Memo Bottacin non sopportava che, nonostante fossimo appena a fine maggio, avessi già osato mandare in onda Miele del Giardino dei Semplici, uno storico tormentone estivo fine anni Settanta. Diceva che certe stupide canzonette da spiaggia, oltre a gonfiargli smisuratamente le palle, gli facevano sentire anzitempo el sofego e lo rendevano tutto petaisso.
Io invece, quella canzonetta la amavo, perché ogni nota mi riportava a lei: Vera, il primo amore, la mia occasione perduta.
Era agosto del ’77 quando la vidi per l’ultima volta. Quell’estate, Miele spopolava tra le radio; un motivetto leggero, quasi ingenuo, che si insinuò nel cuore e lì rimase, come un segnalibro lasciato su una pagina mai voltata. Una canzone che sembrava parlare di noi due, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
Ogni volta che la ascoltavo, sognavo il mare con lei; le nostre mani intrecciate tra gli ombrelloni sbiaditi dal sole, il sapore dolciastro dei ghiaccioli che si scioglievano troppo in fretta e il suono infinito delle onde.
“Ea verità xé che col sente ‘ste canson ghe vanta ‘na Gianni” sentenziò el Mauri. Non occorreva che lo dicesse il Freud del quartiere; tutti sapevano che era questo il vero motivo della sua irritazione.
Ora, è giusto anzi, doveroso, dedicare qualche riga alla spiegazione scientifica della celebre locuzione “me vanta ‘na Gianni”, entrata di prepotenza nello slang in uso nel piccolo universo che è il bar da Nane.
Questo modo di dire prende il nome da tale Gianni Scarparo, storico frequentatore del bar. Un tizio che, fin dall’adolescenza, ha sofferto di sindrome da gnocca irraggiungibile. Ovvero, quel forte disagio psichico causato dal fatto che la gnocca non ti arriva perché manco ti vede e, se per caso ti vede, preferisce prendere un’altra direzione.
In effetti lo Scarparo è perennemente depresso; ha in bocca sempre la solita frase: “ea ghe casca a tutti tranne che a mi”. Inoltre, passa gran parte del tempo al bar a fare discorsi sui tizi ai quali, apparentemente senza una logica ben precisa, quella cosa lì, è caduta alla grande. “Varda ‘sto molton che cocca che el xé ga trovà!”. Quando poi ti spiaccica sul muso le foto dei profili social di qualche suo conoscente è segno che è nel pieno di una delle sue crisi.
Una delle sue teorie più famose è quella dell’inutilità. Un esempio per tutti: è inutile frequentare posti pieni di figa come Piassa Fero solo per constatare che finisce nelle mani dei soliti quattro rotti in culo. Alla fine, questo non fa altro che farti star male facendoti tornare a casa col magon.
Ed è in onore di lui, uno dei più inguaribili malati di questa sorta di depressione sessuale che, i frequentatori del bar da Nane hanno attribuito il nome di “Gianni”.
Tornando a noi, nella fattispecie al Bottacin “ghe vantava ‘na Gianni” perché, certe canzoncine estive gli facevano sentire tutto il peso dei decenni passati a battere quasi tutti i lidi del nord Adriatico a fare i più svariati, stravaganti e inutili tentativi de ‘ndar dee bone co ‘na cocca.
A quasi settant’anni, non gli restava altro che sedersi sulla panca all’esterno del bar, fumarsi centinaia di sigarette e guardare sconsolato la gnocca che transitava per il vialone centrale dei paeassoni. Gnocca che, va detto, non entrava mai. Nemmeno per sbaglio. Anche in caso d’urgenza, preferivano farsela addosso piuttosto che varcare la soglia dell’infimo bar da Nane.
