Epilogo

Fio dei Fiori – Romanzo

Sabato 21 settembre 2024, primo giorno d’autunno 

Alla fine sul nostro pontile sono rimasto da solo. Non c’è nemmeno Michele, ovvero il comandante Calzavara.  

Fu lui, quando, dopo il nostro viaggio, ci ritrovammo sul pontile, ad attaccar bottone. Me lo ricordo bene quel sabato di fine agosto 2009; passammo gran parte della giornata al chiosco Marinella. Per tre giri di birre e uno spritz che gli offrimmo, il malcapitato si dovette sorbire i nostri racconti; storia del libro e bandana inclusi, ovviamente.  

Oltre a occuparsi di aerei e osservarne in silenzio le relative scie, gli piaceva scrivere racconti. L’unica cosa che disse in merito alla faccenda è che sarebbe valsa la pena di farne un romanzo. 

Ci salutò che era un misto tra il divertito, l’incuriosito e, … l’ubriaco. Sperammo solo che non dovesse cimentarsi nel pilotare un aereo da lì a breve. 

Poi, a ottobre del 2009, fu Sega a lasciarci. Con la sua solita aria sbarazzina, si imbarcò in una missione particolare: installare piccole stazioni radio locali nei più remoti angoli del pianeta. “Tranquilli”, ci disse, con un sorriso disarmante mentre lo accompagnavamo all’aeroporto per la sua prima “missione”, “la musica non ha mai ucciso nessuno.” Io lo spero davvero, perché il mondo è stato troppo spesso crudele con chi cercava solo di portare un po’ di luce attraverso le note. 

Poche settimane dopo, anche el Bitol mi salutò. Lui, il sognatore, partì alla ricerca della sua musica, portandosi dietro la chitarra e il cuore pieno di nostalgiche canzoni degli anni ’70. Se mai vi capitasse di passare per Londra, Berlino, New York o qualche altra città, e di sentire un chitarrista che canta con un accento country veneto, fermatevi. Che compriate il suo CD o meno, a lui farà piacere sapere che qualcuno si è fermato ad ascoltarlo. 

E così, uno ad uno, se ne sono andati tutti, cambiando il loro mondo mentre il mio è rimasto lo stesso. Ogni mattina, alle otto e dieci precise, mi trovate a far colazione dalle “belle ragazze”, che nel frattempo sono diventate mamme di due bambini ciascuna, con padri diversi, ovviamente. La vita scorre, loro cambiano, mentre io rimango qui, immobile, a guardare il mondo che passa, avvolto da sogni che non si sono mai realizzati e da rimpianti che pesano sul cuore. 

L’estate è ufficialmente terminata, e sto qui, sul pontile, osservando le scie degli aerei che tagliano il cielo. Aerei che non ho più avuto il coraggio di prendere, rimanendo fermo e radicato a questo piccolo angolo di mondo, intrappolato tra ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è. 

Ah, dimenticavo, c’è una piccola novità nella mia vita: non prendo più il cappuccino, solo il caffè. Ho scoperto che il latte non lo tollero più. Un cambiamento banale, forse, ma sufficiente a ricordarmi che, in fondo, anche io sto cambiando, un sorso alla volta. 

Goodbye Mulls! 

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Il nostro concerto

Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

Capitolo 23 – Il nostro concerto

Novembre 1965 

Il nostro amico è molto malato”, esordì così, el piovan, quella domenica, quando, terminata la messa, mi chiamò in disparte. Ci guardammo entrambi a lungo negli occhi, non servivano grandi spiegazioni. “Dovresti andare a Venezia, chiamami Joani che gli parlo io”. Non so che argomentazioni tirò fuori il buon prete, mio marito non fece nessuna obiezione alla mia partenza. 

Attraverso i finestrini della solita vecchia littorina scorreva un paesaggio assai diverso da quello estivo, el caigo ti permetteva solo di intravvedere vagamente i contorni delle cose. 

In preda a strani brividi, me ne stavo tutta raggomitolata sul sedile. Erano ormai tre notti che non dormivo senza darmi pace; ora che finalmente l’avevo ritrovato no, non volevo pensarci. 

Non era possibile che il buon Dio mi facesse questo torto, proprio lui che, tramite don Guerino, il suo emissario al paesello, gli aveva permesso di rifarsi una nuova vita.  

Venezia, la sua unica e vera casa, lo accolse a braccia aperte, gli diede un lavoro e, se pur con grossi sacrifici, la possibilità di continuare a studiare musica. Incredibile come fosse riuscito a far coesistere il lavoro di capo cameriere in uno dei più noti ristoranti di Venezia, con la sua attività concertistica. 

Per la sua famiglia non esisteva più. Don Guerino era rimasto il suo unico amico e riferimento in paese, al quale, timidamente, qualche volta, chiedeva mie notizie.  

Cercai di scaldarmi ripensando alla bellissima estate appena trascorsa; non ci riuscii, in quella grigia giornata, era difficile rievocare la luce intensa del sole che si specchiava nel mare.  

Dal finestrino, si vedevano le ciminiere di Porto Marghera, sembrava che tutto il caigo circostante uscisse da lì; più le osservavo e più mi trasmettevano un brutto presagio. Mesi fa, chissà perché, non le avevo proprio notate, nemmeno quando, con una pesantissima tristezza addosso, feci l’ultimo viaggio di ritorno per portare a casa Teresa. 

Fintanto che, durante i quasi quattro mesi della sua permanenza in colonia, tornavo periodicamente al mare per andare a trovarla, riuscivo a sopportare il rientro a casa e tutto quello che ne conseguiva. Quell’ultimo viaggio di ritorno dal mare sembrava una condanna. Non fu per niente facile riprendere definitivamente la misera e faticosa vita di sempre, comprese le continue violenze di Joani, fu terribile. 

Volli conservare segretamente, nel mio intimo, i nostri momenti passati insieme, nessuno doveva sapere quanto era stato bello. A tutti raccontavo esclusivamente di Teresa e della colonia; spiegavo loro che il soggiorno le aveva giovato però, non bastava. Questo, allo scopo di mettere nella testa di quanta più gente possibile, Joani in primis, che l’anno venturo avrebbe dovuto tornare al mare. 

Lì mi ero trasformata in un’altra persona e, tutto quello che riguardava quell’altra me, doveva rimanere là. Perciò, lasciai alle suore quello che Rino, amorevolmente, mi aveva regalato e ogni cosa che riguardava l’incanto di quei giorni. Due bellissimi vestiti di seta, uno dei quali irrimediabilmente macchiato quella sera a cena nel suo ristorante. Il costume con il quale feci il mio primo bagno. Gli occhiali da sole con i quali guardai i tramonti sulla laguna. Le mie prime e uniche scarpette con il tacco che, mi si ruppe inevitabilmente quando salii in gondola, finendo tra le sue braccia. 

Jole, una vicina di casa che gli faceva da governante, mi venne a prendere alla stazione. Camminava anche lei con passo veloce come suor Speranza, dovetti stare attenta a non cadere a causa dell’umidità che rendeva scivolosi i gradini dei ponti. Era molto silenziosa, non scambiammo che poche parole di circostanza. 

Venezia, non era la stessa che avevo lasciato, ora tutto aveva un’aria tetra, la gente cupa in viso, camminava velocemente e il rumore dei miei passi echeggiava sinistro nel vuoto delle calli. 

Non ero mai stata a casa di Rino. Durante l’estate veniva sempre lui a prendermi al Lido, pensavo lo facesse perché si vergognava di mostrarmi dove abitava. Invece, appena varcai la soglia, rimasi estasiata, la casa era molto spaziosa e lussuosa, una vera reggia, tutto lì dentro trasudava signorilità come lui. 

Rino mi accolse in maniera abbastanza formale, capii subito che ciò era dovuto alla presenza della signora Jole. I primi momenti furono davvero imbarazzanti, seguiva ogni nostro passo mentre lui mi mostrava la casa. Non gli fu facile togliersela di torno, non gli bastarono le insistenti rassicurazioni, alla fine dovette quasi arrabbiarsi perché questa capisse che doveva lasciarci soli. Rino, quasi piangendo, mi spiegò che, siora Jole, era stata incaricata dai suoi fratelli di marcarlo stretto, non tanto per le sue condizioni di salute, ma, al solo fine di evitare che eventuali persone estranee sottraessero roba dalla sua casa. 

Via, no’ stemo qua a pensar ae disgrassie”, prese ad abbracciarmi forte come quel giorno in ospedale, capii subito che non voleva toccare l’argomento malattia. Mi allontanò un pochino da lui per guardarmi bene negli occhi, “Ti xè bea come el sol che ti me ga apena portà”, in effetti, dalle finestre entrarono dei raggi di sole mentre, il colorito della sua faccia si fece più acceso. A parte qualche frequente colpo di tosse, era tornato il Rino in versione estiva. 

Pareva un bambino al luna park, mi portò nel soggiorno e iniziò a tirar fuori di tutto, bottiglie, pacchi di biscotti e scatole di cioccolatini, lo calmai dicendogli che mi sarebbe bastato un semplice caffè. Mentre trafficava in cucina, iniziai a guardarmi attorno, era tutto così diverso dalla mia rozza casa colonica sperduta in mezzo ai campi. Ero particolarmente attratta dalla bellissima libreria in noce; libri e dischi dappertutto, un tipo di mobile, fino a quel momento, a me sconosciuto; dove vivevo, non si sentiva certo il bisogno di cultura. Scorsi qualcosa che mi fece alzare repentinamente dal divano, su un ripiano c’era una cornice d’argento con la foto di noi due, insieme al Lido; la ricordavo benissimo, ce l’aveva scattata il suo amico barista del Gran Viale. “Me so permesso, ti xè l’unica persona cara che me xè rimasta”, non mi ero accorda che era sopraggiunto alle mie spalle con il vassoio del caffè. 

Camina paiasso”, gli rispondevo sempre così, quando mi spiazzava con i suoi complimenti; impossibile contare quanti me ne aveva fatti durante l’estate. Si era però sempre fermato lì, andare oltre non era cosa per un signore come lui. Il suo modo di volermi bene consisteva semplicemente nell’ascoltarmi.  

Durante quell’estate recuperammo tutti i trent’anni di lontananza. Parlammo tanto distesi sui murazzi o, seduti in quel bellissimo caffè sul Gran Viale. Al massimo era arrivato ad abbracciarmi oppure a toccarmi delicatamente la mano. Quei giorni, man mano che parlavo con lui, un po’ alla volta, tutta l’infelicità degli anni passati si dissolse sotto quel bellissimo sole. 

Quel miracoloso strumento, il giradischi, dal quale uscivano le note delle canzoni in voga la scorsa estate, fece in modo di riscaldare l’atmosfera. Mentre ballavamo in salotto, quei giorni passati al Lido, non sembravano poi così lontani. 

