Ph.

Fotocanzoni – Il mio canto libero

Le canzoni sono ricordi del passato e desideri del futuro.

© 2017 Michele Camillo Ph.

In un mondo che
Non ci vuole più
Il mio canto libero sei tu
E l’immensità
Si apre intorno a noi
Al di là del limite degli occhi tuoi

Nasce il sentimento
Nasce in mezzo al pianto
E s’innalza altissimo e va
E vola sulle accuse della gente
A tutti i suoi retaggi indifferente
Sorretto da un anelito d’amore
Di vero amore

In un mondo che
Prigioniero è
Respiriamo liberi io e te
E la verità
Si offre nuda a noi
E limpida è l’immagine
Ormai

Nuove sensazioni
Giovani emozioni
Si esprimono purissime in noi
La veste dei fantasmi del passato
Cadendo lascia il quadro immacolato
E s’alza un vento tiepido d’amore
Di vero amore
E riscopro te

Dolce compagna che
Non sai domandare, ma sai
Che ovunque andrai
Al fianco tuo mi avrai
Se tu lo vuoi

Pietre, un giorno case
Ricoperte dalle rose selvatiche
Rivivono, ci chiamano
Boschi abbandonati
E perciò sopravvissuti vergini
Si aprono, ci abbracciano

In un mondo che
Prigioniero è
Respiriamo liberi
Io e te
E la verità
Si offre nuda a noi
E limpida è l’immagine ormai

Nuove sensazioni
Giovani emozioni
Si esprimono purissime in noi
La veste dei fantasmi del passato
Cadendo lascia il quadro immacolato
E s’alza un vento tiepido d’amore
Di vero amore
E riscopro te

© 1972 Lucio Battisti / Mogol

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

Fotocanzoni – Donna sola

© 2017 Michele Camillo Ph.

Succede spesso, incrocio lo sguardo e parte istintivamente lo scatto.

Ne escono donne che sono canzoni di Mimì

© 2017 Michele Camillo Ph.

© 2019 Michele Camillo Ph.
© 2021 Michele Camillo Ph.
© 2016 Michele Camillo Ph.

Io
Non son più io, mi sento da sola
Qualche cosa dentro me è cambiato, ma cos’è?
Oh-oh, oh, oh 
Oh, non dir di no e lasciami sola
Non dipende più da te

Potresti regalarmi il mondo intero, che me ne farei?
Io cerco solo il vento e una scogliera
Dentro gli occhi miei
E sopra il mare volerei
Per non tornare, credimi 
Sola

Non pensare adesso che
Qualcun altro sia con me 
Oh-oh, oh no
Ti ho detto da sola
Io con la mia anima

Sarà che questo mondo ha rovinato
Tutti i sogni miei
Se non avessi te che sei innocente
Giuro me ne andrei
Ed oltre il mondo volerei
Per non tornare, credimi 
Sola

Per sentirmi libera, finalmente libera
Oh, Sola
Io con la mia anima

Ma chi piangerà, lo so sarò io
Io che resterò sola 
Sola
Resterò (sola) sola
Sola, (sola)
Sola, sola, sola
Sola
Resterò sola, sola, ah
Sola, sola

© 1972 Luigi Albertelli, Dario Baldan Bembo, Bruno Lauzi

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

Fotocanzoni – Poster

Ci sono canzoni che, quando le ascolti, diventano persone, luoghi, pioggia, sole, caldo, freddo, gioia e tristezza.

Canzoni, come Poster di Claudio Baglioni, hanno il potere di trascinarti dentro la scena, sei tu quel personaggio che se ne sta “seduto con le mani in mano sopra una panchina fredda …”; la melodia, ispirata dalla bellissima Valsinha di Vinicius De Moraes e Francisco Buarque De Hollanda, riesce a farti percepire la sensazione di freddo umido; e tu, malinconico spettatore della grigia routine invernale alla quale non riesci a ribellarti, ripensi alla tua vita e, a quell’eterno sogno di fuggire via.

Una delle più belle canzoni … da fotografare

© 2019 Michele Camillo Ph.

Seduto con le mani in mano
Sopra una panchina fredda del metrò
Sei lì che aspetti quello delle 7:30
Chiuso dentro il tuo paletot
Un tizio legge attento le istruzioni
Sul distributore del caffè
E un bambino che si tuffa dentro a un bignè

E l’orologio contro il muro
Segna l’una e dieci da due anni in qua
Il nome di questa stazione
È mezzo cancellato dall’umidità
Un poster che qualcuno ha già scarabocchiato
Dice “vieni in Tunisia”
C’è un mare di velluto ed una palma
E tu che sogni di fuggire via

E andare lontano lontano
Andare lontano lontano

E da una radiolina accesa
Arrivano le note di un’orchestra jazz
Un vecchio con gli occhiali spessi un dito
Cerca la risoluzione a un quiz
Due donne stan parlando
Con le braccia piene di sacchetti dell’Upim
Ed un giornale è aperto
Sulla pagina dei films

E sui binari quanta vita che è passata
E quanta che ne passerà
E due ragazzi stretti stretti
Che si fan promesse per l’eternità
Un uomo si lamenta ad alta voce
Del governo e della polizia
E tu che intanto sogni ancora
Sogni sempre sogni di fuggire via

E andare lontano lontano
Andare lontano lontano

Sei lì che aspetti quello delle 7:30
Chiuso dentro il tuo paletot
Seduto sopra una panchina fredda del metrò

© 1975 – Claudio Baglioni / Antonio Coggio

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

Fotocanzoni – Winter Melody

Winter Melody interpretata da Donna Summer uscì in Italia il 9 gennaio 1977, prima traccia dell’album Four season of love.