Ma, come ho già raccontato, il Bottacin non era solo il mentore del fallimento erotico. A modo suo, aveva a cuore anche la nostra salute sessuale. Lo tormentava il fatto che i vent’anni ormai non li aspettavamo più e fossimo ancora senza uno straccio di donna. Non voleva che finissimo per diventare dei sensacocca come lui che, ad ogni persona che gli chiedeva come stava, rispondeva in rima:
“Come ti vol che ea sia; el problema xe sempre queo; no’ so mai ‘nda in mona e continuo a menarme l’oseo”
Credo che la cosa preoccupasse anche sior Sergio. Erano ormai passati quasi sette anni dalla fondazione di SolaRadio e la realtà era inquietante: non c’era mai stata nemmeno una donna che si sognasse di venire a parlare al suo, unico e sgangherato microfono. Una radio completamente al maschile, un’emittente quasi monastica in cui l’unico segnale forte era la disperata, continua ricerca di quella roba lì che fa girare il mondo. E che, nel nostro caso, girava sempre altrove per, alla fine, cascare addosso a degli emeriti stronzi come Riccardo Beltrame; chiara evidenza che piove sempre sul bagnato.
Sarà stato questo che lo portò a condurre un estenuante trattativa con suo cognato Giacomo. Zio Giacomino, il prediletto del Tito, aveva deciso di pensionare la sua leggendaria Fiat 128 gialla per passare a una fiammante Ritmo. Con la scusa che sarebbe rimasta in famiglia, lo convinse a cedere ad un prezzo simbolico il cimelio al caro nipotino.
Come era già successo con la radio, anche quella macchina segnò una svolta. Una nuova era. Un altro passo avanti verso quel sogno confuso di libertà, musica, e, chissà, forse pure un po’ di figa; se non altro per l’effetto vintage della carrozzeria.
A inizio luglio del 1985 la 128 color giallo Positano stracarica come un vaporetto al ritorno dal Redentor, arrancava lungo la strada alberata che portava dritta al mare. I finestrini abbassati, l’autoradio a palla, e fuori sparata senza pietà la cassetta Philips C-90 con la raccolta di tormentoni estivi, quelli più odiati dal Bottacin.
A bordo c’erano quattro esseri umani in piena tempesta ormonale. Io, il Tito (pilota e responsabile logistico della missione), EnsoPenso (presunto stratega del butasardon), e il già citato Bibo dea Cipressina, il nostro più fedele ascoltatore, promosso sul campo a compagno di viaggio per meriti radiofonici. A terra erano rimasti Paperoga e il Mauri incaricati di custodire, con le loro cazzate radiofoniche estive, la frequenza di SolaRadio.
La scelta della località non fu casuale. Per quella ci eravamo affidati un consulente di prim’ordine in materia di figa: Tony Pavan, detto el foResto, soprannome guadagnato per l’abbronzatura perenne che sfidava ogni stagione e dermatologo. Conosceva il Paperoga per motivi mai del tutto chiariti. Un Caveon che bazzicava le radio “vere”; ma, soprattutto era presenza fissa in spiagge, discoteche e luoghi dove la patonza girava in libertà.
Aveva, ed ha tutt’ora, la fama di gran puttaniere certificato. Per certificato intendo uno che tromba sul serio e non un millantatore come, ad esempio, Denis Sgorlon.
Altra parentesi. Distinguere un puttaniere vero da uno da bar è facilissimo: se gli chiedi com’è andata con una tipa e lui ti risponde “soito” con uno scrollo di spalle e lo sguardo annoiato, allora ha fatto strike. Se invece ti dice “che ciavada”, massaggiandosi la pancia come dopo aver mangiato tre porzioni di trippa, allora puoi star certo che di quella cosa lì, non ne ha nemmeno sentito l’odore. Chiusa parentesi.
Ma il Tony non si limitò a indicarci la meta. Ci fornì pure un elenco dettagliato di discoteche che lui definiva senza alcun pudore “puttanodromi”. Lì, a detta sua, giravano a flotte certe tedesche attempate separate dal marito: signore esperte, disinibite e, soprattutto, “piene de voja”.
