Piccoli uomini crescono

Sulle note di Just an Illusion degli Immagination, arrivarono in un attimo, per noi quattro mandoeoni, i diciott’anni. Il primo a diventare maggiorenne fu Paperoga. 

Quel giorno nello studio di SolaRadio si tenne un feston bueo non nel senso che c’era molta gnocca ma, tanta roba onta da sfondarse el bueo. Il neomaggiorenne si presentò con decine di lattine di birra della marca preferita dai muratori di mezza Italia e, due vassoi contenenti il meglio che Ciano l’onto potesse offrire in quanto a tossicità.  

Negli ultimi tempi, il nostro spacciatore di fiducia aveva introdotto tra le sue specialità oltre che al già menzionato craf il panzerotto fritto nelle due varianti pizzaiola e boscaiola.  

Diciott’anni si compiono una volta sola e, non potevamo esimerci da fargli un bel regalo. Dell’incombenza se ne occupò il Mauri. Il giorno prima, poco prima della chiusura, in modo da non essere visto, aveva fatto visita all’edicola di Franco “Gasetin” il quale, su sua precisa indicazione, gli aveva confezionato un pacco contenente una selezione delle più famose riviste di “anatomia”. Subito dopo, sempre con fare circospetto, si era recato in farmacia a farsi dare una scatola, non certo di Aspirine.  

Unico problema, non potevano fargli il pacco regalo; per cui, dovette consegnarla al festeggiato così come gliela aveva messa in mano Federico il farmacista; aggiunse solo: “go tolto ea misura più picoea, dovaria ‘ndarte ben.” 

Paperoga precisò che, per certi articoli, non esistevano misure ma c’era solo taglia unica e che, comunque, di certe “scatole” in casa ne aveva uno scatolone pieno. Inoltre, i “libri di testo” che gli avevamo fornito non sarebbero serviti in quanto sapeva benissimo come fare certe cose. Ringraziò comunque per il pensiero. 

A questo punto, el Mauri, in qualità di decano degli speaker di Solaradio nonché esperto docente in una certa materia, fece un discorsetto al neomaggiorenne. 

A lui non sfuggiva niente, la sua constatazione si basava su parametri prettamente statistici. Se lo scatolone con le scatole era ancora pieno, significava che non aveva praticato ovvero, poteva anche saper benissimo come fare ma, come per una fetta sostanziosa di maschi, … gli mancava la materia prima. Il suo giudizio fu quello tipico di molti insegnanti: l’allievo pur essendo in grado di comprendere ciò che gli viene insegnato, non si applica. 

Riguardo il resto del sermone, per ragioni di pubblica decenza, ometto la trascrizione. 

In effetti Paperoga a scuola non si era mai applicato tanto; ciò nonostante, riuscì a prendere la patente in tempi record. Ci venne il sospetto che l’avesse comprata. 

Fu memorabile il giorno che superò l’esame di guida. Con una serie di eccitate telefonate venimmo convocati, ad una certa, davanti il bar da Nane. Qui, a quella certa, vedemmo sbucare dalla fine del vialone una FIAT 127 gialla che stava avanzando a tutta birra.  

Il bolide, ovviamente pilotato da quel mona di Paperoga, terminò la sua folle corsa con un testacoda, urtando con il paraurti il Califfo di Memo Bottacin; il quale, non mancò di tirare giù tutti i santi del paradiso.  

Con ben sette persone a bordo, il neo-pilota cercò di emulare un suo idolo: il mitico Sandro Munari a bordo dell’altrettanto mitica Lancia Stratos Alitalia, esibendosi in una spericolata gimcana tra alberi, panchine e …vecchi pensionati. Seguì un giro di tramezzini e birrini usando come tavolino il cofano della fuoriserie.  

A margine, ritengo opportuno chiarire due cose: la 127 era del fratello; il quale, non era a conoscenza del “prestito”; inoltre, il vialone centrale dei paeassoni, è da sempre zona pedonale. 

Bisognò aspettare molto tempo prima che il nostro socio riprendesse in mano una macchina. Per sedersi infatti dovette aspettare che non gli dolesse più il culo che gli aveva spaccato il fratellone. 

Arrivata la maggiore età, arrivarono sempre più frequenti, le esortazioni di Memo Bottacin e compagnia ad abbandonare l’infruttuoso ambiente parrocchiale. Era ora e tempo che iniziassimo a ‘ndar in batua in discoteca.  

