Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti. In realtà, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti, con santa pazienza, a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate.
Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar da Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e non, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano; che, a detta di certi esperti di geopolitica, di cui il bar da Nane è strapieno, è stato portato in Italia, assieme alle zanzare tigre, da quelli che arrivano con i barconi.
Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene.
In tutto questo c’è comunque un innegabile vantaggio. Se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada debovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di uccidere tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ di soldi per il trattamento.
Se poi, Denis Sgorlon e Memo Bottacin, uniscono le loro forze per produrre un corale super rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile.
Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale:
“Ghe xé chi che va ai monti, chi che va al mare, e chi, che va; ben, ben in cueo de so mare”.
Anch’io, Paperoga e EnsoPenso, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana dove, l’orizzonte è così piatto che, se cadi, al massimo, rischi di rotolare fino al vicino di casa. Gente che la carta geografica la usava solo per accendere la stufa.
Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia. Siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas. Quando poi arriviamo; in genere in posti che non sono a più di qualche ora di macchina dalla nostra casetta; come sotto naja, contiamo i giorni che ci mancano per tornarci.
Sia ben chiaro; noi non partiamo per scoprire il mondo: noi partiamo solo per ricordarci quanto ci piace stare a casa!
L’istà da Nane, ha il suo particolare dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore.
A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso.
Consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco; vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto.
Non c’è da stupirsi quindi se, al Lele, passandogli una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa.
L’istà da Nane, è triste. Ci sono tipi come Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta (civetta n.d.r.),che passano tutto il giorno a parlarti di morti annegati, morti avvelenati, morti dal caldo, morti di malattie portate dalle zanzare e morti di figa. Governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono e palle che cadono. Prezzi degli ombrelloni che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono e terroni che salgono.
L’istà da Nane, è malinconica. Il campionato di calcio è ormai alle spalle. Ci sono tipi come Memo Bottacin ai quali, non rimane altro che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune. Posti sconti dove c’è sempre mancato un pelo per …
L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno fa sempre più caldo e ci sono sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. I parenti si eclissano, lasciando solgropon del restà, ea vecia o el vecio o, tutti e due.
Ogni giorno i restai sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato. Medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione. Medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano.
Per questo, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai.
Che dire. Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e, nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori.
Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA nera, classe 1978, assieme a lei e a una tanica deUtan, alla sera, andiamo alla ricerca dei rimasugli dell’estate italiana.
Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano. Si sente solo il canto dei grilli e nel cielo appare una miriade di stelle, fino a poco prima offuscate dalle luci della città.
Mi distendo su un pontile della cavana a godermi lo spettacolo.
La luna che si specchia sull’orizzonte della laguna sembra voler fare la civetta e strizzare l’occhio a certi che, come me, sanno ancora lasciarsi incantare. E io, da buon radiofonico nostalgico, non posso non pensare a Luna di Gianni Togni. È come se in quell’alone d’argento si nascondesse quella canzone e tutte le mie estati passate.
Estati infinite in cui ho lanciato mille palloni sulla battigia, rigorosamente “per caso”, sperando che li raccogliesse una ragazza. Magari una con un sorriso timido e uno sguardo che avrei voluto fosse eterno… o almeno durasse più di quei due secondi prima che si girasse verso il suo fidanzato muscoloso e abbronzato.
Quella miriade di ragazze che mai si ricorderanno di me, ma che io, invece, porterò per sempre nella memoria, anche se le ho viste solo per una frazione di secondo, come lampi fugaci in un pomeriggio di sole accecante. Sono rimaste lì, ferme in me, come fotografie ingiallite che la memoria, ha voluto ritoccare a mano.
E ogni volta che torna l’estate, con il vento caldo e l’aria salmastra della barena, tornano anche loro. I ricordi e le dolci speranze, fragili come schiuma che muore a riva. Torna il desiderio di rivivere ancora, solo per un attimo, quei momenti che non torneranno più.
Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano che, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Luna di Gianni Togni.
L’istà da Nane, è ascoltare SolaRadio. E’ l’unico bar sulla faccia della terra e forse anche dell’universo conosciuto, che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata.
E non perché, come asserisce qualche nostro spiritoso ascoltatore, Solaradio ha il potere di scacciare i mussati in quanto, certe canzoni che mandiamo in onda, non le sopportano neppure loro. Ma, fondamentalmente perché questo nostro scassatissimo e unico microfono che abbiamo, aiuta a combattere il vero flagello dell’estate; la solitudine.
Perché SolaRadio entra in bar da Nane con la leggerezza di quella brezza che, nelle vecchie notti di estate italiane puntualmente, dopo cena, arrivava a farti compagnia.
Perché SolaRadio, fa sentire chi resta in bar attaccato a quello scassatissimo e rumoroso ventilatore, parte di una scassatissima e rumorosa famiglia … più del ventilatore.
Parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo … come un Nane.
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Dedico questo piccolo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando, da ragazzino, mi divertivo ad ascoltare “Lettere a Luciano” su Radio Capodistria. E’ anche a lui che devo la passione di “fare radio”, quella che mi fa stare tutt’ora, seppur sotto falso nome e “part-time”, dietro un microfono.
Ciao Luciano
… Uno dei tuoi “Balubini”
Luna … ascolta il podcast
Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati!
Memo Bottacin non sopportava che, nonostante fossimo appena a fine maggio, avessi già osato mandare in onda Miele del Giardino dei Semplici, uno storico tormentone estivo fine anni Settanta. Diceva che certe stupide canzonette da spiaggia, oltre a gonfiargli smisuratamente le palle, gli facevano sentire anzitempo el sofego e lo rendevano tutto petaisso.
Io invece, quella canzonetta la amavo, perché ogni nota mi riportava a lei: Vera, il primo amore, la mia occasione perduta. Era agosto del ’77 quando la vidi per l’ultima volta. Quell’estate, Miele spopolava tra le radio; un motivetto leggero, quasi ingenuo, che si insinuò nel cuore e lì rimase, come un segnalibro lasciato su una pagina mai voltata. Una canzone che sembrava parlare di noi due, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
Ogni volta che la ascoltavo, sognavo il mare con lei; le nostre mani intrecciate tra gli ombrelloni sbiaditi dal sole, il sapore dolciastro dei ghiaccioli che si scioglievano troppo in fretta e il suono infinito delle onde.
“Ea verità xé che col sente ‘ste canson ghe vanta ‘na Gianni” sentenziò el Mauri. Non occorreva che lo dicesse il Freud del quartiere; tutti sapevano che era questo il vero motivo della sua irritazione.
Ora, è giusto anzi, doveroso, dedicare qualche riga alla spiegazione scientifica della celebre locuzione “me vanta ‘na Gianni”, entrata di prepotenza nello slang in uso nel piccolo universo che è il bar da Nane.
Questo modo di dire prende il nome da tale Gianni Scarparo, storico frequentatore del bar. Un tizio che, fin dall’adolescenza, ha sofferto di sindrome da gnocca irraggiungibile. Ovvero, quel forte disagio psichico causato dal fatto che la gnocca non ti arriva perché manco ti vede e, se per caso ti vede, preferisce prendere un’altra direzione.
In effetti lo Scarparo è perennemente depresso; ha in bocca sempre la solita frase: “ea ghe casca a tutti tranne che a mi”. Inoltre, passa gran parte del tempo al bar a fare discorsi sui tizi ai quali, apparentemente senza una logica ben precisa, quella cosa lì, è caduta alla grande. “Varda ‘sto molton che cocca che el xé ga trovà!”. Quando poi ti spiaccica sul muso le foto dei profili social di qualche suo conoscente è segno che è nel pieno di una delle sue crisi.
Una delle sue teorie più famose è quella dell’inutilità. Un esempio per tutti: è inutile frequentare posti pieni di figa come Piassa Fero solo per constatare che finisce nelle mani dei soliti quattro rotti in culo. Alla fine, questo non fa altro che farti star male facendoti tornare a casa col magon.
Ed è in onore di lui, uno dei più inguaribili malati di questa sorta di depressione sessuale che, i frequentatori del bar da Nane hanno attribuito il nome di “Gianni”.
Tornando a noi, nella fattispecie al Bottacin “ghe vantava ‘na Gianni” perché, certe canzoncine estive gli facevano sentire tutto il peso dei decenni passati a battere quasi tutti i lidi del nord Adriatico a fare i più svariati, stravaganti e inutili tentativi de ‘ndar dee bone co ‘na cocca.
A quasi settant’anni, non gli restava altro che sedersi sulla panca all’esterno del bar, fumarsi centinaia di sigarette e guardare sconsolato la gnocca che transitava per il vialone centrale dei paeassoni. Gnocca che, va detto, non entrava mai. Nemmeno per sbaglio. Anche in caso d’urgenza, preferivano farsela addosso piuttosto che varcare la soglia dell’infimo bar da Nane.
Ma, come ho già raccontato, il Bottacin non era solo il mentore del fallimento erotico. A modo suo, aveva a cuore anche la nostra salute sessuale. Lo tormentava il fatto che i vent’anni ormai non li aspettavamo più e fossimo ancora senza uno straccio di donna. Non voleva che finissimo per diventare dei sensacocca come lui che, ad ogni persona che gli chiedeva come stava, rispondeva in rima:
“Come ti vol che ea sia; el problema xe sempre queo; no’ so mai ‘nda in mona e continuo a menarme l’oseo”
Credo che la cosa preoccupasse anche sior Sergio. Erano ormai passati quasi sette anni dalla fondazione di SolaRadio e la realtà era inquietante: non c’era mai stata nemmeno una donna che si sognasse di venire a parlare al suo, unico e sgangherato microfono. Una radio completamente al maschile, un’emittente quasi monastica in cui l’unico segnale forte era la disperata, continua ricerca di quella roba lì che fa girare il mondo. E che, nel nostro caso, girava sempre altrove per, alla fine, cascare addosso a degli emeriti stronzi come Riccardo Beltrame; chiara evidenza che piove sempre sul bagnato.
Sarà stato questo che lo portò a condurre un estenuante trattativa con suo cognato Giacomo. Zio Giacomino, il prediletto del Tito, aveva deciso di pensionare la sua leggendaria Fiat 128 gialla per passare a una fiammante Ritmo. Con la scusa che sarebbe rimasta in famiglia, lo convinse a cedere ad un prezzo simbolico il cimelio al caro nipotino.
Come era già successo con la radio, anche quella macchina segnò una svolta. Una nuova era. Un altro passo avanti verso quel sogno confuso di libertà, musica, e, chissà, forse pure un po’ di figa; se non altro per l’effetto vintage della carrozzeria.
A inizio luglio del 1985 la 128 color giallo Positano stracarica come un vaporetto al ritorno dal Redentor, arrancava lungo la strada alberata che portava dritta al mare. I finestrini abbassati, l’autoradio a palla, e fuori sparata senza pietà la cassetta Philips C-90 con la raccolta di tormentoni estivi, quelli più odiati dal Bottacin.
A bordo c’erano quattro esseri umani in piena tempesta ormonale. Io, il Tito (pilota e responsabile logistico della missione), EnsoPenso (presunto stratega del butasardon), e il già citato Bibo dea Cipressina, il nostro più fedele ascoltatore, promosso sul campo a compagno di viaggio per meriti radiofonici. A terra erano rimasti Paperoga e il Mauri incaricati di custodire, con le loro cazzate radiofoniche estive, la frequenza di SolaRadio.
La scelta della località non fu casuale. Per quella ci eravamo affidati un consulente di prim’ordine in materia di figa: Tony Pavan, detto el foResto, soprannome guadagnato per l’abbronzatura perenne che sfidava ogni stagione e dermatologo. Conosceva il Paperoga per motivi mai del tutto chiariti. Un Caveon che bazzicava le radio “vere”; ma, soprattutto era presenza fissa in spiagge, discoteche e luoghi dove la patonza girava in libertà.
Aveva, ed ha tutt’ora, la fama di gran puttaniere certificato. Per certificato intendo uno che tromba sul serio e non un millantatore come, ad esempio, Denis Sgorlon.
Altra parentesi. Distinguere un puttaniere vero da uno da bar è facilissimo: se gli chiedi com’è andata con una tipa e lui ti risponde “soito” con uno scrollo di spalle e lo sguardo annoiato, allora ha fatto strike. Se invece ti dice “che ciavada”, massaggiandosi la pancia come dopo aver mangiato tre porzioni di trippa, allora puoi star certo che di quella cosa lì, non ne ha nemmeno sentito l’odore. Chiusa parentesi.
Ma il Tony non si limitò a indicarci la meta. Ci fornì pure un elenco dettagliato di discoteche che lui definiva senza alcun pudore “puttanodromi”. Lì, a detta sua, giravano a flotte certe tedesche attempate separate dal marito: signore esperte, disinibite e, soprattutto, “piene de voja”.
Aveva capito al volo che nessuno di noi aveva ancora toccato palla, chiamiamola così, nella partita della vita, e ci spiegò con tono da missionario laico che quelle donne, poco o per nulla timorate di Dio, erano perfette per l’iniziazione alla “pratica”; dovevamo solo lasciar perdere tutte le paure inculcateci dai preti nel corso degli anni e buttarci.
Dire che eravamo eccitati è poco. Era la prima volta che potevamo disporre di un appartamento tutto nostro. Anche se chiamarlo appartamento era un insulto all’edilizia civile. Si trattava, in realtà, di un monolocale borderline, con annesso bagno delle dimensioni di un confessionale, dove in teoria avrebbero dovuto soggiornare al massimo due esseri umani adulti, possibilmente di corporatura mingherlina.
Il signor Vinicio, titolare dell’agenzia immobiliare e uomo dal sopracciglio giudicante, quando io e EnsoPenso firmammo il contratto, non disse una parola. Ma ci guardò con quella classica espressione che traduceva perfettamente il pensiero:
“Se scopro che c’è anche solo mezza persona in più, vi inculo.”
Naturalmente, alla faccia del Vinicio, ci infilammo in quattro, battezzando subito quel buco come “la base operativa”, soprannome coniato dal Bibo. Lascio a voi immaginare quali erano le “operazioni” che dovevamo intraprendere. Con un po’ di strategia e dei materassini gonfiabili, riuscimmo a ricavare dei giacigli tutto sommato “dormibili”. Si faceva a turno per l’unico divano letto disponibile, mentre gli altri si alternavano tra tappeto e gonfiabili, come naufraghi che si spartiscono i rottami di una nave.
Il tocco di classe? La terrazza dava direttamente sul tetto della friggitoria sottostante, la cui canna fumaria, come un’arma puntata con sadismo, scaricava fumo denso e maleodorante dritto contro le nostre finestre. Aria fritta, letteralmente. L’unica cosa che non ci friggeva era la speranza.
A peggiorare ulteriormente la qualità atmosferica dell’alloggio c’era EnsoPenso. Ora, non so se fosse per via degli ormoni a livelli da reazione a catena; fatto sta che continuava a mollarne di più potenti del solito. Aveva iniziato già in macchina tanto che Tito andò a controllare il posto su cui era seduto per vedere se c’erano strane tracce di materiale semisolido.
In appartamento i miasmi che uscivano dal suo sfiato si mescolavano a quelli del fritoin, per cui, vi lascio immaginare. Un’esperienza olfattiva che avrebbe messo in fuga anche le più motivate delle tedescone di cui ci parlava el Tony.
Inoltre, come se non bastasse, quando all’amico di cui sopra, toccava il turno di dormire sul materassino soprannominato “Cunegonda”, si sentivano degli strani sfregamenti. El Bibo lo redarguiva: “moighea de pinciar el materassin; varda che no el xé ‘na bamboea gonfiabie. Va a finir che ti neo sbusi! ”. E difatti, nel bel mezzo di una notte … Pum! Credo che quello che svegliò gli abitanti del condominio in cui alloggiavamo e i due adiacenti non fosse stato il botto ma, piuttosto le nostre fragorose risate.
Tornando al nostro primo giorno al mare, sempre EnsoPenso, grande stratega della missione, già da tempo, aveva pianificato tutto nei minimi dettagli per sfruttare al meglio quella settimana. Una volta preso possesso del maniero, la priorità assoluta era scegliere il posto in spiaggia. Mi stavo fiondando, voucher alla mano, verso il baracchino dello stabilimento quando mi strattonò.
«Va pian, dovemo prima vedar», disse. Intendeva che non potevo farmi assegnare dall’omino del gabbiotto un posto qualsiasi. No, prima bisognava studiare il terreno e capire quale fosse davvero il migliore. E per migliore non si intendeva certo la distanza dal mare, dalle docce o dal chiosco, ma la vicinanza… con la gnocca.
Iniziò così un tour estenuante sotto il solleone, alla ricerca del posto spiaggia strategico. Passavamo a zig-zag nel nostro settore, scrutando con occhi da falco gli occupanti degli ombrelloni. Lo scoramento sopraggiunse quasi subito: solo famiglie di tedeschi, sovraccariche di pargoli urlanti e ben rifocillati.
«Ciao Tiziano! Che ci fai qui?» Il Tito restò immobile, come una caldaia in blocco: bisognava urgentemente trovare il pulsante rosso per riavviarlo.
«Mimorti!» Quasi contemporaneamente, EnsoPenso venne catturato da due squinzie con le tette al vento.
Una biondina dalla voce squillante aveva paralizzato il Tito, mentre era evidente che EnsoPenso, stava impartendo ordini all’aggeggio sotto il costume di non muoversi per non metterlo in imbarazzo.
«B-29! Come el bombardier che ga buttà l’atomica so Hiroschima! Fa presto!»
Bibo, il più sveglio di tutti, aveva, nel frattempo, preso le coordinate dell’ombrellone libero più vicino ai due target principali. Mi invitò a correre al baracchino prima che qualche signor Kurt, Franz o Otto ci fregasse il tratto.
Soddisfatti della scelta strategica, ci sedemmo a un tavolino del chiosco per la prima riunione operativa. Fummo subito addosso a Tito per chiedere dati anagrafici e biometrici della biondina e relativa compagnia al seguito.
“Ah sì, quea. Gera ‘na me compagna de classe”
Con il tempo ho imparato che, quando Tito inizia con un «Ah sì» riferendosi a una donna o, facendo finta di non ricordarsi come si chiama; in realtà, sta dissimulando un interesse spasmodico.
Era evidente che quell’incontro aveva riacceso qualcosa in lui: era inebetito, parlava in fretta e a voce troppo alta, cosa che gli capita solo quando è particolarmente agitato e felice.
Ci riferì che quella tale Anna era lì con le due sorelle e un’amica, alloggiate nell’appartamento dei genitori di quest’ultima. EnsoPenso, invece, fu prodigo di dettagli nella descrizione delle tipe: una TAC non avrebbe potuto fare meglio. Quando gli chiedemmo se ci avesse parlato, si limitò a un silenzio eloquente. Bibo, che aveva attivato le orecchie oltre che gli occhi, ci informò che parlavano francese: da quel momento vennero ufficialmente classificate come “le francesi con le tette fuori”.
Proposi subito di andare a sederci sotto l’ombrellone B-29 “Enola Gay” (nome dato all’aereo in onore della madre del pilota n.d.r.). Strizzando l’occhio a Tito, dissi che, secondo me, bisognava battere il ferro finché era caldo e avviare immediatamente le prime operazioni di abbordaggio delle sorelle più amica. Ovviamente il Tito avrebbe avuto diritto di prelazione su Anna.
Il socio diventò rosso in viso e iniziò a sudare fisso. Disse che serviva pazienza: buttarsi subito all’attacco ci avrebbe fatti sembrare dei bavosi morti di figa. Era chiaro che la sua introversione patologica lo paralizzava, era visibilmente terrorizzato all’idea di butar el sardon con Anna.
