La vita appartiene a coloro che vivono, e coloro che vivono devono essere preparati per i cambiamenti. Johann Wolfgang von Goethe
Ci mancava anche quella frase di merda sul muro di quella hall di merda di quell’azienda di merda. Non mi avevano nemmeno liquidato con il classico “le faremo sapere”; macché, sono andati giù diretti, “lei non soddisfa i requisiti di selezione inerenti al profilo professionale ricercato” o qualcosa del genere, stronzi di merda, affanculo.
Fallito l’ennesimo tentativo di cambiare lavoro, fallito di conseguenza l’ennesimo tentativo di cambiare la mia piatta e monotona vita; piatta e monotona come i campi che mi circondavano. Le mie palle stavano tracciando per terra due lunghi solchi profondi e perfettamente paralleli simili a quelli del troso che porta alla casa nova. Trentadue gradi e l’umidità che sarà stata al 99%. Porco di un mondo, eravamo appena all’inizio dell’estate e quel cancaro de sofego, oltre alla rabbia, mi stava rendendo ancora più pesante l’obbligo istituzionale di recarmi da mia madre per la consueta visita infrasettimanale.
La foschia contribuiva a rendere tutto incolore; sfido chiunque, non sia nato da queste parti, di riuscire a distinguere una casa nova da un’altra; sono tutte uguali, spesso costruite accanto alla casa vecia, ovvero la vecchia casa colonica che, nonostante sia pericolante, continua a essere usata come deposito. Le case nove sono casette di due piani, misurano massimo quindici metri per quindici metri e soprattutto non sono quasi mai dipinte ma lasciate in grigio intonaco, un vero esempio di globalizzazione edilizia.
Ogni giovedì, la pausa pranzo era dedicata a mia madre Giuseppina, detta Bepina ea vedova. Ottantatre anni portati malissimo, ea Bepina, da circa due anni non era più autosufficiente; artrosi, diabete, depressione e demenza senile l’avevano ridotta ormai a trascorrere i suoi giorni in carrozzina e a fare discorsi incomprensibili ad alta voce. In realtà, con la testa non è mai stata del tutto in bolla ovvero, come diciamo noi, “ghe mancava un boio”; mio padre, per primo l’ha sempre considerata ‘nainsemenia; tra parentesi, mi chiedo perché l’abbia sposata.
Bepina, guadagnò il titolo di Bepina ea vedova l’11 novembre 1977, quando morì mio padre Giovanni alias Ioani Nosea. Inspiegabilmente mia madre, ancora prima di rimanere vedova, vestiva sempre di nero e, sempre inspiegabilmente, ogni sacrosanto giorno andava in cimitero per cui, non dovette cambiare abitudini e nemmeno outfit.
Le abitudini, purtroppo, le dovetti cambiare io. Ogni domenica pomeriggio, per non so quanti anni, invece di fare cose più consone a un ragazzino, fui costretto a trascorrere interi pomeriggi in cimitero, a braccetto della Bepina. Passavamo in rassegna i vari pori, ovvero i parenti e conoscenti defunti. Vi risparmio l’elenco completo ma, si partiva dalla pora Olga, mia nonna morta nel 1951, per finire sempre a un certo Rino morto nel 1966.
Quel giovedì non mangiai quasi niente; fiaccato dal sofego e, in preda a quella rabbiosa depressione, mi rinchiusi in quella che era stata la mia cameretta; tutto petaisso, mi distesi nel mio ex letto. Non era servito a nulla tenere la tapparella abbassata e la finestra aperta, l’afa, come un gas tossico, sembrava penetrarmi nei polmoni fino a soffocarmi. La sgradevole sensazione era accentuata dal pensiero che, fra mezz’ora sarei dovuto salire sulla rovente auto della ditta, rigorosamente senza climatizzatore, per tornare alla triste routine lavorativa. Non mi restava altro che consolarmi proiettandomi uno dei miei film mentali. Le sceneggiature, in genere, cambiavano di poco, usai una delle più collaudate. La scena si svolgeva in un piccolo albergo di charme in riva al mare, la serata era tersa e ventilata, stavo cenando nel porticato assieme a una bellissima ragazza, arrivata il mio stesso giorno. Mi raccontò di essere lì per ritrovar pace dopo una burrascosa vicenda sentimentale. Ascoltava incantata con il viso appoggiato sui pugni chiusi i miei discorsi filosofici sull’importanza della solitudine, i suoi occhi verdi non smettevano di fissarmi. Ad un tratto prese ad accarezzarmi dolcemente il viso. All’improvviso una voce fuori campo con accento dell’est mi fece ritornare bruscamente al qui e ora.
Era Irina, la badante moldava dea Bepina; che, con il suo tono di voce talmente penetrante che la si potrebbe usare come antifurto, mi disse di aver trovato qualcosa in camera di mia madre. Mi alzai intorpidito asciugandomi con la mano il rivolo di bava che nel frattempo si era riversato sul cuscino.
Avevo autorizzato ea slava, come la chiamava mia sorella, a sistemare i cassetti del vecchio comò di mia madre; era necessario mettere un po’ di ordine ma, soprattutto, buttare via la biancheria che, ormai, vecchia di decenni, puzzava di muffa.
Per mamma Bepina, quel comò è sempre stato sacro e, fino a quando era mentalmente in salute, inavvicinabile. Come tutte le donne di campagna possedeva pochissime cose di sua esclusiva proprietà, tutto quello a lei caro si trovava all’interno di quel metro cubo scarso. Ea Bepina quando si arrabbiava gridava come una forsennata e a questo si limitava; l’unica volta che, al contrario di mio padre, alzò le mani con me, fu quando all’età di sei anni, spinto dalla curiosità, aprii il famoso comò. Quell’evento eccezionale fece in modo che ne stetti alla larga per sempre; pazienza, in fin dei conti era bello pensare che in casa ci fosse un posto così misterioso. Mamma, tipico di molti anziani dotati di badante, era convinta che Irina, ne avesse trafugato il prezioso contenuto; purtroppo, non immaginava, che ormai, qualsiasi cosa avesse avuto un minimo valore commerciale, sia che fosse stata dentro il comò o, in qualsiasi altro posto della casa, era già, da tempo, finita nelle mani di mia sorella e di mio cognato; per cui, non avevo idea di cosa ea slava, avesse potuto trovare di tanto importante; ma, ormai, aveva interrotto la proiezione del mio film sulla scena madre, tanto valeva andare a vedere.
La vidi intenta a maneggiare un vecchio libretto da messa spiegazzato e una specie di tovagliolo rosso; la faccia era quella di una che sta cercando di capire cos’è la sorpresa trovata nell’uovo di Pasqua. Avvicinandomi, constatai che il presunto libretto da messa, recava sulla copertina la scritta, “On the road” e, il tovagliolo era in realtà una bandana rossa con dei disegni bianchi; dovetti quasi strappargli a forza i due reperti archeologici dalle mani. Quella bandana aveva un’aria familiare, avevo la netta sensazione di averla già vista in un passato remoto.
Non so se si trattò di una semplice coincidenza, in quel preciso istante, dalla finestra, entrò un fresco venticello de borin.