Il problema era che, per andarci, non disponevamo di uno straccio di macchina. 

Paperoga, oltre al culo, si era bruciato anche la 127. Gino, il fratellone, non gliela avrebbe fatta toccare, nemmeno per portare in ospedale qualcuno in punto di morte. 

A proposito, vi sblocco un ricordo. A quei tempi, non si chiamava l’ambulanza (anche perché ce n’erano poche) ma, si preferiva caricare il malcapitato a bordo di un’auto e, suonando il clacson a manetta, partire a tutta velocità verso l’ospedale più vicino; unica accortezza, tenere un fazzoletto bianco fuori dal finestrino.  

Morale della favola, dopo alcuni minuti arrivavano al pronto soccorso: il malcapitato che, in realtà, non aveva niente di grave ma solo una semplice indigestione, il pluri-traumatizzato autista della macchina, il suo accompagnatore con il braccio fratturato per aver tenuto il fazzoletto fuori dal finestrino e, una certa quantità di pedoni e ciclisti messi sotto dall’improvvisata ambulanza. 

Per la disco, dovemmo aspettare che il Tito si decidesse a farsi la patente e che sior Sergio si decidesse a prestargli la Prinz. Tra una cosa e l’altra, arrivò il tardo autunno del 1983. 

La NSU Prinz azzurra, detta “vasca da bagno”, del padre di Tito, era tenuta in maniera maniacale dal medesimo nonché, ricca di optional, tra cui: plaid sul sedile posteriore, orologio a calamita sul cruscotto con la scritta “papà vai piano”, rosario appeso sullo specchietto retrovisore e, posizionati sulla cappelliera, centrino in pizzo con sopra gli immancabili due cagnolini con la testa semovente. Con una macchina del genere, l’insuccesso era assicurato. 

Comunque, fu grazie a quella “vasca da bagno” che, per noi, iniziò l’epoca delle discoteche. 

Dovevamo solo avere l’accortezza di parcheggiarla il più lontano possibile dall’ingresso, per non essere derisi da tipi come Moreno Pinton dotato di Alfetta 2000 Turbodiesel, blu pervinca metallizzato; roba del genere, attirava le ragazze come una carta moschicida; mentre, la Prinz,attirava quelli che, quando la vedevano, si toccavano le palle (comprese le ragazze che non le avevano). 

Vabbè, era il prezzo per iniziare a vivere dal vero la febbre della domenica pomeriggio

Il primo ingresso in discoteca me lo ricordo benissimo; cinquemila lire compresa consumazione; appena sborsata la folle cifra, mi ritrovai, con il biglietto in mano, al cospetto di due gigantesche porte a ventola intarsiate di brillantini dorati, varco di ingresso di quel peccaminoso mondo. 

A scuola, in lettere ho sempre, a malapena raggiunto la sufficienza. Non me ne voglia il buon vecchio Dante che, per questo, si rivolterà nella tomba; la sua Divina Commedia, l’ho usata come spessore sulla libreria. Però, quel giorno, non so perché, il canto primo dell’inferno, apparve nitido in sovrimpressione nella mia mente. 

Indugiai non poco, aspettai che arrivasse anche il resto della ciurma, non avevo il coraggio di affrontare da solo quel momento. Era come se dovessi saltare in mare da una scogliera, meglio se lo facevamo tutti e quattro assieme. 

Fu un mezzo shock; venni contemporaneamente, investito da una folata contenente un misto di acre odore di sudore e profumo dozzinale da supermercato; abbagliato dalle luci strobo, nonché assordato da Der Kommisar, sparato a mille decibel.  

Rimasi per un po’ lì, spaesato ai margini della pista, con quella faccia tipica di chi si chiede se non avrebbe fatto meglio a restarsene a casa a guardare Domenica In, magari commentando gli ospiti con la nonna. 

Poi, però, dalle casse uscì Paris Latino e qualcosa dentro di me, forse l’istinto, forse un’entità sovrannaturale amante della disco dance, prese il controllo o forse, semplicemente la voglia repressa di non sembrare un soprammobile umano.  

Mi lanciai nella mischia, opponendomi con forza all’introverso che era in me e che, da sempre, mi comandava come un dittatore. 