Donna Summer oltre a essere la regina della disco music, per la sua sensualità, aveva la reputazione di una che faceva canzoni “da letto”; per cui, in radio, questa e altre sue canzoni, venivano trasmesse prevalentemente in orario notturno e, questa in particolare, data la “stagionalità” del titolo, durante le fredde serate invernali.

In realtà, a dispetto delle precedenti love to love you baby e could it be magic, questa canzone non ha nessun contenuto erotico ma bensì, racconta del vuoto e della conseguente solitudine causata da un amore finito, la felicità di colpo stroncata, dall’abbandono della persona amata, quasi venisse congelata da una brezza invernale; insomma, tristezza e malinconia pura. Come per la maggior parte delle canzoni straniere, credo quasi nessuno abbia fatto caso al significato delle parole ma, piuttosto all’emozione che la melodia evoca. Qualsiasi siano le situazioni o le fantasie che vengono in mente, è una classica comfort song, come dicono gli inglesi; ovvero una canzone che funge da coperta calda, profuma di the speziato e ti fa viaggiare fino al tuo ideale posto sicuro. Da ascoltare rintanato al calduccio quando c’è tanto freddo fuori e … dentro di te.

Emptiness and just a memory
Love is gone with nothing left for me
All those wasted feeling for something i no longer have
I never knew that love could hurt so bad

Winter melody, winter melody, winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

I can’t bear to see the sun go down
Casting stormy shadows all around
Nothing seems to matter, i just get by from day to day
I never thought that you would leave this way

Winter melody, winter melody, winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

Winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

Loneliness, that’s all that’s left for me
Happiness is chilled by winter’s breeze
I keep on remembering the day that you came along
And since you left, well i just sing the song

Winter melody, winter melody, winter melody
Play for me, just for me
‘Cause he’s not coming home and i’m here alone
On my own

Compositori: Donna A. Summer / Donna Summer / Giorgio Moroder / Pete Bellotte

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022 – 2023

The Christmas Blues

Questi giorni maledetti che sanno di malinconia e panettone

E’ davvero possibile dire a qualcun altro come ci si sente
Lev Tolstoj

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© 2021 – 2022 Michele Camillo Ph.

The jingle bells are jingling
The streets are white with snow
The happy crowds are mingling
But there’s no one that I know

I’m sure that you’ll forgive me
If I don’t enthuse
I guess I’ve got the Christmas blues

I’ve done my window shopping
There’s not a store I’ve missed
But what’s the use of stopping
When there’s no one on your list

You’ll know the way I’m feeling
When you love and you lose
I guess I’ve got the Christmas blues

When somebody wants you
Somebody needs you
Christmas is a joy of joys
But friends when you’re lonely
You’ll find that it’s only
A thing for little girls and little boys

May all your days be merry
Your seasons full of cheer
But ‘til it’s January
I’ll just go and disappear

Old Santa may have brought you
Some stars for your shoes
But Santa only brought me the blues
Those brightly packaged tinsel covered
Christmas blues

Old Santa may have brought you
Some stars for your shoes
But Santa only brought me the blues
Those brightly packaged tinsel covered
Christmas blues

Bob Dylan

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

Le Fotocanzoni

Nulla apre gli occhi della memoria come una canzone.

Stephen King

© 2022 – Michele Camillo Ph.

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

Fotocanzoni – E’ nato si dice

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

Allora è arrivato Natale, Natale la festa di tutti
Si scorda chi è stato cattivo, si baciano i belli ed i brutti
Si mandan gli auguri agli amici, scopriamo che c’è il panettone
Bottiglie di vino moscato e c’è il premio di produzione

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

C’è l’angolo per il presepio e l’albero per i bambini
I magi, la stella cometa e tanti altri cosi divini
I preti tirati a parata, la legge racconta che è onesta
Le fabbriche vanno più piano, insomma è un giorno di festa

È nato si dice poi fu crocifisso
Aveva diviso il mondo in due parti
E quelli che l’hanno trattato più male
Son quelli che hanno inventato il Natale

È festa persino in galera e dentro alle case di cura
Soltanto che dopo la festa, la vita ritornerà dura
Ma oggi baciamo il nemico, o quelli che passano accanto
O l’asino dentro la greppia, Natale il giorno più santo.

Pierangelo Bertoli – 1976

© Michele Camillo Ph 2021 – 2022

Sensa ‘na cocca

© Michele Camillo – Novembre 2022

Goals for job success

L’oggetto della mail, arrivò a provocarmi un prolasso fulminante dei testicoli, i quali, tracciarono due profondi solchi per terra, da casa mia, fino all’ingresso del bar da Nane. Ogni inizio di ottobre, da un po’ di tempo, in azienda, c’è l’usanza di rompere i maroni, convocando una riunione plenaria di tutti i sudditi di sua maestà el CEO, per dirla alla trevigiana. Lo scopo è sempre quello, farti lavorare di più per meno soldi; i vertici, per essere convincenti, minacciano di far decollare giganteschi cetrioli volanti, pronti a colpirti alle spalle o, per essere più precisi, un po’ più giù.