In un battibaleno arrivò l’ora del pranzo. Ce lo portò Marietto, il cuoco del ristorante dove lavorava, “preparà con amor”, ci disse il simpatico personaggio. “Torna presto, te spetemo”, salutò e abbraccio Rino quasi piangendo. 

Dopo pranzo, mi chiese gentilmente la cortesia di ritirarsi un po’ in camera per fare un pisolino, era molto stanco, a suo dire, per colpa delle troppe medicine. Ne approfittai per lavare i piatti e riassettare la cucina. Calò uno strano silenzio in quella casa, d’un tratto mi presero nuovamente i brividi di freddo che avevo avuto in treno. Istintivamente mi recai in camera sua, era sveglio e mi chiamò; con tutta naturalezza mi coricai accanto a lui per scaldarmi. 

Pareva di essere tornati distesi sui murazzi, gli proposi il gioco del “me piasaria”. Ce lo eravamo inventati proprio lì, mentre stavamo con lo sguardo al cielo, consisteva nell’esprimere i nostri desideri, quelle cose che, almeno una volta nella vita, andrebbero fatte. Almeno per me, in quella interminabile estate, se ne avverarono tanti. Grazie a lui, feci un sacco di cose per la prima volta; come mangiare una gigantesca coppa di gelato, la pizza, un giro in gondola, fino a superare le mie paure ed entrare in acqua quasi fino alla testa. 

In vita mia non go mai fatto l’amor”, mi accorsi che lo stava dicendo singhiozzando. “L’amor”, Joani, “quella roba”, l’aveva sempre chiamata in un altro modo, non credo che lui e i suoi amici, avessero mai usato quel termine, nemmeno quando andavano a divertirsi con altre donne. Finora, per me, “quella roba”, non aveva mai avuto niente a che fare con l’amore. 

Rino teneva sempre fuori dai nostri discorsi i problemi di salute, non voleva farmi pesare la sua sofferenza. Ormai, però, gli ero talmente vicina che intuivo tutto, i brividi di freddo che sentivo, lo dimostravano. Cercavo in tutte le maniere di scacciare certi brutti pensieri ma, quel desiderio che aveva espresso, quell’unico rimpianto della sua esistenza, non lasciava dubbi. 

Alcuni mesi dopo, il pomeriggio del 24 gennaio 1966, Rino mi lasciò per sempre. Angelo, tu non ci crederai, ma in quel preciso momento sentii una dolorosa fitta al petto, il giorno dopo, quando don Guerino, venne a darmi la notizia, si stupì nel vedermi piangente, distesa a letto.  

Angelo, mi dispiace, ma è da quel pomeriggio di gennaio che, anche la mia mente ha iniziato pian piano ad andarsene insieme a lui. Da quel giorno è stata una fatica pensare, ricordare e, vivere. Di lui mi rimane solo il ricordo di quella canzone, l’ultima che abbiamo ascoltato assieme, … e tu. 

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Mercoledì 8 dicembre 2009, ore 14.30, fuori piove, no, questo ovviamente non va scritto. Giuseppina Milanese, nata a Oderzo il 27 settembre 1926, anni 83. Sandra, mi dia il numero di quel tale Angelo, il figlio, lo avviso io” 

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Ovunque sei, se ascolterai  
Accanto a te mi troverai 
Vedrai lo sguardo 
Che per me parlò 
E la mia mano 
Che la tua cercò 

Ovunque sei, se ascolterai 
Accanto a te mi rivedrai 
E troverai un po’ di me 
In un concerto dedicato a te 

Ovunque sei, ovunque sei 
Dove sarai mi troverai 
Vicino a te 

© 1960 Umberto Bindi – Antonio Calabrese

Fine

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Rino el matto

Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

Capitolo 22 – Rino el matto

Grazie alla sua incantevole posizione, l’Ospedale al Mare, visto dall’esterno, non sembrava affatto un luogo triste; il magnifico corridoio vetrato, affacciato sul giardino interno, lo faceva assomigliare ad un albergo. 

Il sudore delle mie mani stava ormai cancellando reparto e numero di stanza dal bigliettino che, poco prima, mi aveva dato suor Speranza. Era un pezzo di carta sottile, quasi impalpabile, ma il suo significato pesava come un macigno sul mio cuore. 

Una persona che è ricoverata in ospedale qui al Lido ha chiesto di te,” mi aveva detto la suora con un sorriso appena accennato. “Gli farebbe molto piacere se andassi a trovarla.” 

Appena quelle parole si sparsero nell’aria, sentii un brivido lungo la schiena. Le gambe mi tremarono, come se sapessero già ciò che il cuore non osava sperare. “Chi è?” le chiesi con la voce rotta da un misto di curiosità e paura. 

Mi ha telefonato don Guerino,” rispose suor Speranza, allargando le braccia come a indicare che non sapeva altro. 

Le indicazioni sul bigliettino mi portarono al reparto maschile. Ad ogni passo che facevo lungo il corridoio, il battito del mio cuore aumentava. I numeri sulle porte delle stanze scorrevano veloci sotto i miei occhi, ma uno in particolare si avvicinava sempre più. Ogni fibra del mio corpo si tendeva verso quel momento, eppure, quando ormai mancavano pochi metri, rallentai il passo. Non ero sicura di essere pronta. Non avrei potuto sopportare un’altra delusione. Pregai in silenzio, implorai Dio che quella persona fossi tu. 

Quando finalmente raggiunsi la porta, il tempo sembrò rallentare. I rumori intorno a me svanirono, come se il mondo si fosse dissolto, lasciando solo il suono del mio respiro spezzato dall’emozione. Negli interminabili minuti che seguirono, quella stanza di ospedale con tutti i suoi pazienti sembrò magicamente sparire, sparirono anche gli odori nauseabondi, restò solo il buonissimo profumo del tuo dopobarba. Un odore che mi riportò indietro di anni, come se il filo della memoria si fosse all’improvviso riannodato.  

Era come se un ponte avesse d’improvviso unito il baratro che si era formato da quella domenica mattina del 1954. Sparirono tutti i rumori della corsia, nel silenzio, come quella mattina, restammo solo io e te, abbracciati a piangere come due bambini. 

Eravamo bambini quando ci siamo conosciuti. Ti divertivi a fare lo scemo per attirare la mia attenzione, me ne ero accorta ma per pudore e timidezza, o forse solo per vedere quanto a lungo avresti resistito prima di dichiararti, continuavo a fingere di ignorarti. 

Mai una parola tra noi; solo quegli sguardi fugaci che ci scambiavamo durante la messa domenicale. Erano tutto ciò che ci permettevamo: ombre che si sfioravano, mai abbastanza coraggiose da incrociarsi veramente. 

Mi piacevi da morire perché eri diverso da tutti gli altri ragazzi. Ti osservavo in silenzio, ammirando quello che gli altri non riuscivano a vedere. In un’epoca in cui l’ideale di uomo era ancora quello tramandato dal fascismo — virile, autoritario, gran lavoratore nei campi — tu, Rino el matto, eri tutto l’opposto. Il tuo fisico gracile non era fatto per la vita dura della campagna, e tuo padre, così come il mio, non mancava di ricordartelo ogni volta. Spesso ti chiamavano “femenea”, una derisione amara per chi non si conformava agli stereotipi di mascolinità. Ma tu, con la tua fisarmonica, non suonavi solo note: facevi danzare il cuore di chiunque avesse la fortuna di ascoltarti. Ogni melodia che usciva dalle tue dita leggere sembrava una carezza, una promessa segreta. Quando eri lì, al centro, con il tuo strumento tra le braccia, tutto si trasformava. Non c’erano più solo musica e parole, ma un’energia che accendeva l’aria, un filo invisibile che legava ogni sorriso, ogni battito di mani. E tu, in quei momenti, diventavi re delle feste, il faro che attirava tutti verso di te, verso quella gioia effimera ma perfetta. 

Fu proprio in uno di quei momenti magici, una sera di inizio autunno durante la sagra del paese, che la nostra storia prese una svolta. La piazza era gremita, ma io vedevo solo te. E tu, mentre suonavi, cercavi il mio sguardo, come se ogni nota fosse dedicata solo a me. Fu in quell’istante che capii che non avremmo più potuto fingere. 

Quando finisti di suonare, senza dire una parola, ti avvicinasti. Il mondo attorno si fece sfocato, i rumori si affievolirono, e restammo solo noi, immersi in quella strana dolcezza. E tu, con quel coraggio che mai avevi mostrato prima, mi chiedesti di provare a suonare. Mi tremavano le mani quando mi hai guidato, stando in piedi dietro di me, le tue mani calde sulle mie, come a proteggermi da quell’emozione improvvisa. Arrossimmo insieme, e per poco la fisarmonica non mi scivolò dalle dita tremanti, tanto era forte il battito del cuore. 

Finimmo a camminare mano nella mano tra i filari di viti, cariche di grappoli che profumavano d’autunno e di promesse, la campagna ci avvolgeva in un silenzio intimo. Il tempo sembrò fermarsi per concederci interminabili momenti in cui parlare di musica e sogni. 

La domenica successiva, nascosto dietro la canonica, con voce flebile mi chiamasti, ti vergognavi, cercavi a fatica di coprire i lividi che avevi in volto. Alla mia richiesta di spiegazioni iniziasti a piangere. Marceo, tuo padre o meglio, il tuo padrone, ti aveva preso a bastonate per essere tornato a casa tardi dimenticandoti di rigovernare la stalla. Urlava che non eri simile ai tuoi fratelli, lo stavi portando alla disperazione, solo un matto poteva comportarsi così. 

Poi, il bacio e la promessa: “co torno te porto via co’ mi e te sposo” un attimo, il tempo di riprendermi, ed eri già voltato di spalle. Ti vidi mentre ti allontanavi velocemente con il tuo bagaglio, un sacco di patate con dentro le poche cose che possedevi, oltre l’immancabile fisarmonica in spalla. 

Da quella domenica, un pezzetto di te rimase dentro di me. Era come se la tua anima mi avesse raggiunta, tenendomi compagnia anche quando eri lontano, senza mai abbandonarmi davvero.  

Caro il mio Rino, il mondo intero poteva chiamarti matto, ma io ti vedevo per quello che eri: libero. Libero dai ruoli imposti, dalle aspettative ingombranti, dalle catene invisibili che stringevano tutti gli altri. E forse è proprio per questo che mi ero innamorata di te. E ora, lì, in quella stanza d’ospedale, dopo una vita intera, quell’amore non era mai svanito. 

Restammo così, io e te, abbracciati in silenzio, come due anime che, dopo tanto vagare, si erano finalmente ritrovate. In quell’abbraccio c’erano tutte le parole non dette, tutti i giorni persi, e tutto l’amore che, nonostante il tempo e la distanza, era rimasto immutato. 