Aveva capito al volo che nessuno di noi aveva ancora toccato palla, chiamiamola così, nella partita della vita, e ci spiegò con tono da missionario laico che quelle donne, poco o per nulla timorate di Dio, erano perfette per l’iniziazione alla “pratica”; dovevamo solo lasciar perdere tutte le paure inculcateci dai preti nel corso degli anni e buttarci.
Dire che eravamo eccitati è poco. Era la prima volta che potevamo disporre di un appartamento tutto nostro. Anche se chiamarlo appartamento era un insulto all’edilizia civile. Si trattava, in realtà, di un monolocale borderline, con annesso bagno delle dimensioni di un confessionale, dove in teoria avrebbero dovuto soggiornare al massimo due esseri umani adulti, possibilmente di corporatura mingherlina.
Il signor Vinicio, titolare dell’agenzia immobiliare e uomo dal sopracciglio giudicante, quando io e EnsoPenso firmammo il contratto, non disse una parola. Ma ci guardò con quella classica espressione che traduceva perfettamente il pensiero:
“Se scopro che c’è anche solo mezza persona in più, vi inculo.”
Naturalmente, alla faccia del Vinicio, ci infilammo in quattro, battezzando subito quel buco come “la base operativa”, soprannome coniato dal Bibo. Lascio a voi immaginare quali erano le “operazioni” che dovevamo intraprendere. Con un po’ di strategia e dei materassini gonfiabili, riuscimmo a ricavare dei giacigli tutto sommato “dormibili”. Si faceva a turno per l’unico divano letto disponibile, mentre gli altri si alternavano tra tappeto e gonfiabili, come naufraghi che si spartiscono i rottami di una nave.
Il tocco di classe? La terrazza dava direttamente sul tetto della friggitoria sottostante, la cui canna fumaria, come un’arma puntata con sadismo, scaricava fumo denso e maleodorante dritto contro le nostre finestre. Aria fritta, letteralmente. L’unica cosa che non ci friggeva era la speranza.
A peggiorare ulteriormente la qualità atmosferica dell’alloggio c’era EnsoPenso. Ora, non so se fosse per via degli ormoni a livelli da reazione a catena; fatto sta che continuava a mollarne di più potenti del solito. Aveva iniziato già in macchina tanto che Tito andò a controllare il posto su cui era seduto per vedere se c’erano strane tracce di materiale semisolido.
In appartamento i miasmi che uscivano dal suo sfiato si mescolavano a quelli del fritoin, per cui, vi lascio immaginare. Un’esperienza olfattiva che avrebbe messo in fuga anche le più motivate delle tedescone di cui ci parlava el Tony.
Inoltre, come se non bastasse, quando all’amico di cui sopra, toccava il turno di dormire sul materassino soprannominato “Cunegonda”, si sentivano degli strani sfregamenti. El Bibo lo redarguiva: “moighea de pinciar el materassin; varda che no el xé ‘na bamboea gonfiabie. Va a finir che ti neo sbusi! ”. E difatti, nel bel mezzo di una notte … Pum! Credo che quello che svegliò gli abitanti del condominio in cui alloggiavamo e i due adiacenti non fosse stato il botto ma, piuttosto le nostre fragorose risate.
Tornando al nostro primo giorno al mare, sempre EnsoPenso, grande stratega della missione, già da tempo, aveva pianificato tutto nei minimi dettagli per sfruttare al meglio quella settimana.
Una volta preso possesso del maniero, la priorità assoluta era scegliere il posto in spiaggia.
Mi stavo fiondando, voucher alla mano, verso il baracchino dello stabilimento quando mi strattonò.
«Va pian, dovemo prima vedar», disse.
Intendeva che non potevo farmi assegnare dall’omino del gabbiotto un posto qualsiasi. No, prima bisognava studiare il terreno e capire quale fosse davvero il migliore. E per migliore non si intendeva certo la distanza dal mare, dalle docce o dal chiosco, ma la vicinanza… con la gnocca.
