“Toh, xe qua i morti de figa dea radio!”
Senza neanche alzare lo sguardo dal Gasetin sgualcito; da dietro la coltre di fumo della sua sigaretta, Memo Bottacin ci accoglieva pressappoco così, ogni santa volta che varcavamo la soglia del Bar da Nane.
Sembrava una presa per il culo, e in effetti lo era. Ma sotto sotto, nel suo modo ruvido e un po’ alcolico, gli stavamo a cuore. O almeno, ci tollerava più volentieri di altri esseri umani.
Memo era il nostro oracolo da bancone. Un vecchio saggio bevitore che, tra un’ombra e un’altra, non perdeva occasione per erudirci, a modo suo, sul vero vivere.
“Voialtri, coi vostri microfoni de plastica e le cassettine piene de musica che no’ ghe piase a nissuni; pensé davero de tirarve in qua ‘e cocche?”
Scuoteva la testa come uno che aveva già visto naufragare decenni di illusioni analoghe.
“Credè che ve basta parlar in radio o ‘ndar in parrocchia a far i bravi parché ‘e fighe ve salta ‘dosso. Scolteme mi quaità de imatonii che no’ si altro; moè prete e microfono, metteve i gin stretti e ,nde in discoteca!”
In effetti, era passato un bel po’ di tempo da quando avevamo issato l’antenna sul tetto del civico 69 dei paeassoni ma, il nostro principale obiettivo, nemmeno tra noi ufficialmente dichiarato, ovvero cuccare via etere, rimaneva lontanissimo.
L’intero comitato di redazione, formato da noi quattro sfigati mandoeoni, si arrovellava quotidianamente per trovare la formula magica: un format, un jingle, un tormentone, Qualsiasi cosa che potesse convincere anche solo una ragazza, dico una, a interessarsi non tanto alla radio, quanto a noi.
Bisognava dar retta a Memo ma, la discoteca, per dei radiofonici fioi de cesa come noi, era tipo il girone dei lussuriosi, versione remixata. Gli emissari della santa romana chiesa, sapevano abilmente infonderci dei terribili sensi di colpa. Secondo loro, il solo desiderio di andarci e sognare di far certe cose ci avrebbe condotti dritti all’inferno.
E poi, non avevamo una lira. Con quel che avevamo in tasca, a mala pena ci usciva un craf alla crema da Ciano l’Onto. Ah, preciso: so benissimo che si chiama krapfen, ma, da noi, quel nome è impronunciabile. Mia mamma l’ha sempre chiamato craf e tale rimarrà per sempre.
Ciano l’Onto, lo conoscevano tutti, specie il dottor Scarpa che si occupava di curare i disastrosi effetti causati dallo smodato consumo dei suoi prodotti “artigianali”. Un giorno mi mise in guardia dicendomi che, se continuavo a riempirmi delle sue, chiamiamole, prelibatezze, mi sarebbero venuti i brufoli anche in quel posto.
La sua fama ebbe un’impennata storica quando il suo laboratorio esplose. Sì, proprio esplose.
Fece un botto che si sentì fino quasi a porto Marghera; anzi, qualcuno pensò che fosse proprio porto Marghera che saltava in aria. Il tipo finì sol Gasetin, con un bel titolone.
Le cause non vennero mai accertate ma, secondo la leggenda metropolitana che si tramanda nei bar ancora oggi, era perché usava il gas metano per gonfiare i bignè.
Da quel giorno, la sua clientela raddoppiò. Perché si sa: in città, appena uno rischia di morire per mangiare qualcosa, tutti vogliono provarla.
Entrare da Ciano era un’esperienza mistico-sensoriale. Il pavimento era una pista da pattinaggio creata con olio per motore riciclato aromatizzato alla frittella, e se non stavi attento ti ritrovavi a sbrissar fino al bancone.
Lui stava sempre di spalle, intento in misteriosi affari sottocinturali. Anche se cercava di non farsi vedere, si capiva chiaramente cosa si stesse grattando.
