare che il peccatore era suo nipote. Avevo imparato dalle sacre scritture che un disgraziato come me, deve fermarsi in piedi in fondo alla chiesa e così feci. Don Guerino, nonostante i suoi ottantacinque anni, aveva una vista da falco e riuscì a individuarmi nella penombra; con sorriso paterno e un cenno discreto della mano invitò il figliol prodigo ad accomodarsi più avanti. Era decisamente felice di vedermi, se non altro perché in chiesa c’era un fedele in più rispetto alle solite vecchiette che seguivano messa come degli automi.

Finita la messa, puntai subito zia Teresina; la seguii in sacrestia. Sorella di mio padre nonché unica dei fratelli rimasta in vita, era praticamente l’ombra di don Guerino, la domenica era addetta al “cerimoniale” per cui, almeno che non la colpisse qualche grave malattia, era praticamente impossibile che non fosse presente alle funzioni; sapevo che, se avessi voluto interrogarla sulla faccenda, sarei andato a colpo sicuro.

Abbracciandomi con forza, il vecchio don Guerino, avvolto nei pesanti paramenti sacri che raccontavano storie di liturgie e preghiere, si frappose fra me e la zia, prima che potessi varcare la soglia della sacrestia. Nonostante gli anni, l’intensità dell’abbraccio era rimasta immutata, come ai tempi in cui ero un giovane chierichetto. Il suo abbraccio emanava ancora quel profumo di dopobarba anni ’60, un’essenza intrisa di ricordi e di sacro mistero. Con fatica, cercai di celare la mia commozione, voltando il viso altrove, ma don Guerino, con la saggezza dei suoi anni, aveva già colto la traccia delle mie lacrime.

“Angelo, che piacere, ogni tanto ti ricordi del tuo vecchio prete, pensavo ti fossi sbattezzato. Come mai da queste parti? Sei già in ferie?”. La domanda capitò a fagiolo offrendomi su un piatto d’argento l’occasione per introdurre il discorso, sparai il colpo che avevo in canna. “No, ma tra un po’ vado in America con Adriano e Armando per il 40° anniversario del raduno di Woodstock, roba da hippy. Zia te li ricordi? Quelli che passavano per i campi vicino a casa nostra quando ero bambino”

In realtà, a mia memoria, per i campi vicino a casa non era passata nemmeno l’ombra di uno di quei capelloni; mi serviva solo come provocazione. Attimi di silenzio poi la vecchia “cantò” alla grande inveendo in mille modi contro quei “nati d’un can, selvadeghi e sensa timor de Dio de caveoni”, rei di avere causato scandalo a causa della loro immorale promiscuità ma, elemento più rilevante ai fini dell’indagine, si accanì in modo sospettoso sulle donne che mettevano al mondo figli come se niente fosse per poi, abbandonarli al loro destino.

“Basta esagerata!”, don Guerino la zittì con fare brusco. Non era il caso di procedere con ulteriori domande, l’avrebbero certamente insospettita, lo scopo era pienamente raggiunto, le sue parole lasciavano intuire tutto, pure l’intervento di don Guerino era un po’ sospetto. I primi pezzi del puzzle cominciavano a incastrarsi alla perfezione.

Stavo per andarmene quando il vecchio piovan mi prese sottobraccio. “’ndemo a far marenda”, uscimmo dalla porta che dava direttamente sul giardino dell’asilo, mi voltai per vedere se veniva anche zia Teresina ma era già stata risucchiata in chiesa dalle altre comari a risistemare l’altare per la messa successiva. Un caffè e magari qualche biscotto mi ci voleva proprio; uno chiamato Fugassetta non poteva rinunciare a far marenda col vecchio prete. Ci sedemmo sotto la pergola di uva fragola da sempre assunta a ruolo di dependance estiva della sacrestia, don Guerino, con fare da nobiluomo inglese, aveva già avvisato la signora Mary, il cui vero nome è Aissatou, la perpetua originaria del Senegal, che si era aggiunto un gradito ospite 

Ci sono luoghi che, d’estate, grazie a una fortunata combinazione di fattori, godono di un microclima particolarmente mite e fresco. La pergola era uno di questi luoghi incantati, adagiata a ridosso del muro della chiesa e circondata da maestose magnolie, sempre stata un piccolo paradiso per chi, come me, nutre un profondo odio per il caldo. I ricordi di questo posto risalgono alla mia infanzia, quando da chierichetto vi venivo a giocare, immaginando di essere in villeggiatura. Poi, durante gli anni delle superiori, quando immancabilmente mi trovavo rimandato in qualche materia, vi trovavo rifugio per studiare. Spesso, in quei pomeriggi, si prolungavano lunghe chiacchierate con don Guerino. Qui, a dispetto di una nota canzone, un prete con cui conversare lo trovavi sempre.

Una leggera folata di vento portava il profumo di caffè, la Mary stava arrivando con il vassoio dove, oltre alle tazze fumanti si intravedeva un piatto coperto con una salvietta; sicuramente occultava una prelibatezza offerta da una pia donna per allietare la colazione del parroco. Tra le cose che abbiamo in comune io e don Guerino, oltre al fatto di non essere sposati e non aver, almeno ufficialmente, mai fatto sesso, c’è la sfrenata golosità, tanto che anni orsono in confidenza mi disse che i digiuni quaresimali per lui sono sempre stati un grossissimo sacrificio. Senza quasi dare il tempo alla Mary di appoggiare il vassoio sul tavolo, il prete tolse con una manovra fulminea la salvietta, ed ecco apparire una torta di ricotta e ciliegie finemente decorata, il suo contegno da attempato uomo di chiesa lo frenò dalla tentazione di avventarsi sopra con le mani, la Mary si allontanò ridendo e scuotendo la testa. “Spiegati meglio su questo viaggio, come vi è venuto in mente?”, la mia bocca però era impegnatissima e non si sarebbe liberata prima di cinque minuti, tanto era grande la fetta che avidamente avevo azzannato, il vecchio prete ne approfittò per fare un certo discorso.

“Vi invidio, pensa che l’America è sempre stata un grande sogno qui in paese, un posto dove fuggire dalla miseria; persino tuo padre la sognava. Ioani, parlava poco, ma questa dell’America è una delle poche cose che mi ha raccontato in una rara giornata in cui era di buon umore. Vedeva, me e tutti gli altri preti, come fumo negli occhi: gente che passava il giorno a predicare e a riempirsi la pancia, mentre loro dovevano lavorare come muli per riuscire a malapena a sopravvivere. Per lui, Dio era un’invenzione della Chiesa per tenere sottomessa la povera gente con la paura dell’inferno. Se fosse veramente esistito, si sarebbe preoccupato dei poveri contadini come lui e non avrebbe permesso che accadessero tante disgrazie, a partire dalle intemperie che vanificavano tutto il lavoro nei campi.

Che uomini erano Ioani e i suoi amici, perennemente arrabbiati con Dio, specialmente quando bevevano, usavano le bestemmie come punteggiatura; mi rendo conto che non è facile voler bene a persone così. Ora, mi raccomando, non perdere mai la pazienza con la Bepina, è comunque tua mamma, la persona che ti ha allevato, sei stato fortunato ad averne una così brava, il mondo è pieno di donne che abbandonano i loro figli”.

“Amen”, mi veniva da dire, alla fine del suo improvvisato sermone di cui ho solo reso il sunto. Quelle parole erano senza dubbio un avvertimento, nascondevano tra le righe l’invito a lasciar perdere certe strane idee che mi ero messo in testa. Il perspicace piovan, probabilmente aveva intuito tutto e mi stava mettendo in guardia dalla tentazione di rinnegare quelli che comunque si erano sobbarcati l’onere di farmi da genitori.

Mi sarebbe piaciuto rimanere per continuare, come diciamo noi, a gratarghe ea pansa al vecchio parroco ma, era ora di andare a far visita alla Bepina; se non mi avesse visto arrivare all’ora canonica avrebbe cominciato a innervosirsi e poi, il caffè era finito.

Quando la casa nova si profilò all’orizzonte, cominciai a sudare freddo al pensiero di dover affrontare l’argomento viaggio; non sapevo proprio come dirgli che andavo in America. Invece di augurarmi, come fanno tutti i cristiani, di divertirmi; mi avrebbero colpevolizzato per i soldi che scialacquavo e per lasciare solo loro due ad accudire quella che era anche mia madre; mentre io, pensavo unicamente a divertirmi. Loro due, poveri miserabili che, in vita loro, non si erano mai potuti permettere nemmeno un giorno di villeggiatura in montagna. Tutto questo, ovviamente, non sarebbe stato detto apertamente, ma attraverso le solite mezze parole. Ci pensò Billi a stemperare la tensione, non appena aprii la portiera, infilò subito il muso dentro mugolando, pronto a darmi un segno tangibile di affetto, almeno lui.

La Bepina e mia sorella stavano sotto la tenda a curare le tegoine, uno dei pochi lavori che, nonostante la malattia, mia mamma riusciva ancora a fare.

L’accoglienza non fu così festosa come quella di Billi che, per darmi il suo sostegno morale, continuava a starmi appiccicato. Dopo un formale saluto di rito a muso duro, Teresa sparì dentro casa lasciandomi solo con la Bepina. A questo punto non sapevo come fare per dirle del viaggio; ne parlai intanto con Billi. Da anni ormai gli affidavo le mie confidenze ma, per tutta risposta, si dileguò pure lui per andarsene probabilmente a scavare qualche buca, vigliacco di un cane!

Le feci vedere il libro e la fascia e, attesi con ansia di vedere l’effetto, “che sofego ancuo, portame dentro”, disse con tono insofferente, scemo io che mi illudevo di ricevere chissà quale risposta. Da quando si era aggravata i nostri dialoghi erano ridotti all’osso, il suo scarno frasario di circostanza era costituito si e no da una ventina di parole in dialetto, per cui, potevo tranquillamente mettermi il cuore in pace tanto dalla Bepina, non avrei cavato un ragno dal buco.

Dopo aver lasciato la stanza, mi affacciai in cucina per salutare l’allegra famiglia. Teresa mi passò davanti sbuffando, le braccia cariche di roba da buttare in lavatrice. Gino era impegnato a rovistare nel frigo, alla ricerca di qualcosa di indefinito, mentre mia nipote Lorena mi rivolse un mezzo saluto con la mano. “Se vedemo,” dissi a bassa voce, e senza voltarmi, mi diressi verso la macchina.

Il discorso sul viaggio era rimandato. Per l’ennesima volta, la strategia della fuga, ovvero l’evitare di affrontare i problemi, aveva preso il sopravvento. Mentre camminavo verso la macchina, un pensiero mi attraversò la mente: se ero veramente figlio di questa fantomatica Kate, allora forse non ero degno di lei.