Iniziò così un tour estenuante sotto il solleone, alla ricerca del posto spiaggia strategico. Passavamo a zig-zag nel nostro settore, scrutando con occhi da falco gli occupanti degli ombrelloni. Lo scoramento sopraggiunse quasi subito: solo famiglie di tedeschi, sovraccariche di pargoli urlanti e ben rifocillati.
«Ciao Tiziano! Che ci fai qui?»
Il Tito restò immobile, come una caldaia in blocco: bisognava urgentemente trovare il pulsante rosso per riavviarlo.
«Mimorti!»
Quasi contemporaneamente, EnsoPenso venne catturato da due squinzie con le tette al vento.
Una biondina dalla voce squillante aveva paralizzato il Tito, mentre era evidente che EnsoPenso, stava impartendo ordini all’aggeggio sotto il costume di non muoversi per non metterlo in imbarazzo.
«B-29! Come el bombardier che ga buttà l’atomica so Hiroschima! Fa presto!»
Bibo, il più sveglio di tutti, aveva, nel frattempo, preso le coordinate dell’ombrellone libero più vicino ai due target principali. Mi invitò a correre al baracchino prima che qualche signor Kurt, Franz o Otto ci fregasse il tratto.
Soddisfatti della scelta strategica, ci sedemmo a un tavolino del chiosco per la prima riunione operativa. Fummo subito addosso a Tito per chiedere dati anagrafici e biometrici della biondina e relativa compagnia al seguito.
“Ah sì, quea. Gera ‘na me compagna de classe”
Con il tempo ho imparato che, quando Tito inizia con un «Ah sì» riferendosi a una donna o, facendo finta di non ricordarsi come si chiama; in realtà, sta dissimulando un interesse spasmodico.
Era evidente che quell’incontro aveva riacceso qualcosa in lui: era inebetito, parlava in fretta e a voce troppo alta,
cosa che gli capita solo quando è particolarmente agitato e felice.
Ci riferì che quella tale Anna era lì con le due sorelle e un’amica, alloggiate nell’appartamento dei genitori di quest’ultima.
EnsoPenso, invece, fu prodigo di dettagli nella descrizione delle tipe: una TAC non avrebbe potuto fare meglio.
Quando gli chiedemmo se ci avesse parlato, si limitò a un silenzio eloquente.
Bibo, che aveva attivato le orecchie oltre che gli occhi, ci informò che parlavano francese: da quel momento vennero ufficialmente classificate come “le francesi con le tette fuori”.
Proposi subito di andare a sederci sotto l’ombrellone B-29 “Enola Gay” (nome dato all’aereo in onore della madre del pilota n.d.r.). Strizzando l’occhio a Tito, dissi che, secondo me, bisognava battere il ferro finché era caldo e avviare immediatamente le prime operazioni di abbordaggio delle sorelle più amica. Ovviamente il Tito avrebbe avuto diritto di prelazione su Anna.
Il socio diventò rosso in viso e iniziò a sudare fisso. Disse che serviva pazienza: buttarsi subito all’attacco ci avrebbe fatti sembrare dei bavosi morti di figa. Era chiaro che la sua introversione patologica lo paralizzava, era visibilmente terrorizzato all’idea di butar el sardon con Anna.
Non mi aveva mai parlato di lei, ma era evidente che ne fosse ancora innamorato cotto. E in fondo la cosa, mi consolava: anche lui, come me, aveva avuto un primo amore rimasto… sospeso.
Per evitare di creare un trauma irreparabile al nostro amico, l’assemblea deliberò di rientrare alla “base operativa”, fare un rapido giro docce, uscire per una pizza e poi discoteca.
La nottata al “Desideria” mi fruttò solo un terribile mal di testa. Di quella cosa lì non ci cascò, come da previsione, nemmeno una goccia; probabilmente, sarà stato perché il locale non figurava nella lista dei puttanodromi forniteci dal Tony.