Rimasi incredula quando, due giorni dopo, ti dimisero improvvisamente. Dicevi che era stato solo un controllo di routine, ma nei tuoi occhi leggevo altro. Eppure, quando arrivasti sotto al cancello dell’asilo, non ebbi il tempo di indagare. 

Eri lì, in sella a una Vespa, vestito di tutto punto, come un gentiluomo d’altri tempi. Strombazzavi allegro, il sorriso sfrontato di chi sa come far colpo, e nonostante fossi conosciuto anche al Lido come Rino el matto, riuscisti persino a tranquillizzare suor Speranza. Con la tua solita parlantina, la convincesti a lasciarmi andare con te. Da quel giorno, mi accompagnavi sempre agli Alberoni, da Teresa. Su quella Vespa, seduta di lato, aggrappata a te come si usava allora, ho vissuto i momenti più belli della mia vita. Ogni corsa con te era un viaggio verso la felicità, un ricordo che custodirò per sempre. 

Continua …

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Giuseppina e il mare

Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

Capitolo 21 – Giuseppina e il mare

Giugno 1965 

La vecchia littorina marron procedeva spedita attraverso i campi, i finestrini erano aperti e mi godetti tutta l’aria calda che impattava contro il viso, i campi cessarono, le case sempre più fitte e alte, i palazzoni, la civiltà. Non appena iniziammo a percorrere il ponte che collega la terraferma a Venezia nella carrozza entrò aria salmastra, respirai a pieni polmoni inebriata dalla felicità mentre il cuore iniziò a battere quasi al ritmo del treno, era il mio primo vero viaggio. 

La vecchia littorina sembrava ancor più fuori luogo accanto ai treni imponenti che sostavano solenni sulle banchine della stazione. Io e Teresa, con le nostre valigie consumate dal tempo, sembravamo due migranti che sfuggivano alla morsa della miseria e della fame, sbiadite figure in un paesaggio che non ci apparteneva.  

In mezzo a quel trambusto, la presenza rassicurante di Suor Speranza riuscì a togliermi tutta l’ansia che avevo addosso; se non fosse stata lì ad attenderci, dubito che saremmo mai arrivate da sole agli Alberoni dove c’era la colonia elio terapeutica. Quel piccolo e quieto angolo di mare sarebbe stata la casa di Teresa per l’estate, il luogo dove prendersi cura della sua asma.  

Joani si era opposto con tutte le forze alla soluzione che il medico aveva prospettato per nostra figlia. Nella sua mente, la nostra partenza per il mare non era una necessità, ma un capriccio frivolo, un lusso che non potevamo permetterci. Ogni spesa per Teresa, anche solo per acquistare il suo primo costume da bagno, lo aveva reso furioso. Povera bambina, fino a quel momento non ne aveva mai posseduto uno. Quanto a me, ovviamente, questo acquisto non era consentito visto che dovevo limitarmi a rimanere, ospite delle suore, solo qualche giorno affinché Teresa si ambientasse. 

Alla stazione, Joani era nervoso. Forse perché perdeva la sua serva per qualche giorno. Aveva dovuto lasciarmi qualche soldo per le spese impreviste, e questo lo infastidiva ulteriormente. Il suo disappunto era palpabile, ma io cercavo di non lasciarmi condizionare, concentrandomi invece su Teresa e su quello che ci aspettava. 

Mentre seguivamo Suor Speranza, la cui andatura decisa metteva in difficoltà la piccola Teresa, non potei fare a meno di rimanere incantata dal primo assaggio di Venezia. Non avevo mai viaggiato, mai fatto il viaggio di nozze, mai visto nulla al di là del mio piccolo paese. Venezia sembrava una città costruita per la bellezza, per i sogni. Non c’erano campi aridi e monotoni da lavorare, nessun lavoro pesante che curvava la schiena. Ogni cosa, ogni angolo, sembrava partecipare a una festa senza fine: la gente passeggiava sorridente, elegantemente vestita, come se non esistesse altro che l’allegria. 

Io e Teresa, invece, con i nostri abiti poveri e semplici, sembravamo spuntate da un altro mondo. Le donne che incrociavamo indossavano vestiti leggeri e svolazzanti, colori vivaci che danzavano al vento, e le loro mani, perfette e curate, risplendevano con unghie smaltate e senza traccia di fatica. Guardai le mie mani, rovinate dal lavoro nei campi, con la terra perennemente incastrata sotto le unghie. Un senso di vergogna mi assalì. 

Quando salimmo sul vaporetto, il terrore mi colse. Fino a quel momento, i miei piedi avevano sempre calcato la terraferma, e ora mi trovavo su una barca che si staccava dal pontile e cominciava a dondolare dolcemente sulle onde. Per un istante fui presa dal panico, aggrappata disperatamente a una sbarra metallica, rigida come una statua. Teresa e Suor Speranza, divertite, risero di cuore vedendo la mia goffa reazione, e presto anch’io mi lasciai andare, sorridendo di quella mia paura irrazionale. 

Fu in quel preciso momento, tra le risate e l’ondeggiare dolce del vaporetto, che mi resi conto di una cosa importante: quella doveva essere la mia prima vacanza. L’aria salmastra e la luce di Venezia stavano lentamente dissolvendo le preoccupazioni della mia vita quotidiana, e per la prima volta, mi permisi di sognare. 

Come prevedevo, l’ingresso in colonia di Teresa non fu traumatico. In fin dei conti anche lei era una ruspante piccola donna di campagna avvezza ai sacrifici e alle scomodità per cui, non le fu difficile abituarsi. Per noi due, tutto quello che ci circondava era bello e nuovo, a cominciare dal mare. 

Scoprii il mare la sera stessa del nostro arrivo. Alloggiavo al Lido di Venezia, ospite delle suore. Don Guerino, quel sant’uomo, aveva pensato fosse meglio che restassi accanto a Teresa nei primi giorni di colonia, affinché si ambientasse. Telefonò a suor Speranza, la superiora della scuola materna del Lido nonché sua cugina, chiedendole con gentilezza se potesse ospitarmi. l buon parroco conosceva il mio vissuto, intuii che l’aveva fatto anche per darmi la possibilità di starmene per qualche giorno da sola, in santa pace. 

Era la prima volta che uscivo da sola per una passeggiata, e la sensazione di libertà mi eccitava. Camminavo lungo quel meraviglioso viale alberato con una leggerezza nuova nel cuore. La vista delle persone sedute ai tavolini dei bar, sorridenti e spensierate, mi riempiva di gioia. Mi ripromisi che, prima di tornare a casa, io e Teresa ci saremmo concesse un gelato, sedute come due signore a quei tavolini, alla faccia di Joani. 

Il lungomare, con la sua grande terrazza affacciata sulla spiaggia, era a pochi minuti dall’asilo. All’improvviso, una folata di vento mi accarezzò il volto, e il mare mi si parò davanti con il suo infinito orizzonte, come una rivelazione. Rimasi senza fiato. Il suono delle onde che si infrangevano sulla battigia, in un continuo andirivieni dolce e misterioso, copriva ogni altro rumore. 

Con un misto di timidezza e meraviglia, iniziai a scendere i gradini della terrazza. Mi tolsi istintivamente le scarpe: la sabbia sotto i piedi era soffice, come un materasso accogliente. Attorno a me, non c’era nessuno. Mi sentii un’esploratrice solitaria, scopritrice di una terra nuova e sconosciuta. Con passo lento, quasi reverente, mi avvicinai alla riva. Fu il mare, con un’onda gentile ma più lunga del solito a venirmi incontro per primo, bagnandomi i piedi. Per un attimo, il riflusso mi fece perdere l’equilibrio, la testa mi girò, ma non era una sensazione spiacevole. Era una vertigine di felicità, come se il mare mi avesse accolto nel suo abbraccio. Continuai a camminare, immergendo i piedi nell’acqua, lasciandomi cullare dal ritmo delle onde. 

Mi fermai, godendomi la brezza marina che scivolava tra le gambe mentre l’acqua defluiva e poi tornava, più forte, a sommergermi i piedi. Inspirai profondamente, chiudendo gli occhi, cercando di catturare tutta l’aria salmastra possibile. Era diversa dalla brezza che sentivo a casa, nei campi. L’aria del mare era più densa, si insinuava persino sul palato, lasciandomi un sapore salato, intenso. 

Rimasi a lungo con lo sguardo fisso sull’orizzonte. Quella linea perfetta, dove il cielo e il mare si incontravano, sembrava chiamarmi verso l’ignoto, verso un infinito che mi affascinava e mi faceva paura allo stesso tempo. Mi sentivo piccola, ma stranamente completa. 

Mi accorsi solo allora che il mio vestito a fiori, quello buono della festa, era completamente bagnato. E non ero più sola. Poco distante, due ragazzi si abbracciavano, ridendo e scambiandosi baci. Ci scambiammo un’occhiata imbarazzata e, con discrezione, ci allontanammo l’uno dall’altro. Li osservavo di nascosto, da lontano. Nei loro sorrisi, nei loro gesti complici, vedevo tutto ciò che mi era stato negato, tutto quello che avevo irrimediabilmente perso. 

Un’ondata di tristezza e rabbia, mi travolse all’improvviso. La mia giovinezza, il tempo in cui tutto avrebbe dovuto essere possibile, era ormai svanita. L’amore, quello vero, quello che avevo sognato per anni, sembrava ormai destinato a rimanere solo un desiderio inappagato, confinato per sempre nei miei sogni più intimi. 

I due ragazzi, nel frattempo, si stavano allontanando mano nella mano, non li persi di vista. Vidi che lui stava infilando un foglio di carta in una bottiglia che, subito dopo lanciò in mare. Purtroppo, questa non fece molta strada, destino volle che le onde, da lì a poco, la sospinsero nuovamente a terra proprio ai miei piedi. 

Ormai i due erano spariti e io, presa dalla curiosità, raccolsi la bottiglia. Con non poca difficoltà, aiutandomi con un bastoncino, tirai fuori il biglietto. 

Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento  

o tende a svanire quando l’altro s’allontana.  

Oh no! Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai.  

Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio.  

Se questo è errore e mi sarà provato, io non ho mai scritto e nessuno ha mai amato. 

Ama chi ti ama, non amare chi ti sfugge, ama quel cuore che per te si strugge.  

Non t’ama chi di amor ti dice, ma t’ama chi guarda e tace.  

William Shakespeare 

 8 giugno 1965 Maria e Massimo .. per sempre 

I miei studi si erano interrotti alla terza elementare, nonostante questo, mi piaceva molto leggere ma, soprattutto, capivo quello che leggevo. 