“Vento dall’est, qualcosa di strano fra poco accadrà … troppo difficile capire cos’è, ma penso che un ospite arrivi per me …”
Quella di Mary Poppins è una delle mie storie preferite; ho sempre desiderato che, un giorno, una persona speciale, facesse improvvisamente capolino nella mia vita, cambiandone radicalmente il corso. Quel vento dall’est attivò un’emozione tanto indescrivibile quanto forte; era come se, contemporaneamente, venisse esaudito un mio desiderio e, resa giustizia, per quella che finora, era stata una piatta vita di merda senza particolari emozioni.
Con quello stato d’animo, passai a esaminare quel vecchio libro odorante di muffa. Ero fortemente convinto che l’interno dovesse per forza celare qualcosa. Sfogliai velocemente le pagine piene di macchioline giallognole; il mio intuito non sbagliò; alla fine, dietro la copertina trovai una frase scritta a penna.
Mi presero le palpitazioni e iniziai ad agitare le gambe; a Irina, dovevo essere sembrato sul punto di fare un colpo; me ne stavo, come un ebete, con gli occhi fissi su quelle poche righe scritte in inglese, senza proferir verbo. “Dimmi cosa c’è scritto”, continuava a ripetermi mentre contemporaneamente, tentava di tenermi fermo il braccio.
Cercavo invano di capire il significato della frase; le parole si mescolavano, riuscivo solo a mettere a fuoco il mio nome e una data, alla cui vista, quasi svenni.
Irina mi fece sdraiare di nuovo sul mio ex letto e mi diede delle gocce di Valeriana che usava anche per la Bepina, era sempre stata contraria a psicofarmaci e porcherie varie.
Irina, o meglio, Ecaterina Cazacu, classe 1936; una laurea in tasca, per quasi trent’anni è stata addetta commerciale in un’industria manufatturiera dell’ex Unione Sovietica; lo scoprii quel giorno quando, dopo un quarto d’ora, tornò con un foglietto in mano, vi era scritta la frase tradotta.
21 agosto 1966
Caro Angelo,
Camminare per l’eternità, senza fermarmi, senza una meta; camminare, per sopravvivere, per dimenticare.
Non riesco a fare altro; camminare, cantare e suonare la chitarra.
Mi piacerebbe portarti con me, ma devo dirti addio; le nostre anime, comunque, saranno per sempre unite.
Ti lascio questo libro, spero che un giorno leggendolo troverai il coraggio di lasciare tutto e metterti in cammino, magari per cercarmi. Chissà se il destino ci farà incontrare.
Vivi in pace e non avere paura di seguire la musica, ricordati che la musica non ha mai ucciso nessuno.
Buona fortuna mio piccolo
Kate
Io, Angelo Furlan detto fugasseta, il perché ve lo spiegherò in seguito, sono nato il 10 agosto 1966.
Noi maschi sprechiamo tempo a rintronarle di battute memorabili quando l’unica cosa che ci chiedono è di prestare attenzione ai loro pensieri. Massimo Gramellini
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Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive. Quelle come me donano l’anima, perché un’anima da sola è come una goccia d’acqua nel deserto. Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi, pur correndo il rischio di cadere a loro volta. Quelle come me guardano avanti, anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro. Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano, tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo. Quelle come me quando amano, amano per sempre. e quando smettono d’amare è solo perché piccoli frammenti di essere giacciono inermi nelle mani della vita. Quelle come me inseguono un sogno quello di essere amate per ciò che sono e non per ciò che si vorrebbe fossero. Quelle come me girano il mondo alla ricerca di quei valori che, ormai, sono caduti nel dimenticatoio dell’anima. Quelle come me vorrebbero cambiare, ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo. Quelle come me urlano in silenzio, perché la loro voce non si confonda con le lacrime. Quelle come me sono quelle cui tu riesci sempre a spezzare il cuore, perché sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla. Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio, non riceveranno altro che briciole. Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso, purtroppo, fondano la loro esistenza. Quelle come me passano inosservate, ma sono le uniche che ti ameranno davvero. Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita, rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti e che tu non hai voluto…
Alda Merini
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Ascolta la donna quando ti guarda, non quando ti parla – Khalil Gibran
Ricordo esattamente l’istante in cui nel mezzo della folla annoiata mi sono accorto del tuo sguardo incantato. In quel momento ho capito cosa deve provare un’anima sperduta quando, tra tanti corpi, riconosce quello in cui sceglie di reincarnarsi. (Giuseppe Tornatore)
“La bellezza di una donna non dipende dai vestiti che indossa né dall’aspetto che possiede o dal modo di pettinarsi. La bellezza di una donna si deve percepire dai suoi occhi, perché quella è la porta del suo cuore, il posto nel quale risiede l’amore.” (Audrey Hepburn)
Se non potete essere un pino sulla vetta del monte, Siate un arbusto nella valle – ma siate il migliore arbusto sulla sponda del ruscello. Siate un cespuglio, se non potete essere un albero. Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero, Se non potete essere il sole, siate una stella; Non con la mole vincete o fallite. Siate il meglio di qualunque cosa siate. Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati, e poi mettetevi a farlo appassionatamente.
Douglas Malloch
L’umanità che gravita attorno al piccolo universo che è il bar da Nane Sbérega è composta principalmente da personaggi che non si sono mai avventurati al di fuori di un certo perimetro. Questo confine è spesso stabilito dalla distanza che uno riesce a percorrere prima di finire la sigaretta. Non si può dire però che non conoscano il mondo; se gli chiedi, ad esempio, dove si trova un determinato stadio in sud America, ti danno l’indirizzo esatto.
Fra questi non viaggiatori, c’è anche uno dei nostri, un tale Fabio Rochesso, meglio conosciuto tra gli ascoltatori di SolaRadio come DJ Nafta. Un classico esemplare di “rifugiato radiofonico”; tra i primi di una lunga serie di personaggi, che hanno bussato alla nostra porta per chiedere asilo.
A dire il vero, iniziai a prendermi a cuore il suo caso, ancor prima che mettesse piede in radio; ovvero, il primo giorno delle medie; quando, me lo son visto entrare in classe tutto curvo con addosso un paio di pantaloni di due taglie in meno e una maglietta di due taglie in più.
Finì per distrazione, vera o finta che sia, seduto vicino alla bella Valentina Dammaggio che, non appena se ne accorse, lo respinse come una pallina dentro un flipper. Vista la malparata, il tipo, con un bel sorriso da ebete, ripiegò su di me, vanificando di fatto tutte le mie speranze di avere una bella gnocca come compagnia di banco.
Uno così attirò subito l’attenzione dei due pluriripetenti, ora pluripregiudicati, Giordano Malvestio “el rosso” e Amedeo Scantamburlo “el risso” che, gli resero la vita alquanto difficile dentro e fuori la scuola; fortunatamente per lui durò solo un anno in quanto vennero per l’ennesima volta bocciati.