Non mi aveva mai parlato di lei, ma era evidente che ne fosse ancora innamorato cotto. E in fondo la cosa, mi consolava: anche lui, come me, aveva avuto un primo amore rimasto… sospeso.
Per evitare di creare un trauma irreparabile al nostro amico, l’assemblea deliberò di rientrare alla “base operativa”, fare un rapido giro docce, uscire per una pizza e poi discoteca.
La nottata al “Desideria” mi fruttò solo un terribile mal di testa. Di quella cosa lì non ci cascò, come da previsione, nemmeno una goccia; probabilmente, sarà stato perché il locale non figurava nella lista dei puttanodromi forniteci dal Tony.
La domenica mattina, quasi senza aver toccato il letto, mi stesi all’ombra dell’Enola Gay; era meglio pisolare in spiaggia che morire asfissiato dalle scoregge di EnsoPenso. L’amico, come d’altronde faceva in radio, non aveva nessun rispetto per quei tre che condividevano con lui quei pochi metri quadrati per dormire.
“Ciao”
Ad un certo punto sentii una voce, forse stavo sognando. Aprii lentamente l’occhio destro dato che il sinistro si rifiutava di collaborare. Pian piano vidi definirsi la sagoma di una ragazza bionda. Man mano che la palpebra si schiudeva vidi che era Anna.
Mi chiese di Tiziano. Tiziano! Mi faceva sempre strano sentir chiamare il Tito con il suo vero nome. Dal modo in cui pronunciava quel nome, e da come mi tempestava di domande particolareggiate sulla sua vita presente, passata e futura, mi ci volle poco a capire che anche la tipa, illo tempore, ea gaveva vantà ‘na incocaia par el Tito.
Quindi, da buon amico decisi di aiutarlo: iniziai a tessere lodi sperticate, ovviamente esagerando. Le parlai di Solaradio, di come senza di lui non sarebbe mai nata, e già che c’ero, gonfiai un po’ anche il mio curriculum; non si poteva mai sapere.
Lei ascoltava attenta, quasi incantata. Dopo una mezz’ora buona di agiografia Tizianesca, arrivò la doccia fredda: stava partendo per tornare a casa ed era passata per salutare il Tito o Tiziano, come lo chiamava lei. Ma quel che è peggio, mi disse che nel posto dove abitava non si prendeva Solaradio: ciò voleva dire che, come Vera, si era trasferita in un’altra città. Era come se, anche lei, fosse scivolata in quell’universo parallelo dove finiscono le persone che spariscono dalla tua vita.
“Siete davvero dei bravi ragazzi, salutami tanto Tiziano. Digli che … non importa”. Mi rifilò un tenero bacio sulla guancia. In quell’istante vidi in Anna la stessa dolcezza della mia Vera. Dall’emozione, mi ritrovai a scavare con i piedi una buca profonda nella sabbia, quasi un piccolo cratere dei sentimenti repressi.
Il povero Tito continuò per giorni a chiedermi di lei, bramoso di ogni dettaglio sul nostro colloquio. Era arrivato al punto di pretendere quasi una trascrizione parola per parola. Credo lo facesse per cercare in ogni sfumatura delle sue parole, una conferma che lei fosse ancora innamorata di lui.
Poi seguirono i rimproveri, primo fra tutti quello di non aver chiesto indirizzo e numero di telefono, almeno capire la città dove abitava. Credo l’avrebbe percorsa tutta a piedi chiedendo ai passanti se conoscessero la sua Anna. E aveva ragione, forse me l’aveva anche detto. Ma io, in quel momento, ero più vicino al coma che alla lucidità. E poi, c’era stato quel bacio che non mi aveva fatto capire più niente. Pensate che di questo, ancora oggi, non gli ho mai detto niente.
Ripensando al Tito e alla sua Anna, mi viene in mente che, anche lui, come me, per buona pace di tipi come Memo Bottacin, non appena nell’aria c’è sentore d’estate, manda in onda “Due ragazzi nel sole” dei Collage.
Era, anche questa, una di quelle canzonette che uscivano, leggere, leggere, dalle radio, da quelle musicassette cigolanti o dai juke-box arrugginiti dalla salsedine, parlavano di passioni intense, di notte e pelle, di abbracci rubati e sogni a due.
Ora, col senno di poi, mi è facile capire che il cuore gli fa ancora male per una storia non vissuta e che, canzoni come quella, non erano mai state sue. Erano esperienze mai fatte, emozioni che gli erano scivolate accanto, troppo veloci o troppo timide, e che, proprio come me, aveva lasciato andare senza nemmeno accorgersene.
Per fortuna, quel pomeriggio ci fu l’indimenticabile partita di bocce con le francesi. Ricordo come fosse ieri l’espressione di EnsoPenso; aveva lo sguardo di chi avrebbe voluto giocare con ben altre bocce. Poi seguì un bagno collettivo, momento immortalato in una foto in cui EnsoPenso sembrava pronto a saltare addosso alla più grande, quella con le tette più sviluppate, da un istante all’altro.
Il giorno dopo, non seguì invece un bel niente; anche le francesi si volatilizzarono. Serafico il Bibo con il suo sorrisetto sarcastico teorizzò che, probabilmente avevano cambiato settore in quanto si sentivano minacciate da quattro bavosi mandoloni.
I posti accanto all’ombrellone B-29 Enola Gay si riempirono di nonne con frignanti nipotini. Di certe tedesche assatanate di sesso non ce n’era nemmeno l’ombra. O il Tony aveva fatto male i conti oppure, cosa più probabile, ci aveva presi per il culo.
Il resto della settimana, per rimanere in tema teutonico, lo passammo a consolarci mangiando prelibatezze tedesche. Scoprimmo i favolosi Weißwurst bavaresi, ottimi con birra e patatine fritte. Ma, cosa ancora più degna di nota, nel panificio accanto al nostro condominio, vi era un tal assortimento di Craf che, al confronto, quelli di Ciano l’Onto, erano dolci per diabetici.
Alla fine, ce ne tornammo a casa pieni di illusioni, scottature, una manciata di speranze e … qualche chilo in più.
L’anno successivo arrivò la seconda edizione: niente Anna, niente sorelle e amica, niente francesi col seno al vento… ma almeno niente appartamento sopra la friggitoria. Questa volta avevamo un comodo due camere con soggiorno e, al piano di sopra, Marisa, la baby-sitter del figlio della coppia che gestiva l’edicola sottostante.
Marisa accettò di essere condivisa da noi quattro sfigati. Si impietosì perché capì che, alla fine, in quella settimana, dei tipi come noi, non avrebbero trovato niente di meglio e, praticamente, si trovò a far da baby-sitter ad altri quattro bambini affamati di una certa cosa.
Solo io, quell’estate, una sera, ebbi un’illusione breve ma intensa, come un lampo nel buio del mio eterno deserto affettivo. Accadde al Mr. Charlie, una discoteca praticamente sulla spiaggia (quella sì, era nella lista del Tony), con la pista che sembrava sospesa sul mare. Era tardi, l’aria fresca saliva dalle onde e la brezza salmastra sembrava darmi una tregua dal caldo e da tanti altri pensieri.
Quando partirono le prime note di “The Captain of Her Heart”, la terrazza si tinse di una bella luce blu. Quella musica, con quel ritmo lento, aveva qualcosa di ipnotico. E fu in quel momento che accadde.
Una ragazza, una biondina tedesca dagli occhi chiari e il volto sereno, si avvicinò senza dire nulla e mi porse la mano. Così, all’improvviso. Non ci fu tempo per pensare, solo per seguire il gesto e salire con lei su quella pista che guardava l’infinito.
Ballammo in silenzio, con il vento che ci accarezzava i volti e il mare sotto di noi che sembrava suonare insieme alla musica. E in quella luce sfocata, con il battito lento del brano e il profumo del mare nell’aria, fu come se stessi ballando con Vera. Non era solo una somiglianza: era un’impressione profonda, viscerale, quasi mistica. Come se il ricordo di Vera si fosse incarnato per un istante in quella sconosciuta. Per tutta la durata della canzone non parlammo. Solo i nostri corpi, leggeri e imprecisi, si muovevano seguendo la musica e qualcosa di più antico, come se quel ballo fosse scritto da tempo, da un’altra vita.
Poi, la canzone finì.
E lei, dopo aver detto qualcosa che assomigliava a un “grazie”, come una Cenerentola senza scarpetta, sparì tra la folla, inghiottita dalla notte e dalle luci della discoteca. Non ci fu nemmeno il tempo per un “ciao”, una frase, uno scambio di nulla.
Eppure, quel momento resta uno dei più belli e intensi della mia vita. Un sogno che durò una sola canzone, ma che continuo a ricordare come se fosse durata un’estate intera. Una breve apparizione che mi lasciò addosso la sensazione che, per un attimo, Vera fosse tornata davvero. Solo per me.
L’anno dopo ancora non ci fu più nulla. Tutti e quattro ci “sistemammo” e passammo allo status di “impegnato”.
Ma io al mare ho continuato ad andarci.
Con lui, ho sempre avuto un rapporto di amore-odio: odio per come l’ho conosciuto da bambino: in una colonia dove sono stato peggio dei primi anni da militare. Amore per le occasioni che mi ha offerto da ragazzo… e che, il più delle volte, ho buttato. Di nuovo odio per il caldo soffocante di questi ultimi tempi e certe vacanze dalle quali non vedevo l’ora di tornare. Di nuovo amore per i bei sogni che mi ha regalato e perché, fondamentalmente … io con il mare ci parlo e lui mi ascolta.
C’è un rituale che ripeto ogni anno: circa a metà luglio, al mattino presto, prendo la bici e percorro tutta la ciclabile sul lungomare, da casa mia fino al penultimo stabilimento balneare prima del faro. Lì c’è quel pezzo di spiaggia che quarant’anni fa ci vide ragazzi spensierati. Poi mi fermo al nostro chiosco, divenuto nel frattempo carissimo, per una colazione. Mi siedo a guardare il mare. È una sorta di pellegrinaggio laico, un modo per toccare con mano chi ero e chi siamo stati.
Quest’anno mi sono pensato di invitare il compare EnsoPenso, sperando che tirasse fuori un pensiero profondo, qualcosa di degno per commemorare i quarant’anni della nostra prima vacanza insieme.
“Ma a ti, co ti vedi tutte ‘ste fie coi costumi sgambai e col cuèo fora, no te vanta ‘na Gianni?”
Ecco la sua riflessione esistenziale. Pensare che si è fatto più di cento chilometri per dirmi questo.
Poi, ha iniziato a parlarmi di Tony Pavan.
Secondo lui, è solo grazie a qualche raccomandazione ecclesiastica che Tony si era sistemato in una nota compagnia di assicurazioni, con super stipendio e mega benefit.
Che gran rotto in culo. Bastava guardare le sue foto su Facebook: aveva trovato una compagna molto più giovane di lui, architetto di grido e gran bellezza ma, era più che certo che continuava a divertirsi “fuori casa”. Nonostante i sessantatré anni, era sempre in giro per discoteche, serate con DJ “veri”, radio “vere” e posti esotici. Sempre super abbronzato, camicetta bianca ben stirata, collana, braccialetti alla moda e circondato da una nuvola di gnocca.
Insomma, vedere quelle immagini aveva fatto venire al compare una “Gianni” colossale.
Secondo lui, i preti ci avevano fregato, imponendoci una vita grama e senza divertimenti. Dovevamo imparare a vivere dal Tony, diceva. E giù con quelle mezze parole che, tra le righe, celano il rimpianto di non aver mai trovato la sua donna ideale. Ormai la conosco a memoria, potrei disegnarla: bionda con i capelli ricci, gambe lunghe, tette piccole ma sode, brillante, non obbligatoriamente laureata ma obbligatoriamente patentata e automunita. Praticamente il ritratto di una di quelle francesi con le tette fuori. Una donna che, quando la porti in giro, faccia venire “una Gianni” agli altri.
“Xe stai anni de libertà, che bei…”
Lo disse con lo sguardo malinconico rivolto al mare, come se parlasse direttamente alle onde. Capì subito che stava pensando a quel periodo prima che si “impegnasse”.
Se ne stette per un po’ in silenzio, non mi restava altro che capirlo e osservarlo.
Sulla spiaggia, i giovani ridevano, si rincorrevano, si sfioravano con quella disinvoltura che appartiene solo a chi non sa ancora cosa si può perdere. Ragazze e ragazzi che si corteggiavano, si guardavano negli occhi con la fame e la fiducia di chi ha tutto il tempo del mondo. E lui li osservava da lontano, come dietro un vetro che non si poteva rompere. Non era invidia. Era qualcosa di più sottile: rimpianto.
Il rimpianto per un tempo che c’era stato, ma che, forse, non aveva saputo vivere davvero. Un periodo troppo breve, e troppo esitante, in cui le possibilità erano ovunque ma sfumavano prima ancora di diventare scelte. Una libertà che aveva, sì, ma che non sapeva di avere. O, forse, aveva paura di usarla.
Poi, prese a parlarmi della chiesa e dei preti, non era la prima volta che mi faceva certi discorsi. Secondo lui, ci avevano riempito la testa di regole, di timori, di sensi di colpa. Ci avevano detto di aspettare, di comportarci bene, di non bruciare le tappe, e così, mentre aspettavamo, il tempo è passato. Alla fine, certe occasioni non tornano e se le beccano gli altri, meno inquadrati in certi schemi.
“Ti sa cossa che ea xé ea me vita? ‘Na gran finta!”
Riprese a starsene in silenzio a guardare il mare e la compagnia di giovani ragazzi.
E adesso, ad entrambi, con il mare davanti, e il vento addosso, e le voci allegre dei nuovi vent’anni che esplodono tutt’intorno, una malinconia ci si aggrappa addosso piano, come un lenzuolo sottile. È una malinconia strana, quasi dolce. Non è solo bellezza, è qualcos’altro; una specie di richiamo muto, come se l’acqua conservasse il ricordo di quello che poteva essere e non è stato.
Ognuno di noi ha ancora nel cuore una ragazza che ama ricordare mandando in onda su Solaradio, con nostalgia e occhi lucidi, qualche vecchia canzonetta da spiaggia, come fosse una favola che avrebbe voluto vedersi realizzata.
Tito non ha mai dimenticato Anna. Bibo pensa sempre a Vania, EnsoPenso; boh non saprei. Ma credo abbia centinaia di primi amori; o meglio, centinaia di tette culi e gambe che avrebbe voluto afferrare.
Ed io, spero che proprio qui, su questa spiaggia, davanti a questo mare che trabocca di ricordi e che meglio di chiunque altro sa custodirli, un giorno il destino mi riporti a incontrare Vera. Quel primo amore intenso, acerbo e purissimo, mai davvero vissuto, e proprio per questo rimasto perfetto. Un amore così profondamente sentito da rimanermi addosso come un tatuaggio invisibile.
Non mi vergogno di pensarci ancora, perché oggi il suo ricordo è persino più vivo di allora, pulsante e intenso. Perché quello che non è mai successo rimane puro, incontaminato, come se il tempo stesso avesse avuto paura di rovinarlo. Perché ciò che non accade mai non si consuma: resta inviolato, quasi sacro.
Ho sempre avuto la sensazione che, anche senza un bacio, anche senza una parola d’amore pronunciata davvero; dentro di noi, ci siano frammenti d’anima condivisi, incastrati, stretti come radici e mai più sciolti.
Nonostante gli anni, le storie vissute e quelle mancate, continuo a chiedermi se anche lei non abbia fatto lo stesso e, qualche volta, davanti a un altro mare, in un’altra città, in un altro tempo, sotto un altro cielo non stia rivolgendo lo sguardo altrove per pensare a me.
Anche se non so se la vita mi darà questa occasione, resto qui, davanti a questo mare, fedele a un ricordo che non vuole morire.
Il mare mi sussurra che è amore vero, proprio perché non è mai diventato altro.
Tornami a mente il dì che la battaglia D’amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
Giacomo Leopardi
La stagione dell’amore … ascolta il podcast
Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati!
Da sempre ho un certo feeling con gli ultimi posti. Fin da piccolo, quando mia zia preparava pane, burro e zucchero per tutta la masnada dei cugini, io ero immancabilmente l’ultimo della fila e spesso rimanevo a bocca asciutta, un vero e proprio trauma infantile. Una costante nella mia vita.
In chiesa, quando da ragazzo ci andavo, mi sedevo sempre all’estremo dell’ultima panca in una delle file laterali.
Sceglievo quel posto, non perché mi sentissi un peccatore come il pubblicano della parabola, non avevo ancora quel tipo di consapevolezza spirituale, ma piuttosto per tenere le distanze da un certo mondo che, francamente, non mi piaceva.
Dopo la Cresima, mentre la maggior parte dei miei coetanei evaporava come neve al sole, io invece continuai a frequentare la parrocchia. Non per slancio mistico, ma per una più umana, e disperata, necessità: trovare un luogo dove sentirmi visto, considerato, magari perfino valorizzato. In famiglia non venivo considerato, fuori venivo bullizzato. Speravo, ingenuamente, che lì dentro, almeno lì, avrei trovato amici veri.
E invece no. Peggio che “fuori”, come i preti chiamavano con disprezzo tutto ciò che non ruotava attorno alla parrocchia. Sembrava un’azienda: se rientravi nelle grazie del parroco, magari perché eri figlio di o eri una bella gnocca di ragazza, valevi qualcosa. Altrimenti, specie se eri uno pieno di dubbi che faceva domande imbarazzanti, ti consideravano una presenza scomoda, una sorta di pezza da piedi liturgica.
Eppure, nonostante questo, continuavo ad andare a messa. Non tanto per fede, quanto per puro e semplice terrore. Mia nonna paterna e i catechisti mi avevano instillato una paura viscerale dell’inferno: un girone eterno di fuoco e rimorsi riservato a chi sgarrava anche solo un po’. Così, per non sapere né leggere né scrivere, e per evitare eventuali eterni barbecue, pensavo che fosse meglio adempiere malvolentieri a certi obblighi al fine di evitare che finisse a schifio.
In pratica, la messa e i suoi annessi e connessi, era la mia polizza assicurativa ultraterrena. Non sapevo bene cosa coprisse, ma non volevo correre rischi.
Ero convinto che la pensasse allo stesso modo anche quella ragazzina che, come me, si sedeva sempre nei banchi in fondo. Aveva un’aria un po’ dimessa, appartata, e proprio quel suo modo discreto di esistere mi attirava. Non la conoscevo, la vedevo solo da poche settimane, o forse, c’era sempre stata, ma io non l’avevo mai davvero notata.
Una cosa era certa: era timida quanto me. Quando arrivava il momento del segno della pace, ci sfioravamo appena la mano, come se avessimo paura di disturbare. Eppure, in uno di quegli istanti sfuggenti, riuscii a incrociare i suoi occhi. Verdi. Bellissimi.
Notai che arrivava in chiesa con un certo anticipo. Così iniziai anch’io ad arrivare un po’ prima della messa, con la speranza, nemmeno tanto sottile, di avere qualche minuto in più per osservarla. Lei restava assorta, forse pregava. Iniziai a pregare anch’io… che capitasse finalmente un’occasione per parlarle. E il miracolo arrivò.
Una domenica dimenticò il pullover sul banco. Avrei potuto correrle dietro e restituirglielo, ma preferii adottare una strategia più raffinata: usarlo come pretesto per saperne di più.