Quello che provai fu quasi mistico: ero in estasi, totalmente impermeabile al resto del mondo. Non vedevo più nessuno, nemmeno certi fenomeni da pista che credevano di essere i John Travolta della situazione. Sentivo solo la musica e il mio corpo che, senza nessun permesso firmato, aveva deciso di muoversi in autonomia. 
In quell’attimo capii che si era aperta una porta segreta: un universo parallelo fatto di ritmo, luci psichedeliche e passi che non avrei mai immaginato di essere in grado di fare senza provocare incidenti diplomatici. 

Nemmeno io ero John Travolta, ma, e questa fu la vera sorpresa, mi sentivo incredibilmente a mio agio lì, in mezzo alla pista. Incredibile; mi si stava spalancando un mondo nuovo, scintillante e rumoroso. 

Ballavo senza freni e ogni tanto facevo lo scemo con qualche gruppo di ragazze. Ridendo mi lanciavano delle occhiate; probabilmente non a causa del mio fascino, ma perché stavo facendo el mona a livelli olimpionici. 

Ad un certo punto, Paperoga mi strattonò via; mi urlò che era il momento di consumare la consumazione; l’avevamo pagata e ci spettava di diritto, fosse mai che ce ne andassimo via senza averne usufruito.

Fu anche quella una prima volta, tutti e quattro trangugiammo un Gin & Tonic, convinti che ci avrebbe reso immediatamente uomini veri. 
 

Paperoga tentò, senza alcuna dignità, di fare un secondo, abusivo giro chiedendo un Bacardi & Cola. Poi, non pago, svuotò la ciotola delle arachidi salate, come se non mangiasse da tre giorni. 

Il barman gli lanciò uno sguardo che diceva tutto: 
“Tu, oltre a essere un morto di figa… sei anche un morto di fame” 

EnsoPenso stava facendo strane acrobazie con la lingua per estrarre la fettina di limone dal bicchiere; in fin dei conti, aveva pagato anche quella. A missione compiuta, ancora con mezza fetta di limone che pendeva dalle labbra, con fare solenne ci disse: 

Me sa che che finalmente xé femo un bel giro in giostra” 

In effetti, in quanto a giostre, il tipo era eccitato come un bambino a Disneyland. 

Probabilmente era a causa del gruppo di stivaone (trattasi di squinzie abbigliate con maglietta attillata, minigonna e stivaloni; termine coniato dallo stesso EnsoPenso, n.d.r.) che aveva adocchiato.  

Mmmvarda quanta roba, el xè drio ‘ndarme in pression” 

Da quando eravamo entrati che le aveva puntate; per segnalarmele, continuava a tirarmi la manica della giacca fino quasi a strapparmela. 

Quando le vidi, mi resi conto che Memo Bottacin aveva ragione; tutta quella roba in parrocchia non l’avremo mai trovata, nemmeno se aspettavamo il prossimo concilio.  

Purtroppo, mi resi anche conto che il nostro amico, coperto dal rumore assordante si divertiva a mollarne di potenti. Inutile dirvi che la discomusic ad alto volume, copriva il sonoro, ma non la puzza delle sue performances. 

Mi fu subito chiaro il motivo di certe sue improvvise toccate e fuga in pista; ma, soprattutto, mi fu subito chiara l’origine di quel tanfo che si sentiva e che, creava un certo imbarazzo tra i discotecari presenti. 

Roba da matti; nell’attesa de farse un giro in giostra, il tipo aveva trovato il suo personalissimo modo di divertirsi.  

Il Tito invece, notò che Moreno Pinton e socio, invece di ballare, se ne stavano guardinghi a bordo pista appoggiati alle colonne. Secondo lui, aspettavano il momento opportuno per tuffarsi sulle prede che poi si sarebbero caricate a bordo dell’Alfetta 2000 Turbodiesel. 

Il giorno dopo probabilmente, in bar da Nane, lo stesso Pinton, ci avrebbe riferito, con maniacale dovizia di particolari, tutto quello che era successo sui sedili di quella macchina. 

Il nostro neo-antropologo da discoteca si affrettò a denominare quel genere di persone i condor, definizione che rimase nei secoli. 

Con una bella carica alcolica addosso e con l’alone di sudore che ormai si era esteso fino alle mutande, tornammo tutti e quattro in pista.  