Ormai l’indagine preliminare poteva considerarsi conclusa. Nel pomeriggio seduto in riva all’argine del canale iniziai a leggere “Sulla strada” di quel tale Jack Kerouac. Sin dalle prime pagine, non ci capii granché, era scritto in un linguaggio troppo astruso per un ignorante boarotto come me. Mi misi a saltare nervosamente da una pagina all’altra, alla ricerca di qualcosa di comprensibile, adatto alla mia bassa levatura. Le pagine mi sfuggivano, un labirinto di parole senza via d’uscita. Poi, quasi per caso, lo sguardo si fermò su una frase che mi colpì con la forza di un fulmine.

Ero un giovane scrittore e volevo andare lontano. Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla”

Le parole si incastrarono nella mia mente come un mosaico incompleto, ma perfetto. Lì, sotto il sole che accarezzava le acque tranquille del canale, capii che anche io, come Kerouac, cercavo la mia perla in un mare di incertezze e sogni.

Continua …..

< Precedente Indice Successivo>

______________________________

Fugassetta

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 7 – Fugassetta

Alle sette e venti, con notevole anticipo sulla consueta tabella di marcia giornaliera, ero già fuori di casa. Nonostante la notte insonne, non avvertivo alcuna traccia di stanchezza. Minacciava temporale: il vento forte e i nuvoloni scuri si agitavano nel cielo, in un balletto inquieto di ombre e luci. Quel tempaccio mi riempiva di gioia, non solo per il fresco che offriva una tregua dal soffocante calore, ma anche perché associavo quel cambiamento metereologico alla novità che stavo vivendo.

L’inaspettata ondata di felicità si aggiungeva ai consueti dieci minuti di ordinaria gioia che provavo recandomi dalle “bee fie” per il “solito”. Quel piccolo rituale quotidiano, oltre ai benefici psicofisici già menzionati, rappresentava un momento di tregua dalle fastidiose problematiche nei rapporti con mia sorella e mio cognato, definitivamente compromessi da quando mia madre non era più stata in grado di badare a se stessa.

Mi chiamano Fugassetta dalle elementari. I miei, allora, non mi davano mai la merendina da portare in classe, così chiedevo con insistenza ai miei compagni un pezzo di fugassetta. Persino la dolce maestra Lauretta era stufa di vedermi tallonarli gridando: “Dame un toco, dai dame un toco!”. Mi rimproverava per quel mio modo di fare, credo di essergli sembrato il figlio di due morti di fame, e forse lo ero. Per mio padre, la merendina era un lusso da ricchi, e ogni mia richiesta di avere, come gli altri, la fugassetta da portare a scuola, riceveva sempre la stessa risposta: “Non rompere i coglioni, te la comprerai quando andrai a lavorare.” Il tutto, ovviamente, seguito dal solito trattamento di arrossamento alle chiappe.

Al lavoro, non c’era molto da fare. Purtroppo, giornate così erano sempre più frequenti. In questi casi, anche per non far preoccupare il paron Franzin, e dargli l’illusione che ci fosse attività lavorativa, mi rifugiavo in laboratorio a mettere in ordine. In realtà, non c’era molto da riordinare, visto che la maggior parte delle cose erano vecchie e avrebbero dovuto essere già da tempo destinate alla discarica. Ma ero affezionato a tutto quel vecchiume: dentro quel laboratorio c’era un pezzo significativo della mia vita. Ogni oggetto aveva una storia da raccontare. Conservavo ancora i pezzi dei primi PC che vendevamo vent’anni fa, ai tempi gloriosi in cui in ditta, oltre al giovane paron Franzin, c’erano altre sei persone. Il lavoro non mancava mai, mentre ora è peagra, come si dice da queste parti; lo testimoniano i numerosi capannoni abbandonati nei paraggi.

Mi dedicai a sistemare le vecchie bolle di accompagnamento e, come iniziai, vidi scorrere i primi anni di lavoro. Scossi la testa e sorrisi ironicamente, pensando al giorno in cui fui assunto dal Franzin. Era il primo aprile 1987, avevo appena finito il militare e mi ritenevo fortunato ad aver trovato subito un lavoro attinente al mio titolo di studio. La paga, settecentocinquantamila lire, mi rese euforico: era finalmente arrivata la tanto agognata indipendenza economica. Non mi pareva vero di andare in giro con l’auto aziendale, sulla quale, da bravo sgrandesson, il capo aveva appiccicato la mega scritta “EF Office s.r.l. – Hardware & Software”. Me la tiravo alla grande, girando in lungo e in largo per il paese; la domenica, poi, ci andavo persino a messa.

Bastarono un paio d’anni perché cominciassi a sentirmi insoddisfatto. Vedevo i miei compagni di scuola trovare impieghi più appaganti e remunerativi del mio. Non era raro che qualcuno di questi stronzetti mi sfottesse, chiedendomi con falsa cortesia notizie sulla mia situazione lavorativa, per poi, senza lasciarmi finire di parlare, scaricarmi addosso quanti più dettagli possibili riguardo ai loro lauti stipendi farciti da benefit aziendali e, cosa che mi faceva più male, l’elenco delle donne che si trombavano “de fora via”. Iniziai quindi a spedire domande di lavoro a destra e a manca e a comprare ogni venerdì i quotidiani con gli annunci per la ricerca di personale qualificato. Dopo ventitré anni, nulla è cambiato: rimasi l’unico dipendente, quello che ha visto transitare due generazioni di colleghi passati a miglior vita, chiaramente lavorativa. Vedevo in continuazione gente che, negli anni, faceva un sacco di cose, un sacco di soldi, un sacco di figli mentre io, solo un sacco di sogni.

Mi caddero per l’ennesima volta le palle e iniziai a far pensieri strani sul canale di fronte. Per fortuna, squillò il cellulare, “Una notizia buona e una mezza cattiva”, disse secco il Sega.

La notizia buona anzi due, riguardavano il viaggio, grazie a una sua collega, esperta viaggiatrice, aveva trovato una buona occasione inoltre, el teron Ciro, sentite alcune sue conoscenze, lo aveva rassicurato circa la rapida emissione dei passaporti. Quella mezza cattiva consisteva nel fatto che poteva finalmente disporre di quante ferie voleva, dal primo settembre la fabbrica avrebbe chiuso definitivamente e lui, assieme agli ultimi colleghi rimasti sarebbero stati messi in mobilità.

Che strano, il suo tono di voce non era per niente preoccupato, certo prima o poi sarebbe successo, la gloriosa SICE era ormai agonizzante, gli addetti alla produzione erano in cassa integrazione dalla primavera, erano rimasti solo i manutentori e gli impiegati, Sega trovava pure la voglia di scherzarci sopra. Non riuscivo a capacitarmene, stava per perdere il lavoro e si preoccupava solo di organizzarci il viaggio.

La mattinata se ne era andata abbastanza velocemente; ormai era ora di chiudere per la pausa pranzo. Mi diressi verso il centro commerciale con il solito scopo di fare un pasto decente usufruendo al meglio del misero buono da dieci Euro passato dalla premiata ditta. All’interno trovai la solita calca, non avevo assolutamente voglia di pranzare in mezzo a tutta quella confusione per cui, entrai nel supermercato e puntai dritto al bancone della gastronomia, due tramezzini, una vaschetta di insalata di riso e una bottiglietta di the freddo servirono allo scopo. A remengo la calura, un quarto d’ora di macchina e sarei stato li, ovvero un minuscolo gruppo di alberi immersi nella placida campagna vicino all’argine di un canale, da anni ormai eletto mio luogo di meditazione.

All’ombra dei miei alberi prediletti, si viveva un’esperienza quasi fiabesca. Recentemente, un’anima benevola aveva costruito due panchine e un tavolino, trasformando quel luogo in un’oasi serena nel mezzo del soffocante caldo estivo. Nonostante la mattina avesse promesso pioggia, il calore si era ripresentato con rinnovata intensità. Il paesaggio era deserto, campi sconfinati si estendevano tutt’attorno, offrendo l’occasione perfetta per una liberatoria pisciatina. La sensazione di farlo all’aria aperta, contribuendo a innaffiare la terra assetata, mi regalava una soddisfazione immensa.

Con gesti lenti e deliberati, disposi le vettovaglie sul tavolino. Aprii la vaschetta dell’insalata di riso e iniziai a gustarla, mentre contemplavo il paesaggio rurale estivo di fronte a me. Ogni volta che mi trovavo sotto quegli alberi, osservavo il lento mutare delle stagioni, un richiamo ancestrale al legame con la terra trasmesso dai miei antenati contadini. Questo rituale mi infondeva un profondo senso di pace e serenità.

Il suono incessante delle cicale era il sottofondo di quei momenti, ma riuscivo comunque a percepire il ronzio di un motore d’aereo sopra la mia testa. Alzai lo sguardo e seguii con gli occhi la scia bianca lasciata nel cielo. Quanti anni avevo passato a osservare quelle tracce evanescenti! Un brivido mi attraversò il corpo pensando che, forse, fra un mese o poco più, sarei salito per la prima volta su uno di quegli aerei, e magari avrei sorvolato proprio questo luogo.

Ripensai a tutto il tempo trascorso con il naso all’insù, immaginando da dove venissero e dove stessero andando quei voli. Con la mano tesa verso il cielo, fingevo di catturare quegli aerei come fossero farfalle, sognando viaggi lontani e avventure ancora da vivere.

Attesi con ansia i due mul, convocati per cena. Avevo preparato delle specialità estive: fusilli con pesto, mozzarella a cubetti e pomodorini, e l’insalatona di tacchino. A seguire, il solito miscuglio di gelato, anguria e liquori ghiacciati, un autentico attentato al già nostro precario aspetto esteriore.

Il Bitol arrivò per primo, con una confezione di sei birre sotto braccio, come se fosse il biglietto d’ingresso per entrare in casa mia. Appena entrato, senza nemmeno salutare, mi rifilò un DVD, insistendo che dovevamo guardarlo immediatamente. Poi si fiondò sul pacchetto di patatine come un falco su una preda.

Dopo pochi minuti, ecco il Sega con un pacco di fogli arrotolati in mano. “’ndemo, ‘ndemo!” esclamò, usandoli come un manganello sulla mia testa. L’eccitazione era talmente contagiosa che in tre riuscimmo a creare una confusione tale da far sembrare il nostro ritrovo una rissa condominiale.

Il Bitol insisteva per vedere subito “Woodstock: Three Days of Peace and Music”, mentre il Sega voleva discutere la proposta dell’agenzia di viaggi. Io, invece, cercavo disperatamente di salvare la pasta dal trasformarsi in una pappa molliccia. Alla fine, richiamai l’assemblea all’ordine: avremmo ascoltato il Sega mentre mangiavamo poi, ci saremmo accomodati sul divano per visionare il film e dar fondo alle riserve di birra.