Mi fiondai da suor Teresa, madre superiora e archivio vivente della parrocchia. Un’impicciona di alto livello, aggiornata in tempo reale su chi entrava, usciva e pure su chi avrebbe dovuto entrare ma poi aveva cambiato idea.
Dopo un quarto d’ora, uscii dalla sagrestia con un dossier completo di profilo psicologico, più dettagliato di un rapporto dei servizi segreti. Si chiamava Carolina S., figlia di Giovanni S., il nuovo custode dell’impianto di depurazione. Ultima di quattro figli, gli altri tre maschi.
Ma suor Teresa mi mise anche in guardia: “È una tipa strana,” disse. Gemma, figlia di siora Tersilla gli aveva riferito che a scuola Carolina si sedeva sempre all’ultimo banco, non parlava con nessuno e prendeva voti piuttosto bassi.
A me, però, quel profilo da creatura silenziosa e incompresa non faceva paura. Anzi, mi sembrava familiare. Forse perché, sotto sotto, io ero esattamente come lei.
Prima di congedarmi, suor Teresa mi posò una mano sulla spalla e mi disse, con un sorriso che sapeva di complicità: “Vedi un po’ di tirarla in qua, quella ragazza.” Fu come se per un attimo il mondo mi riconoscesse. Mi sentii felice, davvero felice, era una delle rare volte in cui qualcuno mi mostrava fiducia, come se potessi davvero fare qualcosa di bello. Come se valessi.
Tra le tante informazioni che mi aveva passato, ce n’era una che mi colpì più delle altre: quella “strana” ragazza aveva l’altrettanto strana abitudine di salire sulla sommità della “collinetta”, un’anonima montagnola di terra di riporto, avanzata dagli scavi per il canale del depuratore, e starsene lì, ad ascoltare la radio a tutto volume.
Io lo sapevo cosa voleva dire essere considerato “strano”. Lo ero anch’io, e sapevo che noi strani abbiamo i nostri piccoli riti, i nostri luoghi sacri, le nostre abitudini silenziose. Se Carolina, sì, ormai sapevo il suo nome, era davvero come me, allora l’avrei trovata lassù.
Dopo pranzo presi il pullover, montai in sella alla bici e iniziai a pedalare verso la zona del canale scolmatore. Più mi avvicinavo, più il cuore accelerava, come se volesse anticipare l’incontro.
E poi successe. Prima, lontano, un suono: una musica che si perdeva nell’aria, portata dal vento. Un buon segno. Un presagio. E subito dopo, eccola.
Era lì, in cima a quella collina di niente, con lo sguardo perso verso l’orizzonte, come se cercasse qualcosa che non sapeva nemmeno lei. Il vento le agitava la coda di cavallo, e ogni tanto una ciocca le attraversava il viso. Vederla fu come ricevere un’impronta indelebile: qualcosa mi colpì dritto al cuore e si incise nell’anima, senza chiedere il permesso.
In quel momento, prima ancora di dirle una parola, capii che non era solo curiosità quella che mi spingeva verso di lei. Era qualcosa di più profondo. Forse tenerezza. Forse qualcosa che assomigliava già a una forma primitiva d’amore.
Stranamente non era sorpresa nel vedermi, sembrava mi stesse aspettando ed ebbi l’impressione che quel pullover se lo fosse dimenticato apposta.
“Te lo sei dimenticato”; dissi quasi balbettando.
“Grazie”; rispose con un filo di voce.
Menomale che c’era la radio accesa perché non sapevo proprio come proseguire la conversazione; quell’imbarazzante silenzio tra noi due mi parve eterno.
“Ma tu, come facevi a sapere che ero qui?”
“E adesso che gli dico?”, pensai. Mi prese una sorta di panico. Non potevo di certo raccontargli della mia piccola indagine su di lei.
“Cosa stai ascoltando?” Nella vita, sono da sempre stato un esperto nello sviare discorsi e domande imbarazzanti.
“Il rumore del treno; quello va verso il mare, vero?” Indicò con lo sguardo malinconico il treno che stava sfrecciando li vicino.
Certo che era veramente strana. Vabbè, visto che voleva parlare di treni e di mare la accontentai. Gli raccontai della miriade di parenti che avevo nella direzione nella quale andava il treno. L’avevo preso tante di quelle volte che conoscevo tutte le fermate a memoria. Le spiegai che non portava direttamente al mare ma che bisognava scendere a una particolare stazione e poi proseguire in autobus. L’avrei fatto da li a qualche settimana. Finita la scuola sarei andato a passare l’estate al mare da zio Bruno e zia Stella.
“Mi piacerebbe venire con te”
Era lì, con il viso rivolto al cielo, come se la sua frase fosse una verità già detta al vento.
Il tempo, lassù su quella montagnola di terra, si fermò di colpo. Il treno ormai era lontano, un rumore sempre più fioco fino al silenzio. E proprio in quell’istante, come orchestrato da un regista invisibile, dalla radiolina di Carolina partì Run to Me dei Bee Gees. Sembrava che lo speaker ci stesse leggendo dentro.
Le sue parole mi colpirono al petto con la forza quieta delle cose semplici e vere.
Non sapevo cosa dire. Ero turbato, spiazzato, felice e impacciato tutto insieme. Mi girai appena verso di lei, senza osare troppo.
Ancora una volta cambiai discorso. Gli parlai del mio sogno di mettere in piedi una piccola radio libera, come quella che stava ascoltando. Andai avanti non so quanto con il mio monologo.
“Ci vediamo; ciao” Ad un certo punto prese radio e pullover e, senza nemmeno guardarmi in faccia sparì.
Rimasi come un ebete per più di un’ora sopra la montagnola. Sapevo di aver fatto qualcosa di sbagliato ma, non riuscivo a capire cosa.
Per tutta la notte mi rigirai nel letto senza riuscire a dormire. Era quasi l’alba quando pronunciai ad alta voce “andiamo!”. I miei si spaventarono a causa di quella specie di urlo che avevo cacciato.
La giornata a scuola non passava mai. Quando suonò la campanella dell’ultima ora ero già praticamente in sella alla bici. A casa mangiai in fretta e furia, avevo la sensazione che dovevo fare presto.
Il mio piano era perfetto. Domenica l’avrei fatta salire con me su quel treno che porta al mare e saremo andati a trovare i miei zii. Zia Stella e zio Bruno, due cuori semplici, caldi, pronti ad accoglierla come una di famiglia.
Avevo studiato tutto nei minimi particolari; bisognava saltare messa ma, chi se ne fregava; il buon Dio, se esisteva, mi avrebbe perdonato; in fin dei conti era per un buon fine e, cosa da non poco, avevo l’approvazione di una religiosa.
Pedalavo più forte che potevo. Ma poi il passaggio a livello… La sbarra era giù. Una fila di auto immobili, facce imprecanti e clacson impazienti. Il treno era lì, fermo, la gente si sporgeva dai finestrini cercando aria e novità.
Imboccai la stradina sterrata che correva lungo la ferrovia, quella che portava su, alla montagnola. Quando alzai gli occhi, vidi in lontananza qualcosa che mi fece gelare il sangue: lampeggianti blu, un camion dei pompieri, un’ambulanza, volanti della polizia. Una piccola folla si era già formata, come accade sempre quando la tragedia diventa spettacolo.
Il cuore mi cadde. Non volli avvicinarmi. Non volli sapere. Preferii salire sulla montagnola con le gambe tremanti.
E lì, in mezzo al silenzio tagliente, trovai la sua piccola radio. Ancora accesa.
Dall’altoparlante usciva solo il fruscio che si sente quando non c’è nessun segnale radio. Mi avvicinai.
Con mani tremanti, abbassai il volume. Poi chiusi lentamente l’antenna, come si chiude la palpebra di qualcuno che dorme per sempre. Ogni gesto era una carezza, un addio. Era come se, nel sistemare quella radio, stessi ricomponendo il suo corpo che, lo sapevo, era lì poco distante, nascosto sotto un lenzuolo bianco.
Me la misi sottobraccio. Poi, senza sapere dove andare, iniziai a pedalare. Forte. Fortissimo. Singhiozzando. Con il cuore in gola e le lacrime che mi annebbiavano la strada.
Volevo prendere insieme a lei quel treno per il mare.
Ma, ero arrivato tardi, troppo tardi, e lei, si era fatta prendere dal treno per il mare che, l’ha portata via per sempre.
Il giorno del funerale non c’era molta gente in chiesa. A dire il vero, la maggior parte dei presenti non erano neppure parrocchiani. Sembravano più che altro curiosi, di quelli attratti non dal dolore, ma dal dramma. Il suicidio, si sa, attira sempre un certo tipo di attenzione storta, morbosa. I “veri” frequentatori della parrocchia forse si vergognavano di partecipare al funerale di una sfigata, come qualche mio “fratello” o “sorella” l’aveva definita. D’altronde Carolina non conosceva quasi nessuno. E quasi nessuno la conosceva. Tranne me.
Il suo posto, all’ultimo banco della fila laterale, era vuoto. Mi sedetti lì, come fosse l’unico gesto sensato da fare. Una piccola fedeltà. Poi, a un certo punto, sentii un abbraccio stringermi forte. Era suor Teresa.
Mio padre mi aveva sempre ripetuto che un uomo vero non deve piangere. Ma in quell’istante, con quell’abbraccio improvviso e materno, crollai. Le parole uscirono rotte, quasi senza voce:
“Non ho fatto in tempo…”
Suor Teresa si sedette accanto a me, mi prese la mano con dolcezza. “Coraggio,” sussurrò. “Ora lei è dappertutto. Non cercarla al cimitero. Troverai Carolina in tutti i luoghi in cui sceglierai di ricordarla. Il tuo amore per lei è vivo, e lo sarà per sempre. E sai una cosa? Puoi ancora far qualcosa per lei. Puoi costruire qualcosa in suo nome.”
È inutile dire che quello che è successo a Carolina ha segnato la mia vita. Ha scardinato tutte le poche certezze che avevo. Ha mandato in crisi la mia fede, o almeno quella che credevo fosse fede. Mi ha lasciato addosso la sua fragilità. Ma col tempo ho imparato che anche la fragilità può essere un dono: ti costringe a guardare più a fondo, con più umanità, con più verità.
Mi ha trasmesso la paura di lasciare. Lasciare qualcuno che forse non ho mai amato veramente, per paura che possa fare lo stesso suo gesto estremo. È una paura ingombrante. Ma è reale. E, purtroppo, non è mai passata.
Eppure, non mi ha lasciato solo con la paura. Mi ha lasciato anche una missione. Una possibilità. Suor Teresa mi aveva detto: “Puoi costruire qualcosa in suo nome.” E io l’ho presa in parola.
Anzi, ho fatto di più. Ho costruito qualcosa che porta il suo nome.
Non ho mai dimenticato quel breve momento in cima alla montagnola di terra, quel frammento di eternità che ci è stato concesso.
In uno dei tanti pomeriggi silenziosi che passavo lassù, seduto accanto alla radiolina che era stata sua, girando le manopole per sentirla ancora un po’ vicina, inciampai in una trasmissione curiosa. Un tizio stava raccontando la storia di una fantomatica Radio Caroline.
Quel nome mi colpì al petto come un sussurro. Ascoltai.
La voce narrava di una radio pirata che, negli anni Sessanta, trasmetteva da una nave ancorata in acque internazionali, al largo delle coste inglesi. Quel racconto mi affascinò, aveva un’aura romantica. Che figata quella radio pirata, mandava in onda la musica che le emittenti ufficiali censuravano, abbattendo muri, ignorando confini, accendendo sogni. Aveva dato voce a chi non ne aveva, aveva fatto volare in alto i Beatles, i Rolling Stones e tanti altri.
Mi vennero i brividi. Era come se quel racconto parlasse direttamente a me. A noi.
Fu in quel momento che capii una cosa semplice e immensa: su quella collina di terra apparentemente inutile erano nate due forme d’amore indistruttibili. Una per Carolina. E una per la radio.
E così, con il tempo, nonostante le paure, nonostante le ferite, nonostante il non credere più in molte cose che prima mi sembravano certezze, ho realizzato un sogno. Un sogno che ha il suono della sua voce, l’eco delle sue mani timide, il profumo del vento tra i suoi capelli.
Ho realizzato il mio grande sogno di “fare radio”. Ho creato una piccola emittente. Una radio semplice, senza pretese. Ma vera.
L’ho chiamata Radio Carolina.
If ever you got rain in your heart, Someone has hurt you, and torn you apart, Run to me whenever you’re lonely Run to me if you need a shoulder Now and then, you need someone older, So darling, you run to me.
And when you’re out in the cold, No one beside you, and no one to hold
And when you’re out in the cold, No one beside you, and no one to hold
“Condannato per omicidio con l’aggravante dei futili motivi”; probabilmente, se non mi fossi trattenuto, sarebbe quello che avreste letto sui giornali, ma, vi assicuro che, la voglia di scaraventare fuori dal treno, non appena fossimo entrati nella galleria degli Appennini, quella tipa che mi sedeva davanti, colpevole solo di avere addosso lo stesso profumo di Maria Vittoria Benzoni Savelli; era tanta.
Prima ora del primo giorno di liceo; una folata di quel maledetto profumo riempì l’aula precedendo l’esordio in scena della nostra professoressa di lettere; tubino verde, scarpe bianco lucido con tacco dodici e, un fastidioso tintinnio provocato dalla ricca dotazione di gioielli. Alla bionda sembrava che gli occhi dovessero uscire, da un momento all’altro, dalle orbite; assomigliava, in tutto per tutto, a un personaggio politico in voga oggi.
Non ricordo bene la formula matematica ma, il rapporto figa / stronza attribuito dalla commissione di maschietti che, da lì a poco, si sarebbe insediata; era bassissimo, intorno allo zero virgola qualcosa.
Non mi serviva la sfera di cristallo, tanto immaginavo dove sarebbe andata a parare; dopo una rapida ma estremamente accurata, scansione di tutti i venticinque elementi della classe iniziò con l’appello-interrogatorio, gli interessavano sostanzialmente tre dati; cognome, nome e classe sociale. Si capiva che, avrebbe voluto andare direttamente al sodo chiedendo subito, ad ognuno di noi, informazioni sul lavoro del padre ma, alla codarda mancò il coraggio per cui, indagò prima sul luogo di residenza, altamente indicativo dello stato sociale.
Quando, la numero uno, tale Andreatta Vania, toccandosi i bellissimi riccioli biondi, con voce sensuale, pronunciò “Rotonda Garibaldi” ovvero, i Parioli di Mestre, si innescò in me una incontrollabile reazione a catena chimico-ormonale; ma questa è un’altra storia.
Fino a quel giorno, ero abituato ad avere in classe gente che proveniva, dal mio quartiere, in più, non ero particolarmente ferrato nella geografia locale. Il numero due, tale Bibolin Mauro, un ricciolino con la faccia da Bassethound bastonato; a domanda, con un filo di voce e scarsissimo entusiasmo, rispose; “Cipressina”. Mi fu subito simpatico, provai nei suoi confronti, una grande tenerezza mista allo stupore derivato dal non sapere dove cavolo si trovasse quel luogo.
Io ero al diciassettesimo posto; per cui, visto come buttava, avevo tutto il tempo di prepararmi le risposte; da navigato speaker di una radio libera, ea sbatoea non mi mancava.
“Campalto dove?”
il sarcasmo della Benz sembrava uscire anche dalle tette, tenute ovviamente bene in vista.
“C puntato, E puntato, P puntato; meglio conosciuto come Lido di Campalto; signora professoressa”
Realizzai di essere praticamente già stato rimandato a settembre. L’illustre futuro avvocato Campesan, seduto a mio fianco, si mise istantaneamente la mano in tasca, non capivo se per toccarsi le palle o mettere al sicuro il portafoglio.
Non era finita qui; dopo averci minacciato di incularci se facevamo assenze non causate da gravi malattie invalidanti, ci propinò subito un tema dall’originale titolo “mi presento”; in sostanza aveva bisogno, al solo fine di schedarci, di quante più informazioni possibili. Istintivamente girai lo sguardo in direzione del Bibolin; stava con gli occhi rivolti al soffitto a mo’ di imprecazione.
Dopo due giorni, riecco la folata; tailleur nero, stivaloni sadomaso dello stesso colore; sbatté sulla cattedra il registro con sotto i nostri temi. Per un attimo mi squadrò, nella mia immaginazione mi vedevo steso per terra davanti la cattedra, mentre lei mi premeva la testa con il tacco dello stivale.
Iniziò a recensire i lavori mentre, alcuni esimi colleghi, diedero vita a concerti per solo violino e lingua. Il tempo passava e, ancora non arrivava il mio turno né, tantomeno quello del Bibolin; brutto presentimento. Quando giunse alla fine del pacco si mise a sbuffare; con quelle lunghissime unghie laccate in maniera ineccepibile, prese a tamburellare sopra i due fogli protocollo rimasti; stette un attimo in silenzio, cercai conforto nello sguardo del Bibolin che però, prontamente, da sotto il banco, con la mano chiusa a pugno, fece l’inequivocabile gesto, chiaro preludio alle intenzioni della prof.
– “Bibolin e … come cavolo si chiama questo. non ci siamo”.
Il sospiro della Benz provocò un’altra tremenda zaffata di quel suo, chiamiamolo, profumo; gli occhi uscirono ancora più fuori dalle orbite; sembrava che un bottone della camicetta, quello posizionato sul davanzale, stesse per saltare da un momento all’altro; si tirò su le maniche per sistemare meglio quel mezzo kilo d’oro che aveva su ogni braccio, come se si preparasse per prenderci a sberle.
“Fuori tema”, fu il verdetto; la masnada degli sviolinatori si girò verso di noi guardandoci con ghigno diabolico, in attesa di ordini superiori ed eseguire la sentenza ovvero; metterci alla gogna.
– “A ciccio almeno l’ironia no’ te manca. Mò me devi spiegà ‘sta storia che parlicchi so ‘na fantomatica radio”
Fui il primo al quale si rivolse in romanesco; l’avrebbe fatto ogni qualvolta intendeva sminuire qualcuno. “Parlicchiare su una fantomatica radio”; come fanno presto due parole sbattute la, dall’alto di una cattedra, a mandare in frantumi l’entusiasmo di un adolescente. Menomale che l’Andreatta mi lanciò un’occhiata complice che, mi tirò su il morale e, anche qualcos’altro.
“Il Piave mormorò, non passa lo straniero!”; mi risuonò nella testa la famosa canzone; il nemico, ovvero la Benz, stava passando il limite; passai alla riscossa verbale. L’entusiasmo e la passione per la radio furono la mia arma letale; alla fine della mia arringa, in classe non volò una mosca; la campanella salvò la signora da un certo imbarazzo.
“Ma che casso ti gà scritto?”
Bibolin mi affiancò in corridoio, non aveva più la faccia da Bassethound bastonato, era alquanto divertito dalla situazione; ci scambiammo i fogli protocollo.
In piazza Barche, i nostri autobus prendevano direzioni diametralmente opposte; era facile però intuire che, alla fine, ci avrebbero sbarcato sulla stessa identica realtà. Un posto ambito era il sedile dove un tempo stava il bigliettaio, in pelle, comodo, disponeva di un tavolino che, noi studenti sfruttavamo come banco autotrasportato per sistemare gli appunti e altre incombenze scolastiche; quel giorno ci stesi sopra il tema del Bibolin.
“Sono nato e abito alla Cipressina, detta anche Depressina, uno dei tanti quartieri dormitorio di Mestre ..”. Quartiere dormitorio, che strano termine; mi immaginavo palazzoni con camerate piene zeppe di letti a castello, un po’ come nella colonia dove d’estate, fin dalla tenera età di sei anni, mi spedivano i miei.