La prima ora del primo giorno di scuola media, ci toccò il prof di francese, tale Nunzio Marano; un calabrese che, faceva fatica a esprimersi in italiano, figurarsi in francese. I primi istanti della prima ora del primo giorno di scuola media monsieur le teron, come venne presto soprannominato, li dedicò, sigaretta in bocca, a farci la classica domanda discriminatoria che io personalmente ho sempre odiato: “che lavoro fa tuo padre?”. Non si pensò nemmeno lontanamente a chiedere notizie sulla madre; monsieur le teron, evidentemente, dava per scontato che la donna se ne stesse tappata in casa a lavar mutande e calzini. Quando tocco al mio compagno, usci un flebile “pensionato”; fu l’unica parola che gli sentii pronunciare quel primo giorno di scuola media.
“Ma chi? To pare o to nono?”, disse ridendo sarcasticamente Adrea Bortoletto, un denigratore specializzato che mi era toccato sorbirmi dalla terza elementare e che, purtroppo avrei dovuto continuare a sopportare per altri tre anni.
Il Marano trattò con sufficienza il Rochesso; non fece altrettanto quando Lucia Simoncello rispose “medico”; spense la sigaretta sul banco del Ballarin e cominciò a chiedergli in ordine, specialità, orari di visita, tariffa e, se ci fosse la possibilità di trattamenti di favore, per lui, familiari, amici e compaesani.
Andò a finire che, nel giro di qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, mi ritrovai il figlio dell’insignificante pensionato bazzicare in casa mia.
La spiegazione era semplice, bastava vedere il posto dove abitava. Una stradina di sassi, detta ea stradea; dove, c’erano solo casette basse prive di fondamenta. Chiamarle villette, era un’offesa per chi, come me, abitava in una vera villetta; sembravano baracche alle quali era stato applicato dell’intonaco grigio e così lasciate senza nemmeno dipingerle; all’interno invece, regnava la muffa. In una camera tre metri per tre dormivano pigiati lui, il fratello Lele e nonna Maria di quasi novant’anni.
Veniamo ora ai genitori; o meglio i vecchi, sior Gino classe 1915 e siora Antonia classe 1924. Aveva ragione il Bortoletto, potevano essere benissimo i suoi nonni e questo, dava fastidio non poco al mio amico tanto che si vergognava di loro; purtroppo non erano solo vecchi anagraficamente ma, soprattutto mentalmente, mai visti dei retrogradi simili.
Il vecchio Gino usava nafta della peggiore qualità per scaldare la catapecchia in cui vivevano, l’aria che usciva dal camino era irrespirabile e tutti i componenti della famiglia puzzavano da nafta; da qui il loro soprannome.
Non c’era quindi da stupirsi se i miei, praticamente lo adottarono; era ospite fisso in cucina e, pure del sedile posteriore della nostra FIAT 128; finimmo addirittura per potarcelo in vacanza.
Sono quasi certo che, in realtà, fu lui a farsi adottare dai miei. Gli faceva comodo nutrirsi a sbafo dei manicaretti di mamma Franca invece della sbobba che gli propinava siora Antonia ma, più di tutto era attratto dall’impianto stereo di papà Adriano e dalla sua ricca collezione di dischi e musicassette.
Mio padre, oltre al preziosissimo impianto MARANTZ e alla relativa dote, aveva altre costosissime passioni, tra le quali la fotografia e i trenini elettrici. Io ormai, con ‘ste cose c’ero cresciuto ma, non faccio fatica a immaginare che, per il buon Fabio Nafta, metter piede in casa nostra equivaleva entrare a Disneyland.
A me, comunque, la cosa non dispiaceva, Fabio era un tipo da compagnia, completamente diverso da quei musoni dei suoi familiari; in più, era dotato di una spiccata fantasia. Grazie al ben di Dio che trovava in casa mia, si inventava di tutto, con lui non credo di essermi annoiato una sola volta. Riuscì a trasformare lo scantinato dove mio papà praticava i suoi hobby in studio televisivo, teatro e discoteca; in poco tempo, quel luogo, divenne una sorta di polo di attrazione per una serie di personaggi, purtroppo, tutti rigorosamente di sesso maschile. L’unico progetto in cui fallì, fu il tentativo di organizzare dei festini ai quali avrebbero dovuto partecipare elementi dell’altro sesso. A tale proposito, devo dire che, non so perché ma, purtroppo, negli anni, una serie di fattori e sfighe hanno sempre remato contro tutte le nostre iniziative nelle quali erano coinvolte delle ragazze.
L’idea più balzana la ebbe quella volta che, sempre in scantinato, vide la CINEPRESA MAX, regalo degli zii; si mise in testa di emulare Mino D’Amato nel famoso programma “A come avventura”. Tra i dischi di mio papà, ebbe la fortuna di trovare le due sigle, ovvero le favolose, “A salty dog” dei Procolarum e “She came in trough the bathroom window” di Joe Cocker.
Memorabile fu il giorno in cui, la troupe composta dal sottoscritto, il Nafta, il Zanella, il De Rossi e lo Scapin si addentrò nel boschetto adiacente la villa del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca. L’idea era quella di immortalare la fauna selvatica che si nascondeva negli anfratti più remoti della fitta boscaglia. Ad un certo punto, venimmo attratti da strani versi; quatti, quatti ci avvicinammo a un vecchio rudere dal quale sembravano provenire; fu così che ci si presentò davanti la scena di due esemplari in calore, il padre di tale Manente di 3^D e la madre di tale Zennaro di 1^F.
Anche se, tra i dischi di papà c’era probabilmente “You can leave you hat on” del Cocker, non era nelle intenzioni del nostro regista, girare un porno. Fu un’occasione mancata, il Nafta avrebbe sicuramente anticipato di un po’ di anni l’idea di Adrian Lyne.
Fortemente motivati dal fatto che a scuola era saltato il programma di educazione sessuale, decidemmo di rimanere in silenzio ad osservare la scena, da noi ritenuta altamente educativa.
Purtroppo, fu proprio la fauna selvatica o quasi, ad interrompere quell’estemporanea lezione. Dal nulla si materializzò uno dei cani del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca, filava alla velocità di un ghepardo con il chiaro obiettivo di addentare la prima chiappa che gli fosse capitata a tiro.
Si dice che, se un branco viene attaccato dal leone, per non morire sbranati, l’importante non è correre più veloci del leone ma, degli altri elementi del branco. In quel caso fummo avvantaggiati; fu esilarante vedere il padre di quel tale Manente impedito nella corsa a causa delle braghe abbassate, tentare di scappare dalle grinfie del bavoso cagnaccio, col bindoeo fora.
Quell’episodio segnò in noi anche una profonda crisi di ideali. Al tempo, i preti ci ammonivano continuamente; se solo avessimo, non dico toccato, ma semplicemente sognato, quella cosa lì; saremmo finiti all’inferno, là dove, sarà pianto e stridore di denti. Noi, da bravi ragazzi, pur tra mille difficoltà, cercavamo di rispettare questo precetto, sentendoci in colpa se sgarravamo; tutto questo fino a quel giorno. La madre di tale Zennaro e il padre di tale Manente erano nientepopodimeno che due assidui basabanchi, sempre in prima fila a messa con le rispettive famiglie; portati in palmo di mano da quel prete che ci faceva le prediche durante gli incontri dell’ACR. Da quel giorno, gradatamente, finimmo per disaffezionarci agli ambienti della Chiesa Cattolica per frequentarne altri meno vincolanti dal punto di vista della morale sessuale. Personalmente mi convinsi del fatto che, se eventualmente fosse esistito l’inferno, ci sarebbe stata, prima di me, molta gente in coda per entrarci, di sicuro mi avrebbero preceduto la madre di tale Zennaro e il padre di tale Manente.