Battei con forza i piedi sulla sabbia, mi arrabbiai con Dio, lui che fondava tutto l’universo sull’amore, mi aveva negato la possibilità di innamorarmi veramente di un uomo. Perché, solo per un istante mi aveva fatto assaporare un vero bacio e aveva permesso che il mio cuore battesse forte poi, più nulla per l’eternità. Perché vivere perennemente con lo struggente desiderio di un altro uomo e, per questo, sentirmi una peccatrice destinata a perire all’inferno. 

Rimisi il foglio nella bottiglia e, con tutte le mie forze, la tirai piangendo in mare. 

Ormai quello era l’uomo che avevo accanto, quella era la mia vita, che potevo fare? Inutile era ripetermi che mi sarei meritata una vita diversa. L’amore sarebbe per sempre rimasto dentro le pagine sgualcite dei miei fotoromanzi, sogni, solo e, per sempre, sogni. 

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Giuseppina

Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

Capitolo 20 – Giuseppina

Mercoledì 8 dicembre 2009 

“Giuseppina Milanese, nata a Oderzo il 27 settembre 1926” 

Quando sento qualcuno dire queste parole significa che, probabilmente, sono finita ancora una volta in ospedale o in un posto simile. Ho una grande confusione in testa, mi sembrava ci fosse Angelo qui, o era forse ieri. È brutto essere qui da sola ma, è ciò che mi merito per come mi sono comportata.  

Chissà che giorno è oggi. Fuori piove, e la pioggia mi ha sempre fatto compagnia. C’è qualcosa di magico nel suono delle gocce che danzano sul tetto, un ritmo dolce e familiare. Quando ero distesa a letto, sentire la pioggia battere mi regalava un po’ di tempo in più per sognare. In quei momenti sospesi, la pioggia diventava un manto che mi avvolgeva, proteggendomi dalla realtà e permettendomi di perdermi in mondi lontani. 

I sogni erano l’unico rifugio che avevo nelle lunghe giornate scandite da fatiche senza fine: cesti colmi di panni da lavare, letti da rifare, vacche da mungere, galline da accudire. E poi, i campi, che con le loro zolle dure mi piegavano la schiena. Erano giornate pesanti, sì, ma i sogni, quei sogni, erano la mia salvezza. Mi hanno tenuta in vita, come una flebile fiammella che resiste al vento. Anche se, ora, iniziano a sbiadire un po’, come quei romansetti, vecchi fotoromanzi in bianco e nero che ci passavamo di nascosto dai mariti, sfogliati mille volte, sgualciti dal tempo e dall’amore che non osavamo vivere apertamente. 

E tu, da quanti anni ormai sei l’unico protagonista dei miei sogni? Probabilmente da quella domenica mattina quando, trascinato dalla musica, avevi trovato il coraggio di scappare e, dietro la canonica, mi baciasti furtivamente, con la promessa che saresti tornato per portarmi via. 

Quella promessa è rimasta sospesa, aggrappata al filo dei miei sogni, un filo che non ho mai lasciato andare. 

Per anni, ogni notte, non vedevo l’ora che arrivasse il momento di stendermi sul mio ruvido materasso di crine. Era lì, in quell’attimo prima di dormire, che potevo finalmente riabbracciarti nei miei pensieri. Chiudevo gli occhi e ti cercavo, sperando di sognarti, di sentire ancora le tue mani, il tuo respiro vicino. Solo in quei sogni potevo vivere l’amore che mi era stato negato, e ancora adesso, anche se il tempo è passato, continui a essere l’unico rifugio a cui il mio cuore vuole tornare. 

Purtroppo, la realtà era diversa, la puzza e il russare di Ioani, coricato accanto a me, servivano a ricordarmelo. 

La stessa puzza che ho sentito per la prima volta quel giorno in stalla quando, dopo essersi assicurato che la porta fosse chiusa, mi disse, “speta che te mostro ‘na roba”. Provai un dolore lancinante quando, poco dopo, quella “roba” me la sentii in mezzo alle gambe mentre lui ansimava e il suo alito emanava puzza di vino. 

Noi donne dobbiamo passarne tante”. Una frase che sentivo ripetutamente pronunciare dalle anziane; per questo, in quel momento, non ebbi nessuna reazione. Nella mia ingenuità e ignoranza pensavo a quell’atto violento e doloroso fosse la prima tappa da affrontare per diventare una donna matura. A conferma di questo poi, Ioani, tutto sudato e soddisfatto mentre si ricacciava dentro i pantaloni “la roba” tutta bagnata e sporca disse: “dai bea che ancuo te go fatto diventar dona”. 

Se non fosse stato per le forti perdite di sangue che “la roba” di Joani mi aveva provocato, di quell’episodio non ne avrei mai fatto parola con nessuno. Purtroppo, invece dovetti subire un ulteriore umiliazione dal tribunale familiare. Io e Joani, non importava se contro la mia volontà, avevamo fatto “robe sporche”, le perdite di sangue si sarebbero fermate ma io, dopo morta, invece, ero destinata a finire all’inferno per l’eternità. L’unica soluzione per redimermi era sposarlo. 

Anche se ci tenevano volutamente nell’ignoranza, noi donne di campagna, prima o poi, le cose le capiamo. Io l’ho capito quella sera. Una delle tante in cui tornava a casa ubriaco, stanco e rabbioso, e mi rinfacciò, con un ghigno amaro, che mi aveva usato violenza solo perché spinto da mio padre. Se non l’avesse fatto, mi disse, avrei rischiato di restare zitella, e in qualche modo, il sacrificato, alla fine, era stato lui.  

E noi donne, con le nostre vite intrappolate nel fango della sottomissione, continuiamo a ingoiare il boccone amaro. A chinare la testa, schiacciate dal senso di colpa, perché alla fine siamo sempre noi le peccatrici, siamo sempre noi a dover espiare le colpe che ci vengono addossate. Non importa quanto grande sia l’ingiustizia, siamo noi a portarla, silenziose e invisibili. 

Dov’è finito Angelo? Era qui, ne sono sicura, continuava a tempestarmi di domande, un’abitudine che aveva fin da piccolo. Aveva sempre quel desiderio ardente di sapere, di capire, di scavare nelle cose con la sua curiosità insaziabile. Io, povera contadina ignorante, non ho mai avuto le risposte giuste per lui. Lui voleva sapere, e io non sapevo cosa dirgli. 

E ora, in questo momento raro di lucidità, quando finalmente avrei qualcosa di importante da dirgli, qualcosa che forse potrebbe cambiare tutto, è sparito. Come fa spesso. Scompare, si dissolve tra le ombre, lasciandomi sola con le mie parole inespresse, con i miei pensieri che si affollano senza un destinatario. 

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Due donne

Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

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Capitolo 19 – Due donne

L’abbaiare minaccioso di un cane che da un viottolo laterale stava velocemente venendole incontro la fece trasalire; se l’avesse azzannata, sarebbe stata la misera fine del suo viaggio appena iniziato. Rimase immobile cercando di non mostrarsi ostile, alla mal parata avrebbe potuto colpirlo con la chitarra. No, era l’unica cosa preziosa che le restava, avrebbe piuttosto preferito morire sbranata, lasciando intatta la chitarra, con la quale le sarebbe piaciuto essere seppellita. 

Il cane, continuando ad abbaiare a squarciagola, fortunatamente, si fermò al limite del viottolo; probabilmente voleva solo impedirgli di varcare il confine del territorio assegnatoli a guardia. Kate tirò un sospiro di sollievo, si accorse che le gambe stavano tremando ed era tutta un bagno di sudore. Nonostante l’aspetto trasandato che lo faceva sembrare feroce, aveva uno sguardo dolce, smise di abbaiare e la fissò con gli occhioni languidi, quasi volesse scusarsi per avere esagerato con la scenata intimidatoria messa in atto poc’anzi. 

Una donna con un bambino in braccio richiamò il cane. Kate continuava a starsene ferma immobile mentre la donna, mettendosi una mano sulla fronte per eliminare il riflesso del sole ormai al tramonto, stava cercando di capire chi fosse quella figura all’altra estremità del viottolo. “Acqua”, fu la prima parola che riuscì a pronunciare non appena furono a portata di voce; aveva una sete terribile dovuta allo spavento. 

Con un gesto della mano, la signora, che indossava una specie di camicione a fiori alquanto consunto, le fece cenno di seguirla. Il cane, scodinzolando, pian piano le si avvicinò per annusarla, il dubbio che non lo lavassero risultò fondato in quanto emanava un odore nauseabondo, questo, la fece desistere dal proposito di accarezzarlo, giunto sull’uscio di casa si accovacciò vicino alla porta, probabilmente non gli era permesso di entrare. 

Non appena riuscì a scorgerla bene in volto, Kate ebbe la sensazione che la donna fosse felicissima di quell’inaspettata visita, come se fossero anni che non vedeva nessuno. Si presentarono ma, nessuna delle due riuscì bene a capire i rispettivi nomi. 

Nella grande cucina dove entrarono, c’era una stufa alimentata a legna con la pentola sul fuoco. Il profumino era invitante e, oltre alla sete, le prese un certo appetito. 

La signora posò il bambino su di un fasciatoio improvvisato sopra il tavolo della cucina e insistette per farla sedere.  

Si trovò faccia a faccia con il piccoletto, che, a giudicare dall’aspetto, doveva essere nato da poco. Il bambino si accorse immediatamente della sua presenza, cercò subito un contatto tendendole le braccia. Era la prima volta che ne toccava uno così piccolo, la manina stringeva forte il suo dito mignolo e non aveva nessuna intenzione di mollare la presa. Kate realizzò che gli stava parlando nella sua lingua ma, aveva l’impressione che capisse lo stesso. Alla fine, parole e gesti di affetto sono universali. 

Non appena staccò le mani per bere l’acqua, subito il piccolo iniziò a piangere. A quel punto, incoraggiata dalla mamma, non le restò altro che prenderlo in braccio. Le prese per un attimo il panico, aveva paura di fargli male, non sapeva proprio come tenerlo; durò solo un istante, quasi per istinto le venne naturale trovare il modo per coccolarlo. 

Non le fu per niente facile iniziare a spiegare come mai si era trovata a passare di lì; le sembrava che quella donna non parlasse italiano, ma una specie di linguaggio locale. Però, forse per telepatia solidarietà fra donne, Kate ebbe la netta sensazione che comprendesse comunque quello che diceva tanto che, a un certo punto, la signora le accarezzo la testa passandole delicatamente la mano tra i riccioli. 

Considerando la complicità che si era instaurata fra loro due, non si stupì più di tanto quando, sbiascicando qualcosa in un italiano più stentato del suo, le offrì di fermarsi per la notte. 

Kate acconsentì e subito a quella signora col vestito a fiori, brillarono gli occhi. Probabilmente doveva sentirsi sola e, la possibilità che una persona, seppur straniera, si fermasse a farle compagnia, la riempiva di gioia. L’euforia della signora era alle stelle, trascinò Kate su per le scale, lei la seguì con il piccolo in braccio fin dentro una stanza con il pavimento in legno che scricchiolava tutto. Le indicò un lettino e disse “Angelo” poi, un letto più grande e disse “Cate”.  

