Due vite

Ho sempre considerato il “fare radio” una sorta di missione. E come missionario dell’ordine dei radiofonici, mi sono sempre prodigato con ogni mezzo, spesso a pedali, per far sì che la nostra minuscola emittente potesse raggiungere il maggior numero di ascoltatori. Voglio essere sincero, preciso; preferibilmente ascoltatrici. 

Non so quanti copertoni di bicicletta avrò consumato, alla ricerca di nuovi proseliti e anime affini. Un piccolo mondo, il mio, fatto di confini ben definiti e di strade che sembravano portare altrove, ma finivano sempre per riportarmi lì, tra il silenzio delle viette e la desolazione dei paeassoni. 

Il quartiere aveva una particolarità: dopo l’ultimo palazzone, quello al civico 144 del vialone, iniziava di colpo il nulla. Nessuna transizione morbida tra città e campagna. Solo una stradina sterrata che pareva condurre fuori dal mondo, o forse dentro un altro mondo. Perfino la periferia aveva la sua periferia. 

All’inizio di quella via c’era un capitello, con una statuetta della Madonna di Lourdes. Sembrava messo lì a ricordare che, per uscire dalla miseria di quelle lande, ci voleva un miracolo. O forse per instillare qualche senso di colpa a chi, di notte, imboccava quella strada per faccende molto terrene. Perché di notte, lì, passava più gente che di giorno. Una cosa che ci incuriosiva fin da piccoli. 

Chiedere spiegazioni ai genitori era un suicidio: bastava nominare quella strada e giù ceffoni. Così ci rivolgevamo ai fioi più grandi, che ci raccontavano con ricchezza di dettagli cosa accadeva dentro le auto parcheggiate al buio.  Quando, la professoressa Bergamo, pioniera assoluta, tenne a noi di terza media il primo corso di educazione sessuale della storia italiana, tutte quelle informazioni ci tornarono utili; insomma, eravamo già preparati. 
 

Ricordo come fosse ieri che, il giorno dopo la lezione sui contraccettivi, Lele Vianello, provocatore nato, si presentò in classe con una collezione di “campioni” usati, raccolti freschi, freschi lungo la stradina durante il tragitto verso scuola. 

Io, lo giuro, da quelle parti di notte non ci sono mai stato. Anche se, lo ammetto, qualche film mentale con quella scenografia me lo sono girato. 

Anzi, diversamente dalla gran parte della popolazione maschile, che frequentava quel luogo nelle ore più buie, ad un certo punto, quella stradina, suscitò il mio interesse di giorno. Non era castità o moralismo: quello che mi spingeva a passare oltre quel confine segnato dal capitello, era una stuzzicante novità.  

La grande casa colonica della stradina, dopo una faraonica opera di restauro si era trasformata in villa ed era finalmente di nuovo abitata. Fino a qui niente di particolarmente eccezionale, se non per il fatto che la famiglia che si era insediata era nientepopodimeno che quella di tale ing. Alberto Scandagliato el paron di una fabbrica che faceva non so bene cosa. E anche fino a qui, almeno per me, niente di particolarmente eccezionale, se non per il fatto che ‘sto ingegner della minchia aveva, a detta del Tito e del Paperoga, una figlia della nostra età da tenere in considerazione o meglio in attenta osservazione. 

L’allerta era scattata una domenica mattina, quando don Gianni, cosa assai strana, a fine messa si prese la briga di presentare ufficialmente la squinzia ai due soci. Non come Francesca, sia chiaro, a quello ci pensò lei con discrezione tutta femminile; lui ci tenne piuttosto a sottolineare che era figlia dell’ingegner Scandagliato. Perché, si sa, in certi ambienti il nome di battesimo è un dettaglio folkloristico: prima si dichiara di chi si è figli; poi, se proprio resta tempo, come ci si chiama. 

Don Gianni di solito certe presentazioni le riservava ai suoi pupilli, ma la sfiga volle che in quel momento fossero tutti in quel di Cortina impegnati in attività pastorali: ovvero a fare un’ammucchiata nella casa dei genitori di non so bene chi. 