La domenica mattina, quasi senza aver toccato il letto, mi stesi all’ombra dell’Enola Gay; era meglio pisolare in spiaggia che morire asfissiato dalle scoregge di EnsoPenso. L’amico, come d’altronde faceva in radio, non aveva nessun rispetto per quei tre che condividevano con lui quei pochi metri quadrati per dormire.
“Ciao”
Ad un certo punto sentii una voce, forse stavo sognando. Aprii lentamente l’occhio destro dato che il sinistro si rifiutava di collaborare. Pian piano vidi definirsi la sagoma di una ragazza bionda. Man mano che la palpebra si schiudeva vidi che era Anna.
Mi chiese di Tiziano. Tiziano! Mi faceva sempre strano sentir chiamare il Tito con il suo vero nome. Dal modo in cui pronunciava quel nome, e da come mi tempestava di domande particolareggiate sulla sua vita presente, passata e futura, mi ci volle poco a capire che anche la tipa, illo tempore, ea gaveva vantà ‘na incocaia par el Tito.
Quindi, da buon amico decisi di aiutarlo: iniziai a tessere lodi sperticate, ovviamente esagerando. Le parlai di Solaradio, di come senza di lui non sarebbe mai nata, e già che c’ero, gonfiai un po’ anche il mio curriculum; non si poteva mai sapere.
Lei ascoltava attenta, quasi incantata. Dopo una mezz’ora buona di agiografia Tizianesca, arrivò la doccia fredda: stava partendo per tornare a casa ed era passata per salutare il Tito o Tiziano, come lo chiamava lei. Ma quel che è peggio, mi disse che nel posto dove abitava non si prendeva Solaradio: ciò voleva dire che, come Vera, si era trasferita in un’altra città. Era come se, anche lei, fosse scivolata in quell’universo parallelo dove finiscono le persone che spariscono dalla tua vita.
“Siete davvero dei bravi ragazzi, salutami tanto Tiziano. Digli che … non importa”. Mi rifilò un tenero bacio sulla guancia. In quell’istante vidi in Anna la stessa dolcezza della mia Vera. Dall’emozione, mi ritrovai a scavare con i piedi una buca profonda nella sabbia, quasi un piccolo cratere dei sentimenti repressi.
Il povero Tito continuò per giorni a chiedermi di lei, bramoso di ogni dettaglio sul nostro colloquio. Era arrivato al punto di pretendere quasi una trascrizione parola per parola. Credo lo facesse per cercare in ogni sfumatura delle sue parole, una conferma che lei fosse ancora innamorata di lui.
Poi seguirono i rimproveri, primo fra tutti quello di non aver chiesto indirizzo e numero di telefono, almeno capire la città dove abitava. Credo l’avrebbe percorsa tutta a piedi chiedendo ai passanti se conoscessero la sua Anna. E aveva ragione, forse me l’aveva anche detto. Ma io, in quel momento, ero più vicino al coma che alla lucidità. E poi, c’era stato quel bacio che non mi aveva fatto capire più niente. Pensate che di questo, ancora oggi, non gli ho mai detto niente.
Ripensando al Tito e alla sua Anna, mi viene in mente che, anche lui, come me, per buona pace di tipi come Memo Bottacin, non appena nell’aria c’è sentore d’estate, manda in onda “Due ragazzi nel sole” dei Collage.
Era, anche questa, una di quelle canzonette che uscivano, leggere, leggere, dalle radio, da quelle musicassette cigolanti o dai juke-box arrugginiti dalla salsedine, parlavano di passioni intense, di notte e pelle, di abbracci rubati e sogni a due.
Ora, col senno di poi, mi è facile capire che il cuore gli fa ancora male per una storia non vissuta e che, canzoni come quella, non erano mai state sue. Erano esperienze mai fatte, emozioni che gli erano scivolate accanto, troppo veloci o troppo timide, e che, proprio come me, aveva lasciato andare senza nemmeno accorgersene.