“Un craf!” gridavamo; ci piaceva coglierlo di sorpresa durante quel suo inquietante rituale. Ma lui, imperterrito, si voltava con calma, prendeva il craf con la pinzetta per poi passarlo nella mano che pocanzi teneva dentro i pantaloni e te lo sporgeva.
Ma noi non badavamo a certe sottigliezze; ci bastava avere tra le mani quella gigantesca roba untuosa, ricoperta di zucchero a velo che, puntualmente, soffiando con vigore sopra, spruzzavamo in faccia alla persona che ci stava di fronte. Era, e forse lo è ancora, il nostro modo di sublimare certi desideri proibiti.
Tornando a noi poveri e meschini conduttori radiofonici, visto che la discoteca per i sopracitati motivi era off-limits, il sabato pomeriggio, per ‘ndar in batua, ci rimaneva solo un’unica via: far le vasche in piassa Fero. Così, lasciavamo il povero Tito, il più cattolico del gruppo e dunque, almeno formalmente, meno sensibile a certi richiami della natura, a vegliare sulla gloriosa SolaRadio. Nel frattempo, io, Paperoga e Ensopenso, freschi di un’abbondante dose di unto dal mitico Ciano, puntavamo la prua verso piassa Fero con lo spirito di pirati affamati, pronti a saccheggiare ogni cocca a vista. Sui risultati, per il momento sorvolo.
Ancora oggi, mi chiedo come mai la prima persona in cui puntualmente incappavamo era quel borioso dandy di Alvise Barozzi detto “fuarin” a causa di quei pacchianissimi foulard che portava al collo.
Aveva sempre da ridire sul nostro abbigliamento e sul fatto che entravamo quasi sempre in scena con quell’untuosissimo craf in bocca. Con quel suo sorriso ebete, ci faceva notare che nessunissima squinzia avrebbe dato una slinguacciata a dei tipi che avevano addosso dei vestiti di seconda mano ed emanavano un tanfo di olio da macchina esausto
A lui, invece, boiaissamorti, in fatto di cuccaggio andava alla grande, grazie soprattutto a quel paraculo di Milù. Quel fox terrier bianco, copia esatta per nome e razza, del cane di Tintin, riusciva ad attirare le squinzie come mosche.
Ensopenso definiva Milù il classico “can da figa”; secondo lui oltre alla fattezza, aveva anche la capacità, con il suo fiuto, di scovare le migliori gnocche presenti nei dintorni e segnalarle al padrone.
Paperoga è sempre stato un credulone. Per cui, convinto dalle strampalate teorie di Ensopenso, una volta si fece prestare da suo zio Emilio il cane con cui andava a caccia. L’irrequieto Max era un maldestro tentativo di manipolazione genetica tra un setter e una pantegana. Fu un disastro totale; non appena entrammo in piazza con uno strattone degno di un toro da rodeo, si liberò dalla presa del suo affidatario per rincorrere i colombi creando il panico generale. Ma, quel che è peggio fu che andò a cagare vicino a un gruppo di squinzie che, inviperite, minacciarono di linciarci.
Non fu certo per Max che quel sabato pomeriggio di quaranta e passa anni fà, rimarrà per sempre nei miei ricordi.
Ad un certo punto, in mezzo al trambusto generale che aveva causato quel sacco di pulci; apparve Valeria.
Chiamarlo incontro sarebbe stato troppo. Ci eravamo appena sfiorati, un attimo, un istante sospeso. Ma c’era stato qualcosa. Qualcosa di elettrico, di denso. Lei aveva abbassato lo sguardo e, con un filo di voce, aveva detto: “Ciao” seguito dal mio nome.
Ho sempre considerato un “ciao” di una donna, seguito dal mio nome un saluto speciale, qualcosa di più intimo, più vicino. Un soffio di possibilità, una promessa inespressa.