Campetto da calcio, due bar, dove le bestemmie erano usate a mo’ di punteggiatura; la chiesa, dove vengono favoriti sempre i soliti seduti in primo banco. Per i giovani non c’era ‘sta grande offerta di attività; potevi giocare a basket sul campetto del patronato a patto che frequentassi l’incontro del venerdì; dove, un pretino sedeva a capotavola con a fianco, i suoi discepoli preferiti; l’insegnamento impartito era sempre quello; non trombare prima del matrimonio, nemmeno con la fantasia; non andare a far vasche in piazza o peggio, in discoteca.
Fortuna che eravamo distanti di banco altrimenti, la Benz avrebbe montato su un impianto accusatorio non facilmente demolibile; i nostri due temi erano praticamente una fotocopia, stessi luoghi stesse persone ma, soprattutto stessa vena malinconico-ironica usata per descrivere la banalità.
“Tirate su da quel letto, che go da passar ea lucidatrice !!”
Ormai non riuscivo più a sopportare il tono di voce di mia madre; ogni qualvolta doveva impormi qualcosa, mi fracassava i timpani; altra cosa che non sopportavo era la brusca interruzione di una fantasia erotica; il faro della vecchia Sangiorgio, illuminò a giorno la mia cameretta, mentre stavo per avere il mio primo rapporto sessuale completo con la Andreatta. Chissà se anche Bibo, ormai lo avevo già soprannominato tale, aveva una mamma così disgraziata; nel suo tema non c’era menzione alcuna della famiglia.
Nel mio, l’argomento era stato volutamente relegato tra gli omissis; in primo luogo, perché non c’era niente di particolare da dire o, di che vantarmi anzi, me ne vergognavo; la gente comune non fa colpo, tanto vale non parlarne. La mia tesi fu avvalorata il giorno della lettura dei temi; era tutto un susseguirsi di padri avvocati o ingegneri. Mi immaginavo madri affettuose alle quali i padri avvocati o ingegneri avevano appena regalato la macchina nuova in quanto, la pelliccia di visone era già stata regalata l’anno prima e, dolcissimi nonni che facevano migliaia di chilometri per scendere giù dalle loro case al mare o in montagna e andare a trovare i nipoti ovviamente, portando con se una busta regalo, ben imbottita di bigliettoni da cinquantamila lire.
Cosa dovevo dire di mio padre, che all’età di dieci anni fu preso da mio nonno a pedate nel culo e mandato a lavorare in mezzo ai campi; colpevole solo di avergli chiesto una bicicletta. Oh, certo, potevo raccontare che era giunto all’apice della carriera, ora aveva un tornio tutto suo e un “bocia” a cui insegnare, a suon di bestemmie e tangare sulla testa, il mestiere.
Non credo facesse molta poesia, se raccontavo che se ne stava giorni interi in quel maledetto orto ad annaffiare le colture con l’acqua del putrido fosso ma che, almeno quello, gli faceva dimenticare le ciminiere di Porto Marghera. Che dire poi di mia madre, sfatta nel fisico e assente con la mente, passava tutto il giorno, come un automa a ripetere le stesse faccende domestiche, cantando a squarciagola le solite canzoni; unica distrazione alcuni fotoromanzi sgualciti che gli passava la parrucchiera, le rare volte che ci andava. Lasciamo perdere mio fratello; il vero uomo, tenuto su un piedestallo dai miei in quanto, già da tempo lavorava; unico e valido supporto al magro bilancio familiare; non come me che, magnavo schei a tradimento. Devo dire però che c’era, qualcosa in cui credere, una solida la fede che reggeva la mia famiglia, per noi uomini il Milan, per mia madre la Carrà.
Non ho mai sopportato quelli che, come Maria Vittoria Benzoni Savelli, ancor prima di sapere come ti chiami, ti chiedono informazioni dettagliate riguardo la tua famiglia; e lei, probabilmente, non sopportava chi volontariamente o meno, ometteva di fornire queste informazioni per cui, qualsiasi altra cosa avessimo scritto era ovviamente, “fuori tema”.
“No go capio, to pare xè ingegner, professor o avvocato? In cossa el xé laureà?”;
El Bibo, non perse tempo per, come diciamo noi, tirarme in lengua;
– “El xé laureà in tornitura de fin”;
-“Ah, el mio invesse in saldatura col caneo”;
-“E dove, l’esercita ea profession?”;
-“El ga el studio a Marghera, al Breda”;
-“Orpo, el mio la vissin; Vetrocoke Azotati! E to mare?”;
-“Casa a batar strassa tutto el giorno”;
-“Idem con patate”;
-“Scolta, però, ea to’ radio ea fa un fià da cagar; a casa mia no ea ciapo”;
-“Par forsa, el posto dove che ti abiti fa da cagar”;
-“Senti chi parla, queo coi rubinetti de oro in casa”
Consideravo un preciso impegno istituzionale, fare in modo che, in un quartiere sfigato come il nostro, si potesse ricevere Solaradio. Fracassai i maroni per settimane a sior Sergio, alla fine, il segnale, giunse chiaro e forte alla “Depressina”; al Bibo, comunque ‘sta cosa sembrava non fargli né caldo, né freddo.
In quel periodo, alla sera io e Paperoga, ci alternavamo a condurre quello che era un classico delle prime radio libere; le dediche in diretta. Un nebbioso lunedì di fine ottobre, arrivò una telefonata indimenticabile:
– “Pronto xè ea radio?”
– “Si, chi parla?”
-“’Sera maestro, so Umberto Cassador detto Berto, un barbier qua de Mestre”
-“Bene, finalmente una telefonata dal centro città, vuole fare una dedica?”
-“No, un annuncio, se el me parmette”
-“Certo, dica pure”
-“Steme a sentir, insomma, voria dir a tutti che ea mujer de Gino Visentin; … lo fa beco!!”
-“Scusi ma ..”
-“No, no ghe xè ma e no ghe xè se; maestro, so sicuro de queo che digo”
“Come fa ad essere sicuro, ha le prove?”
La cosa iniziava a divertirmi
-“Ostia xè go e prove! Xo mi che me ea cia…”
La telefonata di quel fantomatico Berto Cassador, durò quasi mezz’ora; iniziò a descrivere nei minimi particolari, i focosi incontri con la sua amante; non appena eccedeva con le oscenità o, accennava a frasi volgari; mi divertivo a censurarlo mandando della musica. Da quella sera, Berto Cassador, non mancò di continuare a telefonarci e ad allietarci con le sue storie “de done nue”. Dalle sere successive, fatalmente, iniziammo a ricevere anche le tristi telefonate di Gianni “Nane Sfiga” Berton, il cui motto era “ea vita xè un cesso sporco”, i comizi in diretta del compagno Piero “el Ce” Cecchinato, gli indimenticabili consigli per cuccare di Antonio “Tony Piassa Fero” Lovadina e, i commenti calcistici di Luigino “Ginetto in baeon” Passarin, opinionista ubriaco.
C’era una cosa che accumunava questi personaggi, un tono di voce stranamente simile. Credo che, ancora oggi, a parte noi della radio, il grande pubblico ignorasse che, dietro a quei personaggi, ormai entrati nell’immaginario mitologico, si nascondeva el Bibo; un segreto che ci porteremo nella tomba.
A parte questa sorta di collaborazione radiofonica, io e lui condividevamo ea poca voia de far ben a scuola e, ‘ndar in batua.
A causa dei continui insuccessi nei due ambiti precedentemente menzionati, eravamo dediti al consumo, o meglio, abuso, di tramezzini e birrini, presso un popolare locale di via Mestrina. Non era cosa semplice, dovevamo faticare non poco a racimolare i soldi necessari per permetterci quella sorta di dipendenza. I nostri genitori, a differenza di molti altri, non ci davano la paghetta settimanale in quanto, adottavano il metodo self-service ovvero, ci dicevano “co te serve i schei totei” il che, sembrerebbe semplice ma, in realtà, quella frase sottintendeva che, per ogni biglietto da mille era necessaria una formale domanda in carta bollata nella quale, sotto giuramento, si dovevano elencare i validi e giustificati motivi del prelievo.
L’evasione e il godereccio non erano contemplati, per cui, era necessario ricorrere a una sorta di elusione fiscale, mascherando le uscite relative a, pizzette, tramezzini, mozzarelle, Giambonetti, birrini, colini, gelatini e altre sostanze classificate alla stregua della droga; come spese per materiale scolastico; non era facile ma, bastava far ricadere la colpa sul quel cagacazzi ed esigente professore di turno che, ci faceva spender un sacco de schei per niente.
C’era anche un’altra cosa che condividevo col Bibo la sbindolata megagalattica per quella ricciolina bionda che avevamo in classe.
A differenza degli altri tre soci che avevo in radio, Bibo non faceva mistero delle sue passioni amorose. Con lui, tutto era trasparente: dai dischi che adorava alle emozioni che lo agitavano. Eppure, quando confessò di essersi invaghito della stessa ragazza che abitava i miei pensieri, rimasi spiazzato. Lui, il mio confidente, il mio alleato di battaglie quotidiane, si era infilato nella stessa guerra del cuore.
Entrambi ci eravamo fatti dei film sulla tipa ma, a differenza dei miei, che erano roba da sale di dubbia moralità, i suoi erano dei lungometraggi romantici, capolavori da serata di gala. Insomma, il ragazzo puntava alto.
Guardai il suo viso illuminato da una speranza che non avevo mai visto prima. Non potevo competere con tanta nobiltà d’animo. Io, il regista di film mentali al limite del legale, non avevo diritto di stare in quella corsa; per cui, decisi di ritirarmi dalla competizione.
Ad un certo punto, in radio cominciammo a ricevere telefonate da un altro misterioso personaggio. Un tale “innamorato fradicio” che usava dedicare ad una altrettanto misteriosa “Shirley Temple”, bellissime canzoni d’amore. Avrete sicuramente già capito chi erano i due.
Diceva di vederla ormai dappertutto, seduta al suo fianco nella penombra del cinema Excelsior e poi, mentre salivano, mano nella mano, sulle scale mobili di Coin.
Ho ancora bene impressa l’immagine di quello stronzo e gran rotto in culo del Narozzo che, sfoderando un sorriso da quarantacinque pollici, avanzava verso me e Bibo, stringendo con il braccio la spalla della Andreatta. Quel giorno, quando al Bibo il palco crollò, il tonfo fu veramente forte. Balbettava mentre con un falso sorriso di circostanza salutava la coppia. Seguì un buon quarto d’ora di silenzio durante il quale perdemmo l’orientamento dopodiché, emise un sospiro;
“Se magnemo ‘na mossarea?”
Ancora oggi faccio fatica a credere che il vero motivo per cui El Bibo, alla fine di quell’anno scolastico, abbandonò il liceo per approdare all’Istituto Tecnico; per giunta, in una classe popolata esclusivamente da maschi, non fosse il suo rendimento disastroso. No, quella fu solo la scusa ufficiale. La verità, nascosta tra i corridoi di quella scuola, era un’altra: quella fortissima delusione amorosa.
Forse perché ormai eravamo legati da quel filo invisibile che solo certi amici possono tessere, decisi di seguirlo anch’io. Così, lasciai il liceo e mi unii a lui nel regno del Tecnico. Alla fine, i nostri genitori vinsero la loro battaglia. In fondo, per loro, era scritto nel destino: i figli degli operai, se proprio va bene, possono aspirare al massimo a diventare capi squadra. Inoltre, c’era la questione dei soldi. Il liceo richiedeva tempo, troppo tempo, prima che potessimo iniziare a portare a casa i tanto agognati schei.
E così è stato, i schei ora li abbiamo. Il problema è che, ad entrambi, sembra ancora mancare qualcosa di più importante.
Tralasciamo per il momento i miei vuoti da colmare, riguardo i quali, scriverò un libro a parte e, torniamo al Bibo. In tutti questi anni non si è mai tolto dalla testa, o meglio, dal cuore, Vania Andreatta.
Nonostante ci tenga ad apparire come un uomo sentimentalmente appagato, a me l’ha detto chiaramente. Credo anche di non essere il solo a saperlo o, perlomeno a sospettare qualcosa. Sicuramente tra questi c’è l’Agenzia delle Entrate che, si starà chiedendo perché un tipo come il Bibo, che non soffre di particolari e documentate patologie, porta in detrazione centinaia di scontrini di una particolare farmacia; quella dove lavora Vania Andreatta.
È vero, è sempre stato un ipocondriaco cronico, ma io so che gran parte delle medicine, degli integratori e di altre cianfrusaglie acquistate nella farmacia di Vania sono solo un pretesto. Una scusa per incrociare ancora il suo sguardo.
Mi è facile capire quando riceve un suo messaggio, è per lui un piccolo terremoto emotivo. Sussulta, sorride, e in quegli istanti si trasforma nel ragazzo di quarant’anni fa, ancora innamorato perso di quella ricciolina bionda. Giuro che non ho mai visto uno che sprizza di felicità alla vista di un messaggio che gli notifica la disponibilità dell’unguento per le emorroidi.
Ancora oggi, dopo decenni, “l’innamorato fradicio”, con la sua voce che arriva come una carezza malinconica, velata di speranza, quella speranza tenace che solo i cuori romantici sanno coltivare. Dedica canzoni d’amore struggenti alla misteriosa “Shirley Temple”. Per El Bibo, quel sentimento nascosto rimarrà sempre lì, sospeso, come un vecchio disco che, ogni volta che lo rimetti su, suona sempre le stesse note: dolci, immutabili, perfette.
Ho chiesto al Bibo un sacco di volte, di venir a parlare in radio, ma lui ha sempre declinato l’offerta dicendo che preferiva rimanere un semplice ascoltatore.
Definirlo un semplice ascoltatore è un eufemismo. Non è mai stato un ascoltatore qualunque ma, il più fedele, il più vero, il più umano. L’amico che non ha mai smesso di sintonizzarsi, che mi ha aperto il cuore con la disarmante sincerità di chi non teme più il giudizio.
È lui che mi parla senza vergogna delle sue paure, delle fragilità che porta con sé come fossero foglietti spiegazzati in tasca, pieni di appunti sparsi di una vita vissuta a metà. Una vita che, mi confessa, non è quella che avrebbe voluto, incanalata da scelte fatte solo per paura.
È lui che, per mettermi in guardia, mi cita spesso una frase di Pirandello “nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Con me non ha bisogno di maschere, e io lo ascolto come si ascolta una vecchia canzone che conosci a memoria ma che, ogni volta, riesce a emozionarti.
È lui che mi ha insegnato che per essere un bravo uomo di radio, non basta saper parlare. Bisogna saper ascoltare. Saper interpretare quelle parole fra le righe che ti fanno decifrare quel messaggio che il tuo ascoltatore vuole lanciarti. Ascoltare le sue canzoni scelte con timidezza, i silenzi che raccontano più delle parole, le vite che si intrecciano sulle onde radio.
Mi ha insegnato che puoi lasciare un segno nella vita degli altri anche come semplice ascoltatore. Perché finché c’è una voce che chiama e un cuore che risponde, anche tra mille interferenze, resta aperto un canale. E finché c’è un canale aperto, c’è speranza per qualcuno che cerca risposte, cerca compagnia. Una voce che gli dica: “ti ho sentito”, e io sono lì per questo.
È per questo che, ogni notte, da anni, sto con il microfono acceso e il cuore attento ad ascoltare, come una vecchia canzone che non smette mai di commuovere, la storia di qualcuno che, in fin dei conti, è anche la mia.
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Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati!
“Ma chi cazzo era quello?” si capiva che ad Alfredo De Vincenzi, comandante del volo AZ604 Roma – Venezia; le palle erano girate più forte dei turboreattori del suo MD80.
“Un coglione di quelli delle radio libere”, replicò Carmine Passalacqua, capoturno in torre, omettendo con cura di aggiungere che quel coglione lo conosceva eccome: nome, cognome, indirizzo e pure l’albero genealogico, in quanto segretario dell’assemblea condominiale dei Paeassoni, dove il tizio risiedeva.
“Dico io, ma non si riesce proprio a beccarli ‘sti idioti della minchia?”
In realtà, a far incazzare davvero il comandante De Vincenzi non era stata tanto l’irruzione in frequenza del coglione, alias Roberto Ballarin, alias Paperoga, quanto la canzone che aveva mandato in onda.
Teorema di Ferradini; probabilmente, a causa della maretta che da un po’ agitava le acque con la moglie, gli dava sui nervi più del solito. La trovava insopportabile. Straziante. Tossica.
“Sarebbe da segargli il palo dell’antenna e ficcarglielo dove so io”; sbottò, non era proprio una gran giornata per il De Vincenzi.
Carmine sudava freddo. Se solo il comandante avesse saputo che l’antenna in questione stava proprio sopra la sua testa, al civico 69 dei Paeassoni, sede della famigerata SolaRadio, l’avrebbe crocifisso a testa in giù sulla sommità della torre di controllo.
Per fortuna i due si conoscevano dai tempi gloriosi dell’Aeronautica Militare: uno ufficiale pilota, l’altro sottufficiale di torre. Carmine, uomo del sud e con la parlantina giusta, decise di giocarsi quella carta.
Con un mezzo sorriso e un tono da film di mafia, gli disse che, senza smuovere troppo le acque, bastava fare una chiacchierata con una certa persona, e il problema si sarebbe risolto da solo.
La questione si chiuse con un caffè offerto da Carmine al De Vincenzi. Poi i due, come da tradizione, ripresero a parlare di figa e di calcio. Come se niente fosse successo.
La routine settimanale del sior Sergio era precisa come un orologio svizzero. Il sabato mattina, alle nove in punto, apriva il suo “laboratorio”, che poi era il garage, ma lui lo chiamava così per darsi un tono, e si metteva a trapoear, come diciamo noi da queste parti.
Ci restava fino a quando siora Marisa, sua moglie, non si affacciava alla finestra per annunciare che il pranzo era pronto, con quel tono di voce che si sentiva ben oltre il piazzale della chiesa e che non ammetteva repliche.
Carmine conosceva bene quella liturgia. Così, alle nove e un secondo, cronometrati con la precisione di un cronista sportivo, si presentò davanti alla porta del garage. Puntuale come una tassa, e forse pure più sgradito.
“Ohi teron, ‘safemo par i tombini?”; sior Sergio gli ricordò dell’impegno che si era preso in assemblea.
«Ohi polentone, e invece cosa facciamo per l’antenna?» ribatté Carmine, serio come un verbale d’inchiesta, con il tono da ex maresciallo di prima classe dell’Aeronautica Militare che parla a un suo sottoposto un po’ svanito.
All’inizio sior Sergio non colse il senso della replica. Poi, quando Carmine nominò un certo comandante Alfredo De Vincenzi, lo sguardo gli si congelò in faccia. Sbiancò come una parete appena imbiancata.
Andò completamente in tilt.
Uscì di corsa sul vialone. Sembrava ipnotizzato, e mormorava parole misteriose come «spurie», «armoniche», «filtro passa-basso», come se stesse lanciando incantesimi da un manuale di elettronica.
«Questo mi sviene», pensò Carmine, colto da un mezzo rimorso. Forse aveva esagerato con la storia del comandante, le denunce, la Polizia Postale… ma in fondo, un po’ di pressione serviva. E poi durò un attimo.
Giusto il tempo di vederlo fissare, stralunato, il tetto e sentirlo inveire in ostrogoto contro certi “giovanotti” che conosceva fin troppo bene.
Poi si voltò, con aria più lucida, e fece cenno a Carmine di avvicinarsi. Indicò l’antenna.