Per fortuna, quel pomeriggio ci fu l’indimenticabile partita di bocce con le francesi. Ricordo come fosse ieri l’espressione di EnsoPenso; aveva lo sguardo di chi avrebbe voluto giocare con ben altre bocce. Poi seguì un bagno collettivo, momento immortalato in una foto in cui EnsoPenso sembrava pronto a saltare addosso alla più grande, quella con le tette più sviluppate, da un istante all’altro.
Il giorno dopo, non seguì invece un bel niente; anche le francesi si volatilizzarono. Serafico il Bibo con il suo sorrisetto sarcastico teorizzò che, probabilmente avevano cambiato settore in quanto si sentivano minacciate da quattro bavosi mandoloni.
I posti accanto all’ombrellone B-29 Enola Gay si riempirono di nonne con frignanti nipotini. Di certe tedesche assatanate di sesso non ce n’era nemmeno l’ombra. O il Tony aveva fatto male i conti oppure, cosa più probabile, ci aveva presi per il culo.
Il resto della settimana, per rimanere in tema teutonico, lo passammo a consolarci mangiando prelibatezze tedesche. Scoprimmo i favolosi Weißwurst bavaresi, ottimi con birra e patatine fritte. Ma, cosa ancora più degna di nota, nel panificio accanto al nostro condominio, vi era un tal assortimento di Craf che, al confronto, quelli di Ciano l’Onto, erano dolci per diabetici.
Alla fine, ce ne tornammo a casa pieni di illusioni, scottature, una manciata di speranze e … qualche chilo in più.
L’anno successivo arrivò la seconda edizione: niente Anna, niente sorelle e amica, niente francesi col seno al vento… ma almeno niente appartamento sopra la friggitoria. Questa volta avevamo un comodo due camere con soggiorno e, al piano di sopra, Marisa, la baby-sitter del figlio della coppia che gestiva l’edicola sottostante.
Marisa accettò di essere condivisa da noi quattro sfigati. Si impietosì perché capì che, alla fine, in quella settimana, dei tipi come noi, non avrebbero trovato niente di meglio e, praticamente, si trovò a far da baby-sitter ad altri quattro bambini affamati di una certa cosa.
Solo io, quell’estate, una sera, ebbi un’illusione breve ma intensa, come un lampo nel buio del mio eterno deserto affettivo. Accadde al Mr. Charlie, una discoteca praticamente sulla spiaggia (quella sì, era nella lista del Tony), con la pista che sembrava sospesa sul mare. Era tardi, l’aria fresca saliva dalle onde e la brezza salmastra sembrava darmi una tregua dal caldo e da tanti altri pensieri.
Quando partirono le prime note di “The Captain of Her Heart”, la terrazza si tinse di una bella luce blu. Quella musica, con quel ritmo lento, aveva qualcosa di ipnotico. E fu in quel momento che accadde.
Una ragazza, una biondina tedesca dagli occhi chiari e il volto sereno, si avvicinò senza dire nulla e mi porse la mano. Così, all’improvviso. Non ci fu tempo per pensare, solo per seguire il gesto e salire con lei su quella pista che guardava l’infinito.
Ballammo in silenzio, con il vento che ci accarezzava i volti e il mare sotto di noi che sembrava suonare insieme alla musica. E in quella luce sfocata, con il battito lento del brano e il profumo del mare nell’aria, fu come se stessi ballando con Vera. Non era solo una somiglianza: era un’impressione profonda, viscerale, quasi mistica. Come se il ricordo di Vera si fosse incarnato per un istante in quella sconosciuta. Per tutta la durata della canzone non parlammo. Solo i nostri corpi, leggeri e imprecisi, si muovevano seguendo la musica e qualcosa di più antico, come se quel ballo fosse scritto da tempo, da un’altra vita.
Poi, la canzone finì.
E lei, dopo aver detto qualcosa che assomigliava a un “grazie”, come una Cenerentola senza scarpetta, sparì tra la folla, inghiottita dalla notte e dalle luci della discoteca. Non ci fu nemmeno il tempo per un “ciao”, una frase, uno scambio di nulla.