“Erce!Dove ti va? Vien qua! Sta qua!”. Ogni volta che andavo in stradea a prendere Fabio, era una mezza tragedia. Non era facile per Nafta varcare il cancello arrugginito dei Rochesso, sior Gino sbraitava come un matto per non farlo uscire; altro che avventure in giro per il mondo.
Credo sia stato per ribellarsi a questa situazione opprimente che lo spinse, finite le medie, a iscriversi all’Istituto Nautico. Non vedevo altra spiegazione, non poteva essere che, un timoroso patologico nei confronti dell’elemento acqua, uno che in spiaggia si immergeva al massimo ad una profondità di 50 cm per paura di non toccare il fondo, volesse intraprendere una vita per mare; era chiaramente una sfida nei confronti dei genitori.
Fatto sta che, usando un termine marinaresco, per due anni sparì letteralmente dai radar e, per due estati consecutive, rifiutò di venire in montagna con noi.
A settembre del 1980, sempre usando termini marinareschi, tornò in porto. Il figliol prodigo, si piegò al volere della famiglia e, per compiacere a sior Gino, si iscrisse a ragioneria. Torno a mangiare a sbafo a casa mia e in vacanza con noi nella casetta di Fiera.
“Ve go scoltà”; tutte le persone a cui interessava far parte di SolaRadio solitamente iniziavano così la loro verbale “domanda di ammissione”; non fu da meno il Rochesso. Quello che invece mi suonò strano, fu una sua precisa domanda riguardo il raggio d’azione del trasmettitore; gli interessava sapere se arrivasse fino al viale. Il perché di quella domanda l’ho capito solo poco tempo fa, durante una delle mie tante notti insonni; nel viale abitava Valentina.
Nel lontano ottobre del 1980 il Nafta si sedette davanti all’unico microfono che SolaRadio aveva da offrigli e da lì, in tutti questi anni non si è mai mosso; intendo, radiofonicamente parlando.
Passa il suo tempo radiofonico a mandare in onda vecchie canzoni dimenticate, quelle che, per anni, come dei vecchi abiti, sembrano essere finite in naftalina; per questo Nafta, si è meritato l’appellativo di DJ Nafta.
Spesso, mentre passeggiamo lungo la barena si ferma a osservare malinconico la grande antenna dell’impianto RAI; quella dei nostri sogni, quella che ci avrebbe permesso di varcare certi confini, offrirci la possibilità di riscattarci e soddisfare la nostra smania di approvazione. Ci avrebbe permesso di aprire un canale di comunicazione con persone ormai lontane che, da idioti, abbiamo lasciato andare.
L’altro giorno, sconsolato mi ha detto, “ghe xé poco da far, semo ‘na radio desmentegada dal Signor”.
Nonostante, già dopo qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, l’abbia avuto praticamente ogni giorno in casa, io e il Nafta non ci siamo mai confrontati sull’argomento Dio. Anche quel giorno, camminando sconsolati fianco a fianco, in silenzio; non abbiamo avuto il coraggio di parlare dei nostri eterni dubbi sull’esistenza di Dio, sorti quel giorno nel boschetto adiacente la villa del conte Gianmichele Maria Zorzi Della Gran Vacca.
Ciliegina sulla torta; oggi, dopo non so quanti anni, siamo ripiombati in quel casino che era la nostra classe delle medie. La cena con i vecchi compagni di classe è stata tutto fuorché piacevole; un continuo vociare, con l’evidente scopo di primeggiare e rubarsi la scena.
Ad un certo punto Nafta è sparito, l’ho trovato fuori dal locale a fumare come un turco, per terra ci saranno stati almeno cinque mozziconi. Era visibilmente depresso, mi ha riferito che, ancor prima che arrivassero le pizze, aveva trovato:
Chi ha avuto più mogli mentre lui sempre la stessa
Chi ha già i figli grandi che stanno facendo il master in non si sa che cosa tra Londra Milano e New York mentre lui di figli nemmeno l’ombra
Chi ha il mega SUV mentre lui va in giro ancora con la sua vecchia FIAT Punto del 2009
Chi è amministratore delegato di un’azienda mentre lui è sottoposto al sottoposto del sottoposto del sottoposto dell’amministratore delegato
Chi ha la casa in Sardegna mentre lui deve ancora finire di pagare il cinquantennale mutuo di un umile 80mq
Ha ammesso candidamente di aver tentato di fare el sgrandesson vantandosi di fare il DJ in una radio, ovviamente omettendo i dettagli sul tipo di radio; è venuto fuori subito che la Simoncello, ha una figlia, che vive a Milano, famoso DJ in un altrettanto famoso Network nazionale.
A proposito di Milano, non è mancato Andrea Bortoletto, ora stimato giornalista di una nota testata; non appena ha saputo della storia di SolaRadio, l’unico nostro vanto, si è subito affrettato a prendere per il culo, me e il Nafta; ci mancava proprio uno che si fa trecento e passa chilometri con l’unico scopo di farti sentire una merda.
A riproposito di Milano, Valentina ora abita lì ma, all’ultimo, non è potuta venire.
Nonostante, già dopo qualche mese da quella prima ora del primo giorno di scuola media, l’abbia avuto praticamente ogni giorno in casa, io e il Nafta non ci siamo mai confidati sull’argomento donne. Anche stasera, camminiamo sconsolati fianco a fianco, in silenzio; non abbiamo il coraggio di dircelo, ma entrambi pensavamo venisse quella ragazza che abitava a metà viale, la più bella della classe. Mi bastava sentire il suo passo per farmi battere forte il cuore; vorrei che potesse ascoltarmi quando mando in onda ripetutamente quella canzone che, mentre la canticchiavo, l’aveva fatta voltare verso di me.
Mi sa che entrambi abbiamo accettato di partecipare a questa cena solo per la speranza di vederla; ci sono cose che non ci diremo mai, nemmeno in punto di morte; meglio parlare di canzoni e della radio.
Meglio parlare dei sogni, di quell’antenna altissima, quasi come la Tour Eiffel che ci avrebbe permesso di arrivare ben oltre il viale dove abitava Valentina.
Alla Fine, come l’umanità che gravita attorno al piccolo universo che è il bar da Nane Sbérega, composta principalmente da personaggi che non si sono mai avventurati al di fuori di un certo perimetro; anche SolaRadio non è mai uscita da quel perimetro. DJ Nafta è quello che più la rappresenta, un marinaio mancato che non ha mai avuto il coraggio di prendere il largo verso orizzonti sconosciuti; in bar da Nane, non credo sappiano nemmeno come si chiama, è semplicemente “queo dea radio”.
Quando hai un padre che, non appena varchi il cancello di casa, ti urla dietro “dove ti va? Vien qua! Sta qua!”, o ti ribelli e sparisci per sempre dalla sua visuale, oppure ti lasci passivamente incatenare dai legami famigliari e relativi ricatti affettivi. Ti accontenti di una vita che non è quella che volevi e, ti limiti a non muoverti oltre il tiro della tua sigaretta.