Angelo, nel frattempo, gli si addormentò in braccio, d’istinto lo baciò e lo mise delicatamente nel lettino, il piccolo fece una leggera smorfia come si fosse accorto di non essere più avvinghiato a lei.  

La padrona di casa, con gesti veloci, distese il materasso che era ripiegato su sé stesso e dal quale uscivano dei filetti di paglia poi, prese da un vecchio comò le lenzuola. 

Ora che il letto era ben che fatto, c’era un grosso problema da risolvere, aveva urgentemente bisogno di un bagno; sbirciando in giro non aveva visto niente. Doveva in qualche modo farsi capire per cui, si mise le mani sulla pancia facendo contemporaneamente la faccia sofferente. La signora iniziò subito a ridere, aveva capito al volo, bene così perché, nel frattempo era giunta al limite del contenimento. Altro cenno di seguirla e, si trovarono nel cortile sul retro della casa, qui le indicò un casotto in legno. Chiusa la porta pensò che non ci fosse tempo per schizzinoserie varie e fece quello che doveva fare. In dotazione vi erano un secchio pieno d’acqua e dei ritagli di giornale, sorrise e pensò che quella potesse considerarsi un’esperienza da vera viaggiatrice. 

Recuperò la chitarra e il pesante zaino che erano ancora in cucina e li portò in camera. Con sua sorpresa, la signora nel frattempo le aveva fatto trovare una bacinella con dell’acqua calda, un asciugamano e del sapone; cose essenziali che apprezzò molto; erano sufficienti per darsi una sistemata dopo quel primo giorno di viaggio. Ogni tanto dava un’occhiata premurosa al piccolo Angelo. Ironizzava sul fatto che, pur nato da poco, si trovava già una ragazza nuda in camera; gli augurò di non diventare un maiale come la maggior parte degli uomini. 

Mentre si stava lavando, udii la voce di un uomo provenire da sotto, probabilmente si trattava del marito della signora. Sentiva chiaramente che stavano discutendo ad alta voce, udiva la donna tentare di replicare ma, la voce di lui subito la sovrastava.  

Affrettò le operazioni di toelettatura, ebbe la sensazione che l’oggetto di quella discussione accesa fosse proprio lei. Era meglio scendere alla svelta, nel caso la sua presenza non fosse gradita poteva andarsene all’istante, anche se non sapeva proprio dove. 

Lo scricchiolio della scala annunciò la sua discesa e, subito i due smisero di parlare. Il presunto marito della signora era un omone con il volto abbronzato e scavato, semi nascosto da un cappello di paglia bucato. Indossava una camicia lisa tutta sbottonata, i pantaloni erano tenuti su da una corda, ai piedi portava zoccoli di legno intrisi di terra. 

Kate sfoderò subito il suo sorriso. Lo sguardo truce dell’omone si trasformò, nel giro di un istante, in raggiante tanto che, persino la donna rimase stupita di quell’istantanea trasfigurazione. “Giovanni”, le disse porgendoli la mano, frettolosamente pulita, con mossa fulminea sulla camicia. Poi, in modo brusco e autoritario comandò alla moglie di apparecchiare la tavola. 

Nella stanza piombò un imbarazzante silenzio, unico rumore il pentolone che bolliva sul fuoco. Intervenne nuovamente la signora che, accarezzandole ancora i capelli, la rimise a suo agio; distese sulla tavola una tovaglia non proprio pulita, piena di macchie di vino rosso. Le posate erano alquanto ingiallite ma almeno sembravano pulite. Il padrone di casa si fece premura di versarle del vino che, traboccò dal bicchiere andando a rimpolpare le macchie sulla tovaglia. Con una certa titubanza, avvicinò il bicchiere alla bocca, il colore violaceo intenso e la traccia densa lasciata nel bicchiere già vuoto del suo commensale, a prima vista, non le fecero una buona impressione. “Buono!”, esclamò dopo il primo sorso, il sapore di quel vino non se lo scordò più. 

Non fu solo il vino ad allietare la cena ma pure un’ottima zuppa di verdura, una frittata con delle erbe verdi e una terrina piena di pomodori, fagioli e cipolle. 

Dopo aver allattato il piccolo, la signora, senza un apparente motivo, glielo rimise tra le braccia. Angelo tutto sorridente, sembrava interagire con lei emettendo dei piccoli suoni e le sue manine si tuffarono nei riccioli biondi per accarezzarli. L’attenzione del frugoletto si focalizzò sulla fascia rossa che portava in testa; visto che tra loro due ormai c’era intimità, Kate pensò di togliersela e mettergliela in mano; iniziò a giocarci emettendo dei versi gioiosi. Intonò una famosa ninna nanna del suo paese; Angelo, in men che non si dica, si addormentò tenendo stretta la fascia tanto che, preferì non toglierla per evitare di svegliarlo. 

La stanchezza di quella giornata particolarmente intensa cominciava a farsi sentire, fece cenno ai padroni di casa che sarebbe salita in camera. Ormai era un tutt’uno con il piccolo per cui, la signora lasciò che se lo portasse su in camera per metterlo a letto. 

Continuò ad accarezzare delicatamente la testina di Angelo mentre dormiva beatamente su un fianco, chissà se un giorno anche lei avrebbe avuto un figlio, per il momento, visto quello che le era successo, la considerava un’ipotesi molto remota. 

Malgrado la stanchezza non riuscì a prendere sonno, dava la colpa a quel rude materasso di paglia al quale non era abituata, decise di starsene un po’ alla finestra.  

I campi di mais che scorgeva in lontananza, come vastità, non erano minimamente paragonabili a quelli del Vermont. I suoni e i profumi della campagna mescolati con la leggera brezza che entrava contribuirono a rilassarla. Stette lì sulla finestra a osservare il vigneto illuminato quasi a giorno dalla luna piena, si capiva che l’estate stava volgendo al termine dalla sottile nebbiolina che lambiva la terra; segno che il fresco della notte stava prendendo il sopravvento sul caldo giorno. Questo, di solito, la rattristava, non sopportava il fatto che le giornate si accorciassero, segno dell’imminente irrompere della brutta stagione.  

Questa volta però era diverso; quella fine d’estate segnava l’inizio di una nuova vita. Una volta suo padre le parlò dei palloni aerostatici, le spiegò che, per potersi alzare in volo, dovevano liberarsi della zavorra, era quello che doveva fare anche lei, gettarsi alle spalle tutta la zavorra del passato per potersi librare libera verso nuove mete. 

Si voltò a dare un’occhiata ad Angelo, quel bambino aveva aperto una breccia nel suo cuore. Si chiese come sarebbe cresciuto in quella casa con due genitori non più giovani; con un padre così burbero e una madre che pareva essere alquanto depressa, non avrebbe avuto vita facile. Iniziò a fantasticare sulla possibilità di strapparlo a quella vita mediocre alla quale probabilmente era destinato. Avrebbe voluto portarlo con sé, loro due da soli in giro per il mondo. Era fortemente convinta che con lei, anche se non poteva garantirgli delle certezze, compresa quella di mangiare una volta al giorno, sarebbe cresciuto meglio. Sentiva che avrebbe potuto dargli tanto amore e trasmettergli la passione per la musica. Con lei, ancora giovane e piena di energie, avrebbe senz’altro avuto un’infanzia divertente e stimolante. 

All’improvviso, come se le avesse letto nel pensiero, Angelo si svegliò e iniziò a emettere dei piccoli lamenti, senza pensarci tanto su, lo prese in braccio e se lo portò a letto. Non appena furono distesi, il piccolo si quietò, il musetto si intrufolò istintivamente nella scollatura della camicetta per cercare il seno. Kate lasciò che facesse, sentire la bocca di Angelo che cercava il capezzolo le fece provare un immenso piacere forse, ma non ne era certa, visto che non l’aveva mai sperimentato, quasi un orgasmo. Che assurdità, un neonato, il primo uomo che le stava dando amore. 

Al mattino presto scese piano con Angelo stretto tra le braccia. Il piccolo aveva bisogno di una poppata vera, di quelle che solo una madre sa dare. La signora, premurosa, le aveva già preparato una scodella di caffelatte e del pane biscottato, e insieme rimasero in silenzio. Kate era oppressa dal senso di colpa, l’aver pensato di strappare Angelo all’amore di quella madre le pesava nel cuore come una pietra. 

La signora, con un gesto delicato, le accarezzò il volto. Non c’era bisogno di parole: il dolore della separazione imminente era palpabile nell’aria, come se la casa stessa trattenesse il respiro. Kate poteva leggere nei loro occhi un muto rimprovero, come se lei e Angelo le chiedessero silenziosamente di non lasciarli lì, soli, in quella dimora umile e spoglia. Cercò di parlare, ma le parole le si fermarono in gola; tutto ciò che riuscì a fare fu abbozzare un sorriso, fragile come un raggio di sole al mattino presto. 

Si abbracciarono sotto la pergola che conduceva al vialetto, un intreccio di foglie e ombre che sembrava voler trattenere quel momento, allungarlo in eterno. In camera, aveva lasciato la fascia rossa e il libro che aveva portato con sé di nascosto dall’America. A lei ormai non le serviva più.  

Chissà, forse un giorno Angelo avrebbe aperto quelle pagine, e trovato il coraggio di viaggiare, di esplorare il mondo. Con quella speranza, gli scrisse una dedica, poche parole, ma cariche d’amore. 

Prima di partire, lo prese di nuovo tra le braccia, stringendolo a sé, come a voler imprigionare l’ultimo ricordo di quel legame. La signora la osservava, ma i suoi occhi erano altrove, persi in un’assenza che rendeva tutto ancora più doloroso. In quel momento, Kate sentì come se fossero tutti e tre ai piedi di un treno, il treno della libertà. Ma per ora, su quel treno, sarebbe salita solo lei. 

A ripensarci bene, non erano le pressioni di Ronald che l’avevano convinta a incidere quel disco, aveva sempre deciso da sola ogni aspetto della sua vita; era semplicemente arrivato il momento che tutti conoscessero “Angelo”, la canzone scritta da una giovane donna in fuga in un caldo giorno di agosto del 1966. 

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Catherine Elizabeth Fairfield

Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

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Capitolo 18 – Catherine Elizabeth Fairfield

Providence, Rhode Island, Tuesday, december 8 2009 

“Catherine Elizabeth Fairfield – When i was young – The unplugged collection” Kate, tenendo fermo uno spigolo con l’indice, faceva roteare il CD sul tavolo. Le faceva strano vedere il suo vero nome stampato sulla copertina; scritto così per intero quasi nemmeno lei lo ricordava. Per un artista, lo pseudonimo con cui il mondo intero ti conosce, rischia di impossessarsi completamente di te, facendoti dimenticare la tua vera identità. 

Kate non amava voltarsi indietro e pensare al passato, per cui, quando Ronald le propose di pubblicare i primi pezzi composti da giovane, facendoli eseguire direttamente a lei con la sua vecchia chitarra, si rifiutò categoricamente. 

“Sa di vecchio, sa di addio”, protestò. Lui replicò che a sessantatré anni, era il momento di fare un bilancio della sua carriera artistica, non c’era niente di meglio che potesse regalare al suo pubblico e, anche a sé stessa. Come se uscissero dal cilindro di un prestigiatore, quei quindici brani, avrebbero suscitato un’orda travolgente di emozioni. 

Dopo lunghe e interminabili discussioni, alla fine cedette, oltre che il suo manager e amico di sempre, Ronald era uno dei due uomini veramente affidabili che aveva incontrato nella sua vita l’altro, anche se purtroppo l’aveva scoperto tardi, era suo padre. 

Pensare che fu proprio la ribellione nei suoi confronti, il colonnello dell’U.S. Air Force, Edward J. Fairfield e quel maledetto fattaccio, a spingerla, un afoso pomeriggio estivo del 1966, ad allontanarsi frettolosamente, per stradine secondarie, dalla base di Aviano. Il suo piano prevedeva di raggiungere la minuscola stazione di Fontanafredda e prendere il treno per Venezia. Treno che, proprio quel giorno, era maledettamente in ritardo. 

Non poteva rimanere lì ad aspettare, sarebbe stato il primo posto dove l’avrebbero cercata. Il biglietto lasciato sopra il tavolo in cucina non sarebbe servito a tranquillizzare i suoi. C’era da aspettarsi che suo padre avrebbe fatto uscire addirittura la Polizia Militare per riportare indietro quella irresponsabile ribelle di sua figlia. 

I minuti passavano e quel treno non arrivava; non c’era più tempo per cui, decise di mettersi raggiungere la provinciale e fare l’autostop. Si fermò quasi subito un furgoncino, quell’omino buffo alla guida le ispirò fiducia e decise di salire.  

Da quando era ad Aviano, aveva imparato un po’ l’italiano, come lingua le piaceva, finora però, non era mai stata molto a contatto con le persone del posto. All’inizio non fu facile intavolare un discorso con quel tale Renato. 

Per rompere il ghiaccio gli chiese perché si era fermato. Con stupore le rispose “per solidarietà fra musicisti”, aveva infatti notato la sua chitarra. Seppur lo fosse solo nel tempo libero si riteneva un musicista a tutti gli effetti, suonava la fisarmonica nelle balere e nelle sagre paesane. Secondo le sue teorie, di un musicista c’è sempre da fidarsi, non è una persona pericolosa e, se ne uscì con quella frase che divenne per lei la sintesi del suo credo personale: “la musica non ha mai ucciso nessuno”. 

Il tempo, nel furgoncino scorse veloce. Renato parlava velocemente e ininterrottamente. Ad un certo punto, probabilmente si rese conto di avere a che fare con una ragazza americana non sempre in grado di capire quello che diceva. Fu allora che iniziò a cantarle i successi italiani in voga al momento. D’altronde, il linguaggio della musica è universale. 

Si fermarono in un paesino dove, secondo Renato, avrebbe trovato facilmente un passaggio per Venezia, lui purtroppo non andava in quella direzione. Entrarono in un bar dove usualmente si fermava spesso a fare una sosta, insistette per offrigli qualcosa come gesto di saluto. Si sarebbe ricordata per tutta la vita di quel pan e sopressa annaffiato con dell’ottimo vino rosso. Non erano cose da offrire a una donna, disse Renato, ma ad un amico sì. Loro, complice la musica, lo erano appena diventati. 

“Con la musica è difficile procurarsi da mangiare, ci riescono solo pochi fortunati, ti auguro con tutto il cuore di essere tra quelli”. La salutò così. Kate capì che, fondamentalmente, era un uomo malinconico e pieno di rimpianti. 

Spinta dal desiderio di solitudine, abbandonò la strada principale e si infilò in una stradina sterrata in mezzo ai campi di granturco. Aveva bisogno di riflettere sulla sua fuga, le prese il senso di colpa nei confronti della madre, sapeva che avrebbe sofferto, era l’unica a non meritarlo. Illudersi che le scarne parole scritte nel biglietto, infilato in mezzo al libro che stava leggendo, servissero a spiegarle tutto e a tranquillizzarla, era impensabile. Chissà, forse non l’aveva ancora visto, d’altro canto non poteva lasciarlo in vista, non voleva assolutamente che suo padre lo leggesse. 

Si soffermò accanto a un capitello. Che strano vedere, solitaria in mezzo ai campi, quella statuetta della Madonna dentro una specie di chiesetta in miniatura curatissima e con dei fiori freschi. 

“Certo che tuo figlio ha lasciato un segno nel mondo”, pur non essendo religiosa, prese a parlare spontaneamente con quella statuetta. “Un uomo ammazzato solo per aver parlato di amore, uguaglianza e pace. A me, invece, un uomo che ha giocato con l’amore, mi ha uccisa dentro. Come se non bastasse, ho un padre che fa della guerra il suo mestiere!”. Le idee su suo padre erano note ormai a mezzo mondo ma, di quell’altra faccenda, la Madonnina fu la prima a saperlo, finora non ne aveva parlato con nessuno. 

“Ma dai, sono cose che si fanno e poi…, ti sei pure divertita”. L’avevano avvertita, gli uomini, frasi del genere le usano spesso quando si tratta di darti il benservito. Si sentiva come uno di quei pesci agonizzanti che, da bambina, vedeva rigettare nel lago dai pescatori insoddisfatti dopo aver, senza tanta delicatezza, estratto l’amo insanguinato. Come se fosse bastato ributtarli in acqua affinché tornassero alla vita di sempre. 

Lei, per Dan, il caporale Dan Bennett, era solo una scommessa vinta, quella di portarsi a letto quella verginella figlia di un alto ufficiale. Forse era questa la missione, che avrebbero dovuto svolgere in Vietnam dei militari come lui e suo padre, ammazzare le donne, dentro e fuori. L’aveva attirata a sé facendo leva sul suo punto debole, la solitudine. A causa del lavoro di suo padre, ne aveva sempre sofferto. I continui spostamenti a cui la famiglia era sottoposta, non le avevano mai permesso di coltivare rapporti duraturi con le persone. 

Era troppo bello che un uomo si fosse finalmente accorto di lei, facendola sentire come su un piedistallo e dedicandole mille attenzioni. Troppo bello che quell’uomo, a differenza di altri, valorizzasse il suo aspetto semplice e la sua passione per la musica. 

I fogli su cui aveva composto quella canzone a lui dedicata finirono in mille pezzi dentro una pozzanghera. Li calpestò fino a riempirsi di fango dalla testa ai piedi. Lo stesso giorno, in preda a un raptus, stava per distruggere la chitarra, ma qualcosa di misterioso la fermò. Rimaneva pur sempre la sua compagna fedele. Quel qualcosa di misterioso le fece capire che quella chitarra le avrebbe permesso di sfogare la sua rabbia e di confortarla nella tristezza. Quel giorno prese la decisione di partire. 

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.” Così era scritto in quel libro che si era portata di nascosto dall’America. Se avessero trovato quel libro all’interno della base, le avrebbero sicuramente fatto un sacco di domande. Potevano tollerare che la gente si drogasse, ma non che leggesse un libro del genere, roba da comunisti. 

La necessità di andare, il viaggio che, oltre a conoscenza, si fa esigenza, unica via di fuga da quella situazione. 

Continua

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Caigo e aguasso

Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare.Luigi Pirandello

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Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne

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Capitolo 17 – Caigo e aguasso

La nottata passata al pronto soccorso con la Bepina, mi ha devastato fisicamente e moralmente. Ho ancora nella testa le urla di Gino e le porte sbattute da Teresa. Come sempre, ero reo di non curarmi della situazione lasciando tutto sulle loro spalle. Sono stato fermo in piedi in mezzo al corridoio della casa nova, paralizzato, senza dir niente; tanto, non c’era niente da dire. 

Una gran bella giornata oggi, pensare che mancano pochi giorni a Natale.  

Sin da bambino, ogni anno, in questo periodo, sogno che arrivi la neve. E invece, solo e sempre: caigo e aguasso, che tristezza! 

È dalle cinque e mezza del mattino che sto guidando a casaccio per desolate stradine di campagna senza una meta precisa e, per giunta, con un tale gaigo da non riuscire a vedere oltre la metà del cofano. Il tepore del riscaldamento e la luce soffusa del cruscotto creano un piacevole senso di isolamento, mi concentro sulla guida quel tanto che basta per non andare a sbattere contro uno dei platani che ne delimitano i bordi.  

Questo graticolato di stradine strettissime lo conosco a memoria, mi pare di guidare a ritroso nel tempo. Da bambini, a farle in bicicletta ci sembravano infinite. Sognavamo il giorno in cui ci saremo comprati la macchina e, da quelle strade saremo partiti sgommando verso posti lontanissimi invece, almeno fino a quattro mesi fa, non siamo mai andati molto lontano. 

Per fortuna la musica sembra non abbandonarmi mai, nella testa echeggia la canzone che trasmettevano alla radio mentre, tutti eccitati e agitati, stavamo andando in aeroporto per il nostro primo vero viaggio. 

Ripenso a tutti gli anni finora scivolati via velocemente nella routine e nella monotonia più piatta che possa esistere, piatta e monotona come i campi che mi circondano. Li contrappongo a questi ultimi mesi vissuti intensamente. Strano come può cambiare in pochi mesi quello che non cambia in anni. 

Il sonno comincia a farsi sentire ma, non ho voglia di tornare a casa. Come un automa mi dirigo verso quello che rimane della nostra Woodstock. Sta lì, dietro quel gruppo di villette a schiera abitate solo il sabato, la domenica e altre feste comandate. El gaigo rende l’atmosfera ovattata amplificando il senso di solitudine, mi deprimo nel vedere le villette addobbate con decorazioni falso country e i babbi Natale che si arrampicano sulle terrazze, il tutto rigorosamente made in China. Mi soffermo per un attimo a guardare la mia immagine riflessa in una delle porte finestre, quasi avessi bisogno della conferma di essere triste.  Inutile illudermi, non esiste più la piccola Woodstock, del luogo dei nostri sogni, era rimasto solo il boschetto di gasie

Eppure, pur sapendo che mi impantanerò tutto, entro nel campo. In fin dei conti è il posto giusto dove stare in un momento come questo. Ho un freddo fastidioso alla punta dei piedi, i capelli ormai tutti bagnati da questa maledetta umidità e il naso che inizia a colarmi, mi frugo in tasca e come sempre quando servono, niente fazzoletti.  