Carmine si beccò una lezione di radiotecnica in versione popolare, metà dialetto, metà libro di testo della mitica Scuola Radio Elettra degli anni Sessanta; per capire che uno dei quattro dipoli, chiamato volgarmente “pettine”, era stato orientato alla cazzo, e proprio verso l’aeroporto. Oltretutto, questo mandava a puttane la delicata taratura di antenna e trasmettitore.
Stavolta toccò a sior Sergio pagare il caffè a Carmine e rassicurarlo dicendo, da bravo uomo del nord, che avrebbe provveduto a sigarghe soe rece a certe persone.
Il processo cominciò lo stesso pomeriggio, nello sgangherato studio di SolaRadio. Il giudice, alias sior Sergio, troneggiava dietro il bancone del mixer; noi, quattro imputati, allineati di fronte come scolari indisciplinati.
«Qua, ‘stavolta, ‘ndemo a finir sul Gasetin!». Con questa battuta, ci introdusse la storia dell’atterraggio del volo AZ604 e di quella strana vocina che, annunciava la canzone “Teorema” di Marco Ferradini. Un tale comandante Alfredo De Vincenzi, giurava di averla sentita chiaramente in cuffia, mentre era in fase di discesa.
“Almanco qualchedun che ne ‘scolta”. Paperoga non riuscì a trattenere la lingua, né tantomeno la risata. Ma quando sior Sergio ci raccontò che il Carmine gli aveva detto che si poteva ipotizzare il reato di minaccia alla sicurezza del trasporto aereo, a me, lo ammetto, cominciò a tremare il culo sul serio. Non avevo paura di finire in galera ma, piuttosto della reazione di mio padre; l’ergastolo sarebbe stato nulla a confronto.
Il colpevole si costituì subito: Tiziano Scarpa, detto Tito, figlio del medesimo sior Sergio. Una carriera da martire lo attendeva. Con lo sguardo basso e le mani in tasca, propose di patteggiare: si offrì di riparare immediatamente al danno causato.
«Lassa perdar… Ti ga ‘na testa che no ea magna gnanca i porsei», lo liquidò il padre.
Il vero movente non venne mai esplicitato. Ufficialmente il reo confesso si giustificò asserendo “pensavo che quei da ‘staltra parte i ciapasse mejo ea radio” ma, noi tutti sapevamo che “da ‘staltra parte” in quella direzione abitava una certa Anna Grandesso. Il Tito, era così introverso che nemmeno sotto tortura avrebbe fatto quel nome e dichiarato apertamente lo scopo della manomissione dell’antenna; piuttosto si sarebbe fatto frate.
La domenica sior Sergio si armò di scala e andò a sistemare. Carmine osservò la scena dal basso e fece pollice in su; sicuro che De Vincenzi non avrebbe più rotto i coglioni. Il comandante De Vincenzi no; ma, qualcun’altro si apprestava a farlo.
Quella stessa domenica, Tito e io, finita la messa delle undici, detta “la messa beat” per via del massiccio uso di chitarre elettriche, ce ne stavamo appoggiati a una delle colonne del porticato della chiesa, con gli occhi sgranati puntati in direzione di Sara Visentin.
La tipa si era presentata alla sacra funzione con la minigonna. Andai via di testa e, invece di ascoltar messa, diedi retta a quel diavoletto che, sul muro dietro l’altare, mi proiettò gratis il film dove io, in discoteca, ballavo con lei un lento “sbregamudande”. Grazie a quei pensieri, persi istantaneamente non so quanti punti in graduatoria per il paradiso convertendoli nei medesimi punti triplicati per l’inferno.
“Mi ghe go visto ‘e mudande” sibilai a Tito con un ghigno diabolico, più per provocarlo che per condividere una scoperta. Volevo strapparlo da quella sua mentalità da cattolico pre-conciliare. Ma lui, imperturbabile, faceva finta di niente.
Don Gianni quasi ci strattonò per chiamarci in disparte. Al momento pensavo mi avesse sentito; dentro di me, ero pronto a rispondergli parafrasando una celebre e storica frase: “La minigonna della Visentin val bene una messa”. Ma, da bravo fio de cesa, mascherai le mie pulsioni e seguii lui e il Tito in canonica, in religioso silenzio.
“Fioi, cossa voè far co’ sta radio?”
Stravaccati sulle due poltroncine sgualcite del suo studio; sottratte con l’inganno a una nobildonna veneziana, sua conoscente, tirammo un sospiro di sollievo. La Visentin e la sua mini non c’entravano nulla, ce l’aveva con qualcosa, secondo lui, di più diabolico.
Mi aspettavamo che prima o poi la chiesa cattolica, per tramite di qualche suo illustre rappresentante ci avrebbe chiesto di rendere conto della nostra attività radiofonica.
Pensavo che don Gianni, in qualche maniera, fosse venuto a conoscenza delle avance che il compagno Marino Gobbato segretario della locale sezione del PCI, ci aveva fatto. La sua intenzione era quella di mettergli a disposizione un po’ di orette per parlare “de robe sue”. Il volpone, come speaker, ci avrebbe mandato tali Lisa Franceschin e Antonella Battiston, tra le più cocche che la locale FIGC aveva in stalla.
Il bavoso Ensopenso stava già per siglare ad occhi chiusi l’accordo per quella specie di join venture con i comunisti quando mi venne in mente di chiedere un parere preventivo al vecchio compagno Bruno Manzato, frequentatore abituale del bar da Nane che sentenziò: “No’ e xé troie. ‘E xé feministe; ea prima volta che provè a palparle e veo taja. A mi e me sta sol casso; e vol saver sempre tutto eore. E po’, me sa che e ga xà tutte e do, el marco”
Non se ne fece più nulla ma, specie Paperoga, visto che il mondo cattolico, non offriva gnocca a sufficienza e quella poca era appannaggio dello stronzissimo Riccardo Beltrame, convenne che, comunque, era meglio buttare l’esca con qualche squinzia progressista mandando in onda roba forte di un certo tipo quale, ad esempio, “l’avvelenata” di Guccini.
Per cui, almeno io, ero pronto a beccarmi un anatema fulminante per il fatto che la nostra antenna sparava nell’etere cazzate comuniste.
In realtà, il prete non ce l’aveva con Paperoga per aver messo su Guccini ma con me, che mandavo in onda a nastro Alan Sorrenti; e mai, mi sarei aspettato che cominciasse il pistolotto parafrasando una sua canzone:
“Non siamo figli delle stelle ma figli del Signore”
Don Gianni, con voce aspra e occhi da inquisitore, cercava di strapparci via, come si strappa un’erbaccia in mezzo al grano, dalla nostra condotta, a suo dire, troppo leggera. Ci accusava di trasmettere canzoni senza peso, troppo sospese nell’aria come bolle di sapone, destinate a esplodere senza lasciare traccia. Agitava le mani, le sopracciglia aggrottate come se volesse inchiodarci a una colpa morale: quella di non avere un tema conduttore, un senso, una direzione. o meglio, mancava quel tema conduttore che lui avrebbe voluto imporre.
Uscimmo dalla canonica in silenzio, con la coda tra le gambe. “Bon xe vedemo” fu l’unica frase che ci venne da pronunciare, a mezza voce e all’unisono, come un saluto stanco e rassegnato. A pranzo non riuscii a mandar giù quasi nulla. Avevo il palato amaro che sapeva di vergogna e rabbia. Me ne andai a zonzo per le viette, cercando di scrollarmi di dosso la voce del prete che si era lasciata dietro un’eco di ammonimenti e silenzi severi. Ma come se non bastasse, mio padre ci mise il carico da novanta: “Se ti pensassi de più a studiar e no’ a quel sacramento de radio”. Lo disse senza nemmeno guardarmi, mentre ascoltava le radiocronache delle partite, le parole mi arrivarono dritte in petto, come uno schiaffo; per lui, tempo sprecato quello passato al microfono di quella sottospecie di radio.
Mi avevano praticamente fatto a pezzi. Don Gianni con la sua autorità morale, mio padre con il suo disprezzo pratico. E forse aveva ragione nonna Angela, quando mi diceva con quel tono a metà tra la tenerezza e la rassegnazione: “Ti xè fatto de tochi come to’ mare” Intendeva dire che ero fragile e volubile, che bastava poco per scompormi. Che vivevo a scatti, a strappi, a improvvise impennate d’anima.
E allora mi misi a pensare, davvero, al tema conduttore. Ce n’era mai stato uno, nella mia vita? No. Mi ero sempre mosso a zig-zag, lasciandomi trasportare dai venti delle emozioni. Non c’era coerenza, non c’era progetto. Solo frammenti.
Mi resi conto che a guidarmi non era la voce di un prete; ma roba come la minigonna di Sara Visentin. Altro che ideali cristiani, altro che programmi sociali. Era quella stoffa sottile, che “lasciava immaginare tutto” come diceva Claudio Baglioni, a veicolare i miei pensieri e i miei progetti, tipo quello di racimolare i soldi per un CIAO usato e caricarci dietro la Visentin.
Avevo in testa una gran confusione, alla fine ero come esattamente come miliardi di uomini che, come me, seguivano solo l’irresistibile chiamata del desiderio, la bellezza improvvisa e gratuita di un gesto femminile. Forse era questo il mio vero tema conduttore.
“Come le stelle noi, silenziosamente insieme ci sentiamo”
Non appena passai davanti alla casa dove abitava Vera, come per magia, nella mia mente risuonarono di nuovo le parole di “figli delle stelle” e, sempre per magia, sparì la Visentin e certi pensieri, per far spazio a un sentimento autentico, più intenso e più romantico.
In quel momento, l’unico sostegno che avevo era la leggerezza della musica leggera. Ogni volta che tutto sembrava crollare: i pensieri pesavano come macigni, le parole degli altri erano spine, e le giornate scivolavano via senza lasciare traccia; bastava una nota, un ritornello conosciuto, e tutto si alleggeriva.
La voce di un cantante come Alan Sorrenti, un motivetto orecchiabile che ballava tra i ricordi dell’infanzia, erano sufficienti per aprire una finestra nell’anima. La musica leggera non cercava di insegnarmi nulla, non voleva spiegare il mondo. Voleva solo farmi respirare ed amare.
In quelle melodie leggere c’era il lusso dell’evasione, la carezza della semplicità, il conforto del superfluo che diventa essenziale. Non era fuga, era sopravvivenza. Perché quando tutto pesa, solo ciò che è lieve ti salva.
A guidarmi era la leggerezza, quella stessa leggerezza che infilavo nella programmazione della radio, canzone dopo canzone. Era quella l’aria in cui respiravo, il mio modo di esistere. E non me ne vergognavo. Perché, in fondo, quella musica effimera che tanto irritava Don Gianni portava con sé una verità semplice e luminosa: che c’è qualcosa di sacro anche nella leggerezza, se sai ascoltarla col cuore giusto.
E mentre la primavera, ormai piena, srotolava il suo tepore come un tappeto verso l’estate, mi venne da sorridere. Forse non ero fatto per le grandi cause. Forse il mio cammino era quello degli equilibristi e dei sognatori. E va bene così. Perché anche chi è fatto di fragili pezzi, a volte, riesce a tenere insieme una melodia. Purché sia leggera.
La pista 04 destra è sempre lì. Un po’ più lunga rispetto ai tempi del comandante De Vincenzi, ma sempre lì, un nastro di bitume in riva alla laguna. E anche l’antenna sul tetto del civico 69 dei Paeassoni non si è mai mossa, un puntino ostinato contro il cielo, come un vecchio testimone muto del tempo che passa.
Quando ti appresti al corto finale, se hai l’occhio allenato, riesci a vederle entrambe: la pista e l’antenna, allineate nel tuo campo visivo come due coordinate fisse in un mondo che cambia. Bastava una virata di undici gradi a sinistra, e il De Vincenzi l’avrebbe centrata in pieno, solo sfiorandola col carrello. In quel caso, “Teorema” di Ferradini non avrebbe più disturbato i suoi pensieri già troppo densi di ombre. Ma anche quello, ironia del destino, era un segno: un’interferenza che chiedeva ascolto, come spesso fanno le cose non dette.
Peccato che ora non ci siano più le interferenze di SolaRadio. Con gli slot di atterraggio sempre più stretti, sarebbe stato un successo assicurato: decine di equipaggi che, volenti o nolenti, se la sarebbero ritrovata in cuffia. Sarebbe arrivata dritta nei cockpit, senza chiedere permesso. Una presenza fantasma, come certe verità che nessuno invita, ma che arrivano lo stesso.
Eppure, almeno nel volo, anche ai tempi del vecchio De Vincenzi, c’è sempre stato un tema conduttore. Una logica. Un obbligo morale. Un tracciato, invisibile ma preciso, che ti guida a scendere, anche in modo del tutto automatico, su quella striscia d’asfalto. Al di là degli strumenti e della checklist, c’era e c’è sempre il dovere: quello di riportare a terra, sani e salvi, i culi di qualche centinaio di sconosciuti. Il volo ha le sue regole. La vita, a confronto, molto meno.
Fuori dalla cabina, è tutto più incerto. Non ci sono rigorose procedure da seguire, né traiettorie ottimali per farti risparmiare carburante. Le turbolenze arrivano senza preavviso, e l’unico indicatore di assetto, in gergo “orizzonte artificiale”, è quello che ti disegni nella testa; se ci riesci.
E ora che si avvicina il momento di scendere definitivamente a terra, per poi, dopo un certo tempo, più o meno lungo, ripartire per l’ultimo volo, quello senza ritorno, sento l’angoscia affacciarsi senza bussare.
Cerco appigli. Certezze. Qualcosa a cui ancorare questa rotta discontinua. Ma niente arriva. E guardando indietro, capisco che non è mai davvero cambiato nulla. Nessuna rotta incisa nella pietra, nessun credo solido, nessuna bandiera piantata con orgoglio in qualche terreno sicuro. Volo a vista, da sempre. Seguo i venti del cuore, anche quando sono instabili, anche quando spingono verso improbabili e ignote destinazioni.
Ma una cosa la so, con feroce chiarezza: non sopporto chi tenta di stringere la mia cloche tra le sue mani. Non tollero chi, con le sue interferenze, morali, emotive, spirituali; cerca di impormi una rotta, una destinazione, una quota obbligata. Questo è il mio cockpit. E anche se l’aereo traballa, anche se a volte il carburante scarseggia e la radio tace, qui dentro sono io il comandante. Nessuno può dirmi quale rotta seguire e quale cielo attraversare.
Fino all’ultimo atterraggio.
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“Toh, xe qua i morti de figa dea radio!” Senza neanche alzare lo sguardo dal Gasetin sgualcito; da dietro la coltre di fumo della sua sigaretta, Memo Bottacin ci accoglieva pressappoco così, ogni santa volta che varcavamo la soglia del Bar da Nane.
Sembrava una presa per il culo, e in effetti lo era. Ma sotto sotto, nel suo modo ruvido e un po’ alcolico, gli stavamo a cuore. O almeno, ci tollerava più volentieri di altri esseri umani.
Memo era il nostro oracolo da bancone. Un vecchio saggio bevitore che, tra un’ombra e un’altra, non perdeva occasione per erudirci, a modo suo, sul vero vivere.
“Voialtri, coi vostri microfoni de plastica e le cassettine piene de musica che no’ ghe piase a nissuni; pensé davero de tirarve in qua ‘e cocche?”
Scuoteva la testa come uno che aveva già visto naufragare decenni di illusioni analoghe.
“Credè cheve basta parlar in radio o ‘ndar in parrocchia a far i bravi parché ‘e fighe ve salta ‘dosso. Scolteme mi quaità de imatonii che no’ si altro; moè prete e microfono, metteve i gin stretti e ,nde in discoteca!”
In effetti, era passato un bel po’ di tempo da quando avevamo issato l’antenna sul tetto del civico 69 dei paeassoni ma, il nostro principale obiettivo, nemmeno tra noi ufficialmente dichiarato, ovvero cuccare via etere, rimaneva lontanissimo.
L’intero comitato di redazione, formato da noi quattro sfigati mandoeoni, si arrovellava quotidianamente per trovare la formula magica: un format, un jingle, un tormentone, Qualsiasi cosa che potesse convincere anche solo una ragazza, dico una, a interessarsi non tanto alla radio, quanto a noi.
Bisognava dar retta a Memo ma, la discoteca, per dei radiofonici fioi de cesa come noi, era tipo il girone dei lussuriosi, versione remixata. Gli emissari della santa romana chiesa, sapevano abilmente infonderci dei terribili sensi di colpa. Secondo loro, il solo desiderio di andarci e sognare di far certe cose ci avrebbe condotti dritti all’inferno. E poi, non avevamo una lira. Con quel che avevamo in tasca, a mala pena ci usciva un craf alla crema da Ciano l’Onto. Ah, preciso: so benissimo che si chiama krapfen, ma, da noi, quel nome è impronunciabile. Mia mamma l’ha sempre chiamato craf e tale rimarrà per sempre.
Cianol’Onto, lo conoscevano tutti, specie il dottor Scarpa che si occupava di curare i disastrosi effetti causati dallo smodato consumo dei suoi prodotti “artigianali”. Un giorno mi mise in guardia dicendomi che, se continuavo a riempirmi delle sue, chiamiamole, prelibatezze, mi sarebbero venuti i brufoli anche in quel posto.
La sua fama ebbe un’impennata storica quando il suo laboratorio esplose. Sì, proprio esplose.
Fece un botto che si sentì fino quasi a porto Marghera; anzi, qualcuno pensò che fosse proprio porto Marghera che saltava in aria. Il tipo finì sol Gasetin, con un bel titolone.
Le cause non vennero mai accertate ma, secondo la leggenda metropolitana che si tramanda nei bar ancora oggi, era perché usava il gas metano per gonfiare i bignè.
Da quel giorno, la sua clientela raddoppiò. Perché si sa: in città, appena uno rischia di morire per mangiare qualcosa, tutti vogliono provarla.
Entrare da Ciano era un’esperienza mistico-sensoriale. Il pavimento era una pista da pattinaggio creata con olio per motore riciclato aromatizzato alla frittella, e se non stavi attento ti ritrovavi a sbrissar fino al bancone.
Lui stava sempre di spalle, intento in misteriosi affari sottocinturali. Anche se cercava di non farsi vedere, si capiva chiaramente cosa si stesse grattando.
“Un craf!” gridavamo; ci piaceva coglierlo di sorpresa durante quel suo inquietante rituale. Ma lui, imperterrito, si voltava con calma, prendeva il craf con la pinzetta per poi passarlo nella mano che pocanzi teneva dentro i pantaloni e te lo sporgeva.
Ma noi non badavamo a certe sottigliezze; ci bastava avere tra le mani quella gigantesca roba untuosa, ricoperta di zucchero a velo che, puntualmente, soffiando con vigore sopra, spruzzavamo in faccia alla persona che ci stava di fronte. Era, e forse lo è ancora, il nostro modo di sublimare certi desideri proibiti.
Tornando a noi poveri e meschini conduttori radiofonici, visto che la discoteca per i sopracitati motivi era off-limits, il sabato pomeriggio, per ‘ndar in batua, ci rimaneva solo un’unica via: far le vasche in piassa Fero. Così, lasciavamo il povero Tito, il più cattolico del gruppo e dunque, almeno formalmente, meno sensibile a certi richiami della natura, a vegliare sulla gloriosa SolaRadio. Nel frattempo, io, Paperoga e Ensopenso, freschi di un’abbondante dose di unto dal mitico Ciano, puntavamo la prua verso piassa Fero con lo spirito di pirati affamati, pronti a saccheggiare ogni cocca a vista. Sui risultati, per il momento sorvolo.