Fortunatamente, da quando c’è ‘sto cavolo di pandemia, queste riunioni non si fanno più in presenza e io, non sono più costretto a prendere l’aereo e, un litro di benzodiazepine per non cagarmi addosso; anzi, con questo sistema della videoconferenza o webinar che sia, mi diverto a mandare i sopracitati vertici in determinati posti o, a farmi fare certi particolari lavoretti, facendo fior, fior di gesti con le mani a mutande abbassate, ovviamente il tutto con la telecamera rigorosamente spenta; la scusa per non attivarla, era sempre la stessa, ovvero mi succhiava banda e quindi avevo difficoltà a connettermi. Tutte le strategie e i sotterfugi da usarsi durante le videoconferenze le avevo imparate da mio nipote Filippo, così pure la mimica da usarsi a telecamera spenta che, lui adottava nei confronti dei prof; quasi due anni di didattica a distanza, almeno gli erano serviti per diventare un esperto in materia.

Decisi di collegarmi dalla radio, quale posto migliore per una diretta; ma, soprattutto quale occasione migliore per sistemare la scaletta notturna, sostituendo i tormentoni estivi con qualcosa di più adatto alla stagione; tanto, le stronzate che dovevo sentire erano le stesse da anni.

Il giorno convenuto, passai prima da Nane Sbérega, avevo estremo bisogno di farmi una dose massiccia. L’idea era di fumarmi un caffè quadruplo ristretto e un krapfen, beo onto, alla crema; la voglia di drogarmi era tanta che avrei corso il rischio di trangugiare quello che giaceva sulla vetrinetta del bancone, ormai da una decina di giorni.

Ohi, vecio; xe ‘pena passada ea cocca del comune”; avevo riconosciuto Gino Bottacin dalla voce roca e dai pantaloni rosso stinto che porta ormai da più di dieci anni; in genere, quando è seduto fuori dal bar, il viso è sempre avvolto da una cortina fumogena generata dalla robaccia che fuma.

Il suo compito istituzionale, da quando è in pensione, è quello di stendere un dettagliato report sul passaggio di cocche. Dovete sapere che da Nane, le cocche passano ma, non si fermano mai; nemmeno se gli dovesse servire urgentemente il bagno, preferiscono tenersela o farla dietro un albero.

Non ho mai visto entrare una cocca da Nane; a parte ea Mary, la milfona banconiera, morosa del Silvano, patron di Nane Sberega, le uniche presenze femminili abituali sono un gruppo di femministe sessantottine capitanate da Irma Marangon detta sottuttomi. Pure il loro outfit risale al 1968, i larghi cotoeoni a fiori che indossano, antitesi della favolosa invenzione di Mary Quant, sono contro ogni possibile arrapamento; nemmeno a Denis Sgorlon, in assoluto il più affamato de mona, nel raggio di dieci kilometri, verrebbe voglia de cassarse, con una di loro. Hanno anche il grave difetto di essere delle naturiste; mentre la maggior parte degli avventori de Nane, sublima la mancanza di quella cosa che fa girare il mondo, con poenta e sopressa, loro, presumo, sempre per sopperire a una certa mancanza, si riempiono di roba come tofu e seitan. Più di una volta, qualcuno gli ha chiesto se ‘ste sostanze, è meglio arrotolarle su una cartina e fumarle oppure, è consigliabile sniffarle direttamente.

Dal piccolo studio che usiamo per montare i programmi, si gode di una bella vista sul viale centrale dei paeassoni. In questo periodo, le foglie degli alberi cominciano a cambiare colore, el sofego estivo ormai è solo un ricordo, per me, è il più bel momento dell’anno; mi sento rinascere. Non mi ricordo da dove salta fuori, ma, c’è una teoria secondo la quale, ognuno di noi ha il suo inizio di anno che, non coincide per forza con il primo gennaio. Verissimo, per me l’inizio dell’anno è sempre stato il primo ottobre, giorno in cui, una volta, iniziava l’anno scolastico. Pensare che, ancora oggi, per celebrare questo bel giorno, vado da sior Romeo a compare un quaderno o una matita. In quella cartoleria, il tempo sembra essersi fermato, oltre ai vecchi arredi, è rimasto il tipico profumo di carta, ricordo degli anni di scuola elementare. I primi giorni di ottobre, qui in radio, sono sempre stati dedicati alla programmazione delle attività; un eccitante fervore di idee che nascevano attorno a un tavolo stracolmo di bagigi, vino, cioccolata calda e dolcetti venexiani; purtroppo, la mia azienda, ha pensato ben bene di rovinarmi questo magico periodo dell’anno.

Dopo i saluti iniziali, praticamente un concerto per violini e lingue, partì la mattonata, “Goals for job success”, sullo schermo apparve un tizio dotato di arco, intento a scagliare una freccia. Le slide scorrevano lente, il tempo sembrava non passare mai, e io continuavo a sbadigliare. Lo studio funge anche da deposito dei vecchi LP in vinile, approfittai per dare una riordinata e, sospirare quando mi capitavano sottomano le compilation dance degli anni ’80; che tempi ragazzi! Non mi potevo però distrarre più di tanto, c’era quel maledetto questionario finale da compilare.