Una lunga inspirazione poi, fuori l’aria piano piano per far durare a lungo la fumata di vapore che esce dalla bocca. Appoggiato con la schiena al parapetto del ponticello, cerco di ricordarmi con precisione il posto dove sorgeva la nostra collina. 

In momenti come questo mi piacerebbe avere il vizio di fumare per potermi accendere una sigaretta, serve quando non si sa che cavolo pensare e soprattutto che cavolo fare. 

Abbiamo avuto la sensazione che quel viaggio in ambulanza sarebbe stato l’ultimo. Dico abbiamo perché la prima è stata lei. In un momento di straordinaria lucidità, mi ha detto che ‘sto giro finalmente andava “di là”.  

Sembrava un’altra, attraverso la maschera dell’ossigeno, serena in volto, mi sorrideva. Invece di strillare continuamente e richiamare l’attenzione del personale come usualmente faceva in occasioni simili, si mise a farmi una sorta di intervista quasi a voler recuperare tutte le informazioni finora perse durante il periodo della sua demenza; mi chiese del viaggio in America. Stesa sulla barella si comportava come una vera mamma desiderosa di ascoltare pazientemente ciò che suo figlio ha da raccontare. Presi allora la palla al balzo e ricominciai con la storia del libro. Mentre le parlavo, fissava il soffitto sorridendo, a un certo punto mi diede un buffetto sulla guancia e sospirò. Io continuavo a farle domande ma lei non disse niente per il resto della nottata. 

Mentre la guardavo, una frase della Bibbia si insinuò nella mia mente, come un sussurro dal passato: “Anche se perde il senno, sii misericordioso ...” Quelle parole, semplici e profonde, mi colpirono con la forza di una verità che avevo a lungo ignorato. Un groviglio di emozioni mi avvolse, e senza poterlo controllare, iniziai a piangere. 

Le lacrime non erano solo un segno di commozione; erano il risultato di anni di sensi di colpa che avevo sepolto sotto strati di orgoglio e ostinazione. Per tutta la vita avevo disprezzato i miei genitori, specie mia madre, sentendoli inadeguati, incapaci di comprendere il mio mondo e di rispondere alle mie aspettative. Li avevo giudicati con durezza, incapace di vedere oltre la mia frustrazione. Non li sentivo all’altezza del loro ruolo, non per quello che mi davano, ma per quello che non riuscivo a ricevere da loro. 

Mi ritornavano in mente le parole di Teresa e Gino, che più volte mi avevano detto che la mia unica preoccupazione era fuggire. Ed era vero. Tutta la mia vita era stata una corsa disperata per sfuggire a quel senso di soffocamento, a quella famiglia che mi sembrava una gabbia. Ogni mia scelta, ogni decisione presa in fretta e furia, aveva un unico scopo: mettermi il più possibile alle spalle quel mondo che mi stava stretto, che non riuscivo ad accettare. 

Li criticavo, li giudicavo con sdegno per il loro carattere, per la loro ignoranza, per il loro essere fuori dal tempo. Mi sembravano arretrati, incapaci di stare al passo con i cambiamenti del mondo moderno. Ma mai, nemmeno per un momento, avevo cercato di mettermi nei loro panni. Non avevo mai provato a vedere la vita attraverso i loro occhi, non avevo mai considerato le sfide che avevano affrontato, le battaglie che avevano combattuto in silenzio. 

Mi resi conto di quanto fossi stato ingiusto. I miei genitori non erano perfetti, ma chi lo è davvero? Avevano fatto del loro meglio con quello che avevano, con le risorse, le esperienze e le conoscenze che possedevano. 

In quel momento, decisi che era tempo di fare pace con il passato, di guardare i miei genitori non più con disprezzo, ma se non con l’affetto, almeno con il rispetto che meritavano. Non potevo cambiare le scelte fatte, ma potevo cambiare il mio atteggiamento verso di loro, riconoscendo finalmente il loro valore. E con questa nuova consapevolezza, sentii che una parte del mio cuore, quella che avevo chiuso a chiave per troppo tempo, si stava finalmente aprendo. 

Le gocce cadono insistenti, prendo il libro che ho in tasca, ho quasi voglia di far cancellare quella frase dalla pioggia in modo da dire addio a tutte le fantasticherie sulle mie origini. 

Niente, non ne ho il coraggio. In fin dei conti quel mistero è giusto che rimanga per sempre.  

Continua

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Blowin’ in the wind

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 16 – Blowin’ in the wind

Alzai lo sguardo verso il cielo, osservai la scia di un aereo che tracciava una linea sottile attraverso una delle poche nuvole sparse in quel mare di azzurro limpido. Un velo di malinconia mi avvolgeva, consapevole che l’indomani ne avrei preso uno che mi avrebbe riportato alla realtà, lontano da quel breve momento di libertà. Avrei ripreso il mio posto nella grigia routine quotidiana, schiacciato da un destino che conoscevo fin troppo bene; sapevo già cosa aspettarmi. 

Mia sorella e mio cognato non mi avrebbero accolto con calore, non ci sarebbero state domande curiose sul viaggio. Anzi, il loro sguardo giudicante avrebbe detto tutto, un muto rimprovero per aver lasciato mia madre sola, per aver scelto l’evasione piuttosto che il dovere. 

In ditta, paron Franzin mi avrebbe accolto con lamentele amare, il solito piangere il morto per i clienti che diminuivano giorno dopo giorno, inghiottiti dalla sempre più numerosa e agguerrita concorrenza. Parole per farmi capire che mi stava stipendiando per puri motivi caritatevoli. 

Avrei sicuramente fatto el sgrandesson con e bee fie della pasticceria. Era un gioco al quale non sapevo rinunciare, una recita che ripetevo con una costanza quasi ossessiva, perché, alla fine, mi piaceva far colpo su di loro, nutrendo quel bisogno insaziabile di essere visto, di apparire qualcosa di più di ciò che realmente ero. 

Qualche attimo di gloria che sarebbe durato il tempo di incontrare lo stronzissimo Riccardo Bellè. Quel tizio aveva l’incredibile talento di trasformare anche il momento più brillante in un’istantanea di pura miseria. Mi avrebbe fatto sentire la solita merda. In fin dei conti eravamo stati “solo” in America. E che sarà mai? Lui c’era già stato per ben due volte!  La prima, in gita familiare con papi e mami. La seconda, in una di quelle vacanze studio sponsorizzata da papi; durante la quale, a detta sua, si era trombato le ragazze che alloggiavano in casa con lui, quella tettona della sua tutor e, la padrona di casa, facendo becco il marito ovviamente.  

E non era finita qui. Avrebbe sicuramente sfoderato la carta vincente: il suo ultimo viaggio a Curaçao, dove aveva fatto immersioni in acque cristalline con la bellissima Sophia, ultima sua compagna in ordine cronologico. Ovviamente, non avrebbe omesso, il racconto, fitto di particolari dei vari slinguacciamenti e porcate varie fatte a ventimila leghe sotto il mare. 

Devo ammetterlo, mi sarebbe piaciuto tornare al paesello con la speranza di sfoderare lo scoop del secolo, la bomba che avrebbe fatto impallidire chiunque: io, non figlio di Joani Nosea e Bepina Milanese, ma di una tale Kate chi-lo-sa, in realtà il vero nome di una famosissima cantautrice folk americana. Già mi immaginavo i titoloni sui giornali, le interviste a raffica in Tv. Vedevo Riccardo Bellè, per una volta, in crisi. Proprio come Gastone, il fortunato cugino di Paperino, costretto a mangiarsi il cappello quando, raramente, la sfiga lo beccava in pieno. 

La realtà, a cui mi ostinavo a non rassegnarmi, era purtroppo ben diversa: ero costretto a confrontarmi con la mia vita di umile tecnico tuttofare, sfruttato e sottopagato, figlio di due poveri contadini. Ogni giorno mi trovavo a fare i conti con la monotonia e la fatica di un lavoro che mi lasciava poco spazio per i sogni. E come se non bastasse, il quadro era ulteriormente reso più amaro dal fatto che non avevo neanche una donna al mio fianco, una compagna di vita con cui condividere l’esistenza. 

Invidiavo chi sembrava aver trovato il proprio posto nel mondo, mentre io mi sentivo intrappolato in una vita che non avevo scelto, una vita che non mi apparteneva. Ogni tanto mi chiedevo se ci fosse davvero qualcosa di più per me, qualcosa oltre quella routine che sembrava non finire mai. Ma ogni risposta che mi davo tornava a scontrarsi con la realtà: quella di un uomo solo, con il cuore pieno di desideri inappagati e con in tasca pochi soldi e tante fantasie. 

Non mi consolava il ricordo di tutte quelle miglia percorse, sospesi tra sogno e asfalto, in sella alle due Harley. Su una, c’eravamo io e James, mentre sull’altra, quella del generoso Tim che, in nome della nostra amicizia ormai consolidata, cedette volentieri il manubrio, viaggiavano Sega e il Bitol. Fu una scoperta di quell’insolita America rurale nascosta ai più, tanto vasta quanto intima, un luogo che sembrava abbracciare l’immensità e al contempo svelare piccoli angoli di autenticità. 

Non so quante pagine Sega abbia riempito nel suo misterioso quadernetto con Snoopy in copertina. Ogni volta che lo vedevo scribacchiare con aria assorta, mi chiedevo quali segreti stesse immortalando su quelle pagine. Era come se quel quaderno fosse una parte di lui, un’estensione della sua mente, e forse anche del suo cuore. Ma non ha mai voluto mostrarcelo, custodendolo come un segreto prezioso, come un tesoro che solo lui poteva capire e apprezzare. Ogni tanto, un sorriso enigmatico si allargava sul suo volto mentre scriveva, e io restavo lì, a metà tra l’ammirazione e la curiosità, consapevole che c’era un mondo intero racchiuso in quei fogli che mi sarebbe rimasto per sempre sconosciuto. 

Non saprei dire cosa stesse architettando il Bitol, sempre intento a stringere mani con fricchettoni dal sorriso largo e dagli occhi pieni di storie. Sembrava essere ovunque, tra la gente, a scambiare idee e a raccogliere frammenti di vita da sconosciuti che, per qualche motivo, si fidavano immediatamente di lui. Era un camminatore instancabile in quel vasto giardino umano, dove ogni incontro sembrava piantare un seme nella sua mente fertile. Ogni volta che lo osservavo, mi colpiva la sua capacità di connettersi con gli altri, di aprire porte che per me rimanevano chiuse, e di far germogliare qualcosa di nuovo da quelle esperienze. 