Così, rimasto orfano dei suoi preferiti, non gli rimase altra alternativa che presentarla agli unici due giovani che erano venuti a messa quella domenica, annunciando a loro che in autunno, si sarebbe unita al gruppo giovanissimi di Azione Cattolica. 

I due tipi irruppero in radio ancora con le bave alla bocca. Di quella new entry non sapeva ancora niente nessuno. Anche se, per pudore, non lo ammettevano apertamente, era chiaro che, per nessuno, intendevano lo stronzissimo Riccardo Beltrame e amici. Non correvamo, almeno nell’immediatezza, il rischio che, com’era avvenuto per altre interessanti squinzie, fosse fagocitata dalla loro compagnia. 

Potremo proporle di far parte di SolaRadio; sarebbe la nostra prima donna” 

Se fossi stato un oratore ad un comizio di piazza, sarebbe esploso un fragoroso applauso della durata di alcune ore. 

Altro che Azione Cattolica, questa la dirotto qui in radio e gli faccio fare apostolato radiofonico. In fin dei conti, l’abbiamo vista prima noi” pensai mentre ero già che studiavo un piano di azione. 

Sono sempre stato affascinato dal personaggio dell’agente segreto. Fin da bambino mi piaceva inventarmi delle missioni speciali. Quella che inventai per cercare di avvicinare Francesca la chiamai “impissa”, ovvero accendi.  

Bisognava solo trovare un pretesto plausibile per transitare davanti alla villa e, con un po’ di fortuna, attaccar bottone, possibilmente usando l’argomento SolaRadio.  

Mi venne in mente una genialata, un alibi perfetto: verificare il “tiraggio” del nostro trasmettitore, installando a bordo di un potente mezzo la mia fida radiolina PHONOLA. 

L’operazione iniziò sabato 22 agosto 1981 alle 17.30 precise. 

Cercai di passare il più spesso possibile davanti alla ex-casa colonica ora lussuosa villa; in quel modo ero sicuro mi si sarebbe presentata l’occasione di un “contatto”.  

L’occasione si presentò quando, dopo due passaggi a vuoto vicino alla villona, al terzo, “l’occasione”, mi lasciò appiedato. “L’occasione”, non era altro che un vecchio CIAO usato che, un gran volpone aveva venduto a quel gran pollo di mio fratello, gran maestro nel farsi fregare dal prossimo.  

Chi ha provato a usare il CIAO solo con i pedali sa che non c’è via di scampo nel caso un cane stia prendendo la rincorsa per fare un happy hour con le tue chiappe.   

Porca troia, quella maledetta ex casa colonica aveva il cancello aperto e quel pastore tedesco aveva tutta l’aria di volermi far la festa, me la stavo facendo sotto le braghe. Fortunatamente, si limitò ad abbaiare come un forsennato, rimanendo nei confini della proprietà, quasi avesse una catena virtuale al collo.  

Tranquillo, non ti fa niente. Vuole solo giocare” 

Giocare un cazzo! Quello, se non ci fossi stata tu che lo richiamavi, mi avrebbe dilaniato i jeans nuovi di palla messi per l’occasione di fare il figo con te e pasteggiato con un pezzo del mio culo!” 

Ovviamente la menzionata frase rimase solo nella mia mente. 

Ora che era davanti a me, non potevo far altro che dar ragione al Tito e Paperoga. Occhi scuri come due bottoni di velluto, sorriso che scioglieva ginocchia. Vabbè, avrei sacrificato volentieri metà chiappe pur di essere lì. 

Tranquilla lo avevo capito” dissi mentre il cuore marciava ancora come una locomotiva in piena corsa, rivoli di sudore scorrevano per tutto il corpo e il culo non si decideva di smettere di tremare. 

È la prima volta che vedo una moto-radio. Ce l’hai montata tu o la vendono già così?” 

Domanda perfetta, segno del destino. Forse anche quello lassù preferiva che la squinzia fosse attirata da SolaRadio anziché finire nelle sgrinfie del Beltrame e soci.  