Obiettivo, obiettivo, obiettivo; tutta la presentazione era un continuo martellare su questo termine. Obiettivi presenti, passati e futuri, obiettivi raggiunti e obiettivi da raggiungere; che due coglioni!

La riunione finalmente finì; mi comportai da bravo soldatino, risposi esattamente al questionario, mettendo le crocette su una serie di cazzate, distanti anni luce dal mio modo di pensare. Alla fine però, questo maledetto obiettivo continuava a farmi innervosire, credo per il fatto di non averne, finora, mai centrato uno; parlo della vita ovviamente; anzi, la vera questione era capire se, ne avevo mai avuto uno.

Ho la convinzione che, in certi momenti, una qualche misteriosa entità sovrannaturale, mi invii dei messaggi. Proprio nell’istante in cui stavo pensando a ‘sta faccenda dell’obiettivo, la workstation nella quale stavo inserendo la scaletta notturna si mise a riprodurre “a fifth of Beethoven”; uno dei brani che hanno segnato la mia vita, il leitmotiv della mia passione. Spopolava in quel lontano febbraio del 1977 quando, a soli tredici anni, iniziai a trasmettere in radio e, il mio obiettivo era quello di diventare un famoso DJ attorniato da una moltitudine di cocche; inutile dire, che il target, per usare un termine anglosassone, non è stato raggiunto.

A quasi sessant’anni, mi chiedo se, alla fine, mi interessava di più fare il DJ o, essere circondato da una moltitudine di cocche. Giù da Nane, c’era uno che, più di altri, poteva darmi una mano riguardo a questo dilemma; inoltre, considerato il fatto che, l’azienda, ci aveva affidato il compito di riflettere sui nostri obiettivi, non potevo fare niente di meglio che scendere a fare due chiacchere con il vecchio Bottacin.

Sono anni che ormai è in pensione, invece di fare come tanti, che vanno a guardare i cantieri, lui passa la giornata da Nane per guardare le cocche che transitano davanti. Non è un tipo molto loquace, lo si sente ogni tanto sospirare e poi dire, “se ognun gavesse ea so cocca, nissuna bufera lo tocca”. Per tirar in lengua Gino sull’argomento cocca, è sufficiente chiedergli perché è così triste; all’inizio, la risposta è sempre la stessa, “me toca morir sensa essar ‘nda mai in quel posto, peso ancora, sensa averlo mai visto”. Mi feci offrire una sigaretta e introdussi la questione dell’obiettivo, Gino fu categorico; “cossa ti vol che te diga; da quando che esistemo, el scopo dell’omo, gira e gira, xe sempre queo. Chi che, come mi, no’ ghe xe riussio, bisogna che xe sforsa de pensar ad altro, altrimenti el riscia de ‘ndar via de meona; come xe dise, se uno no’ va in cocca xe fasie che prima de ‘staltri da ‘sta tera sea mocca”. Nel frattempo, sopraggiunse Paperoga, il socio fingeva che l’argomento non lo riguardasse ma, in realtà, ascoltava attentamente.

Vien qua beo, ti che te ga studià, spieghighe a quei dea radio, parchè noialtri semo sensa ‘na cocca

Il beo era rivolto a Ciano Menin, storico personaggio di spicco del team sensa cocca. El Ciano non aspettava altro, si fece offrire pure lui una sigaretta da Gino e attaccò con la conferenza.

Per primo, bisogna sapere che, per i sensa cocca, esiste una definizione internazionale ovvero INCEL, acronimo di Involuntary Celibate, tradotto, celibi involontari. Inoltre, nella categoria, sono implicitamente inclusi tipi come me e il Paperoga che, una cocca, bene o male, l’avevano avuta ma, almeno da più di sei mesi, si trovano nell’impossibilità di praticare l’attività più salubre e importante della vita.

Secondo, gli INCEL, non sono INCEL per caso ma, perché, scartati da donne che, scelgono il partner unicamente in base al criterio LMS, acronimo di Look, Money and Status; ovvero, una cocca ti sceglie solo se sei bello, oppure se hai soldi o, in alternativa, se sei qualcuno che conta.

A questo punto intervenne Gino; “el sciensiato qua, ga scoperto l’acqua calda; da sempre se dise che ea dona tea caea, se ti xe beo, o col scheo o sora el scagneo e, mi ghe sonto, … o sempre pronto co’ l’oseo”.  “Speta che ‘desso vien el mejo; dighe cossa che ne ga combinà e femministe”; Gino tornò a incalzare il Menin.

Praticamente, gli INCEL, sostengono che la liberazione sessuale e il conseguente sviluppo del movimento femminista, hanno segnato la loro definitiva rovina. Il professor Menin prese un sasso per terra e, sul muro esterno de Nane, a mo’ di lavagna, disegnò la situazione prima del ’68 dove, ad ogni cocca, corrispondeva solo un cocco, il classico rapporto uno a uno. Nello schema successivo, post ’68, si poteva notare che, solo alcuni cocchi, erano oggetto di attenzione di più cocche contemporaneamente, un fenomeno chiamato ipergamia. Questo perché prima del ‘68, le cocche, al fine di garantire la naturale conservazione della specie, si adattavano ad accoppiarsi con qualsiasi uomo; successivamente, con la rivoluzione sessuale, hanno iniziato a montarsi la testa, calandogliela solo a quelli che soddisfano il criterio LMS. Gli INCEL definiscono CHAD, tipi come Riccardo Cazzador, giusto per fare un nome; sono quelli con un alto punteggio LMS che, trombandosene più di una, gli sottraggono quella cocca che, prima del ’68, sarebbe sicuramente spettata a loro; analogamente, avviene nel mondo animale, dove più femmine si concedono solo ai maschi alfa. Notai però, nel nostro insegnante, una malcelata invidia nei confronti del sopracitato Riky Cassador che, comunque, si è prodigato per la conservazione della specie, seminando figli in giro; ovviamente, avuti con cocche diverse.