Fabio è uno dei tanti ai quali SolaRadio ha offerto il suo microfono; un “bisognoso di radio”, lo chiamo io o, più semplicemente, un bisognoso di ascoltatori.
Ho sentito dire, “impara a dire ciò che senti, magari è proprio quello che qualcuno aveva bisogno di ascoltare”. A Fabio basta una tizia carina che gli dice “te go scoltà” per farlo felice; l’ho visto commuoversi, quando uno sfigato bociassa dei paeassoni, lo ha ringraziato per aver mandato in onda questa canzone
E ti diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte Ma non è vero, ragazzo, che la ragione sta sempre col più forte Io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero E naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo Chiudi gli occhi, ragazzo, e credi solo a quel che vedi dentro Stringi i pugni, ragazzo, non lasciargliela vinta neanche un momento Copri l’amore, ragazzo ma non nasconderlo sotto il mantello A volte passa qualcuno, a volte c’è qualcuno che deve vederlo
Sogna, ragazzo, sogna Quando sale il vento nelle vie del cuore Quando un uomo vive per le sue parole o non vive più Sogna, ragazzo sogna Non lasciarlo solo contro questo mondo Non lasciarlo andare sogna fino in fondo, fallo pure tu Sogna, ragazzo, sogna Quando cala il vento ma non è finita Quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu Sogna, ragazzo sogna Non cambiare un verso della tua canzone Non lasciare un treno fermo alla stazione, non fermarti tu
Lasciali dire che al mondo quelli come te perderanno sempre Perché hai già vinto, lo giuro e non ti possono fare più niente Passa ogni tanto la mano su un viso di donna, passaci le dita Nessun regno è più grande di questa piccola cosa che è la vita E la vita è così forte che attraversa i muri per farsi vedere La vita è così vera che sembra impossibile doverla lasciare La vita è così grande che quando sarai sul punto di morire Pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire
Sogna, ragazzo, sogna Quando lei si volta, quando lei non torna Quando il solo passo che fermava il cuore non lo senti più Sogna, ragazzo, sogna Passeranno i giorni, passerrà l’amore Passeran le notti, finirà il dolore, sarai sempre tu Sogna, ragazzo, sogna Piccolo ragazzo nella mia memoria Tante volte tanti dentro questa storia, non vi conto più Sogna, ragazzo, sogna Ti ho lasciato un foglio sulla scrivania Manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu
(*) Lo voglio scrivere, cancellare e riscrivere Strappare delle pagine, usar l’inchiostro invisibile Per poterlo nascondere e non lasciarne traccia Non so se sarà poesia oppure solo carta straccia E in fondo c’ho solo vent’anni, ma sai che cosa sento? Tutta la vita davanti eppure sto perdendo tempo C’è chi corre perché scappa e poi chi corre perché insegue Io corro perché solo quello mi fa stare bene Salgo sopra questo palco per giocare con la vita Ma se mi si spezza il fiato, se poi spezzo la matita? Più in basso è il punto di partenza, più alta è la salita Ma spero che il panorama valga tutta ‘sta fatica Non so che cos’è l’amore, ma a volte lo percepisco In un tramonto, uno sguardo, un disco E se mi guardo attorno penso che son fortunato Non so chi ha creato il mondo, ma so che era innamorato
In un mondo che Non ci vuole più Il mio canto libero sei tu E l’immensità Si apre intorno a noi Al di là del limite degli occhi tuoi
Nasce il sentimento Nasce in mezzo al pianto E s’innalza altissimo e va E vola sulle accuse della gente A tutti i suoi retaggi indifferente Sorretto da un anelito d’amore Di vero amore
In un mondo che Prigioniero è Respiriamo liberi io e te E la verità Si offre nuda a noi E limpida è l’immagine Ormai
Nuove sensazioni Giovani emozioni Si esprimono purissime in noi La veste dei fantasmi del passato Cadendo lascia il quadro immacolato E s’alza un vento tiepido d’amore Di vero amore E riscopro te
Dolce compagna che Non sai domandare, ma sai Che ovunque andrai Al fianco tuo mi avrai Se tu lo vuoi
Pietre, un giorno case Ricoperte dalle rose selvatiche Rivivono, ci chiamano Boschi abbandonati E perciò sopravvissuti vergini Si aprono, ci abbracciano
In un mondo che Prigioniero è Respiriamo liberi Io e te E la verità Si offre nuda a noi E limpida è l’immagine ormai
Nuove sensazioni Giovani emozioni Si esprimono purissime in noi La veste dei fantasmi del passato Cadendo lascia il quadro immacolato E s’alza un vento tiepido d’amore Di vero amore E riscopro te
Io Non son più io, mi sento da sola Qualche cosa dentro me è cambiato, ma cos’è? Oh-oh, oh, oh Oh, non dir di no e lasciami sola Non dipende più da te
Potresti regalarmi il mondo intero, che me ne farei? Io cerco solo il vento e una scogliera Dentro gli occhi miei E sopra il mare volerei Per non tornare, credimi Sola
Non pensare adesso che Qualcun altro sia con me Oh-oh, oh no Ti ho detto da sola Io con la mia anima
Sarà che questo mondo ha rovinato Tutti i sogni miei Se non avessi te che sei innocente Giuro me ne andrei Ed oltre il mondo volerei Per non tornare, credimi Sola
Per sentirmi libera, finalmente libera Oh, Sola Io con la mia anima
Ma chi piangerà, lo so sarò io Io che resterò sola Sola Resterò (sola) sola Sola, (sola) Sola, sola, sola Sola Resterò sola, sola, ah Sola, sola
The jingle bells are jingling The streets are white with snow The happy crowds are mingling But there’s no one that I know
I’m sure that you’ll forgive me If I don’t enthuse I guess I’ve got the Christmas blues
I’ve done my window shopping There’s not a store I’ve missed But what’s the use of stopping When there’s no one on your list
You’ll know the way I’m feeling When you love and you lose I guess I’ve got the Christmas blues
When somebody wants you Somebody needs you Christmas is a joy of joys But friends when you’re lonely You’ll find that it’s only A thing for little girls and little boys
May all your days be merry Your seasons full of cheer But ‘til it’s January I’ll just go and disappear
Old Santa may have brought you Some stars for your shoes But Santa only brought me the blues Those brightly packaged tinsel covered Christmas blues
Old Santa may have brought you Some stars for your shoes But Santa only brought me the blues Those brightly packaged tinsel covered Christmas blues
Allora è arrivato Natale, Natale la festa di tutti Si scorda chi è stato cattivo, si baciano i belli ed i brutti Si mandan gli auguri agli amici, scopriamo che c’è il panettone Bottiglie di vino moscato e c’è il premio di produzione
È nato si dice poi fu crocifisso Aveva diviso il mondo in due parti E quelli che l’hanno trattato più male Son quelli che hanno inventato il Natale
C’è l’angolo per il presepio e l’albero per i bambini I magi, la stella cometa e tanti altri cosi divini I preti tirati a parata, la legge racconta che è onesta Le fabbriche vanno più piano, insomma è un giorno di festa
È nato si dice poi fu crocifisso Aveva diviso il mondo in due parti E quelli che l’hanno trattato più male Son quelli che hanno inventato il Natale
È festa persino in galera e dentro alle case di cura Soltanto che dopo la festa, la vita ritornerà dura Ma oggi baciamo il nemico, o quelli che passano accanto O l’asino dentro la greppia, Natale il giorno più santo.
Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti o meglio, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate.
Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar di Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e no, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano, portato, a detta di alcuni esperti di geopolitica, sempre presenti da Nane, da quelli che arrivano con i barconi, assieme alle zanzare tigre.
Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene. Comunque, c’è l’innegabile vantaggio che, se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada debovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di copar tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ de schei per il trattamento. Segnalo poi, che quando Denis Sgorlon, Ivan Stevanato e Toni Favaretto uniscono le loro forze per produrre un corale rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile.
Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale, “c’è chi va ai monti, chi va al mare, e chi, va ben, ben in cueo de so mare”.
Purtroppo, anch’io, Paperoga e Paolo “Paolino” Dante, meglio conosciuti da Nane come “quei dea radio”, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana. Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia, siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas.
In passato, abbiamo messo in atto maldestri tentativi per non rimanere nella categoria. Ci abbiamo provato sin da bambini, facendoci spedire in colonia; puntualmente, ogni anno, tornavamo a casa, fiaccati nel corpo e nella mente, come se avessimo fatto vent’anni di naja. In seguito, ci rivolgemmo ai preti, con il risultato di trovarci per dieci giorni ammassati assieme a una ventina di coetanei maschi puzzolenti, dentro una baracca di legno, a duemila e passa metri a batar brocche con delle vesciche giganti ai piedi; nemmeno mio zio Mario, ha fatto una vita simile, quando era militare negli alpini. Nell’estate dell’ottantuno c’era la possibilità di iscriversi al campo scuola di Azione Cattolica, un’occasione ghiotta in quanto era misto, fioi e fie. Le nostre istanze vennero cassate, non fummo ritenuti sufficientemente motivati ovvero, motivati esclusivamente dalla fame di una certa cosa. Passarono invece la selezione, Stefano Trevisan e Riccardo Cazzador, due mandrilloni della prima ora che, però, erano tra i beniamini del prete. Così, da restai, ci siamo dovuti accontentare, sempre presso il bar da Nane, del dettagliato resoconto dei due pii fioi de cesa; a detta loro, era stata una bellissima esperienza, erano riusciti a trombarsi alcune pie fie de cesa di altre parrocchie. Io non ci avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi, pochi giorni dopo, nel campetto dietro il patronato, Riki Cassador darghe dentro de lengua a una tipa, presentatami poco prima dal don, come X della parrocchia Y.
L’istà da Nane, è trovarsi tutti assieme ad ascoltare i componimenti di Paolino Dante che, forse a causa del pesante cognome, è diventato il nostro sommo poeta.
“Istà, istà; ti pol ‘ndar in ferie sol posto più beo che ghe sia ma, se no’ ghe xè figa no’ ti vedi l’ora de vegnir via. E po’, se ti ga da ‘ndar in ferie par menarte l’oseo, basta che ti vaghi ‘pena fora del canceo”
Questo è uno dei suoi pezzi forti estivi; in realtà, più che una poesia mi sembra una specie di postulato da cui deriva un teorema. Continuo a chiedermi, chissà perché, non ha mai sfruttato l’occasione di divulgare le sue opere al mondo intero, recitandole in radio ma, preferisce esibirsi esclusivamente da Nane, di fronte a una ristretta cerchia di raffinati intellettuali.
L’istà da Nane, è tipicamente per soli uomini, non si tratta di una scelta discriminatoria ma bensì conseguenza della triste realtà per cui, a parte qualche rara eccezione, le donne non rientrano nella categoria dei restai. Già a inizio giugno, se hanno figli, vanno a riempire carobere impestae de sorsi, da mille euro a settimana di affitto a Jesolo e dintorni oppure un rosegoto de capana da tremila e passa euro a stagione al Lido; ci ficcano dentro figli, madre e suocera, queste ultime, in realtà, sono delle colf mascherate mentre, el beco, ovvero il marito, o compagno che sia, fa la spola nei fine settimana. Se invece non hanno figli e, speri che un giorno li facciano, possibilmente con te, le devi portare a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo. Che non ti venga in mente di proporre le tue mete preferite, dove ti puoi rilassare, tipo Cabaearin, Corteasso,Fiera o, peggio, rimanere a casa, dove hai tutte le tue comodità e il mutuo da finire di pagare; in questo caso, ti sputano su un occhio e gliela calano, senza obbligo di procreazione, a uno che le porta a Sharm, Fuerteventura, Ibiza, Santorini, Porto Cervo, Portofino, Londra, New York, Parigi, e via discorrendo.
L’istà da Nane, è sempre la stessa e, sempre lo stesso è il dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore. A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso; consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco, vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto; non c’è da stupirsi perché, al Lele, se gli passi una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa.
L’istà da Nane, è sempre la stessa storia. Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta, ripete, come un disco rotto che, “l’istà xe sempre stada foriera de gran disgrassie”, e giù a elencare puntigliosamente, guerre, siccità, incidenti stradali, governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono, prezzi che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono, zanzare che quando pungono, ti fanno morire e, quando non pungono è perché hanno spruzzato nell’aria un veleno cancerogeno.
Dopo essersi rumegà par ben ea pata, gli fa eco Berto Busato; “’scolta ‘more, qua e uniche vere disgrassie xè e partie perse e ea figa che manca”. Essendo il campionato ormai alle spalle, agli astanti non rimane che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune, posti sconti dove c’è sempre mancato un peopar cassarse.
“Speta che sentimo i recioni dea radio cossa che i ga da dir”; alla fine, c’è sempre qualcuno che, sull’argomento cerca di tirarne in lengua, e qui, il nostro poeta sentenzia; “se no’ ti ea ga vantada quando ti geri fio no’ ea torna più indrio”
L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno sembra far sempre più caldo e sembrano esserci sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. Ormai è un continuo susseguirsi di telefonate e scambi verbali che, el manco sbocà, intercala con centinaia di ghesboro, usati al posto della punteggiatura. I parenti si eclissano, lasciando solgropon del restà, ea vecia o el vecio o tutti e due; ogni giorno sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato; medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione, medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano.
I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai.
Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori. Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA classe 1978, assieme a lei e a una tanica deUtan, alla sera, andiamo alla ricerca di rimasugli dell’estate italiana. Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano, si sente solo il canto dei grilli; mi distendo su un pontile a godermi lo spettacolo della notte stellata; solo, davanti all’infinito, posso finalmente canticchiare, “Gloria manchi tu nell’aria …”
Non l’ho mai raccontato ai fioi de Nane e mai lo racconterò ma, anch’io, ho avuto un’occasione estiva persa; Gloria, esattamente come uno dei più famosi tormentoni estivi. Vorrei tanto che piovesse e facesse fresco come quel mese di luglio, sento ancora il tepore e il profumo di legno di quella baita che si affacciava sulle Tofane dove, la pioggia incessante aveva fatto incrociare le nostre vite per una manciata di ore; ore passate a raccontarci i nostri sogni e la nostra voglia di fuggire via, condividendo le cibarie che avevamo negli zaini; e poi, dopo la pioggia, un tratto di cammino assieme, che mi è sembrato durare una vita, fino a quando ognuno ha proseguito per la sua meta. Io, a dire il vero, non ne avevo una di precisa, non so ancora perché, con una scusa qualsiasi, non ho continuato a camminare con lei; che mona. Inutile dire che, probabilmente, Gloria di Bassano, non si ricorderà mai di me; io si, per sempre. Le avevo lasciato l’adesivo della radio, al tempo si usava così, era il nostro biglietto da visita. Anche se la nostra radio non “tirava” così distante, nutrivo la speranza che potesse chiamare; non l’ho più sentita. Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano de Nane, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Gloria di Tozzi.
A proposito, de istà, da Nane, li puoi ascoltare SolaRadio, unico bar sulla faccia della terra che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata. Aiuta a combattere, “ea vera disgrassia dell’istà”, la solitudine; parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo come un Nane.
Se d’istà a casa te toca star, serà in apartamento, inpissa ea radio cussì ti sarà un fià più contento.
Paolo “Paolino” Dante
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Dedico questo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando mi divertivo ad ascoltare le sue “lettere a Luciano” su Radio Capodistria. Ciao Luciano, ciao balubino!
La pandemia del 1981, ha cambiato il destino alla quasi totalità delle persone. Io, ad esempio, non ho mai visto il politecnico di Milano e, ovviamente, non so, se ha una scalinata tipo quella del Pacinotti. Non ho mai costruito aerei veri, mi sono limitato a quelli di plastica; non ho nemmeno finito quello in balsa che mi ha regalato Gigi, quando è stato assunto fisso in fabbrica a Porto Marghera; la scatola deve essere da qualche parte, ancora intonsa.
Ho costruito però tante radio; in molte parti del mondo; felice, di averne piazzate alcune nei posti più socialmente disagiati del nostro pianeta dove, possedere una radiolina ed alzare l’antenna per, ascoltare una voce consolatrice o semplicemente della buona musica, non è una cosa scontata.
Nella soffitta non ci ho mai abitato; era destinata a rimanere tutta per me, invece, alla fine, sono stati sfrattati anche i modellini di aerei. Ne è rimasto solo uno, un biplano Tiger Moth giallo scala 1/48, regalo di Francesca per i miei 18 anni; elemento di spicco della mia collezione di cimeli, assieme allo stereo Marantz color champagne e luci blu. Tre anni fa, sior Attilio, giaceva in un letto d’ospedale, più de là che de qua; riuscii a stento a capire le sue parole, “passa in magazen, ghe xè ‘na roba par ti”; vi trovai il Marantz con un post-it appiccicato, “per Bebo”. El moro, fortunatamente, è ancora qui tra noi ma, quel magnifico stereo, me lo sono tenuto; dopo più di quarant’anni, suona ancora che è una meraviglia; alla sua salute ovviamente.
Ormai, questo ufficio che, in origine, doveva essere la mia camera da letto, è diventato praticamente una specie di museo; quarant’anni di radio e altre cose.
Ufficialmente, tutto è cominciato il primo aprile del 1981 ma, per me, l’avventura ebbe inizio quando, dieci giorni prima, la Fiat 131 Panorama del moro imboccò el troso dei Nosea stracarica di apparecchiature che servivano a “fare una radio”.
I giorni successivi, mentre Ivano e relativo babbo, si dedicavano a una serie infinita di prove tecniche di trasmissione; io, riaprii la mitica agendina del sindacato, questa volta mi feci coraggio e alzai la cornetta; ne uscì lo staff di Epiradio.
Per evitare i contagi, una sola persona per volta, poteva salire in soffitta a trasmettere; tutte le altre attività, comprese le riunioni di “redazione” le facevamo all’aperto, sotto el vecio morer, detto anche “l’albero delle idee”, da quante ne partorimmo alla sua ombra.
Le Compact Cassette furono i piccioni viaggiatori di quel periodo; su quei nastri arrivarono in radio le lezioni degli insegnanti, le messe con annesse le prediche fiume di don Fernando, nonché, svariati consigli di medici o, presunti tali. Tutto quel viavai di cassette ispirò “C60”, la trasmissione che divenne il cavallo di battaglia di Epiradio. Ogni ascoltatore poteva inviare qualcosa da mandare in onda; aveva a disposizione un’ora, ovvero la durata dei nastri C60. Fu un successo; si alternarono comici più o meno divertenti, barzellettieri, più o meno “puliti”, cantanti più o meno intonati ma, quello che prese maggiormente piede, fu la lettura recitata di libri.
Visto il successo della cosa; anch’io, per non essere da meno, mi cimentai nel leggere racconti in radio, i miei; il programma si intitolava “tee conti che e par vere”. Era la frase che pronunciava la maestra quando mi riconsegnava il temino del lunedì; che, spesso consisteva nello stendere il resoconto del fine settimana. Ea siora Visentin, sapeva benissimo che, in casa mia, non succedeva mai niente di particolare; inoltre, come tutte le famiglie di contadini, bisognava tenere il culo attaccato ai campi, per cui, non si andava mai da nessuna parte; il che, mi costringeva, per buttar giù le due righe del lunedì, a darci dentro di brutto con la fantasia. E’ da quei tempi che riempio quaderni interi di storie dove, spesso, non c’è né un tempo né un luogo preciso ma, la trasposizione in una vita fantastica; quella che, in sostanza, mi sarebbe piaciuto vivere; storie che spesso celano, i miei pensieri e sentimenti più reconditi. D’altronde, come dice Italo Calvino, “Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga scoperto”.
Così, più volte la settimana, a tarda sera, un mio piccolo racconto, allietava le notti insonni e stracolme d’ansia, di molti nostri ascoltatori, compreso chi era finito in ospedale. Condivo il tutto con tanta musica; senza parlarci sopra, perché, ho scoperto che fare radio è anche saper ascoltare. Avevo due pezzi fissi che usavo come sigle; “A mano a mano” di Cocciante e “Sailing” di Christopher Cross, delle autentiche poesie.
I racconti e le canzoni che mandavo in onda, innescarono parecchie storie d’amore; divenni sostanzialmente una sorta di Cupido radiofonico, con tanto di ringraziamenti dai “bersagliati”. “El scarper va via coe scarpe rote”, mai detto popolare fu più azzeccato; per me, invece, la miccia, non si accese. Nonostante, da dietro un microfono, detenessi una posizione privilegiata che, in teoria, mi avrebbe consentito di buttar sardoni a gogò; non successe niente o, per dirla in maniera assai volgare; no ea me xè mai cascada. Francesca continuava a stare con el Deny; e a me, per straviarme, non restava altro che sognare la misteriosa biondina dea ceseta; quella tipa, a dire il vero, ancora oggi, non me la sono tolta dalla testa.
A dispetto di quello che pensava el moro; i “baracchini” iniziarono a diffondersi nelle case. In pochissimo tempo, nel quartiere erano diventati quasi tutti dei provetti radioamatori, vecchi e bambini compresi. Di sera, si formavano numerosi QSO, gruppi di persone che si mettevano a chiacchierare via radio per tenersi compagnia; delle vere e proprie chat ante litteram. Non so se fu grazie alla mia idea, fatto sta che la cosa dilagò in tutta Italia.
El moro esaurì ben presto le scorte, impossibile ordinare gli apparati, anche le case produttrici li avevano finiti; per cui, iniziammo a costruirli noi di Epiradio; ricordo ore e ore passate a saldare circuiti, anche di notte. Specie tra noi fioi, ci si divertiva a “truccarli”, per aumentarne la potenza, proprio come si faceva con i motorini; c’era poi la gara per chi aveva quello che gli “tirava” di più, nel senso di raggio d’azione ovviamente.
Le frequenze radio iniziarono a intasarsi e, più di qualcuno, iniziò a tirar sacramenti in quanto, a causa delle interferenze provocate, non si riusciva a guardare la TV. Visto il contesto emergenziale, la Polizia Postale chiudeva tutti gli occhi che aveva, compresi quelli che avrebbero dovuto posarsi sul trasmettitore di Epiradio; a tale proposito, una leggenda narra che, i piloti di un aereo in atterraggio, in attesa di ricevere l’autorizzazione dalla torre, furono allietati dal nostro programma di dediche e richieste.
Dove non riuscivano ad arrivare le onde radio, ci pensavano le nostre biciclette; ricordo di copertoni consumati a son di portare generi di prima necessità e conforto, a chi, non poteva uscire di casa, a causa della quarantena o altre rogne. Otto, stufo di assistere alle numerose cadute del carico e relativo ciclista sopra il medesimo; durante una notte insonne, progettò un piccolo rimorchio da agganciare al tubo della sella. La produzione di quei geniali carrellini iniziò dopo pochi giorni, giusto il tempo per dare modo a Gigi di procurargli, in maniera non proprio legale, i pezzi. Oggi Otto sarebbe finito sui giornali per aver dato vita a una startup innovativa nel settore della mobilità sostenibile mentre Gigi, in galera; inchiodato dai più bravi penalisti al soldo delle fabbriche di Porto Marghera. Ormai sono passati quarant’anni e l’eventuale reato è caduto in prescrizione e poi, le fabbriche, che potrebbero reclamare il maltolto, sono chiuse da decenni.
“Marconista ‘na volta, marconista par sempre”. Così analogamente è stato per me “fare radio”, è una di quelle cose che, una volta che inizi a farle, sono per sempre.
Non sono diventato un costruttore di macchine volanti ma, posso comunque asserire di aver fatto volare, almeno con la fantasia, tanta gente; a differenza della televisione, ascoltando la radio sei costretto a immaginare. La fantasia ti fa volare sopra i problemi e i giorni tristi; ti può portare in un attimo in un sacco di posti, basta chiudere gli occhi e, anche una canzonetta senza pretese, può renderti, almeno per un attimo, felice.
Attorno al “ranch” dei Nosea, si è sviluppata la mia azienda; facciamo radio, insegniamo a fare radio e, altre cose per comunicare.
Non ho avuto il coraggio di far demolire il traliccio sopra la soffitta. El Moro aveva chiesto un antenna bella alta e solida e Otto lo accontentò; lo progettò e, insieme a Gigi, lo costruì in tempo record. Per farlo, i due svaligiarono il locale ferovecio e fusero la saldatrice.
In quel traliccio e nei campi retrostanti ea casa vecia, aleggia lo spirito di mio papà. Non vado mai al cimitero come facevano le mie zie; le persone che non ci sono più, preferisco ricordarle nei luoghi dove sono vissute. Con Otto, non ci siamo mai parlati tanto; mi piaceva però osservarlo mentre, malinconico, vagava tra i campi, per poi, soffermarsi immobile a guardare l’orizzonte, con quell’aria da eterno insoddisfatto; sembrava chiedere alla vita perché non gli avesse dato qualcosa in più. Quel qualcosa in più, non ho mai capito, in realtà, cosa fosse; non credo aspirasse a un maggiore benessere economico; magari desiderava che il mondo apprezzasse le sue doti di inventore, o, chissà, semplicemente sognava un grande amore; diverso da quello imposto “d’ufficio”, dalle usanze del tempo. D’altronde, è sempre stato criptico; i suoi ultimi giorni, chiamava ripetutamente una misteriosa Anna; poi, si abbracciava forte da solo, “dai vecio coragio che semo soeo mi e ti”.
Mamma è ancora viva, anche se abita in un mondo tutto suo; un po’ me lo aspettavo, in famiglia è sempre stata l’eterna assente. “Metime su quea cansoneta”, crede ancora che stia dietro un microfono pronto ad accettare dediche e richieste; ovviamente non si ricorda il titolo, per cui, me la canta. “Sta qua ancora un fià, che ‘desso te fasso pan buro e succaro”; è sempre difficile il momento in cui la devo salutare; lasciarle quella mano che stringe forte la mia.
“No sta mai farte meraveja de ‘staltri”; ogni tanto, continua a lanciarmi uno dei suoi classici moniti; tradotto, non pensare mai, “io non farò mai la fine di Tizio o Caio, non sarò mai come loro”; per poi, finire col dire; “no me saria mai immaginà”. Non sempre le cose vanno come te le eri immaginate; però, a una certa cosa, ci tenevo più di tutto.
Alla fine è successo quello che più temevo; sono praticamente rimasto un mul; avrò costruito tante radio ma, nessuna vera famiglia. Ho cercato di dare la colpa al maledetto 1981 ma, in realtà, nemmeno io ho dato retta al consiglio dello zio Mario. Mi sono fatto frettolosamente incatenare dalle pressioni sociali e dalle mie paure, anziché lasciarmi guidare dal cuore.
Eh si, la paura, è il bubbone che la peste del 1981, ha inesorabilmente lasciato in molte persone. C’è gente che ancora oggi fa fatica ad uscire di casa, vede virus presenti ovunque e continua ad andar in giro coverta. Con la paura; psicoterapeuti più o meno regolari, fabbricanti di medicine o spacciate per tali, governi, sette religiose e, la stessa chiesa; ci sono andati a nozze; per loro, come si dice in dialetto, è ‘na bea teta da monsar.
Da quell’ultimo giorno di carnevale, la paura mi è entrata dentro e non se ne è più andata; ogni strano segnale del corpo, ogni linea di febbre in più, non mi fanno dormire. Si aggiunge poi, la paura di venir condannato alla dannazione eterna, per la colpa di essere uno di quei rotti in culo che è sopravvissuto, a scapito di altri che, non si sono potuti procurare le cure necessarie.
Tutto questo, ogni tanto, mi fa correre in ceseta. Col passare del tempo ci sono sempre meno certezze e sempre più interrogativi; il silenzio continua a dominare la scena; il rumore del vento fuori, sembra sempre quello di sottofondo di una radio che, non riceve nessun segnale; forse, semplicemente, pur avendo costruito tante radio, non so più ascoltare.
Se non ci fosse la paura però; Francesca, la mia migliore amica, non correrebbe a cercarmi per abbracciarmi.
Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.
Ma su un punto non c’è dubbio.
Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.