La domanda accese la miccia che innescò un esplosivo monologo dal titolo “Solaradio dai primordi della sua esistenza ai giorni nostri”. Sottotitolo “siamo quattro affamati di quella cosa lì e stiamo disperatamente cercando uno straccio di ragazza che venga a parlare in radio” 

Anche se mi sarebbe piaciuto invitarla in radio, preferii non lanciarle la proposta. Sarebbe rimasta delusa nel vedere il tugurio dal quale trasmettevamo e nauseata dal tanfo delle scoregge di EnsoPenso. Lo studio, se così si fosse potuto definirlo non sarebbe stato, al momento, un posto per signore, almeno quelle di un certo livello come Francesca; e poi, mi avrebbe smascherato. 

Ho sempre avuto la dannata mania de far el sgrandesson, abilissimo nel barare riguardo il mio status, creando una sorta di cortina fumogena atta a mascherare la realtà, anche a me stesso. Nella mini-conferenza che le avevo fatto, spacciai quella misera radio di quartiere come appartenente a un network nazionale e il medesimo come DJ di punta.  

Ok, allora ci vediamo in giro. Comunque, piacere Francesca. E tu DJ come ti chiami?” 

Doppia figura di merda. Primo avevo esagerato con il pippone sulla radio e poi non mi ero nemmeno presentato. 

Pazienza, il risultato comunque l’avevo portato a casa. Guardai l’orologio, l’operazione “impissa” si era conclusa positivamente lo stesso sabato 22 agosto 1981 alle 19.16 

Dalla contentezza, pedalai così velocemente che il CIAO sembrava fosse tornato a motore. Arrivai davanti il civico 69 dei paeassoni dove, ve lo ricordo per l’ennesima volta, c’era lo studio di SolaRadio, che ero praticamente da ricovero per tachicardia acuta. 

Fatta, fatta, fatta!” Entrai urlando e fregandomi le mani. EnsoPenso mi prese per matto. 

La sera stessa ci fu una riunione straordinaria del comitato di redazione presso la pizzeria da Ciro “El Rutto” 

Dopo esserci, dalla contentezza, strafogati con le peggiori porcherie che “El Rutto” aveva nel menù, cito solo ad esempio, la mitica pizza “Porcona”; wurstel, patatine fritte, scamorza e porcini; deliberammo quanto segue: 

  • Tentare un approccio dopo messa 
  • Cercare di “assumerla” in radio. 
  • Entrare nelle grazie del facoltoso padre che avrebbe potuto sponsorizzarci. Avremo così potuto comprare un po’ di dischi e finire di usare audio cassette. 

Ci presentammo alla messa delle undici vestiti come dei damerini, con addosso quello che, secondo noi, era il miglior outfit che avevamo in armadio.  

Tito, nonostante fuori ci fossero ancora più di trenta gradi, ebbe la malsana idea di indossare la giacca usata per il matrimonio di suo cugino che era stato, tre anni orsono, in ottobre. 

EnsoPenso si era cosparso di non so quanti litri di dozzinale deodorante spray da supermercato, probabilmente lo faceva per coprire il tanfo del sudore e delle scoregge. 

Io quattro kili di gel in testa che se uno mi toccava i capelli si pungeva come se toccasse un riccio. 

Paperoga sfoderava i suoi più preziosi capi di abbigliamento, comprati al mercato nel banco di tale Aziz storico venditore di capi firmati “originali”. 

Cosa fate questo pomeriggio?”  

Eravamo appena usciti dalla chiesa, con ancora la sensazione di aver scontato almeno un paio d’anni di purgatorio solo per aver assistito alla predica di don Gianni; Francesca se ne uscì con quella domanda che ci spiazzò. 

Non potevamo certo confessare che la maggior parte delle nostre domeniche pomeriggio, inverno o estate che fosse, si consumavano al bar da Nane a parlare con Meno Bottacin, Denis Sgorlon e compagnia briscola della figa che non arrivava mai. 

Ci guardammo cercando di non farle vedere le nostre facce da ebeti. Furono, almeno per me, attimi di panico.  

Se vi va, potreste venire a casa mia per un gelato” 

Salvi! 

Alle quattro del pomeriggio in punto, tutti eccitati e sempre vestiti come dei damerini, solo un po’ più casual, prememmo quel pulsante tondo dorato accanto alla targhetta, sempre dorata, riportante la scritta “Ing. Alberto G. Scandagliato”.  