Ah no! A si ciò! Aeora, radiofonici, cossa ve par de ‘ste robe?” Paperoga si era organizzato appuntando tutto sullo smartphone; ci disse che, sull’argomento, si sarebbe potuto buttar su un programmone; avremo fatto un’audience degno dei migliori talk show. “ Tasi, tasi, che almanco ghe si voialtri dea radio”; el Gino scosse la testa e, cicca in bocca, inforcò la bici sparendo dall’orizzonte.

Tutto frastornato, tornai su, era ora di andare in onda; dalla finestra si potevano vedere molte cocche passare, nessuna però si sarebbe fermata da Nane, nemmeno se gli serviva di andare urgentemente in bagno. Non potevo fare a meno di pensare all’elucubrazione dell’esimio Ciano Menin; era stata senz’altro più interessante di “goals for job success”, comprese le originali e incisive, nel vero senso della parola, “slide”, lasciate sul muro de Nane; alla fine, si era parlato di un obiettivo che, tanti definiscono “il fine ultimo”. Arrivai alla conclusione che probabilmente il criterio di selezione LMS, esiste davvero con la sottile differenza che, siamo più noi uomini ad applicarlo; dividiamo l’universo femminile in cocche e non cocche, dove, queste ultime, vengono relegate ad appartenere a una casta inferiore. Quando poi, le cocche, non sono più cocche, non ci interessano più e le abbandoniamo in mezzo a una strada; ancora peggio, reagiamo violentemente, se si rifiutano di essere cocche di nostra esclusiva proprietà.

Tasi, tasi, che almanco ghe si voialtri dea radio”. Grazie Gino, noi della radio, di questa piccola radio; possiamo, di fronte alla mancanza di un qualcosa di grande e misterioso, vera forza e motore del mondo, solo “mettere su” qualcosa …

E per la barca che è volata in cielo
Che i bimbi ancora stavano a giocare
Che gli avrei regalato il mare intero
Pur di vedermeli arrivare

Per il poeta che non può cantare
Per l’operaio che ha perso il suo lavoro
Per chi ha vent’anni e se ne sta a morire
In un deserto come in un porcile

E per tutti i ragazzi e le ragazze
Che difendono un libro, un libro vero
Così belli a gridare nelle piazze
Perché stanno uccidendo il pensiero

Per il bastardo che sta sempre al sole
Per il vigliacco che nasconde il cuore
Per la nostra memoria gettata al vento
Da questi signori del dolore

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo

Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore

Perché le idee sono come farfalle
Che non puoi togliergli le ali
Perché le idee sono come le stelle
Che non le spengono i temporali
Perché le idee sono voci di madre
Che credevano di avere perso
E sono come il sorriso di dio
In questo sputo di universo

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà ben finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Continua a scrivere la vita
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Che è così vera in ogni uomo

Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore

Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole

Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo

Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Perché noi siamo amore

© 2011 Claudio Guidetti – Roberto Vecchioni

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Dal libro “Solaradio – Una radio da leggere” – © 2022 Michele Camillo


Indice del libro

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L’istà da Nane

© Michele Camillo – Agosto 2022 – Lido di Campalto (VE)

Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti o meglio, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate.

Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar di Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e non, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano, portato, a detta di alcuni esperti di geopolitica, sempre presenti da Nane, da quelli che arrivano con i barconi, assieme alle zanzare tigre. 

Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene. Comunque, c’è l’innegabile vantaggio che, se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada de bovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di copar tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ de schei per il trattamento. Segnalo poi, che quando Denis Sgorlon, Ivan Stevanato e Toni Favaretto uniscono le loro forze per produrre un corale rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile.

Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale, “c’è chi va ai monti, chi va al mare, e chi, va ben, ben in cueo de so mare”.

Purtroppo, anch’io, Paperoga e Paolo “Paolino” Dante, meglio conosciuti da Nane come “quei dea radio”, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana. Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia, siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas.

In passato, abbiamo messo in atto maldestri tentativi per non rimanere nella categoria. Ci abbiamo provato sin da bambini, facendoci spedire in colonia; puntualmente, ogni anno, tornavamo a casa, fiaccati nel corpo e nella mente, come se avessimo fatto vent’anni di naja. In seguito, ci rivolgemmo ai preti, con il risultato di trovarci per dieci giorni ammassati assieme a una ventina di coetanei maschi puzzolenti, dentro una baracca di legno, a duemila e passa metri a batar brocche con delle vesciche giganti ai piedi; nemmeno mio zio Mario, ha fatto una vita simile, quando era militare negli alpini. Nell’estate dell’ottantuno c’era la possibilità di iscriversi al campo scuola di Azione Cattolica, un’occasione ghiotta in quanto era misto, fioi e fie. Le nostre istanze vennero cassate, non fummo ritenuti sufficientemente motivati ovvero, motivati esclusivamente dalla fame di una certa cosa. Passarono invece la selezione, Stefano Trevisan e Riccardo Cazzador, due mandrilloni della prima ora che, però, erano tra i beniamini del prete. Così, da restai, ci siamo dovuti accontentare, sempre presso il bar da Nane, del dettagliato resoconto dei due pii fioi de cesa; a detta loro, era stata una bellissima esperienza, erano riusciti a trombarsi alcune pie fie de cesa di altre parrocchie. Io non ci avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi, pochi giorni dopo, nel campetto dietro il patronato, Riki Cassador darghe dentro de lengua a una tipa, presentatami poco prima dal don, come X della parrocchia Y.