Sega ci illustrò l’affare del secolo: partenza da Venezia, scalo a Londra, ripartenza per New York il giorno successivo, con un pernottamento a Londra e due a New York. Il tutto per soli novecentocinquanta euro. Per il resto del viaggio ci saremmo affidati al destino, perché altrimenti che avventura sarebbe stata? Sega aveva calcolato che ci sarebbero voluti circa altri settecento euro per pasti, alloggi e spese varie; del meticoloso Sega ci si poteva fidare, quel budget era sicuramente il massimo che il mercato potesse offrire. Approvammo all’unanimità la proposta.

Il Bitol iniziò a fantasticare, immaginandoci mentre, a Londra, attraversavamo le famose strisce pedonali di Abbey Road, emulando i Beatles nel 1969. Quando saremmo stati a New York, non potevamo mancare di fare una capatina a Strawberry Fields in Central Park, il memorial di John Lennon. Il viaggio assumeva sempre più i contorni di un pellegrinaggio rock.

Il Bitol, ancora con il boccone in bocca, aveva già predisposto tutto per la visione. Non potevamo esimerci dal partecipare al cineforum, pena la radiazione dall’album degli amici. Le immagini del luogo dell’evento catturarono subito la mia attenzione: non mi aspettavo di vedere delle verdissime colline, un posto incantevole che mi fece venire voglia di essere già lì.

Mentre il Bitol sottotitolava le scene con esclamazioni come “varda quea” o “varda ‘staltra che montareo”, io mi concentravo sulle ragazze con la fascia nei capelli; erano tantissime e spesso nude intente a fare il bagno nel mitico Filippini Pond. Tra risate, birre e sonori rutti, la serata si trasformò in un’allegra baraonda, con il Bitol che continuava a fare il commentatore e il Sega che pianificava ogni dettaglio del nostro viaggio. Ero ancora più convinto che era li che bisognava andare, era li che bisognava cercare le radici del Fugasseta.

Continua …..

< Precedente Indice Successivo>

______________________________

Notte silenziosa

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 6 – Notte silenziosa

Appena sceso dall’auto, una brezza fresca e inaspettata mitigò l’afa soffocante della sera estiva. Decisi di non salire subito in casa, lasciandomi attirare dalla tranquillità che avvolgeva la campagna. Iniziai a fare due passi, immergendomi nella notte che si stava dipingendo di stelle. L’aria era intrisa del profumo dolce e terroso dei vicini campi di granturco, un aroma che mi riportava indietro nel tempo, quando da bambino mi addentravo spesso tra quelle file di piante che ai miei occhi sembravano una foresta incantata, un luogo magico dove perdersi in avventure immaginarie.

Non avevo sonno, così mi incamminai lungo il troso che costeggiava i campi. Il frinire dei grilli e il richiamo d’amore dell’assiolo erano una melodia familiare, un’eco dei miei ricordi d’infanzia. Ogni passo risvegliava immagini di giochi spensierati, di corse sfrenate tra le spighe dorate e di risate che si perdevano nel vento.

Il cielo, ormai privo delle luci del crepuscolo, si apriva in un abbraccio stellato, un’immensità silenziosa che sembrava osservare con benevolenza il mio cammino. Mi fermai un momento, lasciando che la calma della notte mi avvolgesse completamente. Sentivo il cuore battere piano, in armonia con il ritmo della natura che mi circondava.

Continuai a camminare, con passo lento e misurato, assaporando ogni istante di quella solitudine serena. Ogni respiro era un dono, un frammento di pace che mi riconnetteva con la terra e con il mio passato. E in quel momento, sotto il manto stellato e il profumo avvolgente del granturco, mi sentii finalmente felice e sereno. Pensai a com’era iniziata quella giornata; all’insegna della rabbia e dello scoramento per una vita che non sarebbe mai cambiata e di come la situazione si era velocemente ribaltata in una manciata di ore. Volsi lo sguardo al cielo per ringraziare una certa mano divina.

Grazie alla provvidenziale brezza, decisi di dormire con la finestra aperta, è un lusso che, in certe sere d’estate, chi come me abita in un condominio confinante con campi, si può tranquillamente permettere. Disteso a letto con le mani dietro la nuca osservai le stelle, sebbene filtrate dalla zanzariera si vedevano benissimo, mi chiesi se erano le stesse che si vedono in America. Ho sempre odiato la monotonia, le innumerevoli giornate che trascorrono fiaccamente tutte uguali senza che non succeda mai niente di eccitante, oggi di sorprese ne avevo avute fin troppe, l’ultima me l’avevano riservata i due mul.

Quella notte mi resi conto di avere due amici pieni di talenti e che io, finora, avevo sempre cercato a malapena e maldestramente, di imitare. Rincorrevo i loro interessi, mi ero comprato una chitarra e una tastiera senza mai imparare a suonarle, possedevo un’enorme quantità di dischi e CD che, non ricordo nemmeno di avere, acquistati solo perché era musica di tendenza o per l’accattivante copertina.

Era una notte silenziosa, e nell’ombra soffusa della mia stanza mi resi conto di un amaro risveglio. Tutta la mia esistenza, come un torrente impetuoso, si era concentrata su un’unica direzione: la spasmodica ricerca di una donna, quella donna, che incarnasse un ideale di bellezza capace di colmare il mio cuore affamato. Eppure, questo scopo, che avevo eletto a faro della mia vita, mi appariva ora in tutta la sua desolante banalità.

Rivolsi lo sguardo alla libreria che troneggiava nella stanza, un emblema visibile del mio percorso. Era un monumento al tempo perso, un cimitero di passioni mai esplorate: volumi dalle pagine immacolate, custoditi come reliquie di un’intellettualità mai sbocciata, videocassette e DVD ancora avvolti nella loro plastica protettiva, promesse di storie mai vissute. Ogni oggetto lì presente era una testimonianza muta della mia superficialità, accumulati senza criterio, senza amore, come se il mero possesso potesse sopperire all’assenza di un reale interesse.

Ogni libro non letto era una voce soffocata, ogni film non guardato una finestra chiusa su mondi di emozioni che non avevo avuto il coraggio di esplorare. Mi accorsi che avevo investito tempo e denaro in inutili feticci, sperando che essi potessero, in qualche modo, colmare quel vuoto che mi divorava dentro. Ma ora, seduto in quella stanza silenziosa, quel vuoto risuonava come un eco implacabile.

Mi sentii come un naufrago su un’isola deserta, circondato da una marea di oggetti inutili che non avrebbero mai potuto salvarmi dalla mia solitudine. Il mio cuore, un tempo così affannato nella ricerca di un sogno di bellezza, ora batteva piano, sussurrando una verità ineluttabile: avevo vissuto un grande vuoto esistenziale. E in quel silenzio, tra quelle mura cariche di promesse non mantenute, compresi che il primo passo verso la redenzione sarebbe stato riscoprire me stesso, al di là di ogni superficiale desiderio.

Mi alzai, per prendere le gocce di valeriana. Nella penombra della stanza, l’ampolla scintillava come un faro di calma. Decisi di abbondare per concedermi un’overdose di pace, sperando che il fluido ambrato mi riconducesse nei meandri di un sogno lontano.

E così fu. Nel silenzio cullante del sonno, il mio spirito si tuffò indietro, a rifare quel sogno ricorrente. Una giovane donna bionda, avvolta in un’aura di serenità, con una fascia rossa che vibrava come un segno di vita tra i suoi capelli d’oro, si materializzò davanti ai miei occhi. Entrò nella camera, lieve come una brezza estiva, dove io, bambino, dormivo insieme ai miei genitori.

Si fermò per un istante, come a ponderare il mistero della mia presenza in quel luogo di pace. Poi, con la grazia di un soffio, si avvicinò al piccolo lettino. Il suo tocco sul mio volto era la carezza dell’eternità, una promessa di dolcezza che solo i sogni più puri possono custodire.

Quella carezza sfiorava non solo la mia pelle, ma ogni fibra della mia anima, risvegliando sensazioni sopite dal tempo e dall’oblio. In quel contatto effimero, trovai un conforto senza tempo, un legame che trascendeva le dimensioni della realtà, abbracciando l’essenza stessa del mio essere.

In quel momento capii che quella persona forse era esistita veramente e si chiamava Kate.

Diedi un’occhiata alla sveglia sul comodino, erano le cinque e un quarto, uno dei giorni più lunghi della mia vita era ormai alle spalle.

Continua …..

< Precedente Indice Successivo>

______________________________

Dobbiamo andare

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 5 – Dobbiamo andare

Anche se il posto mi faceva schifo, non vedevo l’ora di andare in quella specie di officina, il luogo del nostro appuntamento. Nello zainetto avevo qualcosa di scottante, roba esplosiva: il libro di Jack Kerouac e quella fascia da hippy avrebbero, con molta probabilità, fatto saltare in aria la nostra routine. Quel giorno avevano già scombinato la mia esistenza, e ora sarebbe toccato anche agli altri due compari, di cui necessitavo tutto l’aiuto possibile.

I due chilometri di strada che separavano l’officina “Testarossa” dalla pizzeria di Ciro el teron, sembravano cento. Ero carico come un obice pronto a sparare il pezzo da novanta; aspettai solo mezzo secondo dopo che Cesco Tonon, detto l’onto, ebbe chiuso il blocchetto delle ordinazioni; feci il classico profondo respiro e, con grande enfasi calai, come un asso a scopa, il libro sul tavolo.  I due mi guardarono in modo strano, anche perché non avevo proferito verbo. Sega lo tirò a sé e iniziò a sfogliarlo, aveva lo stesso sguardo di quel canchero del professor Belloni, mentre era intento a correggermi il compito di matematica. Quel suo sorrisetto sarcastico mi stava innervosendo, sembrava volesse leggere tutto il libro seduta stante, ovviamente non aveva notato la cosa più importante. 

“Sacco a pelo e chitarra ce l’abbiamo, il problema sarebbe trovare uno di quei vecchi pulmini Volkswagen, non male come idea, ferie on the road, che figo!” disse Sega, mi prese lo sconforto.

Questa non l’avevo vista, che roba è?” Finalmente, si accorse della dedica.

Fammi vedere” Il Bitol gli strappò brutalmente il libro dalle mani. Ero pronto con il foglietto contenente la traduzione ma, il socio, con un cenno della mano, mi stoppò. 

“Però,” disse Armando con un groppo in gola, tentando di celare la commozione dietro il libro. Come cavolo faceva a conoscere l’inglese, quel saltafossi uscito a pedate nel culo dalle medie, era un mistero.