Mezzo secondo dopo il dindon, il pastore tedesco del giorno prima, come il giorno prima, prese la rincorsa abbaiando furiosamente. Questa volta però, il cancello era chiuso; ciò nonostante, EnsoPenso, preso dal panico cosmico, mollò una scoreggia nucleare che però, fece zittire il botolo. 

Ce la stavamo ridendo alla grande per l’accaduto e non ci accorgemmo che un tale, presumibilmente l’ing. Alberto G. Scandagliato, ci stava squadrando da dietro il cancello. 

Che cosa volete?” 

Usò un tono tale che, oltre al pastore tedesco, rimanemmo in silenzio pure noi, tranne ovviamente il culo di EnsoPenso che si esibì in un’altra delle sue performance, silenziosa ma estremamente puzzolente. 

Oltre al tono di voce, quello che ci mise soggezione fu il suo aspetto: piccolo, tarchiato, testa pelata e abbronzatissimo. La sua postura eretta, le braccia ai fianchi e il suo modo di atteggiarsi ci ricordarono “lui”. 

La bella Francesca arrivò giusto in tempo a salvarci da quella imbarazzate situazione e … dalle scoregge dell’amico. 

Quel gelato sarebbe stato meglio se ce lo fossimo andati a mangiare da Nico alle Zattere. Avremo speso più di cinquemila lire a testa per una bella coppa Nafta, ma almeno, non ci saremo sorbiti l’interrogatorio dell’ingegnere e le cazzate di suo fratello Raffaele.  

Cominciò quest’ultimo chiedendoci qual era il nostro sport preferito e poi subito giù a tirarsela con la storia del tennis; nel quale, a suo dire, lui e papi erano dei provetti giocatori. 

Mi veniva da rispondergli che le uniche palle che finora avevamo toccato erano le nostre quando, in bar da Nane entrava quello iettatore del Walter Radonic e che, comunque, tutti e quattro avevamo una profonda avversione per ogni tipo di sport.  

In primis perché eravamo delle schiappe con tanto di certificazione ministeriale. La competizione ci metteva più ansia di un’interrogazione a sorpresa in matematica e il nostro massimo gesto atletico era quello di camminare a passo veloce in direzione di Ciano l’Onto per riuscire a sbafarci un bollente Craf appena emerso dal padellone. 

Quando c’era da formare una squadra, nessuno mai ci sceglieva. Ma proprio mai. Restavamo lì, come i pacchi di pasta in fondo allo scaffale del supermercato, quelli prossimi alla scadenza che nessuno vuole. E così, quasi per una legge cosmica, la vita ci ha spesso trattati allo stesso modo: sempre ultimi, mai protagonisti, un po’ come comparse nella nostra stessa esistenza. 

Comunque, non ci fu dato neppure il tempo di replicare a quel cagalto di Raffaele; l’esimio ingegnere si intromise subito. 

Non ci diede il tempo di dire nulla. Ci ordinò di sederci come se fossimo dei suoi sottoposti poi, ostentando machismo da tutti i pori, partì con la lezione motivazionale versione caserma. Capimmo subito che, per lui, eravamo delle mezze seghe da raddrizzare. Era chiaro che gli stavamo sulle palle; se fossimo capitati nella sua azienda avrebbe pensato lui a drizzarci la schiena. 

Poi, simulando finto disinteresse, l’interrogatorio proseguì coi dossier familiari. Voleva sapere di chi eravamo figli. Non per interesse. Per schedarci. 

Mi venne voglia di dirgli: “Guardi, se ci avesse avvisato avremmo portato direttamente la dichiarazione dei redditi così risparmiavamo tempo tutti.” Perché, alla fine, ciò che voleva davvero sapere non era chi eravamo, ma quale classe sociale ci stava cucita addosso. 