E poi c’ero io, in piena confusione, ancora intrappolato tra dubbi e incertezze. Mentre loro sembravano raccogliere certezze, io mi ritrovavo a vagare in un labirinto di pensieri irrisolti. Eppure, nonostante tutto, una cosa era chiara: Sega e il Bitol tornavano a casa con idee ben radicate, come semi pronti a germogliare. Forse avevano trovato risposte, o forse solo nuovi interrogativi, ma quelle idee sembravano avere un peso, una sostanza che io ancora cercavo disperatamente. Li guardavo con un misto di invidia e ammirazione, chiedendomi se anche io, un giorno, sarei riuscito a trovare la mia strada, a dare un senso a quel caos che ancora mi avvolgeva. 

Mentre loro piantavano i semi di una nuova comprensione, io mi chiedevo se avessi mai avuto il coraggio di coltivare i miei, di affrontare le mie paure e di trovare, finalmente, un terreno fertile dove far crescere qualcosa di vero.  

I nomi delle persone che incontrammo sembravano persi nel vento, sfuggenti come i paesaggi che scorrevano accanto a noi. Erano nomi che, come granelli di sabbia, scivolavano via dalle mani della memoria, mentre il tempo ci trascinava verso nuove destinazioni. Eppure, nonostante la nostra natura introversa, radicata nella terra come i contadini della razza Piave, li abbiamo abbracciati tutti, uno per uno. Non ci importava chi fossero, da dove venissero o dove fossero diretti. Ciò che importava era quell’istante di connessione, fugace ma reale, in cui le loro vite si intrecciavano con la nostra. 

E ciò che li accomunava, più dei loro nomi dimenticati, era la fede. Non una fede cieca in un’autorità lontana, ma una fede profonda in qualcosa di più grande di loro stessi. Credevano in un ideale, in un progetto, in un sogno condiviso che superava i confini delle parole e delle convenzioni. Credevano in Dio, non come un giudice severo, pronto a punire ogni deviazione, ma come una presenza che non giudica né castiga, che accoglie e comprende. La loro religiosità non era fatta di regole e riti vuoti, ma di una spiritualità vissuta, sentita, vibrante. 

Quella loro convinzione, così incrollabile e genuina, sgretolò il fragile palcoscenico su cui si ergeva la mia fede, costruita su una cieca obbedienza ai precetti appresi al catechismo. Era come se avessi stipulato un contratto con Dio, una sorta di polizza assicurativa sulla vita eterna: segui le regole, non farti troppe domande, e sarai ricompensato con l’eternità. Altrimenti, finisce tutto a schifio. 

La mia fede, fino a quel momento, non era stata altro che una negoziazione silenziosa, una transazione in cui il comportamento corretto prometteva un premio ultraterreno, mentre ogni deviazione, anche solo intenzionale, era punita con la dannazione. Ma quella loro certezza, così limpida e priva di compromessi, mi fece rendere conto di quanto fosse vacillante e priva di sostanza la mia fede, spingendomi a mettere in discussione tutto ciò che avevo accettato senza mai veramente comprendere. 

Mi sentii uno senza basi, che immobilizzato dalle sue paure, non riesce a prendere nessuna decisione. Un viandante smarrito in un mondo dove tutto sembrava avere un senso tranne la mia esistenza. Fu come se mi trovassi davanti a uno specchio, e in quello specchio non riconoscessi più me stesso. 

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Quel sabato di fine estate, sul pontile davanti all’ospedale al mare, aleggiava ancora la magia del nostro viaggio. Il Bitol, con il suo chitarrino, che in realtà era un ukulele, riempì l’aria con le note della stessa canzone che, sotto il cielo stellato di quel lontano agosto dell’81, ci aveva fatto sognare in cima alla collinetta della nostra piccola Woodstock domestica. 

How many roads must a man walk down 
Before you call him a man? 
How many seas must a white dove sail 
Before she sleeps in the sand? 
Yes, and how many times must the cannon balls fly 
Before they’re forever banned? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind. 

Yes, and how many years can a mountain exist 
Before it is washed to the sea? 
Yes, and how many years can some people exist 
Before they’re allowed to be free? 
Yes, and how many times can a man turn his head 
And pretend that he just doesn’t see? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind. 

Yes, and how many times must a man look up 
Before he can see the sky? 
Yes, and how many ears must one man have 
Before he can hear people cry? 
Yes, and how many deaths will it take ‘til he knows 
That too many people have died? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind.  

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Quante strade deve percorrere un uomo 
prima che lo si possa chiamare uomo? 
Quanti mari deve sorvolare una colomba bianca 
prima che possa riposare nella sabbia? 
E quante volte le palle di cannone dovranno volare 
prima che siano per sempre bandite? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Quanti anni può esistere una montagna 
prima di venire lavata dal mare? 
Quanti anni devono vivere alcune persone 
prima che possano essere finalmente libere? 
E quante volte un uomo può voltare la testa 
fingendo di non vedere? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto 
prima che riesca a vedere il cielo? 
E quante orecchie deve avere un uomo 
prima che possa sentire la gente piangere? 
E quante morti ci vorranno affinché egli sappia 
che troppe persone sono morte? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Non riuscii a scoprire chi fosse Kate, il suo nome rimase per sempre un enigma avvolto nel mistero delle dolci colline in terra d’America. Ma, attraverso quel viaggio, capii meglio chi fossero Adriano e Armando. E forse, in qualche modo, anche un po’ di più chi ero io. 

Non ho avuto le risposte che cercavo ma, come dice la canzone, forse anche quelle stavano soffiando nel vento. 

Fine della prima parte

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Fioi dei fiori

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 15 – Fioi dei fiori

La prima a parlarci del Vietnam, a noi tre Mul, fu il mio amore, la cara maestra Lauretta. Ricordo ancora con chiarezza come i suoi racconti, seppur dai toni drammatici, non fecero altro che alimentare la nostra immaginazione, trasformandosi in ispirazione per le nostre battaglie con i soldatini. Quelle storie lontane, che allora ci sembravano solo avventure e nulla più, si materializzavano nei nostri giochi, senza che potessimo davvero comprendere la portata di quella tragedia.

Oltre trent’anni dopo, tra le dolci e verdi colline di Bethel, fu James a tenerci la sua personale lezione sul Vietnam. Il tempo e l’esperienza avevano cambiato il modo in cui percepivamo quelle storie, ora non più semplici fantasie infantili, ma riflessioni su una realtà complessa e dolorosa. Le parole di James non erano più solo racconti, ma un ponte tra il passato e il presente, un invito a capire e a ricordare.

Anche il nostro James era un reduce, notammo solo il giorno dopo la protesi alla gamba. ”La mia storia non è diversa da quella di tanti altri”, disse per minimizzare la cosa.

In effetti, purtroppo, era la triste realtà. Fu uno fra i tanti sprovveduti ragazzi ammaliati dagli arruolatori dell’esercito. Come James, la maggior parte di loro, proveniva dalle immense zone rurali degli States, venivano mandati in guerra allo sbaraglio facendogli credere che sarebbero diventati degli eroi. La fortuna, chiamiamola così, volle che, appena giunto al fronte, si beccò una sventagliata di proiettili. Fu rispedito al mittente imbottito di psicofarmaci e senza una gamba.

La vera fortuna, invece, fu quella di abitare a Callicoon, una ventina di miglia da Bethel. Il 14 agosto del ’69, notò un gran trambusto sulla strada che portava a White Lake, mosso dalla curiosità, andò a vedere che cavolo stava succedendo. Non credeva ai suoi occhi, migliaia di persone si stavano dirigendo sulla collina, si sentì subito, però, un pesce fuor d’acqua. Tutta quella gente sembrava molto diversa da lui, sicuramente più felici. 

Per quanto lo riguardava, la felicità l’aveva abbandonato da parecchio tempo, il Vietnam gli aveva dato il colpo di grazia, lo aveva completamente svuotato di tutte le emozioni positive, inoltre, lo stava affliggendo uno dei più grandi mali, la depressione. Non sapeva proprio che fare in mezzo a quella accozzaglia di capelloni, tanto valeva tornare a casa.

“Hey amico, cosa ti è successo?”, bastò quella domanda per farlo tornare sui suoi passi. Quel 14 agosto del ’69, qualcuno iniziò finalmente ad ascoltarlo, a fargli capire che ci sarebbe stato un futuro. Era Tim, quel giorno iniziò la loro storia.

Il 18 agosto del ’69, la zona del mitico raduno, ne uscì alquanto devastata. A noi invece, quarant’anni dopo, offrì uno spettacolo incantevole. Il grosso della gente se ne era andata ordinatamente, quell’ultima sera regnava un silenzio surreale, solo il vento riusciva saltuariamente a contrastarlo facendo ondeggiare il mare d’erba. 

“Come on, Muls, it’s time to say goodbye.” James ci guardò con un sorriso malinconico mentre il sole, una rossa palla di fuoco, si adagiava lentamente dietro le colline, tingendo il cielo di sfumature arancioni e rosse. L’aria era dolce, intrisa del profumo della terra e del ricordo di quel luogo sacro. James aveva scelto questo momento per il nostro addio, proprio lì, accanto a quella lapide che commemorava Woodstock ’69.

Non eravamo presenti a quell’epoca, ma per Tim e James era come se il nostro spirito appartenesse a quei giorni di pace e musica, di ribellione e sogni condivisi. Per loro, noi tre eravamo figli dei fiori, anche se nati in un’epoca diversa, ma con il cuore e l’anima sintonizzati su quelle stesse onde di libertà.

Mentre ci avvicinavamo alla lapide, la luce del sole calante sembrava far brillare le parole incise nella pietra. Il vento soffiava leggero, sussurrando antiche canzoni e portando con sé frammenti di ricordi di chi c’era stato davvero, in quei giorni lontani.

Ci fermammo per un momento in silenzio, lasciando che l’energia del luogo ci attraversasse. Era come se potessimo sentire il battito di quei giorni, l’eco delle voci che avevano cantato per la pace, la risata di chi credeva in un mondo migliore. Non eravamo lì nel ‘69, eppure, in quel momento, sembrava che fossimo sempre stati parte di quel sogno.

Il Bitol, con gli occhi lucidi, si chinò per raccogliere un ciuffo d’erba da portare con sé, come a voler trattenere un pezzetto di quel luogo sacro. 

Sega invece, guardando l’orizzonte ormai scuro, sospirò, consapevole che quel tramonto non segnava solo la fine di un giorno, ma la fine di un capitolo della nostra avventura.

“Addio, Woodstock”, sussurrò, con la voce rotta dall’emozione. Capivo che, almeno per lui e il Bitol, non era un addio definitivo. Quel luogo, quel tempo, sarebbero rimasti come una luce guida delle loro vite; mentre io, continuavo a procedere a tentoni nella fitta oscurità causata da dubbi, paure e incertezze.

“Non importa dove andrete ora e cosa farete”, disse James infine, rompendo il silenzio, “porterete sempre con voi lo spirito di questo posto. Siete figli dei fiori, e lo sarete per sempre.”

Continua …..

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