Quasi senza voce dall’emozione, raccontai nei minimi dettagli le modalità e il luogo del ritrovamento. I due ascoltavano attoniti, costringendomi a ripetere i fatti per ben tre volte; neanche fossi stato davanti ad un magistrato. Alla fine di quella specie di interrogatorio, osservando le loro espressioni, dedussi che non era più solo una mia questione: la misteriosa Kate, la hippie, era entrata prepotentemente anche nella loro vita.

L’occhialuto Sega dava l’impressione di doversi tuffare con la testa dentro il libro; stava rileggendo la frase, muovendo le labbra serrate da un lato all’altro; fa sempre così quando si trova di fronte a un problema da risolvere con rigore scientifico. “Ma… tu penseresti che…” sussurrò, quasi vergognandosi di dirlo; allargai le braccia.

“D’altronde” interruppe deciso l’altro, “quelli erano i tempi dell’amore libero. Per dirla volgarmente, tutti ciavava co’ tutte.”

Per avere un’ulteriore conferma, feci finta di non capire. Il Bitol si alzò di scatto, afferrandomi per le spalle e scuotendomi bruscamente: “Fuga, astu capio, quea no’ ea gera ‘na hippi quaeunque; ea xe to’ mare e ti; ti xe un fio dei fiori!”. Tra gli sguardi sbigottiti degli altri avventori, iniziammo a ridere senza freni.

Messa così sembrava semplice, ma la realtà era un mosaico complesso. Kate non era solo una che aveva scritto una frase in quel libro, ma una tessera cruciale della mia storia personale. Ogni frammento di informazione che emergeva rendeva il quadro più chiaro e, al contempo, più confuso. Sega continuava a riflettere, la sua espressione era un misto di concentrazione e incredulità. 

Sentivo un tumulto di emozioni dentro di me: eccitazione, curiosità, speranza. Ero determinato a scoprire la verità, per quanto potesse essere dolorosa. Sapevo che il cammino sarebbe stato lungo e difficile, ma ero pronto ad affrontarlo. Kate era il nostro enigma da risolvere. E io, insieme a Sega e al Bitol, eravamo decisi a svelarne ogni segreto.

’speta,’speta,‘speta, no’ ea xe finia”. Il viso del Bitol era rosso peperone, tutto ansimante si mise a frugare dentro il suo lercio zainetto. Sperai solo che anche lui non tirasse fuori un vecchio libro con dedica in ultima pagina; due in un giorno solo sarebbero stati troppi per il mio cuore.

Ne trasse fuori una rivista che definire spiegazzata era un eufemismo, dava l’aria di essere una di quelle che giaceva da ormai dieci anni nella sala di attesa del nostro medico di paese.

 “Che coincidenza, che segno del destino!“, esclamò con le braccia al cielo, sembrava uno di quei santoni invasati che vedi in televisione. Per un attimo pensai che, nell’orto dietro l’officina, coltivasse delle strane erbe.

Tenendola bene in evidenza, ci fece passare quella specie di rivista davanti gli occhi alla stessa maniera di un prestigiatore quando mostra una carta; vi campeggiava il titolone “Woodstock 40”.

E’ qui che dobbiamo andare” Ora sembrava zio Paperone alle prese con un’antica mappa del tesoro.

Dunque, amici, miei cari mul, ascoltatemi bene. Da ignoranti in materia non credo sappiate cosa è successo, fatalità quarant’anni tondi, tondi fa in un paesino in America, piccolo come il nostro, che si chiama Bethel” Non ci lasciò rispondere; iniziò una inaspettata quanto interessante conferenza sulla Beat Generation, in particolare su un mitico raduno de caveoni, come chiamiamo noi gli hippies, svoltosi in quel posto dal 15 al 20 agosto 1969, il tutto con precisi riferimenti a canzoni e relativi cantanti. Lo seguivamo incantati, senza accorgerci che l’Onto ci aveva portato le pizze già da dieci minuti.

“El professor”, come lo soprannominai in quel momento, doveva essersi reso conto che faticavamo a trovare un nesso logico tra la sua estemporanea lezione e “l’affaire” Kate A un certo punto, tenendo un pezzo di crosta della pizza tra le labbra come fosse un sigaro, esclamò: “ditemi pure che sono matto, ma io credo nel destino; come dice quel tale del libro, bisogna andare” Poi sbatté forte la rivista sul tavolo; lo spostamento d’aria, fece volare i tovaglioli e traboccare la birra dai bicchieri.

Andare dove?” chiesi ingenuamente. L’amico divenne nuovamente rosso. “Ma aeora ti xe proprio soco, ti ga ‘na testa che no ea magna ‘gnanca i porsei; menomal che ti ga studià più de mi”. Sega, nel frattempo, se la stava ridendo.

Spiegò che era venuto alla riunione, più convinto che mai, a proporci una di quelle cose da “almeno una volta nella vita” o meglio, quello che un rocchettaro vintage come lui avrebbe dovuto fare almeno una volta nella vita: recarsi in pellegrinaggio nel luogo dove, nell’agosto del 1969, si tenne il festival rock più famoso della storia.

Balzò in piedi di scatto, brandendo quel povero libro che, da quando era nelle sue mani, aveva subito una rapida accelerazione nel processo di invecchiamento. Con un filo di mozzarella che gli pendeva dalla bocca proclamò: “Ora avete capito cosa c’entra il destino quindi, (qui è meglio saltare la volgarissima esclamazione), a Woodstock 2009 quest’anno ci saremo anche noi, e andremo in cerca di Kate!“. Partì intonando a squarciagola un medley di evergreen dell’epoca, e pensare che non aveva ancora toccato il bicchiere di birra. A pensarci bene, era vero: quel libro, magicamente tornato alla luce poche ore prima, e la stravagante idea del Bitol erano, in qualche modo, legati tra loro, una strana coincidenza.

Non sono mai stato uno da facili illusioni; tanto che i pochi venditori porta a porta con cui ho avuto il dispiacere di interagire, finivano col filarsela in preda all’esaurimento nervoso. Eppure, stavolta sembrava che il caso fosse guidato da una misteriosa mano. Al solo pensiero, un brivido gelido mi percorse la schiena. Quel giorno, un enigma mi si era presentato all’improvviso, e proprio in quel momento, si prospettava quel viaggio che pareva l’unica via per tentare di risolverlo. Non sapevo bene il perché, ma sentivo profondamente che esisteva un legame invisibile tra la misteriosa donna che aveva lasciato intenzionalmente una traccia di sé in quel libro e quel lontano angolo d’America. Un legame che vibrava silenzioso nel mio animo.

Come se mi avesse letto nel pensiero, anche lo scettico Sega avvalorò la tesi che frullava nella mente del Bitol; se c’era un posto dove trovare tracce di Kate, era Woodstock 2009, il messaggio che aveva lasciato era chiaro, bisognava seguire la musica. 

Era una coincidenza perfetta e mi eccitai al pensiero che l’idea del Bitol, stavolta, potesse finalmente realizzarsi concretamente; per noi questo sarebbe stato “il viaggio” con la V maiuscola. Sega, nonostante la sua diffidenza e negatività insite nel DNA, con insolito entusiasmo, si fece carico dell’organizzazione. Le sue parole, “dobbiamo proprio andarci“, richiamavano, riguardo al destino, quelle scritte da Kerouac: “dobbiamo andare e non fermarci“. Il dado era tratto, e in quel momento capii che il viaggio non solo era una realtà, ma una necessità.

Il nostro pellegrinaggio non era solo un cammino fisico, ma un viaggio dell’anima, una ricerca di qualcosa che sembrava sfuggire alla comprensione. La musica era il nostro filo di Arianna, capace di guidarci attraverso il labirinto dei ricordi e delle speranze. Ogni nota, ogni accordo, sembrava chiamarci verso una destinazione incerta ma inevitabile.

Sega, con la sua solita meticolosità, cominciò già a pensare ai dettagli. C’era una luce nei suoi occhi che non avevo mai visto prima, un luccichio di speranza e avventura. Il nostro scettico compagno stava, forse per la prima volta, lasciandosi trasportare dall’onda del sogno.

Sentivo crescere dentro di me un senso di inevitabilità. Era come se tutte le strade percorse, tutti gli errori e le scelte fatte ci avessero condotto precisamente a quel punto, a quel viaggio. Non era solo una questione di ritrovare Kate, ma di ritrovare noi stessi, di scoprire cosa significasse davvero vivere il momento, abbracciare l’incertezza e la bellezza del destino.

Woodstock 2009 non era più solo una meta geografica. Era un simbolo, un faro nel buio delle nostre piatte e insignificanti vite. Seguendo la musica, avremmo forse trovato le risposte che cercavamo, o forse no. Ma in quel viaggio, sapevamo di poter ritrovare la parte più autentica di noi stessi, quella che il tempo e le circostanze avevano sepolto sotto strati di quotidianità.

Il cammino era tracciato, e con il cuore in tumulto e l’anima in festa, eravamo pronti a seguire la melodia del destino, ovunque essa ci avrebbe portato.

Uscimmo fuori in religioso silenzio. Poi, prima che salissi in auto, Sega mi si avvicinò e disse: “Dai che andiamo da Kate“. Mi mise un braccio intorno al collo, un gesto mai fatto da quando lo conoscevo. In quel momento, il mondo sembrò fermarsi, e il calore di quell’abbraccio raccontò più di mille parole.

Continua …..

< Precedente Indice Successivo>

______________________________

Il tempo delle mele

Ci fu un’epoca in cui mandare in onda “Reality” richiedeva un coraggio fuori dal comune. Potevo aspettarmi una folla tumultuosa radunarsi giù fuori dalla radio, lì a protestare con un fervore paragonabile a un vero sommovimento popolare, che urlava “Buu! Basta!” con la passione ardente di chi crede in ciò che difende. Addirittura, il mio medico, nonché assiduo ascoltatore, mi metteva scherzosamente in guardia, considerava Reality “una canzone ad alto tasso glicemico” Un’espressione scientifica, certo, per dire che era più sdolcinata di una torta al miele ricoperta di zucchero filato, immersa nel cioccolato, e con una generosa spolverata di zucchero a velo. Usando termini nostrani, era decisamente slimegosa! Ma io, da vero eroe radiofonico, non mi curavo delle critiche. Stavo vivendo il mio personale “tempo delle mele”. 

Come nel testo della canzone, fu un incontro improvviso e inaspettato. Quel giorno percepii qualcosa di speciale nell’aria; la trovai lì, ad aspettarmi, e la mia vita cambiò. Per la prima volta scoprii di essermi innamorato.