La verità è che sulle nostre famiglie non c’era molto da raccontare. E, soprattutto, nulla che potesse interessare a lui. Ma evitarlo era quasi impossibile: ogni volta che cercavamo di restare vaghi, lui ci incalzava con domande sempre più precise. E appena riusciva a carpire un’informazione riguardo il posto di lavoro di un genitore, subito partiva con il dirci che, in quel posto, conosceva questo, aveva rapporti con quello, naturalmente sempre personaggi di rilievo. Sembrava quasi un catalogo vivente di nomi altisonanti 

Io, intanto, ero lì, lì per perdere la pazienza. Non era la prima volta: fin dalla materna, suore, insegnanti, preti e chiunque altro avevano sempre trovato il modo di fracassarmi i maroni con le stesse domande sul lavoro di mio padre. Non per sapere qualcosa di lui, ma solo per incasellarmi come “figlio di”, etichettarmi e basta. Ero stufo. Io volevo che mi vedessero per quello che ero, o almeno per quello che sarei potuto diventare. 

Volevo dirgli che, in realtà, la sola ragione per cui mi trovavo in quella mega villa, insieme agli altri tre poveri sfigati dei miei amici, era una soltanto: Francesca; sua figlia. La prima ragazza che, sin dai primordi delle nostre misere esistenze, aveva avuto la bontà di considerarci. E questo valeva più di qualsiasi pedigree sociale. 

Francesca si era accorta che ci stavamo impantanando, provò a rivalutarci agli occhi del padre dicendoli che “avevamo una radio”. Apriti cielo!  

Ma ‘sta roba a che serve? Ci fate soldi almeno? Avete degli sponsor?” 

Lo disse con un sorrisetto di quelli che ti fanno girare i coglioni a velocità supersonica. 

EnsoPenso stava per scoppiare era tutto rosso, credo ne stesse trattenendo una di potente da fargli sul muso. 

In quel preciso istante, feci un pensiero: un ingegnere costruisce ponti, case e macchinari. Ma quello, stava cercando di demolire SolaRadio, uno dei nostri pochi sogni e una delle nostre poche certezze. 

Il famigerato gelato poi si rivelò una delusione: due misere palline che, detto tra noi, erano state davvero… due gran palle. 

L’unico che uscì euforico da quel maniero fu Paperoga. Probabilmente a causa del litro di Branca Menta che si era fatto mettere nel gelato. Lungo la strada del ritorno, sull’onda dei consigli del quel cagacazzi di ingegnere, cominciò a sparare una serie di jingle pubblicitari in rima per i nostri improbabili sponsor 

  • Se ti xé sensa ‘na cocca, vien tor un birin in bar da Nane e ti sparagni i schei par e puttane 
  • Cavei longhi? Vien a tajartei da Vittorio i mejo scalpi del territorio 
  • Laboratorio pasticceria da Ciano l’Onto; serca i so’ Craf e dopo el fegato te manda el conto 
  • Ti serchi ‘na pisseria? Vien da Ciro, anca parché no ghe xé altro in giro. 
  • Frutta e verdura da Arduino che te ciava sol peso come un marochino 
  • Ti vol notissie fresche?  Va in edicoea da Franco “Gasetin” che el sa chi che xé morto ancora prima che riva el bechin. 

E ci credo che fosse stato euforico perché, alla fine, fu l’unico che portò a casa qualcosa. Più precisamente, dopo alcuni giorni, portò Francesca davanti il bar da Nane sul ferro della sua bici. 

Quella scena non la scorderò mai. Lui, con un sorriso stampato sulla faccia grande quanto lo schermo di un cinema, mentre la bici, a proposito di cinema, sembrava volare come nella scena del film Mary Poppins. 

E io, lo ammetto, ero felice per lui. Con la famiglia che si ritrovava, un cumulo di macerie più che un focolare, si meritava un po’ di affetto e un po’ di luce. 

Si vedeva che Paperoga si sentiva un uomo nuovo. In quel sorriso c’era tutto: rivincita, emancipazione e una sorta di vittoria che, per lui, anche se odiava il calcio, era pari a vincere lo scudetto. 

Sapevo che solo una donna sarebbe stata in grado di farlo uscire dal suo mondo fantastico fatto di fumetti e vecchi dischi, da una vita trasandata come i vestiti che indossava e dal vizio di mettersi le dita nel naso; insomma, da tutto ciò che gli aveva affibbiato il soprannome di Paperoga. 

Quea i ghea ciava prima che el xea ciava” 
Memo Bottacin, con la solita delicatezza da caterpillar, sparò immediatamente la sua sentenza. 