L’istà da Nane, è trovarsi tutti assieme ad ascoltare i componimenti di Paolino Dante che, forse a causa del pesante cognome, è diventato il nostro sommo poeta.

“Istà, istà; ti pol ‘ndar in ferie sol posto più beo che ghe sia ma, se no’ ghe xè figa no’ ti vedi l’ora de vegnir via. E po’, se ti ga da ‘ndar in ferie par menarte l’oseo, basta che ti vaghi ‘pena fora del canceo”

Questo è uno dei suoi pezzi forti estivi; in realtà, più che una poesia mi sembra una specie di postulato da cui deriva un teorema. Continuo a chiedermi, chissà perché, non ha mai sfruttato l’occasione di divulgare le sue opere al mondo intero, recitandole in radio ma, preferisce esibirsi esclusivamente da Nane, di fronte a una ristretta cerchia di raffinati intellettuali.

L’istà da Nane, è tipicamente per soli uomini, non si tratta di una scelta discriminatoria ma bensì conseguenza della triste realtà per cui, a parte qualche rara eccezione, le donne non rientrano nella categoria dei restai. Già a inizio giugno, se hanno figli, vanno a riempire carobere impestae de sorsi, da mille euro a settimana di affitto a Jesolo e dintorni oppure un rosegoto de capana da tremila e passa euro a stagione al Lido; ci ficcano dentro figli, madre e suocera, queste ultime, in realtà, sono delle colf mascherate mentre, el beco, ovvero il marito, o compagno che sia, fa la spola nei fine settimana. Se invece non hanno figli e, speri che un giorno li facciano, possibilmente con te, le devi portare a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo. Che non ti venga in mente di proporre le tue mete preferite, dove ti puoi rilassare, tipo Cabaearin, Corteasso, Fiera o, peggio, rimanere a casa, dove hai tutte le tue comodità e il mutuo da finire di pagare; in questo caso, ti sputano su un occhio e gliela calano, senza obbligo di procreazione, a uno che le porta a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo.

L’istà da Nane, è sempre la stessa e, sempre lo stesso è il dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore. A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso; consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco, vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto; non c’è da stupirsi perché, al Lele, se gli passi una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa.

L’istà da Nane, è sempre la stessa storia. Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta, ripete, come un disco rotto che, “l’istà xe sempre stada foriera de gran disgrassie”, e giù a elencare puntigliosamente, guerre, siccità, incidenti stradali, governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono, prezzi che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono, zanzare che quando pungono, ti fanno morire e, quando non pungono è perché hanno spruzzato nell’aria un veleno cancerogeno.

Dopo essersi rumegà par ben ea pata, gli fa eco Berto Busato; “’scolta ‘more, qua e uniche vere disgrassie xè e partie perse e ea figa che manca”. Essendo il campionato ormai alle spalle, agli astanti non rimane che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune, posti sconti dove c’è sempre mancato un peo par cassarse

Speta che sentimo i recioni dea radio cossa che i ga da dir”; alla fine, c’è sempre qualcuno che, sull’argomento cerca di tirarne in lengua, e qui, il nostro poeta sentenzia; “se no’ ti ea ga vantada quando ti geri fio no’ ea torna più indrio

L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno sembra far sempre più caldo e sembrano esserci sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. Ormai è un continuo susseguirsi di telefonate e scambi verbali che, el manco sbocà, intercala con centinaia di ghesboro, usati al posto della punteggiatura. I parenti si eclissano, lasciando sol gropon del restàea vecia o el vecio o tutti e due; ogni giorno sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato; medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione, medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano.

restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai.

Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori. Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA classe 1978, assieme a lei e a una tanica de Utan, alla sera, andiamo alla ricerca di rimasugli dell’estate italiana. Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano, si sente solo il canto dei grilli; mi distendo su un pontile a godermi lo spettacolo della notte stellata; solo, davanti all’infinito, posso finalmente canticchiare, “Gloria manchi tu nell’aria …”

Non l’ho mai raccontato ai fioi de Nane e mai lo racconterò ma, anch’io, ho avuto un’occasione estiva persa; Gloria, esattamente come uno dei più famosi tormentoni estivi. Vorrei tanto che piovesse e facesse fresco come quel mese di luglio, sento ancora il tepore e il profumo di legno di quella baita che si affacciava sulle Tofane dove, la pioggia incessante aveva fatto incrociare le nostre vite per una manciata di ore; ore passate a raccontarci i nostri sogni e la nostra voglia di fuggire via, condividendo le cibarie che avevamo negli zaini; e poi, dopo la pioggia, un tratto di cammino assieme, che mi è sembrato durare una vita, fino a quando ognuno ha proseguito per la sua meta. Io, a dire il vero, non ne avevo una di precisa, non so ancora perché, con una scusa qualsiasi, non ho continuato a camminare con lei; che mona. Inutile dire che, probabilmente, Gloria di Bassano, non si ricorderà mai di me; io si, per sempre. Le avevo lasciato l’adesivo della radio, al tempo si usava così, era il nostro biglietto da visita. Anche se la nostra radio non “tirava” così distante, nutrivo la speranza che potesse chiamare; non l’ho più sentita. Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano de Nane, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Gloria di Tozzi.