“Il tempo delle mele” non è solo un film, ma un’epoca, un frammento di vita che mi ha segnato profondamente. Era il tempo del primo amore adolescenziale, un’epoca sospesa tra sogno e realtà. Un tempo in cui il cuore batteva al ritmo delle scoperte, quando ogni sguardo e ogni sorriso sembravano eterni. Era il tempo in cui le emozioni, come onde impetuose, travolgevano l’anima, lasciando segni indelebili e insegnamenti preziosi. L’incanto dell’innamoramento mi ha guidato verso una nuova consapevolezza di me stesso e del mondo intorno. Mi ha insegnato a crescere attraverso le ferite; ma soprattutto, ad accettare come cosa naturale l’abbandono; trasformando l’addio in un nuovo inizio.

Ancor oggi, durante le mie nottate solitarie in radio, la faccio ascoltare. La dedico a quelli che, per un’infinita serie di motivi, non l’hanno vissuto, a quelli che c’è mancato un pelo o, hanno inspiegabilmente buttato al vento l’occasione per vivere quel tempo magico.

Inutile il rimpianto. Il tempo delle mele è stato un tempo ben definito; ora è passato, ma l’anima non conosce il tempo. L’anima non conosce età e non muore mai; è il terreno fertile in cui è coltivato l’amore eterno, quello che non sfiorisce mai, il ricordo perenne di un affetto puro e senza malizia. 

Sto ancora amando quella ragazza e continuerò per sempre ad amarla con quel sentimento ingenuo e sincero di cui non mi vergognerò mai. Perché, in fondo, rappresenta quell’innocenza perduta che mi ha insegnato cosa significhi veramente amare.

I sogni sono la mia realtà, un diverso tipo di realtà. Sogno di amare … anche se è solo fantasia. Da “Reality”

Met you by surprise
I didn’t realize
That my life would change for ever
Saw you standing there
I didn’t know I’d care
There was something special in the air

Dreams are my reality
The only kind of real fantasy
Illusions are a common thing
I try to live in dreams
It seems as if it’s meant to be

Dreams are my reality
A different kind of reality
I dream of loving in the night
And loving seems all right
Although it’s only fantasy

If you do exist
Honey, don’t resist
Show me your new way of loving
Tell me that it’s true
Show me what to do
I feel something special about you

Dreams are my reality
The only kind of reality
Maybe my foolishness is past
And maybe now at last
I’ll see how the real thing can be

Dreams are my reality
A wondrous world where I like to be
I dream of holding you all night
And holding you seems right
Perhaps that’s my reality

Met you by surprise
I didn’t realize
That my life would change for ever
Tell me that it’s true
Feelings that are new
I feel something special about you

Dreams are my reality
A wondrous world where I like to be
Illusions are a common thing

© 1980 Vladimir Cosma

Ascolta il podcast

Tratto da DEDICHE & RICHIESTE

© 2024 Michele Camillo

L’ultima fila

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 4 – L’ultima fila

La vecchia scuola elementare “De Amicis”, insieme alla chiesa, alla canonica, all’asilo delle suore, al municipio e alla trattoria “Alla Pergola”, costituiva l’anima pulsante del mio paese. I vecchi raccontano che, oltre a questi edifici e a qualche dimora padronale, non c’era altro: tutt’intorno si stendeva solo un’immensa e piatta distesa di campi. Questa vastità, così sconfinata, permetteva di scorgere il viale alberato che conduceva alla chiesa da chilometri di distanza, come un nastro verde che si dipanava nell’orizzonte, unendo terra e cielo in un abbraccio senza tempo.

L’edificio era imponente e austero, circondato da un grande giardino dove, con qualsiasi tempo, centinaia di chiassosi bambini scorrazzavano felici. Progettato con cura, seguendo i canoni di un’architettura d’altri tempi, offriva ampi spazi e solidità. Non fu l’esplosione di una bomba a sconquassarlo, nonostante durante le due guerre qui piovessero come grandine. Fu, piuttosto, un’esplosione demografica a metterlo alla prova, un improvviso aumento di bambini per i quali servivano altrettante aule.

Fu così che una parte terminale del corridoio venne chiusa con una porta, e dentro ci ficcarono ben ventiquattro banchi, disposti in otto file da tre ciascuna. Il primo ottobre del ’72, tutto spaesato e timoroso, indossando per la prima volta, il grembiulino nero, il colletto bianco e il fiocco azzurro, varcai la soglia di quell’aula. Dentro, un silenzio che mi metteva ancora più a disagio: sembrava che tutti fossero lì a squadrarmi. Con lo sguardo abbassato, mi fiondai sugli unici banchi liberi, quelli in ultima fila. In quegli attimi di sconforto, senza alcun compagno di banco, mi sentivo un reietto. Poi, quasi contemporaneamente, sui due banchi vuoti presero posto Armando Zago, un ragazzino cicciottello dai capelli rossi, e Adriano Boer, mingherlino e già con gli occhiali, meglio conosciuto come “el fio dea bidea”.

Il ricordo più bello di quel giorno fu la visione della maestra, la dolcissima Laura Pasquon. Entrò in classe accompagnata dal direttore, il quale ci disse che anche per lei era il primo giorno di scuola. Io, lì per lì, non capii, perché fui immediatamente folgorato dai suoi occhi azzurri e dai lunghi capelli biondi; credo non arrivasse ai vent’anni. Avrei voluto prenderla per mano e portarmela subito a casa per sostituire la vecchia Bepina come mamma. Col senno di poi, dopo tante riflessioni, devo dire che lei è stata la prima donna di cui mi sono innamorato.

Inutile dire che quei due continuano a essere ancora miei compagni di banco, anzi, di bancone del bar; dopo più di quarant’anni, sono ancora qui, sempre pronti ad aiutarmi e a suggerirmi quale tipo di birra bere.

Se nel frattempo non vi siete annoiati (e vi capisco se lo avete fatto), comincerei a parlarvi di Armando e suo fratello.

Dovete sapere che, qui in campagna, abbiamo una lunga tradizione di affibbiare soprannomi. Un’abitudine nata forse a causa dei troppi cognomi uguali. I fratelli Armando e Giorgio Zago non fanno eccezione. Il loro soprannome, “i Bitol”, viene dalla loro sfrenata passione per la musica degli anni ’60, in particolare per i Beatles. Nello slang locale, Beatles diventa Bitol, con una pronuncia tutta nostra.

Il vero problema, però, è che i nostri Bitol non si limitavano ad ascoltare la musica: la suonavano anche! Armando era alla chitarra e Giorgio al basso. Con altri tre sfigati suonatori della domenica formavano un gruppo di cui, dalla disperazione, ho rimosso il nome. Sorvoliamo sul loro curriculum artistico: le loro tournée coprivano al massimo un raggio di cinque chilometri dal paese. Hanno calcato il palco di ben sei edizioni della sagra parrocchiale e tre della concorrente Festa dell’Unità.

Nel 1978, don Guerino gli affidò l’appalto per l’animazione della messa delle dieci. La gente del posto ribattezzò subito l’evento “ea messa bit” (per chi frequenta Oxford, si traduce “la messa beat”). Purtroppo, la loro avventura durò poco: un comitato inquisitorio composto da un gruppo di vecchie vedove bigotte e generose con la questua, riuscì a farli mettere al bando.

Indimenticabili erano i loro sound-check: duravano quattro volte tanto le esibizioni. I fischi che uscivano dalle casse acustiche stordivano noi poveri amici presenti alle prove fino al giorno dopo.

Bitol riescono maldestramente a sopravvivere facendo i meccanici, gestiscono una specie di officina sperduta in mezzo al nulla, ricavata da una vecchia stalla, chiamata la “Testarossa”. Il nome ha un doppio significato: non solo richiama la leggendaria Ferrari, ma anche i loro capelli rossi fiammanti. 

Qui dalle nostre parti, terra di capannoni abusivi e coltivazioni OGM, si è arricchita, più o meno legalmente, una sfilza enorme di generazioni; gente che non temeva Dio ma, la Guardia di Finanza sicuramente sì. Per la stirpe degli Zago, soprannominati i Semensa, niente da fare. Per secoli, hanno cercato invano di uscire da una condizione di arretratezza economica e sociale senza risultati. Non vi starò a citare tutte le loro innumerevoli imprese fallimentari nel tentativo di “far schei”; per ragioni di spazio ma, soprattutto per compassione verso i loro antenati; pensate solo che, quando furono inventati gli ascensori sociali, sul loro c’era sempre un cartello con scritto “Guasto”.

La loro “azienda” rispecchiava perfettamente tutto questo, una continua lotta contro la sfortuna e la mancanza di risorse. Guardando quell’officina, appariva chiaro a chiunque che i due stentavano a campare. 

Lo spazio esterno è un mix tra l’interessante e il desolante. In bella vista c’è una Fiat 127, prima serie del ’76, verde pisello e un furgone Fiat 238 del ’74, ex “mezzo aziendale” dei Bitol, nostalgici dei bei tempi andati. Entrambi i veicoli sono diventati magazzini su ruote, pieni di vecchi pezzi d’auto ammassati alla rinfusa. Seguendo la filosofia contadina per cui “del porseo no’ se butta via niente” i Bitol conservano tutto, convinti che un giorno potrebbe servire.

Attorno ai veicoli, il caos regna sovrano: fusti, marmitte, portiere sparsi ovunque, spesso nascosti sotto un manto di erbacce che la giungla amazzonica, a confronto, ti sembra un giardino inglese. Mi vergogno a dirlo, ma finisco per gettare nella spazzatura i prodotti dell’orto che mi offrono con insistenza. Prendiamo l’acqua piovana per esempio: la raccolgono in fusti che chissà cosa contenevano prima.

Ah, e non dimentichiamoci dell’antifurto. Dopo la chiusura, attivano il sistema di sicurezza: Dik, un cane lupo con un pedigree incerto e un aspetto ancor più incerto, legato alla classica catena che scorre su un filo di ferro. Dik è un po’ come mio cognato Gino: sempre di cattivo umore, ringhia a chiunque e mangia tutto quello che trova, polpacci degli amici inclusi.

L’unico lato positivo è che l’officina funge anche da sala prove per i fantastici Bitol & soci. Situata in mezzo ai campi, le loro dolci note non disturbano nessuno. Forse solo porsei e gaine, ma a loro non importa.

Che dire poi del Sega? Lo chiamavamo così per due motivi: il suo aspetto fisico, magrolino e di bassa statura, e la sua abilità nel costruire di tutto, specialmente con il legno. A lui, come potete immaginare, quel nomignolo non è mai piaciuto. Sinistro come un gioco di parole che lo faceva sembrare uno che se lo mena tutto il giorno.

Di noi tre, è l’unico ad avere dei genitori di stampo moderno e non dei trogloditi campagnoli come quelli miei e del Bitol. Il papà Sergio faceva il custode alla SICE, una grossa fabbrica di mobili, dove ora lavora il Sega come responsabile della manutenzione macchinari. Fu lui a regalargli, quand’era piccolo, la scatola del traforo che scatenò la sua abilità. La mamma Marisa era bidella nella scuola elementare nonché ottima cuoca. Io e il Bitol continuiamo a darle scherzosamente la colpa di averci fatto crescere la pancia a forza di inviti a cena e pranzo.