E purtroppo, come spesso accade quando Memo apriva bocca, aveva ragione. 
La profezia si avverò in men che non si dica. 

La fine arrivò con una scena da manuale del disastro. Paperoga, ormai gasato, pensò bene di replicare il suo ingresso trionfale con Francesca sul ferro della bici entrando nel cortile del patronato, convinto di fare il pieno di applausi misti ad invidia. 

E questa perché non me la presenti?”  

Riccardo Beltrame, come un condor che piomba di sorpresa sulla preda, si frappose tra i due e l’ingresso della sala cinema dove stava per cominciare la riunione di inizio anno pastorale del gruppo giovani. Aveva una calma glaciale di chi sa già come andrà a finire. 

Furono sufficienti quella frase e un festin bueo nella sua taverna al quale ovviamente noi quattro non eravamo stati invitati, affinché la Francy cadesse tra le braccia del Riky come un mozzicone nel tombino.  

E i sogni di Paperoga? Spazzati via come i coriandoli dopo il Carnevale. Un vero e proprio dramma sentimentale degno di un best seller. 

Lui rimase lì, impotente. Con la faccia del tifoso che vede il suo bomber sbagliare il rigore al novantesimo. Quel rigore che valeva lo scudetto. 

Ma, come nel calcio, ogni anno c’è un nuovo campionato. E le squadre cambiano. E i giocatori pure. 

Il primo a cambiare fu proprio lui, Riccardo Beltrame. Cambiò ragazza come si cambiano i calzini: Francesca era troppo acqua e sapone. A lui serviva una gnocca da esibire fuori dalla chiesa. Francesca pianse sulla spalla di Paperoga… e per qualche fugace istante lui vide la luce. 

Durò poco. Francesca, ad un campo estivo, conobbe quello che diventò suo marito e dal quale ha avuto due figli; ciao core. 

Dopo qualche anno, cambio anche il prete. Sparito don Gianni, da quella parrocchia donGiannicentrica  sparirono improvvisamente certi personaggi. 

La cosa mi colpì profondamente. Mi domandavo come fosse possibile che, da un giorno all’altro, persone che sembravano animate da una fede incrollabile scomparissero insieme, quasi avessero perso ogni convinzione. Quel pensiero iniziò a lavorarmi dentro. 

Forse Dio non c’entrava nulla e tutto quell’apparato; messe, incontri, gruppi, iniziative; era solo una costruzione dei preti per avere un pubblico, qualcuno che li ascoltasse. Per usare un linguaggio matematico; i preti stavano alla chiesa come noi stavamo a SolaRadio. 

Questi pensieri mi scossero nel profondo. Fu come se all’improvviso si aprisse una crepa sotto i piedi: ciò che avevo sempre dato per scontato vacillava, e con esso anche l’immagine che avevo di me stesso. Cominciai a chiedermi se credere fosse soltanto un’abitudine, un riflesso sociale, un modo per riempire i silenzi o sentirsi parte di qualcosa. Questa presa di coscienza mi gettò in una crisi silenziosa ma intensa, dalla quale non sapevo bene come uscire. 

Arrivò un nuovo pretino. Il suo gruppo giovani aveva meno iscritti degli ascoltatori di SolaRadio; e ce ne voleva! 

Anche lui venne a piangere sulla mia spalla per chiedermi se potessi far qualcosa per i giovani del quartiere e ne fui felice. 

Durò poco. Anche lui, a un campo estivo (maledetti campi estivi!), si infatuò di una bella giovane. Si spretò e se la sposò. Purtroppo, non so dirvi se, e quanti figli hanno. So solo che, forse a causa di questo andirivieni di preti, alla domenica presi ad andare sempre meno alla messa e sempre più a SolaRadio. 

Ovviamente durò poco anche il gruppo giovani. Amen. 

Ci sono tre cose che invece continuano a durare: SolaRadio, la nostra amicizia e un flebile canale di comunicazione tra Paperoga e … Francesca. 

Il destino volle che Francesca diventasse dirigente di un sindacato. Non uno qualsiasi: il più estremista e socialmente pericoloso agli occhi dell’ingegner Scandagliato. Sono quasi convinto che, per questo, quel clone di “lui”, l’abbia diseredata. 

