Vento dall’est

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 1 – Vento dall’est

Giovedì 18 giugno 2009

La vita appartiene a coloro che vivono, e coloro che vivono devono essere preparati per i cambiamenti. Johann Wolfgang von Goethe

Ci mancava anche quella frase di merda sul muro di quella hall di merda di quell’azienda di merda. Non mi avevano nemmeno liquidato con il classico “le faremo sapere”; macché, sono andati giù diretti, “lei non soddisfa i requisiti di selezione inerenti al profilo professionale ricercato” o qualcosa del genere, stronzi di merda, affanculo. 

Fallito l’ennesimo tentativo di cambiare lavoro, fallito di conseguenza l’ennesimo tentativo di cambiare la mia piatta e monotona vita; piatta e monotona come i campi che mi circondavano. Le mie palle stavano tracciando per terra due lunghi solchi profondi e perfettamente paralleli simili a quelli del troso che porta alla casa nova. Trentadue gradi e l’umidità che sarà stata al 99%. Porco di un mondo, eravamo appena all’inizio dell’estate e quel cancaro de sofego, oltre alla rabbia, mi stava rendendo ancora più pesante l’obbligo istituzionale di recarmi da mia madre per la consueta visita infrasettimanale. 

La foschia contribuiva a rendere tutto incolore; sfido chiunque, non sia nato da queste parti, di riuscire a distinguere una casa nova da un’altra; sono tutte uguali, spesso costruite accanto alla casa vecia, ovvero la vecchia casa colonica che, nonostante sia pericolante, continua a essere usata come deposito. Le case nove sono casette di due piani, misurano massimo quindici metri per quindici metri e soprattutto non sono quasi mai dipinte ma lasciate in grigio intonaco, un vero esempio di globalizzazione edilizia.

Ogni giovedì, la pausa pranzo era dedicata a mia madre Giuseppina, detta Bepina ea vedova. Ottantatre anni portati malissimo, ea Bepina, da circa due anni non era più autosufficiente; artrosi, diabete, depressione e demenza senile l’avevano ridotta ormai a trascorrere i suoi giorni in carrozzina e a fare discorsi incomprensibili ad alta voce. In realtà, con la testa non è mai stata del tutto in bolla ovvero, come diciamo noi, “ghe mancava un boio”; mio padre, per primo l’ha sempre considerata ‘na insemenia; tra parentesi, mi chiedo perché l’abbia sposata.

Bepina, guadagnò il titolo di Bepina ea vedova l’11 novembre 1977, quando morì mio padre Giovanni alias Ioani Nosea. Inspiegabilmente mia madre, ancora prima di rimanere vedova, vestiva sempre di nero e, sempre inspiegabilmente, ogni sacrosanto giorno andava in cimitero per cui, non dovette cambiare abitudini e nemmeno outfit.

Le abitudini, purtroppo, le dovetti cambiare io. Ogni domenica pomeriggio, per non so quanti anni, invece di fare cose più consone a un ragazzino, fui costretto a trascorrere interi pomeriggi in cimitero, a braccetto della Bepina. Passavamo in rassegna i vari pori, ovvero i parenti e conoscenti defunti. Vi risparmio l’elenco completo ma, si partiva dalla pora Olga, mia nonna morta nel 1951, per finire sempre a un certo Rino morto nel 1966.

Quel giovedì non mangiai quasi niente; fiaccato dal sofego e, in preda a quella rabbiosa depressione, mi rinchiusi in quella che era stata la mia cameretta; tutto petaisso, mi distesi nel mio ex letto. Non era servito a nulla tenere la tapparella abbassata e la finestra aperta, l’afa, come un gas tossico, sembrava penetrarmi nei polmoni fino a soffocarmi. La sgradevole sensazione era accentuata dal pensiero che, fra mezz’ora sarei dovuto salire sulla rovente auto della ditta, rigorosamente senza climatizzatore, per tornare alla triste routine lavorativa. Non mi restava altro che consolarmi proiettandomi uno dei miei film mentali. Le sceneggiature, in genere, cambiavano di poco, usai una delle più collaudate. La scena si svolgeva in un piccolo albergo di charme in riva al mare, la serata era tersa e ventilata, stavo cenando nel porticato assieme a una bellissima ragazza, arrivata il mio stesso giorno. Mi raccontò di essere lì per ritrovar pace dopo una burrascosa vicenda sentimentale. Ascoltava incantata con il viso appoggiato sui pugni chiusi i miei discorsi filosofici sull’importanza della solitudine, i suoi occhi verdi non smettevano di fissarmi. Ad un tratto prese ad accarezzarmi dolcemente il viso. All’improvviso una voce fuori campo con accento dell’est mi fece ritornare bruscamente al qui e ora.

Era Irina, la badante moldava dea Bepina; che, con il suo tono di voce talmente penetrante che la si potrebbe usare come antifurto, mi disse di aver trovato qualcosa in camera di mia madre. Mi alzai intorpidito asciugandomi con la mano il rivolo di bava che nel frattempo si era riversato sul cuscino.