Eppure, quel momento resta uno dei più belli e intensi della mia vita. Un sogno che durò una sola canzone, ma che continuo a ricordare come se fosse durata un’estate intera. Una breve apparizione che mi lasciò addosso la sensazione che, per un attimo, Vera fosse tornata davvero. Solo per me.
L’anno dopo ancora non ci fu più nulla. Tutti e quattro ci “sistemammo” e passammo allo status di “impegnato”.
Ma io al mare ho continuato ad andarci.
Con lui, ho sempre avuto un rapporto di amore-odio: odio per come l’ho conosciuto da bambino: in una colonia dove sono stato peggio dei primi anni da militare. Amore per le occasioni che mi ha offerto da ragazzo… e che, il più delle volte, ho buttato. Di nuovo odio per il caldo soffocante di questi ultimi tempi e certe vacanze dalle quali non vedevo l’ora di tornare. Di nuovo amore per i bei sogni che mi ha regalato e perché, fondamentalmente … io con il mare ci parlo e lui mi ascolta.
C’è un rituale che ripeto ogni anno: circa a metà luglio, al mattino presto, prendo la bici e percorro tutta la ciclabile sul lungomare, da casa mia fino al penultimo stabilimento balneare prima del faro.
Lì c’è quel pezzo di spiaggia che quarant’anni fa ci vide ragazzi spensierati. Poi mi fermo al nostro chiosco, divenuto nel frattempo carissimo, per una colazione. Mi siedo a guardare il mare. È una sorta di pellegrinaggio laico, un modo per toccare con mano chi ero e chi siamo stati.
Quest’anno mi sono pensato di invitare il compare EnsoPenso, sperando che tirasse fuori un pensiero profondo, qualcosa di degno per commemorare i quarant’anni della nostra prima vacanza insieme.
“Ma a ti, co ti vedi tutte ‘ste fie coi costumi sgambai e col cuèo fora, no te vanta ‘na Gianni?”
Ecco la sua riflessione esistenziale. Pensare che si è fatto più di cento chilometri per dirmi questo.
Poi, ha iniziato a parlarmi di Tony Pavan.
Secondo lui, è solo grazie a qualche raccomandazione ecclesiastica che Tony si era sistemato in una nota compagnia di assicurazioni, con super stipendio e mega benefit.
Che gran rotto in culo. Bastava guardare le sue foto su Facebook: aveva trovato una compagna molto più giovane di lui, architetto di grido e gran bellezza ma, era più che certo che continuava a divertirsi “fuori casa”. Nonostante i sessantatré anni, era sempre in giro per discoteche, serate con DJ “veri”, radio “vere” e posti esotici.
Sempre super abbronzato, camicetta bianca ben stirata, collana, braccialetti alla moda e circondato da una nuvola di gnocca.
Insomma, vedere quelle immagini aveva fatto venire al compare una “Gianni” colossale.
Secondo lui, i preti ci avevano fregato, imponendoci una vita grama e senza divertimenti. Dovevamo imparare a vivere dal Tony, diceva.
E giù con quelle mezze parole che, tra le righe, celano il rimpianto di non aver mai trovato la sua donna ideale. Ormai la conosco a memoria, potrei disegnarla: bionda con i capelli ricci, gambe lunghe, tette piccole ma sode, brillante, non obbligatoriamente laureata ma obbligatoriamente patentata e automunita. Praticamente il ritratto di una di quelle francesi con le tette fuori. Una donna che, quando la porti in giro, faccia venire “una Gianni” agli altri.
“Xe stai anni de libertà, che bei…”
Lo disse con lo sguardo malinconico rivolto al mare, come se parlasse direttamente alle onde. Capì subito che stava pensando a quel periodo prima che si “impegnasse”.
Se ne stette per un po’ in silenzio, non mi restava altro che capirlo e osservarlo.