Tito, che probabilmente si avvaleva di qualche sofisticato sensore a noi sconosciuto, aveva individuato le già citate stivaone intente a ballare in cerchio con le loro borsette appoggiate per terra al centro. Almeno apparentemente, non erano marcate a vista da nessun condor

Danzando con la grazia di una tribù maori, ci avvicinammo all’obiettivo. Le squinzie ci notarono e ci sorrisero; le cose erano due; o buttava bene oppure, semplicemente stavamo facendo la figura dei coglioni. In quel momento, ero anche preoccupato che a EnsoPenso non venisse in mente di sparare uno dei suoi … petardi. 

Poi, avvenne quello che mi sembrò un miracolo; il cerchio delle ragazze si aprì per farci entrare e ballare assieme. 

La pacchia durò fino alla fine di Happy Children. Poi, all’improvviso, le casse iniziarono a sussurrare le note di I Like Chopin, le luci si abbassarono e tutto il locale fu avvolto da una strana atmosfera. La musica cambiò in tutti i sensi. 

Denis Sgorlon ci aveva avvisati. Quando arrivavano i lenti, ci si giocava il tutto per tutto. Era quello il momento giusto par butar sardon; il punto di non ritorno; bisognava essere pronti.  

Denis, poi, non si era limitato a darci consigli tattici: ci aveva descritto con un entusiasmo quasi poetico il famigerato lento sbregamudande, cioè la sensazione fisico-cosmologica che avremmo dovuto provare quando “una nostra cosa” si sarebbe trovata in intimo contatto con “una loro cosa”. 
 

Invece, Gazebo con la sua I like Chopin ci colse impreparati, in men che non si dica le ragazze si dileguarono e intorno a noi si formò il vuoto.  

Un fuggifuggi talmente sincronizzato che per un attimo sospettai un attentato chimico di EnsoPenso; per qualche minuto, inspirai fortemente per verificare. 

Rimanemmo lì, come dei pampe nel mezzo della pista; immobili e inutili. 
Visto che la situazione era disperata e del tutto priva di prospettive, non ci rimase altro da fare che battere in ritirata, cercando rifugio ai bordi della pista con la dignità a brandelli. 

Il panorama era completamente cambiato. 
La pista non era più affollata come prima: I Like Chopin aveva innescato una selezione naturale implacabile. 
Erano rimaste solo coppie; gli eletti, quelli che ce l’avevano fatta. Mentre ballavano i lenti, si muovevano con l’aria di chi appartiene a una casta superiore. 
 
E noi, lì a rosicare, relegati ai margini come dei poveri diseredati, la conferma vivente che il destino aveva deciso: stasera si torna a casa a bocca asciutta. 

Con i timpani ancora lesionati, salimmo sulla Prinz, destinazione Ciro El Rutto. Urgeva affogare quella delusione in un boccale di birra.  

Alla fine, dopo una pizza, un litro di birra e tre Profitterol a testa, convenimmo che essendo quella la nostra prima volta in discoteca, era quasi fisiologico che fosse anche il nostro primo fallimento totale. In fin dei conti si trattava di una specie di rito di passaggio, ci saremmo rifatti le volte successive. 

Devo dire che, dalla seconda volta in poi … le cose non cambiarono. 
Anzi, diventò una tradizione: musica, luci, puzza da fumo, … e noi che diventavamo sempre più sordi e racimoliamo sconfitte come fossero punti del supermercato. 

E dire che di tacamenti de boton ne avevamo collezionati più che figurine Panini, e di sardoni ne avevamo lanciati così tanti che avremmo potuto ripopolare l’intero Adriatico. 
 

Fu inutile fare i sgrandessoni, usando senza remore la carta di SolaRadio spacciandola per una mega radio di fama internazionale. Pensate che il Tito, aveva osato chiamarla SolaRadio International. Nemmeno quell’international aggiunto al nome della nostra minuscola radio servì a farci apparire dei fighi agli occhi delle varie squinzie.  

Eravamo addirittura arrivati a dare la colpa al tempo; convinti più che mai che, per le nostre puntate in discoteca, sceglievamo le giornate meteorologicamente sbagliate, quelle senza una goccia di pioggia. Questo perché, non davamo retta al grande proverbio sacro: “Giornata piovosa, discoteca fruttuosa. Giornata splendente, in discoteca non si combina niente.” 

Nonostante tutto, capii che la discoteca non era affatto quel luogo demoniaco che mi ero immaginato.  

Per me, era semplicemente un posto dove la musica mi entrava dentro e, senza nemmeno chiedere permesso, si metteva a sistemarmi la psiche meglio di uno psicologo convenzionato. 

Il ballo, poi, non era solo un modo per agitare arti a caso sperando di non colpire nessuno: aveva una valenza terapeutica, anche se allora non lo avrei mai ammesso. 
Mi liberava la testa, mi faceva sentire più leggero, mi trasformava per un attimo nell’essere umano che avrei voluto essere sempre: meno impacciato, più spontaneo e … un filo più scemo. 
 

E c’era un’altra cosa che scoprii con lentezza, come tutte le mie migliori intuizioni: il ballo aiuta le relazioni; mi costringeva a socializzare, a sorridere, a incrociare sguardi, a dire “ciao” anche se mi tremava pure la gola. 

Era, semplicemente, un modo per sentirmi libero. Un po’ sudato, magari, ma libero. 

In pista ero più vivo. 
E non perché la gente mi spingeva da tutte le parti costringendomi a dimostrare di avere ancora riflessi funzionanti, ma perché il ritmo mi ricordava che sotto la timidezza, l’insicurezza e il deodorante inefficace… c’era un cuore che aveva voglia di battere forte. 

_______ 

L’altro giorno nel parcheggio del centro commerciale ho visto una Prinz azzurra “vasca da bagno”, è ormai rarissimo vederne una; una visione quasi mitologica, ormai. 
 

Volutamente ho parcheggiato a fianco, quasi fosse un vecchio amico che non vedi da una vita. 

Da una certa distanza la osservavo, silenzioso, come se stessi misurando il tempo attraverso quella carrozzeria squadrata. 

Poi, mi sono messo a fare il confronto con la mia macchina. 

Se l’avessi avuta a quei tempi un’auto così, anziché quella scatola di sardine” mi sono detto. 

Ma a quei tempi non lavoravo. 
E non lavoravo certo in un’azienda abbastanza generosa da darmi persino l’auto. 
 

Mi sono tornate in mente le parole di mia nonna, che ogni tanto mi sembravano esagerate e invece erano verità scolpite nella pietra: 
“Co’ ti ga i denti no’ ti ga el pan e, co’ ti ga el pan no’ ti ga più i denti.” 
Aveva sempre ragione lei, dannazione. 

Sono risalito in macchina e ho messo su la mia compilation preferita: i lenti degli anni ’80. 
 

La mezzeria della strada scorreva veloce, come una pellicola srotolata; mentre, lentamente scorrevano tutti quei brani che hanno costruito, un mattone alla volta, la mia giovinezza. 

Quelle canzoni, ogni volta, mi prendono per mano e mi riportano indietro, quando tutto era più facile e più vero. 

Mi riportano a quella manciata di anni in cui ho vissuto libero da vincoli mentali e non; che, assieme a innumerevoli paure sarebbero subentrate da lì a poco. 

Sapete, alla fine, dopo mille tentativi, mille figuracce e altrettanti silenzi imbarazzati, i lenti sono riuscito a ballarli anch’io. Una volta, addirittura, con tre ragazze contemporaneamente. 
Non so come sia successo, forse un allineamento dei pianeti, forse la misericordia divina. 
Ma è successo. 

Il primo, però… 
Il primo non si scorda mai: Through the Barricades, degli immortali Spandau Ballet. 
 

Quella canzone che non è solo musica; è un respiro, un battito, una poesia contro i muri del mondo. 

Sono sempre più convinto che, in quegli anni abbiamo avuto la musica migliore, quella che non si limitava a riempire il silenzio ma ti cambiava dentro e ancora continua a farlo. 

Canzoni come Through the Barricades, forse non avranno contribuito ad abbattere del tutto le barricate politiche o sociali ma, contribuiscono, anche ora, a darci il coraggio di abbattere le nostre piccole e invisibili barricate personali. Quelle che ogni ragazzo porta con sé quando tenta di diventare uomo.  

Mentre continuavo a guidare, ho capito che è anche grazie a quelle canzoni, a quei lenti e a quelle emozioni che noi, piccoli uomini, siamo cresciuti. 
Magari non molto. 
Magari non perfetti. 
Ma abbastanza da ricordarlo con un sorriso. 

Through the Barricades … ascolta il podcast

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