Avevo autorizzato ea slava, come la chiamava mia sorella, a sistemare i cassetti del vecchio comò di mia madre; era necessario mettere un po’ di ordine ma, soprattutto, buttare via la biancheria che, ormai, vecchia di decenni, puzzava di muffa.

Per mamma Bepina, quel comò è sempre stato sacro e, fino a quando era mentalmente in salute, inavvicinabile. Come tutte le donne di campagna possedeva pochissime cose di sua esclusiva proprietà, tutto quello a lei caro si trovava all’interno di quel metro cubo scarso. Ea Bepina quando si arrabbiava gridava come una forsennata e a questo si limitava; l’unica volta che, al contrario di mio padre, alzò le mani con me, fu quando all’età di sei anni, spinto dalla curiosità, aprii il famoso comò. Quell’evento eccezionale fece in modo che ne stetti alla larga per sempre; pazienza, in fin dei conti era bello pensare che in casa ci fosse un posto così misterioso. Mamma, tipico di molti anziani dotati di badante, era convinta che Irina, ne avesse trafugato il prezioso contenuto; purtroppo, non immaginava, che ormai, qualsiasi cosa avesse avuto un minimo valore commerciale, sia che fosse stata dentro il comò o, in qualsiasi altro posto della casa, era già, da tempo, finita nelle mani di mia sorella e di mio cognato; per cui, non avevo idea di cosa ea slava, avesse potuto trovare di tanto importante; ma, ormai, aveva interrotto la proiezione del mio film sulla scena madre, tanto valeva andare a vedere.  

La vidi intenta a maneggiare un vecchio libretto da messa spiegazzato e una specie di tovagliolo rosso; la faccia era quella di una che sta cercando di capire cos’è la sorpresa trovata nell’uovo di Pasqua. Avvicinandomi, constatai che il presunto libretto da messa, recava sulla copertina la scritta, “On the road” e, il tovagliolo era in realtà una bandana rossa con dei disegni bianchi; dovetti quasi strappargli a forza i due reperti archeologici dalle mani. Quella bandana aveva un’aria familiare, avevo la netta sensazione di averla già vista in un passato remoto. 

Non so se si trattò di una semplice coincidenza, in quel preciso istante, dalla finestra, entrò un fresco venticello de borin

Vento dall’est, qualcosa di strano fra poco accadrà … troppo difficile capire cos’è, ma penso che un ospite arrivi per me …”

Quella di Mary Poppins è una delle mie storie preferite; ho sempre desiderato che, un giorno, una persona speciale, facesse improvvisamente capolino nella mia vita, cambiandone radicalmente il corso. Quel vento dall’est attivò un’emozione tanto indescrivibile quanto forte; era come se, contemporaneamente, venisse esaudito un mio desiderio e, resa giustizia, per quella che finora, era stata una piatta vita di merda senza particolari emozioni. 

Con quello stato d’animo, passai a esaminare quel vecchio libro odorante di muffa. Ero fortemente convinto che l’interno dovesse per forza celare qualcosa. Sfogliai velocemente le pagine piene di macchioline giallognole; il mio intuito non sbagliò; alla fine, dietro la copertina trovai una frase scritta a penna.

Mi presero le palpitazioni e iniziai ad agitare le gambe; a Irina, dovevo essere sembrato sul punto di fare un colpo; me ne stavo, come un ebete, con gli occhi fissi su quelle poche righe scritte in inglese, senza proferir verbo. “Dimmi cosa c’è scritto”, continuava a ripetermi mentre contemporaneamente, tentava di tenermi fermo il braccio. 

Cercavo invano di capire il significato della frase; le parole si mescolavano, riuscivo solo a mettere a fuoco il mio nome e una data, alla cui vista, quasi svenni.

Irina mi fece sdraiare di nuovo sul mio ex letto e mi diede delle gocce di Valeriana che usava anche per la Bepina, era sempre stata contraria a psicofarmaci e porcherie varie.

Irina, o meglio, Ecaterina Cazacu, classe 1936; una laurea in tasca, per quasi trent’anni è stata addetta commerciale in un’industria manufatturiera dell’ex Unione Sovietica; lo scoprii quel giorno quando, dopo un quarto d’ora, tornò con un foglietto in mano, vi era scritta la frase tradotta.

21 agosto 1966

Caro Angelo,

Camminare per l’eternità, senza fermarmi, senza una meta; camminare, per sopravvivere, per dimenticare. 

Non riesco a fare altro; camminare, cantare e suonare la chitarra.

Mi piacerebbe portarti con me, ma devo dirti addio; le nostre anime, comunque, saranno per sempre unite.

Ti lascio questo libro, spero che un giorno leggendolo troverai il coraggio di lasciare tutto e metterti in cammino, magari per cercarmi. Chissà se il destino ci farà incontrare.

Vivi in pace e non avere paura di seguire la musica, ricordati che la musica non ha mai ucciso nessuno.

Buona fortuna mio piccolo

Kate

Io, Angelo Furlan detto fugasseta, il perché ve lo spiegherò in seguito, sono nato il 10 agosto 1966.

Continua …..

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