A proposito, de istà, da Nane, puoi ascoltare SolaRadio, unico bar sulla faccia della terra che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata. Aiuta a combattere, che che ne dica el soetaea vera disgrassia dell’istà, la solitudine; parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo come un Nane.

Se d’istà a casa te toca star, serà in apartamento, inpissa ea radio cussì ti sarà un fià più contento. Paolo “Paolino” Dante

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Dedico questo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando mi divertivo ad ascoltare le sue “lettere a Luciano” su Radio Capodistria. Ciao Luciano, ciao balubino!

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Dal libro “Solaradio – Una radio da leggere” – © 2022 Michele Camillo

© Michele Camillo – Agosto 2022 – Lido di Campalto (VE)

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© Michele Camillo – Giugno 2022 – Cortellazzo (VE)

M.M. 55018 e I-BIKI, il primo e l’ultimo, strano modo di iniziare una storia. Pochissime persone sanno cosa significano queste due sigle, al resto della gente, non dicono assolutamente niente, non significano nulla; a volte nemmeno a me e, mi chiedo se non siano solo frutto della mia fantasia.

Mi viene spontaneo, alzando gli occhi al cielo, fare un confronto con le scie che osservavo da ragazzo, la fitta ragnatela di strisce bianche, mi dice che ora, si vola più di una volta.  Con lo smartphone, mi diverto a identificare ogni singola scia, per sapere tutto di lei; modello di aereo, origine del volo, destinazione, passeggeri imbarcati, altitudine, velocità e altro; questa applicazione è miracolosa. Se ce l’avessi avuta quella volta, sarebbe stato fantastico ma, mi avrebbe impedito di affinare l’arte di fantasticare e raccontare un sacco di balle.

La Vale, si beveva tutto quello che le raccontavo; citavo modelli di aerei inesistenti e imprese aviatorie mai avvenute ma, soprattutto, baravo sulla mia vita. Mi ero inventato gran parte del mio passato a cominciare dalla mia famiglia, mio padre ufficiale di marina e non contadino; mia madre professoressa di lettere e non casalinga; mio fratello all’ultimo anno di medicina e non carrozziere. Infine, mia sorella indossatrice, a quel tempo non si diceva modella; la sorella, invece, non ce l’avevo proprio. Per la Vale e, solo per la Vale, frequentavo un esclusivo collegio militare anziché un banalissimo liceo scientifico. 

Non avevo fatto una gran fatica per attaccar bottone, mi aveva accalappiato lei con la scusa di fare due tiri a tamburello, credo solamente perché era stufa di giocare con la sorellina.

Per la Vale, la moretta con i capelli a caschetto, avevo preso, come diceva zio Bruno, ‘na bruta scopola. Metteva solo costumi rossi; di vario tipo, interi, due pezzi, in due occasioni, me lo ricordo come se fosse ieri, solo uno, ma, tassativamente rossi.

Erano già tre anni che passavo le vacanze al mare a scrocco da zio Bruno e zia Stella, non avevano figli, ed io, mi facevo volentieri adottare, con contratto a tempo determinato, per il solo periodo estivo. Con i miei, non si andava in vacanza, la frase di mio padre era sempre la stessa, “ti occupi tu, della casa, dei campi e dell’orto?”. Anche zio Bruno aveva casa, campi e orto, con la differenza che la loro posizione era esattamente a quattro kilometri e trecentocinquanta metri dal mare, misura verificata con precisione dallo zio. Una distanza, tutto sommato accettabile, anche a farla in sella alla Graziella, con la quale, ti ci volevano dieci pedalate per fare un metro.

Quell’anno, detto “l’anno della Vale”, godevo di massima libertà; mi ero offerto di fare l’aiutante alla Silvana con il noleggio dei mosconi, giusto per racimolare qualche biglietto da mille ed evitare di dare una mano allo zio nei campi, dove, al massimo, rimediavo qualche decina di punture dalle zanzare. Facevo la vita del gatto ovvero, tornavo a casa dagli zii praticamente solo per mangiare e dormire.

Avrei dovuto pensare alle due materie che mi aspettavano a settembre invece, l’unico libro che aprivo era “il pilota moderno”. Facevo il figo con la Vale sciacquandomi la bocca con nozioni sui principali strumenti per la navigazione aerea, lei faceva la faccia stupita, le pareva impossibile che un ragazzo di sedici anni sapesse quasi pilotare un aereo, almeno era quello che mi piaceva pensasse. Mentre parlavo con lei, facevo delle profonde buche sulla sabbia con i piedi; ero nervoso perché, in realtà, invece di parlare solo di aerei, avrei voluto dirle qualcosa di diverso ma, non ne avevo il coraggio.