Con una famiglia così, non sorprende che il Sega abbia sviluppato la sua passione e competenza nella lavorazione del legno e affini. La sua cameretta era un laboratorio in miniatura, pieno di utensili e materiali, dove passava ore a costruire modellini e oggetti vari. 

Mio padre, non aveva una grande opinione dei genitori di Sega, li definiva spregiatamente dei “basabanchi democristiani” a causa della loro assidua frequentazione della chiesa. Non c’era da stupirsi lui, in genere, non aveva una grande opinione di nessuno, me compreso.

Sior Sergio, quarant’anni fa, era uno dei pochi in paese a possedere un’auto. Grazie a lui, abbiamo cominciato a scoprire un po’ di mondo, quello che si stendeva appena oltre i confini del nostro piccolo borgo. Ci portava in giro con la sua mitica 600 azzurrina, una scintilla di libertà che illuminava le nostre domeniche, altrimenti piatte e senza colore.

Anche Sega ha, come dico io, la musica nel cuore. All’età di sette anni ricevette in regalo dai suoi genitori un mangiadischi, che ancora oggi mi confida essere uno dei più bei regali ricevuti. Immediatamente condivise quella meraviglia con noi: il miracoloso strumento che faceva uscire suoni ingoiando un piccolo disco di vinile ebbe il potere di colorare tante giornate grigie, di metterci di buon umore quando eravamo giù di corda ma, soprattutto, di farci sognare. Lo portavamo con noi dappertutto e, all’ombra del figher accanto casa mia, iniziammo ad ascoltare le prime canzoni “da grandi”, ovvero i 45 giri che Sega si faceva prestare da sua cugina Franca. Così, in quell’angolo sperduto di campagna del basso Piave, risuonavano le note dei più famosi artisti in voga al momento. Quei momenti magici erano spesso interrotti bruscamente da un imbestialito Joani Nosea che, urlandoci contro, ci cacciava via in quanto gli davamo fastidio.

Sega si appassionò a tutto ciò che riproduceva un suono e, in seguito, iniziò a costruirsi personalmente casse acustiche e amplificatori per ottenere sempre più la perfezione nell’ascolto. La sua stanza, già un laboratorio di lavorazione del legno, divenne anche un tempio della musica. Ogni volta che entravamo lì, ci sembrava di entrare in un mondo nuovo, fatto di suoni cristallini e melodie affascinanti. Sega non si accontentava mai, sempre alla ricerca del suono perfetto, sperimentando e migliorando ogni dettaglio. Unico difetto è il suo fatalismo cronico, ogni volta che incappiamo nella malasorte è sempre pronto a dire “eo savevo mi”.

Un mistero rimane ancora il motivo per cui non abbia proseguito gli studi nonostante gli ottimi risultati alle superiori e l’incoraggiamento dei genitori.

Quello che sembra accumunarci davvero è una gran voglia di emergere e di riscatto. Nonostante gli anni siano passati, noi tre continuiamo a star seduti nell’ultima fila della vita, proprio come ai tempi della scuola. Ma forse, proprio come ai tempi della scuola, è in quest’ultima fila che troviamo la nostra vera forza, la nostra amicizia e il nostro spirito indomabile. E mentre ci sediamo al bancone del bar, scherziamo e sogniamo insieme, ci rendiamo conto che, nonostante tutto, abbiamo già vinto la nostra battaglia più importante: quella di rimanere uniti, sempre pronti a sostenerci l’un l’altro, qualsiasi cosa accada e, quel 18 giugno 2009, qualcosa stava per accadere.

Continua …..

< PrecedenteIndice Successivo>

______________________________

I Mul

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 3 – I Mul

Ero un groviglio di emozioni contrastanti: eccitazione sfrenata e ansia paralizzante. D’altronde, ciò che mi era successo era talmente sconvolgente per uno come me che, fino a poche ore prima, conduceva una vita piatta come una pizza margherita senza mozzarella. E così, con il cuore che mi batteva come un tamburo in un concerto rock e le mani sudate come un gelato al sole, decisi di uscire. Dovevo adempiere all’ultimo punto della riunione, una fatica erculea – almeno per uno che fino a ieri sera si emozionava solo per un nuovo episodio della sua serie TV preferita.

Il rito del cappuccino con brioche è molto più di una semplice sosta in pasticceria. È una delle mie comfort zone. Oltre a mettermi di buon umore, questo rituale mi aiuta a compensare le frustrazioni. È una forma di autogratificazione e ricompensa che mi aiuta a gestire le emozioni negative; insomma, una vera e propria seduta di psicoterapia quasi low cost.

Dalla tensione, avevo le gambe così rigide che sembravo un ultranovantenne dimenticato in lungodegenza. Ogni passo era una sfida epica: il piede destro si muoveva a scatti, il sinistro sembrava incollato al pavimento. Ho iniziato a scendere le scale con la grazia di un elefante in un negozio di porcellane, aggrappandomi al corrimano come se fosse la mia unica speranza di salvezza. Ogni gradino era una piccola vittoria, anche se a un certo punto ho pensato seriamente di chiamare i pompieri per farmi calare con una corda. Quando finalmente sono arrivato in strada, sembrava che avessi completato una maratona – peccato che il pubblico fosse composto solo da un paio di piccioni per niente impressionati.

Le ragazze che gestiscono il locale di cui sono frequentatore abituale ormai mi conoscono bene, e io ho imparato a conoscere loro altrettanto bene. Chissà se si sono mai accorte degli innumerevoli sguardi lanciati dietro il bancone che qui in volgo chiamiamo scanociae; mi chiedo continuamente che impressione si siano fatte di me. Sono due ragazze veramente carine, dentro e fuori, e non vorrei che mi vedessero unicamente come un bavoso sfigato segaiolo che non riesce a rimediare uno straccio di donna.

Nella pasticceria che ormai chiamo “dae bee fie”, ho lasciato così tanti stipendi che potrei avere una targa commemorativa sulla parete. Ogni cappuccio & brioche era un investimento nella mia felicità – o almeno, così mi piaceva pensare mentre svuotavo il portafoglio con l’entusiasmo di un giocatore d’azzardo. Ecco perché quando parlo della mia psicoterapia come “quasi low cost” lo faccio con un sorriso sornione. Dopotutto, mi sa che un’ora di chiacchiere sul divano del terapista mi verrebbe a costare come una settimana di colazioni “dae bee fie”. Vuoi mettere la differenza? Specie se sotto il camice indossano la minigonna. D’altronde, che ci volete fare, come si dice da noi, “se no’ go el tocio, almanco che me gusto l’ocio”.

Alessia era piuttosto sorpresa nel vedermi arrivare lì alle sei del pomeriggio e, per di più, ordinare il solito: cappuccino con poca schiuma e brioche. “Allora, avete deciso dove andare in ferie?” La moretta mi fece scattare un campanello d’allarme. Accidenti, ero andato completamente nel pallone, dimenticandomi che alle 19:30 dovevo trovarmi con Armando “el Bitol” e Adriano “el Sega” per la nostra annuale riunione di programmazione delle ferie.

Tornai velocemente a casa, per fortuna avevo già pronti tutti gli incartamenti necessari, ovvero un pacco di stampate ricavate da ricerche sul Web che, ovviamente sarebbero come sempre state sprecate. Buttai l’occhio sul libro e la bandana e, presi anche quelli; a remengo le decisioni appena deliberate in riunione, l’affare era troppo grosso, era meglio vuotare il sacco e sfogarmi subito con gli altri due compari.

Erano anni che, già dopo Pasqua, noi tre Mul, così si chiamano da queste parti i single irreversibili, iniziavamo la nostra epica battaglia su dove trascorrere le mitiche ferie di agosto. Sul tavolo delle proposte c’era di tutto: il Bitol, amante delle note e delle arti, puntualmente suggeriva mete musical-culturali; il Sega, sognatore solitario, proponeva posti sperduti in capo al mondo; mentre io, il pragmatico del gruppo, cercavo di rimanere con i piedi per terra proponendo qualcosa di rilassante e, soprattutto, proficuo per la nostra condizione di scapoli incalliti, tipo un villaggio turistico pieno zeppo di “materiale” interessante.

Si discuteva, ci si accapigliava, ci si sfiniva, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso: il costo delle vacanze risultava un salasso per le nostre povere tasche. E così, ogni anno, dopo tanto sognare, ci ritrovavamo a fare i conti con la dura realtà del nostro portafoglio.

In realtà, anche se ci seccava ammetterlo, eravamo ben consapevoli che lo scopo fondamentale del viaggio non era la conoscenza, ma la ricerca. E che cosa stavamo cercando con tanta disperazione? Ma sì, proprio quella cosa lì, quella che alla fine fa girare il mondo: il sacro graal delle vacanze da sfigati.

Perciò, se volevamo portare a casa un qualche risultato decente, dovevamo fare affidamento su quello che il mercato locale poteva offrire. E non eravamo certo dei gran viaggiatori: fondamentalmente eravamo paurosi ed eternamente insicuri. Pensare di fare un viaggio più lungo di duecento chilometri ci faceva venire l’ansia come se dovessimo attraversare l’Oceano Atlantico a nuoto. Per non parlare dei miei sensi di colpa causati dalla situazione familiare, che mi facevano sentire come se stessi abbandonando una nave che affondava.

Alla fine, dopo tanto parlare e discutere, la meta era sempre la stessa: appartamento in affitto, che noi chiamavamo con un po’ di orgoglio “base operativa”, alternativamente a Lignano o Bibione. Se ancora oggi ci troviamo nella stessa condizione di Mul, è facile concludere che i quindici anni di questo collaudato cliché non hanno portato a nessun significativo risultato. In pratica, abbiamo solo contribuito alla crescita demografica delle zanzare locali, meglio note come mussati.

Eravamo talmente introversi da non avere nemmeno il coraggio di usare, quando parlavamo di ragazze, quei volgari termini canonici, ormai da secoli coniati dal maschio cacciatore. El me paron, il ragionier Emilio Franzin, mi ha insegnato un sacco di cose fondamentali per l’esistenza tra cui, come farsi fare un perfetto cappuccino con poca schiuma e a chiamare un pezzo di gnocca, montareo. Il termine montareo, plurale montarei, divenne per noi la parola in codice per definire l’oggetto del nostro desiderio, calzava a pennello in quanto era un nome maschile e nessuno avrebbe mai immaginato a cosa ci riferissimo.

Parlare di vacanze era comunque piacevole. Un saggio ha detto che la felicità non sta nel raggiungere la meta, ma nel viaggio per arrivarci. Noi, però, non facevamo nemmeno il viaggio, eppure andava bene lo stesso. La vera gioia risiedeva nei momenti di condivisione, nei racconti e nei sogni che costruivamo insieme, immaginando luoghi esotici e avventure lontane. Era la possibilità di evadere dalla quotidianità attraverso le parole, di vivere esperienze fantastiche solo con la mente. Così, anche senza partire, trovavamo un modo per essere felici.

A proposito di viaggi, ora non resta che portarvi alla scoperta del piccolissimo mondo in cui vivo e dal quale, finora, non mi sono mai allontanato più di tanto.

Continua …..

< Precedente IndiceSuccessivo>

______________________________

La riunione

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

________________

Capitolo 2 – La riunione

Mezzo secondo dopo la “e” di Kate, mi precipitai in bagno; dall’agitazione, uscii con i pantaloni ancora mezzi abbassati e senza aver tirato lo sciacquone. Irina, testimone ufficiale dell’evento, se ne stava appoggiata al mobiletto del corridoio; da persona molto saggia e perspicace, come può esserlo una con una storia complicata alle spalle, dava l’aria di aver già capito tutto.

Mamma irruppe brutalmente tutta agitata, tanto da rischiare di ribaltarsi dalla carrozzina. Sospettosa fino allo stremo, non sopportava sentir parlare le persone tra loro senza che fosse coinvolta, aveva la fissazione che tutti stessero complottando contro di lei. Irina corse con le gocce di Valeriana che poco prima aveva dato a me; mentre io, con il malloppo in mano, optai per la ritirata, salutai frettolosamente e mi diedi a una sana fuga da quella gabbia di matti che, ormai da qualche anno, era diventata ea casa nova

La prima cosa da fare era convocare subito una riunione urgente, alla quale, come è facile dedurre, ero l’unico partecipante.

E’dai primordi della mia esistenza che dimoro in una sconfinata solitudine, naturale effetto collaterale per un introverso costretto a vivere in mezzo ai campi con un padre autoritario, una madre assente e una sorella troppo grande. Era in quel contesto che, per trovare un modo di affrontare la vita e consolarmi dalle punizioni che ricevevo, iniziai a indire riunioni con me stesso. Questi incontri solitari erano il mio modo di sfuggire alla realtà opprimente e rifugiarmi in un mondo dove potevo parlare apertamente, senza paura di essere giudicato o punito. In quei momenti, discutevo con me stesso delle ingiustizie che subivo, delle emozioni che mi travolgevano, e delle strategie che avrei potuto adottare per affrontare le avversità e le decisioni che dovevo prendere.

Ancora oggi, dopo più di quaranta anni, la mia agenda continua a essere piena di riunioni che, richiedono la presenza obbligatoria di quell’unico partecipante. Molto spesso, si trattava di meeting lunghi, estenuanti e ripetitivi; in quei giorni, ad esempio, ne stavo facendo parecchi per decidermi sull’acquisto di una nuova automobile. La mia sala riunioni preferita è il bagno; seduto sul water ho preso le più importanti decisioni strategiche della mia vita. In quei giorni, il mobiletto a fianco del bidè era stracarico di preventivi, depliant e riviste specializzate per le quali, finora, avevo speso una tale cifra che avrei tranquillamente potuto, nel frattempo, comprarmi già le gomme e mezza carrozzeria.

Presi delicatamente i reperti e mi infiali nella scassatissima auto aziendale per frecciare a tutto gas in direzione della mia tana, ovvero il miniappartamento, ai margini della cittadina di provincia, dove abito ormai da sei anni.  Acquistato con i sudati risparmi più l’inevitabile mutuo, per mia sorella Teresa e mio cognato Gino era invece frutto di soldi abilmente sottratti per anni ai miei genitori, nonché una mossa strategica, pianificata a tavolino, per sottrarmi ai doveri verso mia madre; mentre loro, rimasti ad abitare al piano superiore della casa nova, si sono dovuti accollare l’onere di farle assistenza nonché, tutte le altre faccende tipiche di una abitazione rurale.

Ogni volta che percorrevo la strada dalla casa nova al mio appartamento e viceversa, sentivo un continuo affiorare di sensi di colpa che mia sorella e mio cognato mi avevano instillato. Ma questa volta era diverso. L’eccitazione era alle stelle. Sul sedile accanto a me, c’era un mistero che prometteva di cambiare per sempre, e in meglio, la mia vita. Finora l’unica cosa eccitante, appoggiata su quel sedile di cui avevo ricordo, era la Micol, impiegata tuttofare, della Emme Zeta Profilati, uno dei miei clienti storici. Le avevo dato un passaggio dal meccanico per ritirare l’auto, la minigonna di jeans che indossava quel giorno, alimentò certe mie fantasie per alcuni mesi.

Una volta in casa predisposi tutto per garantire il massimo confort e favorire la concentrazione; misi il condizionatore a manetta, accesi l’impianto stereo per diffondere dell’ottima musica New Age e il PC per iniziare le ricerche sul Web. Telefonai al Franzin, ovvero el paron, per dirgli che, a causa di problemi con mia madre e, secondo i miei sospetti, forse lo erano davvero, ci saremo rivisti l’indomani. Il mio lavoro di tecnico installatore e riparatore di registratori di cassa, fotocopiatrici, distruggi documenti, calcolatrici, scaffali e tutto quello che commerciava il Franzin, poteva aspettare.

Terminai velocemente i preparativi in quanto, a causa dell’agitazione, dovetti di nuovo correre in bagno per cui, la riunione, iniziò anche questa volta, tanto per cambiare, seduto sul water.

Sistemai il materiale sul mobiletto, gettando brutalmente a terra decine di riviste di auto, cominciai a sfogliare nervosamente il libro in cerca di altri indizi, una annotazione una sottolineatura niente, solo quella frase scritta alla fine. Notai la calligrafia, molto bella e chiara, mi feci scorrere velocemente le pagine a mo’ di ventaglio sotto il naso per sentire ancora quel tipico odore vintage.

Il Web ormai è uno strumento indispensabile per risolvere i misteri più intricati; in televisione, l’avevo visto fare un sacco di volte dai più famosi investigatori, intendo quelli delle fiction poliziesche. L’unico elemento finora disponibile era il titolo del libro, con trepidazione digitai “Jack Kerouac on the road” nella casella di ricerca e poi, click. Chiusi gli occhi in attesa dei risultati; cominciai a sudare, conscio che da quel preciso momento, cominciava un’avventura; aspettavo i risultati come se si trattasse di un esame clinico di vitale importanza.

L’attesa era insopportabile, ogni secondo sembrava dilatarsi all’infinito. Quando finalmente decisi di aprire gli occhi, lo schermo si illuminava di innumerevoli link, articoli, recensioni e discussioni su forum. “On the Road” non era solo un libro, era un fenomeno culturale che aveva ispirato generazioni di lettori, artisti e sognatori.

I primi risultati erano schede informative che riassumevano la trama: un viaggio attraverso l’America degli anni ’50, un’odissea di scoperta personale, amicizia e libertà. Più scorrevo la pagina, più sentivo crescere una strana sensazione di connessione con quel mondo, fino a quel momento per me nuovo, descritto da Kerouac; la beat generation e gli hippies 

Schizzavo nervosamente da una pagina web all’altra senza mai soffermarmi a leggerne con calma i contenuti, in mezz’ora sarò corso in bagno almeno tre volte, avevo i piedi freddi come a gennaio; continuavo inoltre, ad alzarmi dalla scrivania e andare avanti e indietro continuamente come un criceto in gabbia. Non mi ero reso conto che, nel frattempo, erano passate quasi due ore, stavo ancora in mutande, avevo inghiottito un intero pacco di frollini al cioccolato, un kilo di Giambonetti, nonché esaurite tutte le riserve di the freddo e chinotto.

Di sicuro, la misteriosa Kate aveva qualcosa a che fare con gli hippies ma, c’era una domanda, alla quale, nel Web non avrei mai trovato risposta; era questo che, in realtà, mi faceva agitare. 

Dovevo cercare di calmarmi; mi distesi a letto, feci alcuni profondi respiri, dicono sempre di fare così; per cercare di ragionare con lucidità. C’era poco da girarci attorno; quel dubbio, il dubbio dei dubbi, mi aveva assalito sin dal primo istante successivo alla lettura della frase. 

Ero suo figlio?

La mia mente era un turbine di pensieri, come un tornado che travolge tutto ciò che incontra. Quella possibilità mi scuoteva profondamente. Il dubbio si era insinuato in me come un serpente velenoso, paralizzandomi con il suo morso. Chi era davvero Kate? E come poteva essere collegata a me in modo così intimo e sconvolgente?

A dar man forte alla questione c’era la cortina fumogena che copriva i primi istanti della mia vita, a cominciare dal fatto che, a differenza della maggior parte dei miei coetanei, venuti al mondo in ospedale, io, sono nato in casa e, senza troppa gente attorno. La casa colonica di noi Furlan, detti nosea per il noceto secolare piantato dai miei avi dietro il casolare, si trovava, a quei tempi in una posizione parecchio isolata rispetto al paese. Siamo sempre stati isolati geograficamente ma, ancora di più socialmente, a causa soprattutto del carattere burbero di mio padre, pur avendo entrambi i miei genitori famiglie numerose, ricevevamo visite di rado. Tra l’altro mia sorella non era presente quando nacqui; stava trascorrendo un periodo di cura in colonia agli Alberoni, una testimone in meno. Altro tassello importante, l’età di mia madre, nel ’66 aveva quarantatré anni; a quei tempi, non era certo usuale partorire a quell’età.

Riaffiorò poi quel pensiero sopito, nascosto nei meandri più profondi della mia mente: la strana convinzione di non sentirmi veramente figlio di Ioani e Bepina e la vergogna che, da sempre, provavo nei loro confronti, considerandoli troppo vecchi.

Le parole di Kate risvegliarono in me molti ricordi, soprattutto riguardo alla misteriosa attrazione per la musica. La musica era la mia compagna di vita; mi accompagnava in ogni momento, diventando un sostegno prezioso nelle difficoltà e un conforto nei momenti di tristezza. Era il legame che mi univa a Kate.

Cercavo di immaginarla fisicamente. La raffiguravo come una giovane e bella ragazza dai lunghi capelli biondi, con una fascia rossa sulla fronte come una vera hippy. La immaginavo seduta, a gambe incrociate sul prato accanto a casa, all’ombra del Morer, in quel momento speciale dell’agosto del ’66 in cui la campagna assolata sembrava prendersi una pausa. Il vento, il canto delle cicale, il suono della chitarra e la sua dolce voce erano gli unici suoni che si percepivano quel pomeriggio. Le immagini si intrecciavano con i pensieri su Kate, rendendola sempre più viva nella mia mente; era lei la persona speciale che, da sempre, attendevo.