Ancora oggi, mi chiedo come mai la prima persona in cui puntualmente incappavamo era quel borioso dandy di Alvise Barozzi detto “fuarin” a causa di quei pacchianissimi foulard che portava al collo.
Aveva sempre da ridire sul nostro abbigliamento e sul fatto che entravamo quasi sempre in scena con quell’untuosissimo craf in bocca. Con quel suo sorriso ebete, ci faceva notare che nessunissima squinzia avrebbe dato una slinguacciata a dei tipi che avevano addosso dei vestiti di seconda mano ed emanavano un tanfo di olio da macchina esausto
A lui, invece, boiaissamorti, in fatto di cuccaggio andava alla grande, grazie soprattutto a quel paraculo di Milù. Quel fox terrier bianco, copia esatta per nome e razza, del cane di Tintin, riusciva ad attirare le squinzie come mosche.
Ensopenso definiva Milù il classico “can da figa”; secondo lui oltre alla fattezza, aveva anche la capacità, con il suo fiuto, di scovare le migliori gnocche presenti nei dintorni e segnalarle al padrone.
Paperoga è sempre stato un credulone. Per cui, convinto dalle strampalate teorie di Ensopenso, una volta si fece prestare da suo zio Emilio il cane con cui andava a caccia. L’irrequieto Max era un maldestro tentativo di manipolazione genetica tra un setter e una pantegana. Fu un disastro totale; non appena entrammo in piazza con uno strattone degno di un toro da rodeo, si liberò dalla presa del suo affidatario per rincorrere i colombi creando il panico generale. Ma, quel che è peggio fu che andò a cagare vicino a un gruppo di squinzie che, inviperite, minacciarono di linciarci.
Non fu certo per Max che quel sabato pomeriggio di quaranta e passa anni fà, rimarrà per sempre nei miei ricordi.
Ad un certo punto, in mezzo al trambusto generale che aveva causato quel sacco di pulci; apparve Valeria.
Chiamarlo incontro sarebbe stato troppo. Ci eravamo appena sfiorati, un attimo, un istante sospeso. Ma c’era stato qualcosa. Qualcosa di elettrico, di denso. Lei aveva abbassato lo sguardo e, con un filo di voce, aveva detto: “Ciao” seguito dal mio nome.
Ho sempre considerato un “ciao” di una donna, seguito dal mio nome un saluto speciale, qualcosa di più intimo, più vicino. Un soffio di possibilità, una promessa inespressa.
Valeria era stata la mia compagna di autobus durante il primo anno di superiori; nel quale, contrariamente alla volontà di mio padre, mi iscrissi al liceo. Prendeva come me il quindici barrato, corsa bis delle sette e venti, saliva all’ultima fermata dello stradone dei paeassoni.
Valeria non era il tipo di ragazza che campeggiava nei calendari appesi nell’officina di Stelvio Vanin. Eppure, già dal primo giorno in cui salì sull’autobus, il suo sguardo mi colpì come un lampo silenzioso.
Un fascino che non si misurava con i parametri del bar da Nane, ma che si insinuava sottopelle, sottile e inesorabile.
Non potevo fare a meno di osservarla, di cercarla tra i volti anonimi del quindici barrato. Ogni mattina, quando saliva, era come se il tempo si fermasse per un istante, giusto il necessario perché il mio sguardo si posasse su di lei.
Bastò la scusa dell’affollamento, un lieve urto tra i corpi costretti nella ressa del mattino, e da quel momento iniziammo a parlare. Dapprima con timidi accenni, poi con la naturalezza di chi si riconosce simile, scoprimmo di avere mille cose in comune. Le nostre conversazioni riempivano il tragitto e lo trasformavano in un momento sospeso, un rifugio segreto nel caos della città. Un momento di letizia prima di tuffarci nei giorni di scuola che, non sempre erano belli.
Sentivo che provava qualcosa per me. Lo avvertivo nei silenzi sospesi tra di noi, nei gesti appena accennati, in certi sguardi che sembravano indugiare un secondo di troppo. Eppure, non feci nulla. La mia solita, incrollabile timidezza mi tratteneva, avvolgendomi in una rete di esitazioni e paure. Ogni volta che avrei potuto dirle qualcosa, anche solo un invito a prenderci un gelato insieme, mi bloccavo. Mi convincevo che sarebbe stato fuori luogo, che forse lei avrebbe frainteso, che sarebbe stato più sicuro rimanere nell’ombra. Così, per paura di mostrare troppo, finii per nascondermi del tutto. Arrivai persino a fingere di ignorarla, sperando che il distacco soffocasse quel sentimento che, invece, cresceva silenziosamente dentro di me.
Eppure, ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano per caso, capivo che non sarebbe mai bastato.
Come si dice; “passato il santo passato il miracolo”
Il miracolo in quel caso era Valeria; una così non l’avrei più incontrata. Il santo era il primo anno di liceo. L’anno successivo cambiai scuola e anche autobus, non rividi Valeria fino a quel sabato pomeriggio in piassa Fero.
Quella specie di incontro mi turbò talmente che non mi resi conto che il Max era passato sotto la mia custodia e che stava tirando a più non posso.
Sarà perché, come ho avuto già occasione di raccontarvi, a causa della mia passione per la fotografia, per quell’ossessione di catturare attimi e custodirli per sempre, sono diventato un ladro di anime che, riesce a vedere la vera bellezza, quella che ti frega sul serio.
Senza volerlo, senza saperlo, la vista di Valeria mi regalava frammenti della sua anima, e io, ladro silenzioso di attimi e sguardi, li raccoglievo con la devozione di chi sa di custodire qualcosa di prezioso.
C’era ancora qualcosa in quegli occhi che mi rapiva. Un’intensità segreta, un mistero che sembrava svelarsi solo per un istante prima di richiudersi, lasciandomi con il desiderio di scoprirne di più. Non era solo bellezza la sua, era un magnetismo sottile, una luce discreta che si faceva strada tra le ombre della mia vita.
Era bastato quell’attimo.
Ormai non vado quasi mai in piazza. Non è più tempo di far le vasche, con il nobile scopo di incrociare lo scopo della vita. Ormai per me la piazza oggi è un teatro vuoto, un palcoscenico su cui non recito più. Ci vado solo per l’edicola, quella più fornita di troiate che si possono trovare in città. Mi attirano i primi numeri delle collezioni: soldatini, modellini d’auto, di aerei, di camion, … di tutto. Li prendo, uno dopo l’altro, come se potessero riempire certi vuoti. Un po’ come fa ancora un craf onto, anche se non c’è più il vecchio Ciano. Se n’è andato qualche anno fa. Non so se esista davvero il paradiso, ma se c’è, sono sicuro che Ciano è lì, a rendere quel posto meno asettico, più unto, più vero. E chissà, forse lì la gente non bada all’igiene, tanto sono già morti.
Quel giorno, però, fu diverso. Lanciai uno sguardo distratto a una colonnina vicino all’edicola. Di solito la ignoro, è lì da sempre, invisibile come certi arredi urbani che smetti di vedere. Ma quella scritta — “onde corte” — non poteva non catturare l’attenzione di un radiofonico della domenica come me.
Prima di continuare, devo dirvi due parole sulle onde corte.
Si tratta una gamma di frequenze radio per così dire, molto più “antica” rispetto a quella che usano, per esempio, i telefonini. Hanno la particolarità di riflettersi sulla ionosfera e viaggiare oltre l’orizzonte. Per cui, in particolari condizioni atmosferiche e di attività solare, le onde corte possono coprire migliaia di chilometri.
Per farvi un esempio pratico, se SolaRadio trasmettesse in onde corte, in certi giorni e, con qualche botta di culo, potrebbero sentirla gli americani, i cinesi, gli australiani e gli indiani anziché, i soliti quattro ruttatori seriali del bar da Nane.
Onde corte
Vicini e lontanissimi
Presentazione del libro di Valeria …
Ebbi un leggero mancamento e mi trovai praticamente abbracciato a quella colonnina degli eventi in biblioteca. Allo stesso tempo iniziarono a suonare le campane del duomo, percepii qualcosa di divino in quello che stava accadendo.
Un quarto d’ora dopo, uscii dalla libreria della piazza con “onde corte” in mano.
Iniziai a leggerlo subito, rannicchiato sotto il piumone, con quella intimità silenziosa che solo i libri e certi ricordi sanno evocare.
Erano passati più di trent’anni dall’ultima volta che l’avevo vista. Fu su un autobus, come fosse una scena destinata a ripetersi ciclicamente, come nei sogni. Parlò soprattutto lei, allora. Della facoltà che aveva scelto, dei progetti, delle battaglie che voleva combattere. “Dove vai? Resta qua! Stai qua!” Mentre mi parlava, risuonavano ancora le parole di mio padre. In quel momento avevo voglia di andarmene da una casa troppo stretta, da una famiglia che mi tratteneva come radici troppo profonde.
Chissà perché mi confidai con lei. Le raccontai proprio di quelle parole, quelle a cui cercavo, inutilmente, di disobbedire.
Le parlai anche della radio, del mio sogno di far arrivare la mia voce oltre i muri di casa, oltre gli ostacoli, oltre la notte. Di raccontare il mondo senza doverci stare dentro per forza. Ma le confessai anche l’altra verità, quella che custodivo più in fondo: il desiderio di fuggire da un certo mondo e da imposizioni soffocanti.
Le dissi che sognavo di partire. Di imbarcarmi su una nave mercantile e sparire tra le onde, restare in mezzo al mare, senza mai scendere in porto, senza radici, senza ormeggi. Solo cielo e sale, e il suono costante dell’acqua a ricordarmi che, forse, è solo nel movimento che avrei potuto trovare pace.
“Lo so che parli in radio… ti ascolto, ogni tanto.”
“… ti ascolto” Sorprendentemente parlò di me, in modo strano, sottile. Ma non capii. Allora ero troppo acerbo per leggere tra le sue parole. Non vedevo che mi stava scrivendo messaggi segreti, piccoli biglietti per esprimere un sentimento nascosto nella sua anima mentre io, come spesso ho fatto, ho lasciato che mi scivolassero via.
Non vidi l’invito, non riconobbi il segnale.
Scesi dall’autobus poco dopo, con quel senso vago di occasione mancata che si insinua lento.
E ancora oggi mi chiedo: perché non rimasi un po’ di più? Perché non le chiesi di continuare la conversazione davanti a un caffè? Forse perché scappare mi sembrava più semplice che restare. Forse perché, a volte, c’è qualcosa che fa più paura della solitudine.
Ero così immerso nella lettura che non mi accorsi del temporale che imperversava fuori. La pioggia scendeva fitta, decisa, battendo contro i vetri puliti solo il giorno prima.
Ma quel temporale… ce l’avevo dentro anch’io. Un’agitazione silenziosa, fatta di ricordi che tornavano come raffiche di vento contro il cuore.
Poi, tra le righe di quel libro, accadde qualcosa.
Come in camera oscura, piano piano, lo sviluppo iniziò; davanti a me si delineò l’immagine in bianco e nero di due ragazzi su un autobus. Due volti familiari, il mio e il suo.
Ma no, non poteva essere. Non potevo essere io quel tale Andrew, salito su una nave mercantile per sfuggire alla sua stessa voce, per smarrirsi lontano dal cuore. Eppure… la somiglianza era disarmante.
E non poteva essere lei, quella tale Kate che, con una piccola ricetrasmittente a onde corte, lanciava ogni sera messaggi nell’etere, sperando che attraversassero oceani e cieli e interferenze, arrivassero, deboli ma integri, fino a lui.
Non poteva.
Eppure quel libro sembrava raccontare esattamente i nostri incroci, i nostri sguardi mancati, le emozioni sospese, le paure taciute. Come se Valeria avesse registrato i battiti di quei momenti e li avesse messi nero su bianco, per farli arrivare, finalmente, dove avrebbero dovuto arrivare molti anni prima.
Mancavano circa venti minuti e la sala conferenze della biblioteca era ancora mezza vuota. Non avevo il coraggio di sedermi nelle prime file. Valeria era già lì, circondata da un folto gruppo di persone. Cercai di capire chi potessero essere; amici, letterati, politici, compagno, figli o, semplicemente gente che la ammirava e voleva conoscerla.
Poi, successe quello che, con il cuore che batteva a mille, mi aspettavo.
Mi vide, sorrise, e di nuovo, con lo sguardo abbassato, quel suo flebile “ciao” seguito dal mio nome. Fu come una lama dolce che affondava nei ricordi.
“Come stai?” Ebbi l’impressione che, in qualche modo, volesse qualcosa di più di una semplice risposta di circostanza; un messaggio eterno e definitivo.
Ma che potevo dirle? Che potevo mai raccontarle? Che non ho viaggiato davvero, che la paura mi ha fermato più delle catene? Che i sogni, continuando a parlare in quella piccolissima radio, li ho raccontati più di quanto li abbia vissuti?
Che una voce come quella di mio padre continuava a dirmi: “dopo tutti questi anni, ma dove vuoi andare? dove vuoi arrivare? Resta qua, stai qua!”
Forse è questo il mio vero fallimento: non averle mai detto che, pur se lontanissima, l’ho sempre sentita vicina; che tramite la mia piccola radio le ho sempre lanciato dei messaggi e che ogni sua parola era un porto e io, invece, ho sempre scelto il mare.
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Ci sono ricordi che sfiorano l’anima come gocce di pioggia su una finestra, lasciando scie impalpabili che il tempo non può cancellare. Sono sussurri di un passato che vive ancora nel cuore, segrete emozioni che spesso non abbiamo mai osato confessare nemmeno a noi stessi. Istanti preziosi che il destino ha voluto relegare al passato ma che, nel segreto dell’anima, non hanno mai smesso di esistere.
Sono frammenti di felicità intensa, di attimi rubati alla quotidianità, che non chiedono di essere raccontati, ma solo ricordati nel silenzio, dei quali rimane, a volte, solo l’immagine svanita di uno sguardo o di una carezza sfiorata. E anche se il destino ha cambiato le strade e il tempo ha scritto nuovi capitoli, restano intatti quei battiti del cuore, quelle emozioni che nessuno potrà mai portarci via.
E poi, ci sono certe gelide sere d’inverno quando la malinconia, scende come una nebbia densa e ci avvolge completamente; in cui il freddo non è solo nell’aria, ma si insinua nell’anima.
Ed è proprio allora che, per spezzare l’angoscia, mando in onda canzoni come questa e lascio che la melodia si diffonda nell’aria gelida, danzando tra i pensieri.
La dedico a noi che non abbiamo il coraggio di oltrepassare il confine del non detto, di trasformare il desiderio in azione ma, restiamo immobili, lasciando che sia il destino, a riempire gli spazi vuoti.
A noi che aspettiamo, con occhi che scrutano l’orizzonte del possibile, con mani che fremono per un’emozione che ancora non arriva. Aspettiamo con il cuore in tumulto, un abbraccio, una parola, o un incontro che spezzi il silenzio.
A noi, a ciò che eravamo e a ciò che resteremo: un legame intessuto di ricordi e sogni, un filo invisibile che attraversa il tempo e le stagioni perché certe storie non finiranno mai, si trasformano in versi, si fanno poesia eterna. un canto immortale che vivrà per sempre, come gocce di memoria che non si asciugheranno mai.
Sono gocce di memoria Queste lacrime nuove Siamo anime in una storia Incancellabile
Le infinite volte che Mi verrai a cercare Nelle mie stanze vuote Inestimabile È inafferrabile La tua assenza che mi appartiene
Siamo indivisibili Siamo uguali e fragili E siamo già così lontani
Con il gelo nella mente Sto correndo verso te Siamo nella stessa sorte Che tagliente ci cambierà Aspettiamo solo un segno Un destino, un’eternità E dimmi come posso fare Per raggiungerti adesso Per raggiungerti adesso Per raggiungere te
Siamo gocce di un passato Che non può più tornare Questo tempo ci ha tradito È inafferrabile
Racconterò di te Inventerò per te Quello che non abbiamo
Le promesse sono infrante Come pioggia su di noi Le parole sono stanche So che tu mi ascolterai Aspettiamo un altro viaggio Un destino, una verità E dimmi come posso fare Per raggiungerti adesso Per raggiungere te
Sembrerà strano ma, il giorno di San Valentino, mi viene in mente EnsoPenso e quella stramaledetta “buona domenica” di Antonello Venditti.
Era l’unica canzone di Venditti che odiavo; ritraeva perfettamente le mie pallose domeniche invernali, tutte uguali, praticamente un copia e incolla. Sempre la stessa scena; mia mamma ipnotizzata dalla tv, si faceva massicce dosi di domenica in; mio padre e mio fratello attaccati alla radio ad ascoltare tutto il calcio minuto per minuto, tiravano giù i santi dal paradiso man mano che si allontanava la possibilità di fare tredici, mentre, mia nonna, se ne stava a letto lamentandosi per i dolori. Nell’aria, una gran puzza di fumo generato dallo smodato consumo di Nazionali senza filtro; un po’ dappertutto c’erano bucce di bagigi; un quadretto del genere, avrebbe mandato in depressione chiunque.
… Ciao, ciao domenica, passata a piangere sui libri …
Parole tristemente famose e maledettamente reali. Quella domenica 14 febbraio del 1982, diciottesimo San Valentino della mia vita, ancora senza una donna, la stavo passando lottando disperatamente con il testo di matematica. All’indomani, stando al calcolo delle probabilità, c’era il serio pericolo che la Biasiotto mi convocasse per darmi ‘na beapetenada, per dirla in dialetto. Se fosse andata male, avrei dovuto presentarmi al cospetto di sior Mario con l’ennesimo quattro registrato nella mia fedina penal-scolastica; il che, voleva dire perdere almeno quattro denti e, per giunta, quelli non cariati, senza possibilità di reimpianto.
Ciò nonostante, decisi di farmi due passi fino al civico 69 dei paeassoni per far due chiacchere con EnsoPenso; gli avrò detto mille volte che non volevo sentire quella canzone ma lui, imperterrito, continuava a mandarla in onda ogni santa domenica pomeriggio. Lo trovai più depresso e demotivato di me.
“Ma parché no’ ti ghe ga ancora da un titoeo a ‘sta trasmission?”
“Parchè, ea dovaria averghene uno?”
Era inutile far certe domande a uno nelle sue condizioni; la sua anima era stinta come gli abiti che portava. Decisi che la cosa migliore da fare per tutti e due era una seduta di psicoterapia in bar da Nane.
Credo che la depressione del single a San Valentino avesse preso in pieno anche lui perché, mentre facevamo la strada, attaccò subito.
– “Ma ti, ti gà ea morosa? “
– “No “
– “Mai avua una? “
– “No, e ti? “
– “‘Gnanca mi”
Entrammo da Nane Sbérega dove, i soliti, alla loro maniera, stavano festeggiando San Valentino. “Par un’ora d’amor no’ so cossa faria; par poderde ciav…”, il testo integrale è meglio non trascriverlo. Denis Sgorlon era, nel quartiere dei paeassoni, l’indiscusso mago delle cover. Quella domenica pomeriggio, con un pieno di bionda doppio malto Ruttolongo nello stomaco, si stava cimentando con il greatest hits dei Matia Bazar. Milio Vianeo riferì che ci eravamo appena persi una magistrale reinterpretazione di “Stasera che sera” dal titolo “Stasera che sega”. C’era poco da fare; il Denis era un genio, un grande poeta; mi diede un’idea per lo stantio programma radiofonico di EnsoPenso.