Al tramonto, dopo che avevo tirato su l’ultimo moscone e messo i lucchetti mi sedevo sopra lo scivolo ad osservare la linea dell’orizzonte che, via, via sparisce, fondendo cielo e mare in un unico fondale rosato, avevo l’illusione che il mondo finisse qualche centinaio di metri dalla battigia. Anche credere che sarei diventato pilota probabilmente era solo un’illusione, me ne rendevo conto ma, impennarmi con la Graziella, fingendo di pilotare un F104 e raccontare alla Vale un sacco di cose, più o meno vere, sul volo, in quel momento, mi rendeva felice.

Alle illusioni, quando stavo seduto sul seggiolino eiettabile del M.M. 289546 dovevo starci attento, specie quando volavo a bassa quota sul mare, mai guardare fuori, occhio solo agli strumenti per mantenere l’assetto livellato. Se guardi l’orizzonte, anche se hai il sole alle spalle, rischi di precipitare in un’illusione che, ti fa precipitare, senza darti il tempo di tirare il cordino nero e giallo che sta in mezzo alle gambe.

Forse anche quello che sto raccontando è semplicemente un’illusione, nulla è esistito ma, come diceva il buon Mark Twain, “non separarti dalle illusioni. Quando se ne saranno andate, può darsi che tu ci sia ancora, ma avrai cessato di vivere”.
Non mi ha mai convinto ‘sta pagliacciata, ma lui, maniaco degli anniversari, aveva deciso così; trovarci al mare, di fronte allo stesso mare, dopo quarantacinque anni esatti. In casa, come capitava con certe missioni particolari, non ho detto dove sarei andato. Decido di non fare l’autostrada ma, la vecchia provinciale alberata; nel tratto finale, non ci sono scorciatoie per arrivare al mare, ti becchi sempre e comunque la coda. Poco male, occasione per soffermarmi a guardare la casa degli zii. Circondata da un intero quartiere di villette a schiera, ormai non si vede quasi più; dovevo comprarla, potevo comprarla, una tra le tante cose che avrei dovuto e potuto fare.

Anche se l’avrò fatto migliaia di volte, ogni volta che arrivo di fronte al mare provo grande stupore e immensa felicità. E’ dentro quell’infinito orizzonte che ho potuto immagazzinare i miei sogni mentre, le onde che si infrangono sulla battigia, mi restituiscono, pian, piano, le illusioni; è guardando le bianche scie nel cielo che mi ricordo chi sono stato o chi dovevo essere. C’è stato un preciso momento, proprio in riva al mare, in cui due vite o meglio, due anime, si sono divise; una ha inseguito un sogno, un progetto mentre l’altra, si è fermata ad aspettare una persona per l’eternità.

Eccolo che arriva, la camicia a fiori rossi di suo fratello due taglie in più e, il costume ereditato dal cugino, una taglia in meno. 

Uno così, inetto alla vita militare, ammesso che avesse passato il concorso, non avrebbe resistito nemmeno un’ora in Accademia Aeronautica, i vecchi lo avrebbero massacrato e preso di mira, sarebbe schiattato al primo giro di corsa; alla fine, come tanti, piangendo, sarebbe tornato a casa da mamma e papà. 

Uno così, che si illude di essere un allievo pilota, solo perché ha letto qualche pagina, o meglio, guardato le figure di quel noioso manuale di volo, se solo avessi potuto, maledizione, me lo sarei portato al campo e caricato sul Texan; sarebbe bastata un’oretta scarsa per fargli capire cosa significa volare sul serio. Probabilmente sarebbe tornato a terra bianco cadavere e, gli unici aerei che avrebbe avuto il coraggio di toccare, sarebbero stati quelli in scatola di montaggio. Avrei voluto sentire cosa avrebbe raccontato alla Vale il giorno dopo.

Uno così, vale la pena lasciarlo illudersi, fargli cadere il palco su cui recita, sarebbe devastante.

Non capisco come una ragazza carina e brillante, potesse dar credito a uno così; c’è un’unica spiegazione, era veramente innamorata di quell’esemplare da circo.

Lui mi guarda strano, lo vedo diventare triste, mi sembra ansioso. Deve essere rimasto deluso dal mio aspetto; credo non si aspettasse di vedermi malvestito, quasi senza capelli e, con la panza.

“Allora sei diventato pilota?”

“Non te lo dico ma, ti do un consiglio”

“Sarebbe?”

Va dal moro, comprale un braccialetto, offrigli un gelato e chiedile indirizzo e numero di telefono. Prima di imparare a volare devi saper vivere sulla terra, imbecille!!

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“Pensavo che diventare pilota, volare alto e lontano, sopra gli altri, sarebbe servito a riscattarmi. Ho scoperto invece, che il vero riscatto non è diventare qualcuno ma, sapersi liberare dalle proprie paure, dai condizionamenti, dai giudizi, dagli inutili pesi e dai falsi vincoli, per, alla fine, volare liberi.”

Anonimo

Ho trovato questa scritta su un vecchio hangar dismesso presso la Værløse Air Base in Danimarca.

A tutte le Vale che, guardando le bianche scie in cielo, aspettano pazientemente noi, che scendiamo di nuovo con i piedi per terra.

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Dal libro “Campare in aria – aviatori nell’anima” – © 2022 Michele Camillo


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