Le emozioni mi stavano travolgendo, forse era il momento di prendermi una pausa e uscire per raccogliere i pensieri, non prima di aver deliberato quanto segue: 

  1. Massima riservatezza a cominciare da mia sorella e mio cognato, per finire con i fedelissimi Armando e Adriano;
  2. Necessità di un accurato interrogatorio all’unico testimone vivente, ovvero zia Teresina; 
  3. Comprare l’edizione italiana del libro al fine di capirci qualcosa su ‘sta Beat Generation e gli hippies;
  4. Spararmi una dose di cappuccino con poca schiuma.

Continua …..

< PrecedenteIndiceSuccessivo>

______________________________

Vento dall’est

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

____________________

Capitolo 1 – Vento dall’est

Giovedì 18 giugno 2009

La vita appartiene a coloro che vivono, e coloro che vivono devono essere preparati per i cambiamenti. Johann Wolfgang von Goethe

Ci mancava anche quella frase di merda sul muro di quella hall di merda di quell’azienda di merda. Non mi avevano nemmeno liquidato con il classico “le faremo sapere”; macché, sono andati giù diretti, “lei non soddisfa i requisiti di selezione inerenti al profilo professionale ricercato” o qualcosa del genere, stronzi di merda, affanculo. 

Fallito l’ennesimo tentativo di cambiare lavoro, fallito di conseguenza l’ennesimo tentativo di cambiare la mia piatta e monotona vita; piatta e monotona come i campi che mi circondavano. Le mie palle stavano tracciando per terra due lunghi solchi profondi e perfettamente paralleli simili a quelli del troso che porta alla casa nova. Trentadue gradi e l’umidità che sarà stata al 99%. Porco di un mondo, eravamo appena all’inizio dell’estate e quel cancaro de sofego, oltre alla rabbia, mi stava rendendo ancora più pesante l’obbligo istituzionale di recarmi da mia madre per la consueta visita infrasettimanale. 

La foschia contribuiva a rendere tutto incolore; sfido chiunque, non sia nato da queste parti, di riuscire a distinguere una casa nova da un’altra; sono tutte uguali, spesso costruite accanto alla casa vecia, ovvero la vecchia casa colonica che, nonostante sia pericolante, continua a essere usata come deposito. Le case nove sono casette di due piani, misurano massimo quindici metri per quindici metri e soprattutto non sono quasi mai dipinte ma lasciate in grigio intonaco, un vero esempio di globalizzazione edilizia.

Ogni giovedì, la pausa pranzo era dedicata a mia madre Giuseppina, detta Bepina ea vedova. Ottantatre anni portati malissimo, ea Bepina, da circa due anni non era più autosufficiente; artrosi, diabete, depressione e demenza senile l’avevano ridotta ormai a trascorrere i suoi giorni in carrozzina e a fare discorsi incomprensibili ad alta voce. In realtà, con la testa non è mai stata del tutto in bolla ovvero, come diciamo noi, “ghe mancava un boio”; mio padre, per primo l’ha sempre considerata ‘na insemenia; tra parentesi, mi chiedo perché l’abbia sposata.

Bepina, guadagnò il titolo di Bepina ea vedova l’11 novembre 1977, quando morì mio padre Giovanni alias Ioani Nosea. Inspiegabilmente mia madre, ancora prima di rimanere vedova, vestiva sempre di nero e, sempre inspiegabilmente, ogni sacrosanto giorno andava in cimitero per cui, non dovette cambiare abitudini e nemmeno outfit.

Le abitudini, purtroppo, le dovetti cambiare io. Ogni domenica pomeriggio, per non so quanti anni, invece di fare cose più consone a un ragazzino, fui costretto a trascorrere interi pomeriggi in cimitero, a braccetto della Bepina. Passavamo in rassegna i vari pori, ovvero i parenti e conoscenti defunti. Vi risparmio l’elenco completo ma, si partiva dalla pora Olga, mia nonna morta nel 1951, per finire sempre a un certo Rino morto nel 1966.

Quel giovedì non mangiai quasi niente; fiaccato dal sofego e, in preda a quella rabbiosa depressione, mi rinchiusi in quella che era stata la mia cameretta; tutto petaisso, mi distesi nel mio ex letto. Non era servito a nulla tenere la tapparella abbassata e la finestra aperta, l’afa, come un gas tossico, sembrava penetrarmi nei polmoni fino a soffocarmi. La sgradevole sensazione era accentuata dal pensiero che, fra mezz’ora sarei dovuto salire sulla rovente auto della ditta, rigorosamente senza climatizzatore, per tornare alla triste routine lavorativa. Non mi restava altro che consolarmi proiettandomi uno dei miei film mentali. Le sceneggiature, in genere, cambiavano di poco, usai una delle più collaudate. La scena si svolgeva in un piccolo albergo di charme in riva al mare, la serata era tersa e ventilata, stavo cenando nel porticato assieme a una bellissima ragazza, arrivata il mio stesso giorno. Mi raccontò di essere lì per ritrovar pace dopo una burrascosa vicenda sentimentale. Ascoltava incantata con il viso appoggiato sui pugni chiusi i miei discorsi filosofici sull’importanza della solitudine, i suoi occhi verdi non smettevano di fissarmi. Ad un tratto prese ad accarezzarmi dolcemente il viso. All’improvviso una voce fuori campo con accento dell’est mi fece ritornare bruscamente al qui e ora.

Era Irina, la badante moldava dea Bepina; che, con il suo tono di voce talmente penetrante che la si potrebbe usare come antifurto, mi disse di aver trovato qualcosa in camera di mia madre. Mi alzai intorpidito asciugandomi con la mano il rivolo di bava che nel frattempo si era riversato sul cuscino.

Avevo autorizzato ea slava, come la chiamava mia sorella, a sistemare i cassetti del vecchio comò di mia madre; era necessario mettere un po’ di ordine ma, soprattutto, buttare via la biancheria che, ormai, vecchia di decenni, puzzava di muffa.

Per mamma Bepina, quel comò è sempre stato sacro e, fino a quando era mentalmente in salute, inavvicinabile. Come tutte le donne di campagna possedeva pochissime cose di sua esclusiva proprietà, tutto quello a lei caro si trovava all’interno di quel metro cubo scarso. Ea Bepina quando si arrabbiava gridava come una forsennata e a questo si limitava; l’unica volta che, al contrario di mio padre, alzò le mani con me, fu quando all’età di sei anni, spinto dalla curiosità, aprii il famoso comò. Quell’evento eccezionale fece in modo che ne stetti alla larga per sempre; pazienza, in fin dei conti era bello pensare che in casa ci fosse un posto così misterioso. Mamma, tipico di molti anziani dotati di badante, era convinta che Irina, ne avesse trafugato il prezioso contenuto; purtroppo, non immaginava, che ormai, qualsiasi cosa avesse avuto un minimo valore commerciale, sia che fosse stata dentro il comò o, in qualsiasi altro posto della casa, era già, da tempo, finita nelle mani di mia sorella e di mio cognato; per cui, non avevo idea di cosa ea slava, avesse potuto trovare di tanto importante; ma, ormai, aveva interrotto la proiezione del mio film sulla scena madre, tanto valeva andare a vedere.  

La vidi intenta a maneggiare un vecchio libretto da messa spiegazzato e una specie di tovagliolo rosso; la faccia era quella di una che sta cercando di capire cos’è la sorpresa trovata nell’uovo di Pasqua. Avvicinandomi, constatai che il presunto libretto da messa, recava sulla copertina la scritta, “On the road” e, il tovagliolo era in realtà una bandana rossa con dei disegni bianchi; dovetti quasi strappargli a forza i due reperti archeologici dalle mani. Quella bandana aveva un’aria familiare, avevo la netta sensazione di averla già vista in un passato remoto. 

Non so se si trattò di una semplice coincidenza, in quel preciso istante, dalla finestra, entrò un fresco venticello de borin

Vento dall’est, qualcosa di strano fra poco accadrà … troppo difficile capire cos’è, ma penso che un ospite arrivi per me …”

Quella di Mary Poppins è una delle mie storie preferite; ho sempre desiderato che, un giorno, una persona speciale, facesse improvvisamente capolino nella mia vita, cambiandone radicalmente il corso. Quel vento dall’est attivò un’emozione tanto indescrivibile quanto forte; era come se, contemporaneamente, venisse esaudito un mio desiderio e, resa giustizia, per quella che finora, era stata una piatta vita di merda senza particolari emozioni. 

Con quello stato d’animo, passai a esaminare quel vecchio libro odorante di muffa. Ero fortemente convinto che l’interno dovesse per forza celare qualcosa. Sfogliai velocemente le pagine piene di macchioline giallognole; il mio intuito non sbagliò; alla fine, dietro la copertina trovai una frase scritta a penna.

Mi presero le palpitazioni e iniziai ad agitare le gambe; a Irina, dovevo essere sembrato sul punto di fare un colpo; me ne stavo, come un ebete, con gli occhi fissi su quelle poche righe scritte in inglese, senza proferir verbo. “Dimmi cosa c’è scritto”, continuava a ripetermi mentre contemporaneamente, tentava di tenermi fermo il braccio. 

Cercavo invano di capire il significato della frase; le parole si mescolavano, riuscivo solo a mettere a fuoco il mio nome e una data, alla cui vista, quasi svenni.

Irina mi fece sdraiare di nuovo sul mio ex letto e mi diede delle gocce di Valeriana che usava anche per la Bepina, era sempre stata contraria a psicofarmaci e porcherie varie.

Irina, o meglio, Ecaterina Cazacu, classe 1936; una laurea in tasca, per quasi trent’anni è stata addetta commerciale in un’industria manufatturiera dell’ex Unione Sovietica; lo scoprii quel giorno quando, dopo un quarto d’ora, tornò con un foglietto in mano, vi era scritta la frase tradotta.

21 agosto 1966

Caro Angelo,

Camminare per l’eternità, senza fermarmi, senza una meta; camminare, per sopravvivere, per dimenticare. 

Non riesco a fare altro; camminare, cantare e suonare la chitarra.

Mi piacerebbe portarti con me, ma devo dirti addio; le nostre anime, comunque, saranno per sempre unite.

Ti lascio questo libro, spero che un giorno leggendolo troverai il coraggio di lasciare tutto e metterti in cammino, magari per cercarmi. Chissà se il destino ci farà incontrare.

Vivi in pace e non avere paura di seguire la musica, ricordati che la musica non ha mai ucciso nessuno.

Buona fortuna mio piccolo

Kate

Io, Angelo Furlan detto fugasseta, il perché ve lo spiegherò in seguito, sono nato il 10 agosto 1966.

Continua …..

Indice Successivo>

______________________________