Giorni dopo mi inerpicai su per i grigi scalini del civico 69 con alcuni “ferri”; la valigetta dei 45 giri della cuginona Franca, due walkie talkie INNO-HIT, regalo di zio Sergio per la cresima e, l’ancora intonsa antologia di letteratura.
Altra cosa importante, io non ero più io, bensì un tale Nicola, trentenne scapoeon che, di mestiere faceva il bancario, quindi, professionalmente ben piazzato; con la passione per la barca a vela; nonché, colto e amante della poesia.
Quella domenica, ‘sto tale Nicola, pensò bene di telefonare in radio e, EnsoPenso, pensò altrettanto bene di mandare la telefonata in diretta, cosa che non aveva mai fatto fino a quel momento; primo perché, fino a quel momento, non c’era mai stata neanche l’ombra di una telefonata da mandare in diretta; secondo, perché senza i mitici INNO-HIT; il trucco non sarebbe riuscito.
Ancora ridiamo pensando a quel giorno; incredibile, quaranta e passa anni fa avevo creato la mia prima identità fake uso social, che ‘vanti che gero!
“Cinzia, non so se sei in ascolto. Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine. Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. Almeno, lascia che ti dedichi questa bellissima canzone”
Ero sicuro che nella valigetta della cugina Franca c’era “Per un’ora d’amore” dei Matia Bazar, diedi poi istruzioni a EnsoPenso di mandarla in onda al mio segnale.
Era la prima volta che usavo el maton, così chiamavo la pesantissima antologia di italiano, per scopi non propriamente scolastici. Fu una magistrale interpretazione la lettura di quel brano di Italo Calvino, nei panni di quel fantomatico Nicola.
Il socio sollevò delicatamente la puntina, un attimo prima che, a fine corsa, deragliasse per finire sopra l’etichetta; poi, con una voce calda “da letto” disse: “carissimi amiche e amici; ma voi, cosa fareste per un’ora d’amore? Sotto con le telefonate”. La mia geniale idea di dare un po’ di verve a quella trasmissione prese forma.
EnsoPenso frugò nella valigetta come se avesse trovato un tesoro; tirò fuori ”comprami” di Viola Valentino; a quel punto temevo seriamente che chiamasse Denis Sgorlon o qualche suo amico di bevute, per spiegarci nei minimi dettagli, cosa avrebbe fatto per un’ora d’amore o meglio, durante l’ora d’amore.
Con “Su di noi” di Pupo, arrivò la prima telefonata, una certa Vania, che non volle essere messa in diretta. “Ghe xè ‘na cocca che vol saver de tì, de Nicola intendo …” EnsoPenso, preso dall’emozione, ne mollò una di potentissima; il tanfo era una via di mezzo tra i miasmi di porto Marghera e il puzzo della brodaglia domenicale, della mia vicina di casa, siora Antonia Masiero. Meno male che aveva avuto la prontezza di stringere forte la cornetta del telefono con due mani; io invece, viola in volto, finii disteso sotto il bancone del mixer con i crampi allo stomaco dal ridere; “mona, cossa ghe digo ‘desso?”.
Mi resi conto di aver creato un mostro, praticamente, un antesignano di un troll sul web; imperativo, mantenere l’alone di mistero, per cui, diedi al socio istruzioni di rimanere sul vago. Dovette darsi parecchio da fare in merito in quanto, fu uno stillicidio di telefonate de fie che, chiedevano informazioni su quel tale Nicola e, per dedicargli canzoni; devo riconoscere che a raccontar balle era un maestro.
Purtroppo, la valigetta di cugina Franca non riusciva a soddisfare le richieste. Dopo quasi due ore volate in un attimo, sfiniti, mandammo in onda l’evergreen, “if you live me now” dei Chicago, che, fece da sigillo alla puntata numero zero di quella trasmissione; battezzata ufficialmente con il titolo di “per un’ora d’amore”; un vero e proprio new deal, per quella radio sfigata e per quello sfigato di EnsoPenso.
Quando uscimmo, el caigo aveva ormai avvolto l’intero quartiere; secondo EnsoPenso, quella fitta nebbia, che ti faceva perdere i contorni della realtà, era causata da tutte le balle che avevamo appena raccontato. Il chiassoso vociare, che proveniva dal bar di Nane Sberega, come un faro, ci indicò la rotta verso un buon tramezzino con birrino.
Un tonno e cipolline, un tonno e olive e un prosciutto e funghi, erano gli unici superstiti che giacevano, chissà da quanti giorni, sotto quel bisunto canovaccio. Non aveva importanza, bastavano per festeggiare quella nuova geniale trovata.
Nonostante fossero passati dei giorni, non doveva aver ancora superato il trauma del San Valentino senza una donna. Ad un certo punto, con una cipollina tra i denti, tornò a fissarmi:
“Ghe xè qualcuna che te piase?”
Sin dai tempi della scuola elementare, era la domanda più imbarazzante che mi si poteva fare; tentai inutilmente di rigirarla al mittente; niente, il socio insisteva. Era chiaro che, con la scusa di quella domanda, intendeva, gratarme ea pansa, ovverofarmi parlare di “quella cosa lì”, magari con dovizia di particolari.
Sviai il discorso dicendo che faceva tanto ridere che i due autori, nonché conduttori, della trasmissione radio dal titolo “per un’ora d’amore”, avessero come uniche fonti sull’argomento, un testo scolastico, una valigetta con alcuni 45 giri di canzonette e i discorsi captati, de fora via, agli “esperti” che frequentavano il bar “da Nane Sberega”.
Non me la sentivo di sbottonarmi con il socio e dirgli che invece, una che mi piaceva c’era eccome.
Non condivido il pensiero di Macchiavelli ma, per certi fondamentali scopi della vita, il fine giustifica i mezzi. Così un giorno, decisi di farmi amico quel cagaalto di Nicola Berardo, un fio de papà che organizzava festini danzanti nel mega palazzo di famiglia a Venezia. Avevo assoluto bisogno di entrare nel suo giro, volevo approfondire la conoscenza di quella biondina dai lunghi capelli ricci che frequentava la sua compagnia.
L’avevo notata per la prima volta, mentre se ne stava sdraiata sui gradini dei Tolentini; era bastato un attimo perché i nostri sguardi si incrociassero e, dalle nostre bocche uscisse simultaneamente un “ciao” a bassissima voce, quasi soffocato; poi lei, voltandosi verso una sua amica, si mise a ridere.
Non ebbi però il coraggio di tornare indietro per attaccar bottone; in preda all’euforia cominciai quasi a correre; in autobus poi, mi prese un morsegon de stomego.
Quel pomeriggio, dovetti accompagnare nonna Angela dal dottor Scarpa, el dotor dea mutua, da tempo dedito a curare anima e corpo degli abitanti dei paeassoni e dintorni. Approfittai per riferirgli dello strano mal di stomaco. “Cossa gà me nevodo; me par de aver capio, farfae dentro el stomego?Xé ea prima che sento”; nonna Angela era parecchio sorda, per cui, el dotor, dovette quasi gridare; “Angea, to nevodo xè gà vantà ‘na bea incocaìa par ‘na cocca!”
Con la diagnosi del luminare in tasca; vista la mia inguaribile timidezza, non mi restava che pensare a come fare per incontrarla “casualmente”, nel senso che non doveva sembrare fatto apposta; per questo mi venne in mente cercare in qualche maniera di imbucarmi ai festini buei di quel rotto in cueo di Berardo.
Non fu necessario perché, alla fine, il destino o fortuna che fossero, mi diedero una mano. Galeotti furono “I giardini segreti di Venezia”.
Misteriosamente, sentivo che dovevo assistere a quella conferenza; non era solo la mia innata passione per i giardini ad attirarmi; rimasi un bel po’ a fissare quella vecchia panchina di legno sotto un maestoso albero secolare, ritratta nella foto della locandina; volevo assolutamente scoprire dove si trovava; in qualche maniera, intuivo, che in quel posto sarebbe successo qualcosa.
La sala era stracolma; stavo per rinunciare, possibile che a così tante persone interessassero i giardini segreti di Venezia?
“Riesci a capire se c’è posto?”; stetti immobile trattenendo il respiro, non avevo il coraggio di voltarmi; anche se non ci avevo mai parlato assieme, avevo memorizzato per bene il tono della sua voce. Dal cuore partì una raffica di mitra; la biondina dai lunghi capelli ricci, caramella in bocca, stava parlando proprio a me.
“Ne vuoi una?”; l’offerta di quella Galatina, per giunta la mia caramella preferita, scatenò una tempesta di una potenza inaudita, altro che farfalle, nel mio stomaco iniziarono a volare missili intercontinentali. A quel punto sarei entrato anche a costo di aggrapparmi a uno dei lampadari; come un falco mi fiondai su due posti liberi affiancati, non prima di aver pestato non so quanti piedi e mollato gomitate a destra e a manca.
“Piacere Agnese”; che vergogna, avevo la mano sudatissima; nonostante lì dentro facesse un caldo insopportabile, ero ancora con il piumino addosso, irrigidito come un baccalà, grondavo di sudore da tutti i pori. Lei invece si era già messa a suo agio; dalla borsa tirò fuori una bustina di velluto rosso piena di matite colorate.
“Però, i Faber; sei ricca! Io uso ancora i Giotto delle elementari”.
“Che mona!”; rispose, dandomi un leggero pugnetto sulla spalla. “Porca miseria, qua sta ingranando alla grande”, pensai.
Agnese pareva ascoltare con attenzione; io pure cercavo di dare l’impressione di fare lo stesso, in realtà i miei pensieri erano altrove; la scanociavo con discrezione, non volevo far la figura del maniaco sessuale; poi, mi venne spontaneo chiederle dove, secondo lei, si trovasse il posto raffigurato nella locandina.
“Cosa fai domenica? Potremo andare a cercarlo”; di fronte a quella proposta, non sapevo se filare dritto in ambulatorio da Scarpa per farmi prescrivere qualche decina di scatole di calmanti oppure, al ponte de le maravegie da Fenz e, ordinare la più cara bottiglia di prosecco.
“Cosa faccio domenica? Da quasi vent’anni, ogni domenica, aspetto una come te”, volevo rispondere.
Subito dopo pranzo; ebbe inizio quella che, rimarrà nei miei ricordi, come la domenica perfetta. Per primo, mi sciroppai un tot di gocce di Valium sottratto alla dotazione ansiolitica di mia madre; poi, doccia fuori ordinanza con abbondante uso di HugoBoss; infine, passai a concentrarmi attentamente sull’outfit da indossare. Decisi per i pantaloni grigi, lupetto nero e il cappotto nero lungo, quest’ultimo, era un po’ consunto a causa dell’intenso uso in discoteca, ma, l’insieme mi dava decisamente un’aria da intellettuale creativo; per completare l’opera, in tasca ci infilai pure un taccuino della Moleskine, comprato per l’occasione il giorno prima.
L’appuntamento era alle 15.00 ai giardini Papadopoli. Vi giunsi con mezz’ora di anticipo; dovetti andare a prendere un caffè; il Valium mi aveva rincoglionito per bene.
Avrei voluto la vedesse EnsoPenso; era vestita secondo il suo standard; cappotto beige a trequarti, minigonne e stivali con il tacco; uno schianto. La prima cosa che fece dopo avermi salutato mi lasciò inebetito; con la mano, mi sistemò dolcemente il bavero del cappotto; lo colsi come un gesto intimo, molto più forte di un bacio.
Fu lei a condurre la ricerca del giardino segreto; e menomale, perché io, perso nel suo sguardo e nel suono della sua voce, ero talmente assorto da non rendermi conto di dove stessimo andando. Il mondo attorno a noi si dissolveva, le calli si intrecciavano come sogni, e la gente, i loro sguardi, i loro passi, erano solo un’eco lontana. Come accadde alla conferenza qualche giorno prima, continuavo a mollare gomitate e a pestare piedi, tanto che mi presi più di qualche “maedia de morti“.
Decine di ponti, chilometri di calli, e giardini che non erano quelli che cercavamo, fecero da scenografia al racconto delle nostre giovani storie. Freneticamente, senza mai fermarci, ci descrivevamo a vicenda i luoghi ideali dove avremmo voluto vivere, dipingendo con le parole un futuro che forse, in fondo, ci apparteneva già. Credo che nessuno dei due avesse mai parlato così tanto in vita sua: eravamo come due fiumi in piena, incontenibili, travolgenti.
Agnese, di tanto in tanto, si fermava a sistemarmi il cappotto con quella dolcezza che mi faceva vibrare il cuore. Era un gesto piccolo, quasi impercettibile, ma carico di un’intimità silenziosa che mi faceva desiderare di abbracciarla, di stringerla forte a me. Ma il tempo, il momento, sembravano ancora sospesi tra il sogno e la realtà. Troppo presto, o forse, me ne mancava semplicemente il coraggio.
A son di parlare attraversammo per lungo tutta Venezia, fino ad arrivare ai giardini napoleonici di Castello. Il viso di Agnese, di colpo si illuminò. Pensai avesse finalmente trovato la panchina sotto l’albero secolare; invece, si ricordò che, nella calle a fianco dell’istituto nautico, c’era un bacarèto che faceva degli straordinari panzerotti; mi prese per mano e mi trascinò dentro. Si sedette sfinita, credo si fosse pentita di essersi messa stivaloni e minigonne: in effetti, non era l’abbigliamento adatto per quella scameada a Venezia.
Approfittai di quel momento per attuare una mossa strategica; con la scusa di andare in bagno, feci sintonizzare la radio del bar su un emittente “seria” e poi telefonai in studio. Sapevo di trovare Riccardino, lo pregai di mandare in onda Let me in di Mike Francis, con una mia dedica ad Agnese; tornai a sedermi e aspettai con ansia il momento; “che mona!”, si fece una risata e non disse altro.
Sul finire di quella “domenica perfetta”, ci sedemmo ad ammirare il tramonto su una panchina vicina all’imbarcadero di S. Elena. Il cielo si tingeva di sfumature dorate e rosate, riflettendosi sulla laguna come un quadro dipinto con pennellate d’emozione e il vento, portava con sé l’odore salmastro.
Agnese fissava l’isola di San Servolo, i suoi occhi persi oltre l’orizzonte, come se lì, in quel punto esatto dove la laguna si fondeva col cielo, si celasse un pensiero segreto, un’ombra che le turbava il cuore.
La osservavo ansioso, con il cuore che batteva come un tamburo impazzito, sentivo crescere dentro di me l’attesa di qualcosa di indefinito, ma potente.
Poi, improvvisamente, come in un gesto naturale e inevitabile, la sua testa si posò sulla mia spalla. Mi irrigidii, quasi trattenendo il respiro, ma il calore del suo corpo e il profumo dei suoi capelli mi avvolsero come una dolce melodia. Feci scivolare la mano tra quei soffici boccoli dorati, lasciandomi cullare da quella vicinanza così intensa eppure fragile.
Lei sospirò profondamente. Poi, con voce quasi tremante, mi chiese:
“Ma tu, riusciresti ad essere solo il mio migliore amico?”
Il cuore mi si strinse. Ogni fibra del mio essere gridava la risposta che avrei voluto darle, ma alla fine le parole uscirono da sole, sincere e nude:
“Farei fatica, ma ci posso provare; non garantisco nulla.”
Lei rise, quella risata dolce e leggera che amavo più di qualsiasi melodia. Fu in quel momento che, mentre affettuosamente, giocavo a stiracchiare i suoi ricci, condivise una cosa che, era a metà via tra un peso e un segreto. Con gran fatica, mi parlò delle sue inclinazioni sessuali; di un amore che non poteva essere quello che io speravo.
Sulle prime sentii il mondo sgretolarsi sotto i miei piedi. Fu come un tradimento, un abbandono ancor prima di iniziare. Pensai; proprio a me doveva capitare.
Ma poi, con occhi limpidi e sinceri, mi disse:
“Sei una persona speciale. Lo sento dentro e a te posso dire certe cose.”
Fu allora che compresi. In un attimo passai dall’adolescenza alla maturità, come se quelle parole avessero spalancato una porta su una nuova consapevolezza. Mi resi conto che la mia responsabilità non era quella di conquistarla, ma di esserci per lei, di proteggerla, di custodire la sua fiducia come il tesoro più prezioso. E giurai a me stesso che sarei stato il suo migliore amico, per sempre. Che l’avrei difesa da tutto e da tutti.
Ovviamente, non ci mettemmo insieme quel giorno, né mai. Eppure, io resterò per sempre innamorato di Agnese. Come ha detto qualcuno: “Ci sono amori che ci piombano addosso come una stella cadente; durano tutta la vita e la cambiano per sempre”. È per questo che ancora oggi il battito del mio cuore accelera ogni volta che arriva un suo messaggio, spesso è un invito a continuare a cercare insieme un certo posto.
Camminiamo ancora per ore attraversando tutta Venezia, alla ricerca di quella vecchia panchina in legno sotto un maestoso albero secolare, ritratta nella foto della locandina di “I giardini segreti di Venezia”. Per quanto la cerchiamo, non l’abbiamo ancora trovata ma, in compenso, abbiamo scoperto, in fondamenta della Misericordia, una incantevole tea room con annessa libreria. Ed è lì che ci rifugiamo a parlare d’amore. Con lei posso sciogliere i nodi che mi affliggono, senza il timore di essere giudicato.
Posso abbracciarla senza paura, passare la mano tra i suoi boccoli dorati e dirle che è bellissima, che è una gran figa, senza che pensi che ci sia un secondo fine. E mentre lei, con affetto, continua a sistemarmi i colletti delle camicie e dei cappotti, io mi sento libero. Libero di essere me stesso. Libero di piangere, senza vergogna, mentre lei sorride e, con quella dolcezza tutta sua, mi sussurra ancora: “che mona!”
A ripensarci bene, il giorno di San Valentino, mi vengono in mente EnsoPenso, Agnese e … ancora Venditti
“Tutti gli amori che vivrò Avranno dentro un po’ di te Perché lo so dovunque andrai In ogni istante resterai … indimenticabile” Antonello Venditti
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C’era poco da fare, a noi quattro sfigati mancava il più importante degli ingredienti necessario per vivere appieno gli anni Ottanta: far parte di una compagnia. Ce ne stavamo lì, in una scassatissima radio, con un microfono ancora più scassato, a comunicare la nostra voglia di emergere… ma a chi, poi? Insomma, mentre gli altri vivevano la magia di quegli anni tra abbracci, risate e canzoni urlate a squarciagola, noi eravamo fuori onda.
Quello degli anni ’80, era un vento di spensieratezza che soffiava leggero e coinvolgeva tutti. Erano un’epoca unica, quasi magica, che ha lasciato un’impronta indelebile nei ricordi di chi li ha vissuti. Per chi ha avuto la fortuna di esserci, erano anche gli anni delle “compagnie”: quei gruppi veri, tangibili, fatti di amici in carne e ossa, altro che i gruppi sui social. Erano tutte persone reali, palpabili… calma, non fraintendetemi.
Nella nostra città, le più gettonate erano quelle de piassa Fero, veri e propri miti in cui molti sognavano di entrare, per il semplice motivo che erano ben fornite di “materia prima” di prima scelta. Riuscire a farne parte era come far tredici al Totocalcio.
Per quelli di bocca buona, poi c’erano le più sboldre, come quea dea Cita di Marghera; roba per amanti del rutto libero per intenderci.
Nel nostro quartiere imperava quella capitanata da Riccardo Beltrame; uno stronzo megagalattico, nelle grazie del nostro parroco don Gianni che, durante gli incontri del venerdì sera in patronato, si riempiva la bocca parlando di eguaglianza, fraternità e inclusione; mentre, entrare a far parte della sua compagnia era ben altra cosa.