Il destino inoltre volle anche che, qualche anno fa, Paperoga, cazzeggiando in rete, lo scoprisse. 

Il mio amico che, fino a quel momento, non risultava essersi mai iscritto ad un sindacato, nemmeno a quello dei fancazzisti superpagati associati … non si iscrisse nemmeno a quello di Francesca. Fosse mai che qualche dirigente della sua azienda venisse a saperlo; temeva fortemente che gli avrebbero ridotto di brutto l’ammontare del piano welfare aziendale. Addio abbonamento a Topolino, biglietti per i concerti e carnet del cinema (al quale, pur comprandoli, non andava mai). 

Così, non appena gli capitò l’occasione, optò per un’azione meno rischiosa per il suo posto di lavoro: partecipare a un incontro pubblico dove lei era tra i relatori. Ci trascinò pure me con lo scopo di reggergli il gioco. 

Anche grazie al mio contributo; i due dopo tanti anni si reincontrarono. Non riuscì, come quella volta, a caricarla sul ferro della bici (anche perché, diciamolo, sono secoli che non ne tocca una) ma fece meglio: la caricò in rubrica. 

Iniziò così uno scambio di messaggi. Prima timidi, quasi impacciati, poi via via più frequenti, come se le parole avessero ritrovato un sentiero interrotto anni prima. 

Ogni volta che lei scriveva, in qualità di “consulente sentimentale non retribuito” ne venivo messo al corrente. Apriva il telefono con la stessa esitazione di chi ha tra le mani un testamento o una dichiarazione d’amore dimenticata nel tempo, e mi faceva leggere tutto: il suo messaggio, la sua risposta, persino le bozze che non aveva avuto il coraggio di inviare. 

Ogni volta la stessa domanda: 

Secondo te, da quello che scrive, è ancora interessata a me?” 

Si faceva un sacco di paranoie; “eh, non mi ha messo il cuoricino ma, solo la faccina con gli occhi a cuoricino; però, mi ha scritto … un bacio … sarà un segno?”

Voleva sapere. Cercava in ogni virgola un segno, in ogni “come stai?” un battito nascosto, in ogni punto sospensivo una promessa. 

Io cercavo di convincerlo che sì, era evidente: tra loro c’era ancora qualcosa. Non un semplice ricordo. Non solo un rimpianto. Un filo, sottile ma indistruttibile, che negli anni nessuna distanza, nessun legame, nessuna vita parallela era riuscita a spezzare. Erano due persone che non avevano mai smesso davvero di cercarsi. 

Forse mi scrive così come scriverebbe a chiunque.” 

Testardo, continuava a rimanere nel suo eterno dubbio. 

Il problema era che lui cercava nelle parole una certezza matematica, quando invece il sentimento, quello vero, non si lascia misurare: lo senti. Ti cresce dentro in silenzio. E un giorno ti accorgi che, senza quasi accorgertene, stai sorridendo leggendo un messaggio sul telefono… e ti tremano le mani mentre scrivi la risposta. 

Mi ha scritto che sono e rimarrò sempre una persona speciale” 

Come diceva Shakespeare: “Il tempo è troppo lento per chi aspetta, troppo veloce per chi ha paura, troppo lungo per chi soffre, troppo breve per chi gioisce… ma, per chi ama, il tempo è eterno“.  

Quell’ultimo messaggio, l’aveva fatto sussultare. Era apparso sul suo telefono dopo un’eternità che non gli scriveva; poche parole, leggere come il volo di una farfalla. Gli era bastato per sentirsi di nuovo felice come quel giorno che la portò da Nane sul ferro della bicicletta. Aveva un sorriso limpido e pieno di vita, come se il tempo non fosse mai passato. 

Era chiaro che vive ancora per lei. Vive di quel ricordo che non invecchia, che non si piega al tempo, che si ripresenta sempre con lo stesso profumo di gioventù e la stessa ferita dolce. 

Il loro era un duello elegante fatto di battute leggere e complimenti camuffati, di attenzioni non dichiarate e sorrisi scritti.  