Sulla spiaggia, i giovani ridevano, si rincorrevano, si sfioravano con quella disinvoltura che appartiene solo a chi non sa ancora cosa si può perdere. Ragazze e ragazzi che si corteggiavano, si guardavano negli occhi con la fame e la fiducia di chi ha tutto il tempo del mondo. E lui li osservava da lontano, come dietro un vetro che non si poteva rompere. Non era invidia. Era qualcosa di più sottile: rimpianto.
Il rimpianto per un tempo che c’era stato, ma che, forse, non aveva saputo vivere davvero. Un periodo troppo breve, e troppo esitante, in cui le possibilità erano ovunque ma sfumavano prima ancora di diventare scelte. Una libertà che aveva, sì, ma che non sapeva di avere. O, forse, aveva paura di usarla.
Poi, prese a parlarmi della chiesa e dei preti, non era la prima volta che mi faceva certi discorsi. Secondo lui, ci avevano riempito la testa di regole, di timori, di sensi di colpa. Ci avevano detto di aspettare, di comportarci bene, di non bruciare le tappe, e così, mentre aspettavamo, il tempo è passato. Alla fine, certe occasioni non tornano e se le beccano gli altri, meno inquadrati in certi schemi.
“Ti sa cossa che ea xé ea me vita? ‘Na gran finta!”
Riprese a starsene in silenzio a guardare il mare e la compagnia di giovani ragazzi.
E adesso, ad entrambi, con il mare davanti, e il vento addosso, e le voci allegre dei nuovi vent’anni che esplodono tutt’intorno, una malinconia ci si aggrappa addosso piano, come un lenzuolo sottile. È una malinconia strana, quasi dolce. Non è solo bellezza, è qualcos’altro; una specie di richiamo muto, come se l’acqua conservasse il ricordo di quello che poteva essere e non è stato.
Ognuno di noi ha ancora nel cuore una ragazza che ama ricordare mandando in onda su Solaradio, con nostalgia e occhi lucidi, qualche vecchia canzonetta da spiaggia, come fosse una favola che avrebbe voluto vedersi realizzata.
Tito non ha mai dimenticato Anna. Bibo pensa sempre a Vania, EnsoPenso; boh non saprei. Ma credo abbia centinaia di primi amori; o meglio, centinaia di tette culi e gambe che avrebbe voluto afferrare.
Ed io, spero che proprio qui, su questa spiaggia, davanti a questo mare che trabocca di ricordi e che meglio di chiunque altro sa custodirli, un giorno il destino mi riporti a incontrare Vera. Quel primo amore intenso, acerbo e purissimo, mai davvero vissuto, e proprio per questo rimasto perfetto. Un amore così profondamente sentito da rimanermi addosso come un tatuaggio invisibile.
Non mi vergogno di pensarci ancora, perché oggi il suo ricordo è persino più vivo di allora, pulsante e intenso. Perché quello che non è mai successo rimane puro, incontaminato, come se il tempo stesso avesse avuto paura di rovinarlo. Perché ciò che non accade mai non si consuma: resta inviolato, quasi sacro.
Ho sempre avuto la sensazione che, anche senza un bacio, anche senza una parola d’amore pronunciata davvero; dentro di noi, ci siano frammenti d’anima condivisi, incastrati, stretti come radici e mai più sciolti.
Nonostante gli anni, le storie vissute e quelle mancate, continuo a chiedermi se anche lei non abbia fatto lo stesso e, qualche volta, davanti a un altro mare, in un’altra città, in un altro tempo, sotto un altro cielo non stia rivolgendo lo sguardo altrove per pensare a me.
Anche se non so se la vita mi darà questa occasione, resto qui, davanti a questo mare, fedele a un ricordo che non vuole morire.
Il mare mi sussurra che è amore vero, proprio perché non è mai diventato altro.
Tornami a mente il dì che la battaglia
D’amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
Giacomo Leopardi
La stagione dell’amore … ascolta il podcast
Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati!
Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo