L’ultimo


All’alba degli anni Ottanta, lo sviluppo ormonale, esplodendo con la discrezione di una centrale nucleare in meltdown, travolse anche noi quattro soci fondatori di SolaRadio. 

Una inevitabile conseguenza di ciò fu che ormai il Natale perse ogni residuo di magia. Sparita la trepidazione, evaporato il conto alla rovescia; non ce ne fregava più nulla né dei regali né del pranzo. Zero. Nada. Nisba. Roba da bambini e da gente che ancora crede a Babbo Natale o alla sincerità delle promesse elettorali. 

Personalmente, ricevere per l’ennesima volta il pigiama regolamentare da mia madre, modello “ricovero d’urgenza in ospedale” e affondare il cucchiaio sull’ormai rituale piatto di tortellini in brodo, seguito da una carne lessa dai riflessi verdastri da farla sembrare radioattiva, mentre le nonne intonavano il lamento funebre del “eh no ghe xé più el Nadal de ‘na volta”, mi causava un forte attacco depressivo meritevole di un ricovero coatto in psichiatria. 

L’unico che ancora aspettava il regalo era EnsoPenso. In realtà, era una cosa un po’ particolare: sperava di trovare sotto l’albero una squinzia di 1^del liceo scientifico adiacente il nostro Istituto Tecnico; tale Romina Zanon detta “la calda”, possibilmente seminuda. Alla completa spogliazione avrebbe poi provveduto lui, con zelo missionario, il giorno di Santo Stefano. Più che un regalo, sarebbe stato un miracolo di Natale. 

Per noi quattro e, sospetto, per milioni di adolescenti sparsi nel globo, tutta l’attesa, i sogni proibiti e le fantasie più o meno legali (dal punto di vista della morale), si erano ormai concentrate su un solo evento sacro: il festin dell’ultimo dell’anno. 
Non avevamo il coraggio di confessarlo nemmeno a noi stessi, ma sul 31 dicembre nutrivamo aspettative… di un certo tipo. 

Chi aveva contribuito non poco a tutto quel cambiamento era Denis Sgorlon, il nostro oracolo. Lo consultavamo ogni qualvolta dovevamo prendere delle decisioni riguardo gli ambiti più “delicati” della nostra esistenza; vi lascio immaginare quali. 

Era stato lui, grande motivatore da sempre, a convincerci che era ormai ora e tempo di finirla con gli ultimi dell’anno in famiglia. Ai festini dell’ultimo avremo visto certi numeri; altro che quelli che dava la vecchia zia a tombola. 

Forti dei nostri sedici anni, della nostra SolaRadio e di un’ignoranza emotiva incrollabile, già a inizio novembre eravamo caricati come le molle di un divano anni Settanta. 

Paperoga era il più gasato di tutti. Fortunatamente riuscii a fermarlo un attimo prima che el mona pissasse fora dal bocal; stava per annunciare che SolaRadio avrebbe organizzato el festin dell’ultimo con tanto di diretta radiofonica. 

Mentre lo trascinavo a forza da Name Sbérega per farlo sbollire, il socio eseguì a cappella l’intera scaletta che aveva in mente. Avreste dovuto vedere le facce di chi incrociavamo mentre l’amico, come se fosse posseduto da uno spirito maligno si dimenava e, a squarciagola cantava (si fa per dire), una strana versione di “Yes sir i can boogie”. 

Mi ci volle un bel po’ di tempo, due tramezzini prosciutto e funghi, un tonno e cipolline e, un litro abbondante di chinotto, per farlo ragionare. Gli feci capire che c’erano due piccolissimi problemi per organizzarlo; dove ma, soprattutto, con chi. 

Se avesse fatto quell’annuncio, ci saremo trovati a festeggiare con Memo Bottacin e soci, el Bibo dea Cipressina e qualche nostro stagionato parente. Unica donna presente sarebbe stata probabilmente la vecchia Nives Casarin. Ovviamente, sempre ammesso che, i già menzionati personaggi, non avessero di meglio da fare.  

Riguardo a ragazze, non potevamo contare nemmeno sulle nostre sorelle, visto che nessuno di noi ne aveva una. 

Il genio dovette ammettere che, nonostante gli anni di attività, in quanto a serbatoio di ascoltatori eravamo in riserva se non, completamente a secco.  

Comunque, era giunta l’ora di dare una svolta alla nostra vita sociale; era il momento di spiccare il volo e tuffarci in uno di quei festini leggendari; si, ma quale? 

Il nostro quartiere era la Brescello di don Camillo e Peppone in miniatura: comunisti da una parte, democristiani dall’altra. 
Anche l’ultimo dell’anno diventava terreno di scontro ideologico: due gruppi, due locali, due feste. 

Al tempo, i due principali festini buei per i giovani erano quelli organizzati rispettivamente dai basabanchi dell’Azione Cattolica Giovani e dai compagni della locale sezione FIGC. 
 

Ufficialmente, lo scopo era favorire l’aggregazione sociale.  

Non occorreva essere un sociologo delle masse per capire che il reale obiettivo dei maschi organizzatori era racimolare quanta più fauna femminile possibile.  

Alla fine, cattolici o comunisti che fossero, credevano tutti nello stesso detto che, da noi, si tramanda da secoli: “chi ciava l’ultimo dell’anno, ciava tutto l’anno”. 

Consultammo anche il Mauri, nostro mentore per il misterioso mondo della figa. Suggerì di guardare a sinistra; le compagne comuniste, diceva, erano più disinibite e scafate delle “suorette” di Azione Cattolica. Spoiler: qualche anno dopo la realtà ci smentì senza pietà. 

Tito ci fece capire che l’unica nostra possibilità era puntare sulla festa in parrocchia. La sala del patronato non era distante dal nostro “studio” e, l’idea di Paperoga di fare la diretta del festin, era tecnicamente percorribile; questo ci gasò alla grande. 

E poi, noi bravi fioi de cesa nonché timorati di Dio, non avevamo il coraggio di scegliere qualcosa di diverso. Andare a fare l’ultimo in un altro posto, specie dai “rossi” e con le “rosse”, significava bruciare all’inferno; la, dove sarà pianto e stridore di denti. 

Il giorno di Santo Stefano del 1980 non lo scorderò mai.  

Io e Paperoga stavamo passeggiando tutti eccitati per le viette. 

La miccia si era accesa dopo la messa di mezzanotte del giorno di Natale; quando, alcune squinzie del gruppo giovani di Azione Cattolica, ci fecero gli auguri di Natale dandoci come supplemento alla consueta stretta di mano, nientepopodimeno che due baci sulle guance. Fu una cosa inaspettata e dirompente. Credo che per noi quattro fosse la prima volta che ricevevamo un bacio da una ragazza. 

EnsoPenso reagì alla cosa come un orangotango in calore; ci riferì che una, di cui non volle fare il nome, ci aveva messo anche un pizzico di lingua, era sicuro di averla sentita.  

Per tutta la strada che facemmo insieme, sparò una sfilza di lenti che avrebbe voluto ballare cic to cic con Moira Battiston (secondo me quella della quale aveva sentito la lingua); usò un frasario che non rientrava certo nello spirito natalizio del dopomessa ma piuttosto in quello goliardico da caserma. 

Io, per pudore non dissi nulla, ero troppo impegnato a sedare lo scompiglio che mi si era venuto a creare in mezzo alle gambe.  

Lo slancio affettuoso di Caterina Crevatin, leader del gruppo squinzie di A.C., aveva fatto sì che i miei ormoni dessero vita ad uno spettacolo pirotecnico degno della festa del Redentore. Non avevo sentito la lingua ma, in compenso, mi si erano appiccicati addosso i suoi brillantini. 

La cosa però che mi eccitò di più era l’aver carpito, dalle suddette squinzie, alcune frasi riguardanti la loro sicura partecipazione a un certo festin. 

La cosa che eccitò di più EnsoPenso è che le aveva sentite parlare di autoreggenti. Io, confesso, non sapevo cosa fossero; lo scoprii tempo dopo sfogliando certe “pubblicazioni” che aveva in garage il Mauri. 

La notte di Natale e, nemmeno quella dopo, riuscii a dormire. Avevo un pensiero fisso: quello di far colpo su quel gruppetto di gnocche; la diretta di SolaRadio era una strategia perfetta per emergere insomma, par far el figo.   

Noi di SolaRadio saremmo potuti diventare i protagonisti della festa e, di conseguenza … vedi il famoso detto popolare citato in precedenza. 

Femo, femo”, Paperoga improvvisò una sorta di danza in mezzo alla vietta canticchiando (sempre si fa per dire), “you make me feel” e io, dalla felicità lo imitai. 

Ad un certo punto, qualcosa ci ammutolì e ci paralizzò. 

Dalla villetta della Crevatin uscivano le note ad alto volume di “Call me” di Blondie; altri due passi e nel giardino scorgemmo Riccardo Beltrame che teneva abbracciate la padrona di casa e la Battiston; mentre, dalle finestrelle della taverna si vedeva un lampeggio di luci colorate. 

Non c’era alcun dubbio; era in corso un “festin isi” (easy per chi ha studiato a Oxford), dove vien soeo chi che de gheo disi. In un lampo mi fu subito chiaro a cosa si riferivano quelle quattro squinzie di merda fuori della chiesa; troie! 

Per non metterci in ulteriore imbarazzo facemmo una rapidissima virata di centoottanta gradi prima che lo stronzo del Beltrame ci scorgesse e magari gli venisse la bella idea di prenderci per il culo. 

Troie”  

Fu l’unica parola che Paperoga pronunciò con tono sommesso poi, silenzio assoluto fino a quando non fummo dentro la mansarda di SolaRadio. 

Troie!”  

Faceva un certo effetto sentire il pudico Tito quasi urlare quella parola. 

L’unico che invece conservava ancora una certa carica in canna era EnsoPenso. A suo dire, nulla era ancora perduto. Al 31 dicembre, mancavano ancora sei giorni. 

Il suo entusiasmo si smorzò quando gli dissi che avevo visto il Beltrame stretto come una fetta di prosciutto a fare “panino” in mezzo alla Crevatin e alla Battiston, entrambe “in curto” (con le minigonne n.d.r.) 

Troie!”  … e quattro; poker! 

Quella sera non mangiai. Mi chiusi in cameretta come si fa quando non si vuole essere visti neppure da sé stessi. Nel cassetto della scrivania c’era un’agenda del 1976, omaggio indesiderato di quel rotto in culo di mio cugino Adriano, rimasta fino ad allora intonsa, vergine di parole e di giorni. 

La presi in mano quasi per caso, ma bastò un attimo perché le pagine fino al 12 gennaio si riempissero della mia rabbia. Scrivevo senza pensare allo stile, senza cercare senso: lasciavo colare l’inchiostro come si lascia uscire il sangue da una ferita che brucia troppo per restare chiusa. 

Fu in quell’istante preciso, il 26 dicembre 1980, giorno di Santo Stefano, che iniziai, senza saperlo, a trovare rifugio nella scrittura. Non come esercizio, non come ambizione, ma come necessità. Come unica forma di sopravvivenza emotiva che mi fosse concessa. 

Chi mi legge sappia che se Bertoldo si confessa ridendo, … io mi confesso narrando. A buon perspicace lettor, poche parole. 

Nemmeno quella notte riuscii a dormire. Giravo e rigiravo nel letto, cercando una spiegazione che non arrivava. Non riuscivo a capacitarmi del perché gli unici a essere rimasti fuori da quel festino fossimo proprio noi. 
Non tanto per la festa in sé, ma per ciò che quella esclusione diceva di noi. 
E, soprattutto, di me. 

All’alba pensai che, tutto sommato, era vero: il 31 dicembre doveva ancora arrivare e non tutto era perduto. 
C’era ancora margine per un colpo di scena, o almeno per una bella notizia. E c’era una sola persona che poteva dirmi cosa stesse davvero bollendo in pentola. 

Quella mattina saltai senza rimpianti la razione di caffelatte e panbiscotto e, ancora mezzo rincoglionito dal sonno, con le occhiaie da procione e la testa che faticava a mettersi in moto, mi incamminai verso l’edicola di Franco “Gasetin”, l’edicolante dei paeassoni. 

Nel nostro quartiere c’erano tre figure a cui la gente preferiva confessarsi piuttosto che andare dal prete: il dottor Scarpa, Elio il farmacista e, appunto, Franco “Gasetin”. 
Franco sapeva tutto. O meglio: sapeva prima. Era politicamente neutrale, più per opportunismo commerciale che per convinzione; se voleva continuare a vendere giornali, gli conveniva restare equidistante. Bianchi o rossi che fossero, tutti passavano di lì, e tutti prima o poi lasciavano cadere qualche informazione. Così Franco era sempre al corrente di qualsiasi iniziativa si stesse preparando, soprattutto quelle da non far sapere in giro. 

«Ti savevi gnente, ti?» 

Lele Zanon mi aveva preceduto. Lo trovai già dentro l’edicola, immobile, con lo sguardo inchiodato ai giornali come se stesse leggendo una fila di necrologi. Li fissava come si fa con le notizie che non sorprendono più, ma che ogni volta fanno male allo stesso modo. O forse, tra quei titoli di cronaca locale, cercava una spiegazione logica a un’ingiustizia che di logico non aveva nulla. 

La sua faccia, più ancora di quella domanda retorica, parlava chiaro. Era stato, per l’ennesima volta, vittima di “esclusionismo”. Da tempi immemori, lui e Fabio De Bellis parevano condannati da un oscuro destino, o forse da una bizzarra legge cosmica, a restare sistematicamente fuori da qualsiasi evento in cui fosse prevista, anche solo teoricamente, la presenza femminile. 

«Sul serio no’ savevi gnente voialtri?» 

“Gasetin” colse l’attimo per affondare il coltello. Il suo ghigno sarcastico non lasciava spazio a interpretazioni né a illusioni. I giochi per il festin dell’ultimo dell’anno erano, a nostra insaputa, ormai da tempo fatti. 
Lele e Fabio erano fuori. Ma questa, in fondo, non era una notizia: era quasi una tradizione. 
La vera notizia era un’altra. Anche noi eravamo fuori. 

Comunisti e democristiani avevano superato ogni steccato ideologico, unendosi in una specie di compromesso storico. Non per il bene collettivo dei giovani dei paeassoni, ma per una causa ben più concreta e carnale: rastrellare, in gran segreto, quanta più figa possibile. 
Un’alleanza trasversale, selettiva, chirurgica. Inviti distribuiti col contagocce, solo a chi doveva esserci. Gli altri? Invisibili. 

Non ci fu nessuna diretta radiofonica. 
Non ci fu nessun conto alla rovescia condiviso. 
Perché non ci fu nessun ultimo dell’anno. 

Almeno, non per noi quattro mandoeoni di SolaRadio e, ovviamente, per Lele e Fabio. 

Quella stessa sera intrapresi una lunghissima camminata notturna. Fu la prima di una lunga serie, di quelle che ancora oggi tornano ogni volta che devo fare i conti con una delusione, sciogliere un nodo interiore, o semplicemente scappare dalle mie paure. 

Dopo aver sbattuto con vigore el canceo de casa, iniziai, credo anche parlando da solo, a camminare con l’andatura di un maratoneta olimpionico. Spinto dalla pressione interna che chiedeva sfogo, non sentivo la fatica, solo il bisogno di consumarmi. 

La nebbia mi entrava dentro, non solo nei polmoni. Tutto mi dava fastidio. Le luci natalizie intermittenti mi sembravano stomachevoli, una messinscena di ipocrita felicità a basso voltaggio. Così come certe canzonette di Natale importate da oltreoceano; jingle zuccherosi che mi parevano insulti personali. Cosa ne sapevano loro della solitudine di un adolescente a cui una comunità che, in teoria, credeva sulla fratellanza universale, aveva chiuso le porte in faccia? 

Poco più di un’ora dopo mi ritrovai, in una sorta di ipnosi, a vagare per Piassa Fero, realizzando di aver percorso quasi dieci chilometri in tempo record.  

L’ironia della sorte mi aspettava ai muri. Erano tappezzati di manifesti per il veglione: grafiche dozzinali che promettevano divertimento, gran mangiate e, in maniera subliminale, l’illusione di gran ciavae. Tutto sembrava ricordarmi che la festa era per altri; per chi era dentro il cerchio magico. 

Ne adocchiai uno affisso proprio all’altezza giusta. Rappresentava tutto quello che mi era stato negato: l’appartenenza, la festa, il riconoscimento. Mi avvicinai lentamente, sentendo il freddo della notte pungermi la faccia. Con una calma rituale ci pisciai sopra. 

Provai una soddisfazione amara e primordiale. Era il mio unico modo per dire che, sebbene escluso, ero ancora vivo. E che del loro Capodanno perfetto, non sapevo cosa farmene. 

Ancora oggi, il 26 dicembre, porto con me quell’agenda nel piccolo studio radiofonico per celebrare la mia personale giornata dell’esclusione. 

Quell’esclusione che ancora continua a farmi male. 

Da quel 26 dicembre 1980, ho deciso di lottare contro quel male. 
 

Perché l’esclusione non fa rumore, non lascia lividi sulla pelle, ma scava dentro. 
Ti toglie il posto in una stanza, poi il posto in una conversazione, poi, piano piano, il posto nel mondo. 
 

È un male sottile, ti convince che il silenzio degli altri sia colpa tua, che la tua voce non serva, che sarebbe meglio spegnersi piano. 

Ma io no. 
Lotto continuando a parlare a un microfono anche se ascoltato da pochi e a scrivere ancora su una vecchia agenda ormai tutta consunta. 

Da questa piccola radio, fragile ma ostinata, mando segnali in mezzo al buio. Parole che cercano qualcuno, chiunque abbia ancora bisogno di sentirsi ascoltato. 
E anche se la mia frequenza è debole, anche se il mio messaggio sembra perdersi nel rumore, io resisto. 
Perché arrendersi all’esclusione significa lasciare che il mondo diventi più piccolo, più muto, più solo. 

Non chiudo la porta, non abbasso il microfono, non smetto di sperare. 

Finché ci sarà anche un solo ascoltatore, questa radio continuerà a trasmettere … per l’ultimo. 
 

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Le cose più importanti della vita non si apprendono né si insegnano, … ma si incontrano. 

Oscar Wilde 

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