Ogni parola che si scambiavano ne era la prova. Sotto la superficie delle frasi leggere, si avvertiva un sottotesto sottile, quasi impercettibile a uno sguardo distratto, ma chiarissimo per chi conosce l’amore quando si nasconde. Era come se ogni messaggio fosse un passo avanti e allo stesso tempo un passo indietro: nessuno dei due osava dichiararsi apertamente, eppure entrambi lasciavano cadere piccoli indizi, come briciole sul sentiero di una storia mai del tutto interrotta. 

Il loro dialogo era diventato un gioco elegante, un valzer fatto di allusioni, mezze frasi e sorrisi scritti. Un corteggiamento discreto, pudico, quasi antico, in cui l’audacia non stava nell’osare, ma nel trattenersi.  

Un corteggiamento in punta di dita, dove nessuno dei due osava nominare il sentimento, per paura che dirlo ad alta voce lo rendesse troppo vero. Il loro scambiarsi messaggi era una sorta di gioco romantico un modo velato e delicato di flirtare. 

Nonostante gli anni trascorsi, tra loro esiste ancora un filo invisibile, qualcosa di antico e indissolubile. Non è semplice nostalgia, né un affetto di circostanza: una forma silenziosa di eternità, un legame che non chiede conferme perché sa di esistere oltre il tempo dentro di lui come una musica fragile eppure eterna. 

E lui non ha bisogno di molto: gli basta quella voce lontana, quell’eco che lo chiama ancora “persona speciale”, per sentirsi salvo, per sentirsi ancora intero. 

Gli basta condividere certe emozioni con noi tre che, nel tempo, assieme a lui, siamo rimasti a parlare dentro a un piccolo microfono di una radio minuscola, quasi senza pubblico, come se trasmettessimo solo per noi stessi e per l’eco delle nostre stesse voci.  

Siamo quattro anime sospese, rimaste a metà strada tra ciò che sognavamo di diventare e ciò che la vita ci ha concesso di essere. Quattro uomini che, in segreto, avevano immaginato esistenze diverse, forse anche amori capaci di salvarli o stravolgerli. Desideri rimasti accesi a bassa voce, come brace che non si spegne. 

Eppure, siamo ancora qui, fedeli a un unico rito che ci tiene in vita: la musica che trasmettiamo giorno dopo giorno attraverso la nostra piccola radio, e i ricordi che diamo in prestito alle onde dell’etere. È così che respiriamo quando ci manca l’aria, è così che resistiamo quando il tempo ci sfiora con mani troppo pesanti. La musica è la nostra memoria e, paradossalmente, anche la nostra speranza. 

A volte ho l’impressione che ognuno di noi abiti due vite. C’è quella esteriore, che gli altri osservano e giudicano, fatta di abitudini, volti consueti, compromessi silenziosi. E poi c’è l’altra, quella che non si vede: la vita interiore, intima, dove abitano le nostre passioni segrete, i sentimenti che non osiamo dire, le fragilità che ci rendono veri. 

È lì che sopravvivono i nostri ricordi più intensi, quelli che non si cancellano nemmeno con gli anni. Ed è lì che continua a battere il cuore della nostra piccola radio: non un rifugio, ma un filo sottile che ci tiene uniti a ciò che eravamo e a ciò che, forse, siamo ancora destinati a diventare. 

Forse non siamo diventati degli uomini forti, dei vincitori. Qualcosa di grande agli occhi del mondo, degni di ricevere considerazione da tipi come l’ingegner Alberto G. Scandagliato. 

Ma di certo siamo fortemente uomini deboli e fragili: un talento che, almeno quello, nessuno ci può negare. 

È forse quello che fa sì che, da qualche parte, là fuori, ci sono ancora persone che ci ascoltano. Forse poche, ma autentiche. Persone che non si scorderanno mai di noi perché, senza clamore né vetrine, ci riconoscono come speciali. Non per quello che possediamo, ma per quello che doniamo: un’emozione, un sorriso, anche solo un ricordo, un frammento di vita che continua a vibrare nell’etere. 

Viviamo per un ricordo che non smette di pulsare, che sia amore o musica, la sostanza non cambia; senza quella fiamma, senza quell’eco che ci accompagna, sarebbe tutto infinitamente più vuoto. 

Due vite … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

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