Il tipo era molto selettivo tanto che, per noi quattro e, per le ragazze che lui giudicava troppo “cattoliche” e timorate di Dio, sarebbe stato più facile ottenere la cittadinanza americana senza sapere una parola d’inglese. Ovviamente, per la gnocca, la porta era sempre aperta, comprese alcune compagne militanti in Lotta Continua che però erano munite di certe curve pericolose.
Per noi, far parte di una compagnia era più che mai necessario, un bisogno primario come mangiare e dormire. Sì, perché negli anni Ottanta, senza una compagnia, eri praticamente un satellite alla deriva nello spazio dell’adolescenza. Ma, purtroppo, sembrava che, da quando avevamo acceso il trasmettitore, su noi di SolaRadio fosse scesa una sorta di maledizione sociale, quella del “voi no!”
Eravamo “quelli fuori”, facevamo parte della casta degli esclusi: esclusi dalle compagnie, esclusi dalle feste, esclusi dalla camerata di quelli che contavano al campo scuola e persino dal banco dei tramezzini più buoni alla festa dei giovani in parrocchia.
Allo scopo di trovare una spiegazione logica a tutto questo, continuavamo ad aggirarci come anime in pena nello sgangherato studio di SolaRadio, uno stanzino minuscolo foderato con i cartoni delle uova, nel quale ristagnava un odore di muffa che nemmeno un vento di bora a duecento chilometri all’ora riusciva a scacciare.
Per trovare una risposta, comunque, bastava semplicemente guardarci. Sembravamo fatti con lo stampo: pantaloni “acqua alta” di un colore che non lo vedevi nemmeno addosso agli anziani in casa di riposo, idem per quei maglioni larghi che indossavamo. Capelli sui quali sembrava avesse nevicato da quanta forfora c’era, viso stravolto dall’acne che se avessimo fatto scoppiare tutti i brufoli ci avresti potuto condire una pasta. Non serviva aver letto i trattati di Freud e Jung per capire che eravamo, e ancora siamo, degli introversi senza alcuna speranza di reversibilità; era sufficiente osservare la nostra postura. La verità era che non sarebbe bastato neanche un abbonamento per dieci pellegrinaggi a Lourdes per renderci cool.
“Ohi fioi, versimo ‘na compagnia?” Paperoga buttò lì la proposta. Forse, nella nostra solitudine sociale, c’era un filo di speranza.
Pochi giorni dopo, sotto mentite spoglie di un certo Rudy, decise di lanciare un annuncio epocale:
“Ciao gente! Se siete interessati a formare una nuova compagnia, ci troviamo domani pomeriggio alle sette davanti alla pasticceria della Cesarina!”
Come a tutti noi, non gli interessava tanto fondare una compagnia per la gloria, la fratellanza o lo spirito di gruppo. No, il vero obiettivo era attirare qualche bella squinzia che potesse portare un po’ di “primavera” nel suo gelido deserto sentimentale.
Al giorno e ora prefissata, munito di occhiali da sole anche se c’era un cielo grigio, il volpone fece finta di passare di lì per caso allo scopo di verificare se all’annuncio avesse risposto qualche bella squinzia. Noi tre, suoi compari di sventura, eravamo appostati a distanza, nascosti dietro un cespuglio come agenti segreti, ma senza la minima dignità.
Faceva ridere osservare il nostro socio mentre si guardava intorno con aria speranzosa, scrutando ogni angolo della strada. Forse, pensava, sarebbe arrivata qualche Venere in jeans e maglietta, una musa che avrebbe trasformato la sua vita in una commedia romantica. Invece, come da copione, comparvero solo Berto Perdon detto “ipnotisaeo” per via dei suoi occhiali a fondo di bottiglia e Nicola Martin detto “manovea”, il perché ve lo lascio intuire. Due solitari moltoni in perenne batua.
A quel punto, Paperoga fece quello che ogni grande leader farebbe: un cenno di pollice verso rivolto verso di noi, un gesto chiaro e inequivocabile. Noi, dal nostro nascondiglio, scoppiammo a ridere così forte che si sentiva su tutto il piazzale della chiesa. Era il suo modo per dire: Missione fallita, qui c’è da scappare. E mentre si dileguava con la nonchalance di un ladro beccato con le mani nella marmellata, capimmo una cosa: l’amico non sarebbe mai stato il leader di una compagnia, ma cavolo, sapeva come farci morire dal ridere.
Per consolarci dal tentativo naufragato, ci rifugiammo in bar da Nane; alla fine comunque, una sorta di compagnia ce l’avevamo. Certo, i fioi del bar, non erano proprio coetanei ma, maestri di vita. A loro modo, dispensatori di perle di saggezza e aneddoti indelebili. Ce n’erano certi che, ogni volta che aprivano bocca, era un po’ come ascoltare un oracolo.
“’Ste ‘tenti che ea fame fa brutti schersi”. A proposito di compagnie, Gianni Passarella, meglio conosciuto come Nane Passarea, con il tono solenne di chi stava rivelando un segreto universale, più di una volta ci aveva messo in guardia.
All’inizio pensammo si riferisse alla necessità di mangiare, ma presto capimmo che parlava di un’altra fame. Quella che ti spinge a buttarti sulla prima donna che incontri solo per non restare solo. Se gli chiedevi di spiegarsi meglio, si limitava a indicare sé stesso con un gesto teatrale e un mezzo sospiro.
Il tutto per confessare che era il classico morto de figa; un uomo che, aveva agito in preda a questa “fame” e ora ne pagava il prezzo, intrappolato in una vita di coppia non appagante. Di questa cosa, avrebbe dovuto farne tesoro EnsoPenso.
Chi invece ascoltava certi “insegnanti” fin troppo era Paperoga.
Un pomeriggio, entrammo proprio nel mentre Massimo Zoccarato stava deliziando i presenti con l’ultima delle sue avventure erotiche. I popcorn, come al cinema, non c’erano ma, andava bene lo stesso un bel tonno e cipolline accompagnato da una spuma.
“Ma ti, … ti fumi?” Il Maci stava facendo uno strano gesto con le dita della mano portata a fianco del suo naso.
Memo Bottacin ci spiegò che l’illustre docente, stava erudendo i presenti su come chiedere a una donna se fosse disposta a fare un certo “lavoretto”.
Notai che Paperoga seguiva attento come se stesse prendendo mentalmente degli appunti.
Purtroppo, il giorno seguente avvenne quello che temevo. Durante l’ora di matematica, il troglodita, facendo lo stesso gesto con la mano, si rivolse all’avvenente Veroni; “Professoressa, … lei fuma?”
Probabilmente quel gesto convenzionale e quella domanda erano di dominio pubblico; in classe scoppiò una risata fragorosa e il deficiente si beccò una nota sul registro.
Alla fine, anche incidenti di percorso come questi, facevano parte del fascino di essere dei “follower” di certi personaggi. I “vecchi” del bar ci avevano adottati a modo loro, e noi li guardavamo con ammirazione (e un pizzico di paura). Era una compagnia strampalata, ma l’unica che ci aveva accolto. Cominciavamo a capire che il bar da Nane Sbérega era molto più di un locale: era un teatro, una scuola, e forse anche un piccolo circo.
Inoltre, noi con la nostra piccolissima radio, avevamo qualcosa di unico, qualcosa che nessuna compagnia, nessun grande gruppo organizzato avrebbe mai potuto offrirci: la libertà di esprimerci liberamente nell’universo meraviglioso dell’etere. Esclusi, imperfetti, forse anche sfigati agli occhi del mondo, ma incredibilmente orgogliosi di ciò che eravamo. Quella radio era il nostro rifugio e il nostro megafono, un luogo dove potevamo sparare tutte le cazzate che volevamo e, non era cosa da poco.
E poi, col tempo, quella compagnia che tanto ci mancava, proprio come voleva fare Paperoga, l’abbiamo costruita con le nostre mani. Sì, perché quella scassatissima emittente che avevamo fondato è diventata molto più di un semplice esperimento: si è trasformata in un rifugio, un punto di incontro per altri esclusi come noi. Anime erranti in cerca di un posto nel mondo, desiderose di far sentire la propria voce, di esistere agli occhi degli altri, proprio come lo eravamo noi. La nostra radio non era soltanto un progetto: era un simbolo di riscatto, una casa per chi si sentiva fuori posto, costruita con le onde dell’etere e il battito dei cuori.
Non ci importa tanto di non arrivare da nessuna parte quanto di non avere compagnia durante il tragitto. Anna Frank
Gli anni più belli … ascolta il podcast
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“Chi xè l’ultimo?” Nonostante la tecnologia avesse subito un’esponenziale evoluzione, prima del COVID, il collaudato sistema di accesso dei pazienti all’ambulatorio, dell’ormai vecchio dottor Scarpa, era rimasto invariato, sin dai tempi quando, novello dottoretto, aveva aperto bottega. Questo nonostante esistano applicazioni che permettono di prenotarti per anticipo visita medica e anche il tuo funerale, nell’eventualità che, quest’ultima, avesse un esito funesto.
Memorabili le volte quando “l’ultimo”, ti faceva motto con lo sguardo, che sottintendeva, “cassi tui”, indicando dei personaggi ben vestiti dotati di valigetta. I tipi in questione erano gli odiatissimi, rappresentanti de medesine, almeno così li definiva il popolo.
Quella volta che venne affisso il cartello “I signori informatori scientifici, si ricevono ogni tre pazienti”, tutti si chiesero chi cavolo fossero; si pensò a degli studiosi. Qualcuno ventilò l’ipotesi che si sarebbe girato un documentario in ambulatorio.
I rappresentanti de medesine, una volta solo uomini ma che, ora, annoverano tra le loro file anche delle gran gnoccolone, se pur con fare gentile, come diciamo noi, i teo cassava a bottega, nel senso che la tua attesa si sarebbe prolungata inevitabilmente di un tot; questo per permettergli di infinocchiare per benino il doc. Sull’argomento, la fantasia dei frequentatori dell’ambulatorio galoppava; se el rappresentante era uomo, questi avrebbe sicuramente promesso allo Scarpa un giro di troie, se invece era donna, avrebbe provveduto direttamente lei a elargire la prestazione; era uno dei tanti argomenti per ingannare l’attesa.
Non c’era comunque verso di ottimizzare i tempi. Una volta ebbi la malsana idea di chiedere, in veste di penultimo, all’ultima di tenermi il posto; avevo fatto un rapido calcolo e, sarei riuscito a passare da Vittorio per farmi lo scalpo. “Giovane! Cossa ti credi che sia ea to serva! Anca mi go da ‘ndar al marcà, ti speti qua come tutti ‘staltri!” La vecchia grima, assidua frequentatrice del posto, mi apostrofò in modo pesante innanzi ai presenti.
Spesso, il problema non era il tempo di attesa, ma con chi condividevi quei pochi metri quadri dell’anticamera. La sopracitata grima generalmente non era mai da sola ma, usava accompagnarsi con altrettanti esemplari della sua specie.
Faceva parte della categoria che, mio cugino Bobo, definiva “vedove allegre”; donne che avevano provveduto a sotterrare il marito qualche mese dopo che il tapino era riuscito ad arrivare alla tanto agognata pensione. La causa del decesso era sempre la stessa ovvero, “el ga avuo un croeo”; sulla cosa sarebbe stato interessante indagare. Le “vedove allegre”, con il cadavere del marito ancora caldo, non perdevano tempo per darsi alla pazza gioia scialacquando la pensione di reversibilità in cene sociali e gite parrocchiali.
Quando te le trovavi in ambulatorio, aspettavano che ci fosse un attimo di silenzio e poi una di loro sparava; “savè chi che xè morto?” mentre una delle comari, una volta conosciuto il nome del novello “poro”, prontamente ribatteva “ma no! l’altro giorno el gera sentà proprio la”; il “proprio la”, era fatalità il posto dove stavo seduto. In un millisecondo, “vedove allegre” a parte, tutti gli altri, procedevano con il rito di toccarsi i genitali, donne comprese.
Ovviamente non mancai di riferire al doc circa il disagio psichico nel quale ero sprofondato a causa delle vecchie; lo Scarpa se ne uscì con la storica frase “quee ‘e va al funeral de tutti tranne che al suo. Issamorti, no’ e xé proprio bone de farse i funerai sui”.
Anche le lunghe attese riservavano i loro vantaggi; trovavi sempre tra gli astanti un tajatabarri professionista patentato che ti forniva notizie fresche in fatto di gossip locale. Non serviva leggere quelle quattro rivistine sgualcite, che giacevano da anni sopra il tavolino, era molto più divertente ascoltare, quello che la tipa o il tipo avevano da dire, specie se riguardavano gente che conoscevi bene.
Se ti andava, potevi condividere sulla pubblica piazza, i tuoi problemi di salute; molto spesso, in sala d’attesa trovavi dei veri luminari della medicina e, in men che non si dica, ancor prima di varcare la soglia dell’ambulatorio, saltavano fuori diagnosi e cura.
Mitico quel giorno che andai a farmi vedere un rusioeo, scientificamente detto orzaiolo, che mi era venuto nell’occhio destro.
“Fame vedar ‘sta roba”, non ebbi nemmeno il tempo di avvicinarmi alla scrivania. “Mostrime e man”, non capivo cosa c’entrasse ma obbedii. “Miseria! Quante ti te ne ga fatte?”, stavo già facendo mentalmente il conto quando mi interruppe “mona, so drio schersar”; tirai un sospiro di sollievo.
“A cossa xé dovuo?”, gli chiesi mentre compilava la ricetta. “A ‘na mancansa”, rispose sorridendomi. “De qualche vitamina?”, ribadii. “Ciamemoea cussì”, replicò con un ghigno ironico. Questo era il doc, sapeva vedere in profondità senza bisogno di avanzatissimi nonché costosissimi strumenti diagnostici.
“A proposito, ve go ‘scoltà”. Avevamo da poco messo su antenna, ma mai mi sarei aspettato che l’esimio e impegnatissimo medico di quartiere, trovasse del tempo per ascoltare un manipolo di deficienti che sparavano nell’etere cazzate a gogo.
“Ti me par un fià massa ebete ma, ti xé drio far ‘na bea roba”. Poi fu un fiume in piena nel lodare quello che stavo facendo e a parlare di musica, non gliene fregava niente che fuori in sala di attesa, le vecchie stavano scalpitando facendo il diavolo a quattro; a quei tempi, non c’erano le rigide imposizioni dell’Azienda Sanitaria sulla durata della visita.
In quel momento, mi tornarono in mente le parole di mia mamma, che dello Scarpa aveva la fidelity card, quando diceva “guarisse più ‘na paroea che ‘na medesina”
“Samorti, cossa te gao trovà, el coera?” Ciano Manente mi fece notare che ero stato dentro più di mezz’ora. “Asseo star fantoin, varda che ocio, cossa te gao da?” mi chiese premurosa siora Onorina Cecchinato.
“’na pomata”, tagliai corto perché dovevo cercare di non dimenticare i nomi di certi farmaci salvavita che mi aveva prescritto a voce e che nessun rappresentante de medesine aveva in catalogo. Molti li conoscevo già ma altri come Franco Battiato, Sergio Endrigo, e Joan Baez me li dovevo assolutamente procurare.
Era la settimana prima di Pasqua e, per non rischiare scomuniche lampo, avevo deciso di mettermi in regola con i dettami della Santa Romana Chiesa. Così, il giorno precedente, mi ero confessato. Del resto, viste le condizioni del mio occhio – secondo le convinzioni di mia nonna avevo guardato qualcosa che non dovevo guardare – non si poteva mai sapere, era meglio arrivare preparati al giudizio divino. D’altronde, le scritture parlavano chiaro: “se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”.
Eppure, devo ammetterlo: se tra confessionale e ambulatorio ci fosse stato un campionato del benessere interiore, il dottor Scarpa avrebbe vinto a mani basse. Quando uscii dal suo studio, una leggerezza nuova mi pervase, più intensa persino di quella provata dopo l’assoluzione di don Gianni.
Fuori, il venticello primaverile mi sfiorava il viso con una carezza lieve, e il tepore della stagione mi invitava a sperare in qualcosa, quel qualcosa che mi mancava da sempre. Ero profondamente felice di avere il dottor Scarpa tra gli amici di SolaRadio. Lui ci capiva, ci sosteneva, mentre il nostro prete ci guardava con sospetto, semplicemente perché la nostra piccola radio non era nata in seno alla parrocchia, una cosa demoniaca che ci avrebbe portato alla perdizione.
Ma el dotor, inoltre, cosa molto importante, mi aveva fatto intravedere quello che mi sarebbe piaciuto, almeno in teoria, fare nella vita.
Ho sempre sospettato che il suo stetoscopio fosse tarato non solo per sentire i battiti del cuore, ma anche i sospiri dell’anima. È stato il primo che mi ha diagnosticato quella che, alla fine, era la mia più grave malattia. Senza troppi giri di parole, mi ha messo davanti alla realtà: sono pieno di paure, ne ho una collezione più vasta di un mercatino dell’usato, e queste hanno condizionato ogni scelta o peggio, non scelta, della mia vita. Ma mi ha anche insegnato ad accettarle, a conviverci, e soprattutto ad accettare me stesso per lo scemo che sono.
Anche se mi è simpatico e mi fa un sacco di tenerezza quel ragazzo di origine indiana che ha preso il suo posto, ultimamente, riduco allo stretto necessario le capatine dal medico della mutua. La mia ipocondria è aumentata esponenzialmente, il solo passare davanti all’ambulatorio, mi induce i sintomi delle più svariate malattie. Inoltre, da quando ho passato una certa età, sono bersaglio di non so quante campagne di prevenzione, ricevo periodicamente lettere dal tono minaccioso. Per uno come me, la lettura di certi opuscoli genera un attacco di panico, c’è poco da fare, il messaggio subliminale che comunicano è chiaro, “ti xé vecio ti ga da morir!”
Quando passo davanti all’ambulatorio, un’ondata di ricordi mi avvolge, riportandomi a quella visita di tanti anni fa. Ricordo l’energia che il dottor Scarpa seppe infondermi, quell’entusiasmo che mi aveva caricato a molla, facendomi sentire, per un istante, capace di qualsiasi cosa.
Eppure, il tempo ha seguito il suo corso, e le cose non sono andate come forse avevo sognato. SolaRadio non è mai cresciuta ed è sempre rimasta una piccola emittente di quartiere; e io, non sono diventato chissà chi, né fatto un granché ma, più di tutto, non sono mai riuscito a trovare davvero quella cosa che, secondo lui, mi mancava.
Eppure, se chiudo gli occhi, posso ancora sentire la sua voce mentre mi parlava di musica e di Martin Luther King.
Nel nostro quartiere, nessuno si sarebbe sognato di tradire il dottor Scarpa per un presunto luminare dalla parcella esorbitante. Lui non era solo un “Medico Generico”, come recitava la targa. No, avrebbe meritato un titolo più onesto e prestigioso: “Medico Specialista dell’Ascolto di anime e … SolaRadio”
Se non puoi essere un pino sul monte,
sii una saggina nella valle,
ma sii la migliore piccola saggina
sulla sponda del ruscello.
Se non puoi essere un albero,
sii un cespuglio.
Se non puoi essere un’autostrada
sii un sentiero.
Se non puoi essere il sole,
sii una stella.
Sii sempre il meglio
di ciò che sei.
Cerca di scoprire il disegno
che sei chiamato ad essere,
poi mettiti a realizzarlo nella vita.
Douglas Malloch
Poesia citata da Martin Luther King nel discorso “The other America” del 1967
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