Valeria era stata la mia compagna di autobus durante il primo anno di superiori; nel quale, contrariamente alla volontà di mio padre, mi iscrissi al liceo. Prendeva come me il quindici barrato, corsa bis delle sette e venti, saliva all’ultima fermata dello stradone dei paeassoni.
Valeria non era il tipo di ragazza che campeggiava nei calendari appesi nell’officina di Stelvio Vanin. Eppure, già dal primo giorno in cui salì sull’autobus, il suo sguardo mi colpì come un lampo silenzioso.
Un fascino che non si misurava con i parametri del bar da Nane, ma che si insinuava sottopelle, sottile e inesorabile.
Non potevo fare a meno di osservarla, di cercarla tra i volti anonimi del quindici barrato. Ogni mattina, quando saliva, era come se il tempo si fermasse per un istante, giusto il necessario perché il mio sguardo si posasse su di lei.
Bastò la scusa dell’affollamento, un lieve urto tra i corpi costretti nella ressa del mattino, e da quel momento iniziammo a parlare. Dapprima con timidi accenni, poi con la naturalezza di chi si riconosce simile, scoprimmo di avere mille cose in comune. Le nostre conversazioni riempivano il tragitto e lo trasformavano in un momento sospeso, un rifugio segreto nel caos della città. Un momento di letizia prima di tuffarci nei giorni di scuola che, non sempre erano belli.
Sentivo che provava qualcosa per me. Lo avvertivo nei silenzi sospesi tra di noi, nei gesti appena accennati, in certi sguardi che sembravano indugiare un secondo di troppo. Eppure, non feci nulla. La mia solita, incrollabile timidezza mi tratteneva, avvolgendomi in una rete di esitazioni e paure. Ogni volta che avrei potuto dirle qualcosa, anche solo un invito a prenderci un gelato insieme, mi bloccavo. Mi convincevo che sarebbe stato fuori luogo, che forse lei avrebbe frainteso, che sarebbe stato più sicuro rimanere nell’ombra. Così, per paura di mostrare troppo, finii per nascondermi del tutto. Arrivai persino a fingere di ignorarla, sperando che il distacco soffocasse quel sentimento che, invece, cresceva silenziosamente dentro di me.
Eppure, ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano per caso, capivo che non sarebbe mai bastato.
Come si dice; “passato il santo passato il miracolo”
Il miracolo in quel caso era Valeria; una così non l’avrei più incontrata. Il santo era il primo anno di liceo. L’anno successivo cambiai scuola e anche autobus, non rividi Valeria fino a quel sabato pomeriggio in piassa Fero.
Quella specie di incontro mi turbò talmente che non mi resi conto che il Max era passato sotto la mia custodia e che stava tirando a più non posso.
Sarà perché, come ho avuto già occasione di raccontarvi, a causa della mia passione per la fotografia, per quell’ossessione di catturare attimi e custodirli per sempre, sono diventato un ladro di anime che, riesce a vedere la vera bellezza, quella che ti frega sul serio.
Senza volerlo, senza saperlo, la vista di Valeria mi regalava frammenti della sua anima, e io, ladro silenzioso di attimi e sguardi, li raccoglievo con la devozione di chi sa di custodire qualcosa di prezioso.
C’era ancora qualcosa in quegli occhi che mi rapiva. Un’intensità segreta, un mistero che sembrava svelarsi solo per un istante prima di richiudersi, lasciandomi con il desiderio di scoprirne di più. Non era solo bellezza la sua, era un magnetismo sottile, una luce discreta che si faceva strada tra le ombre della mia vita.
Era bastato quell’attimo.
Ormai non vado quasi mai in piazza. Non è più tempo di far le vasche, con il nobile scopo di incrociare lo scopo della vita. Ormai per me la piazza oggi è un teatro vuoto, un palcoscenico su cui non recito più.
Ci vado solo per l’edicola, quella più fornita di troiate che si possono trovare in città. Mi attirano i primi numeri delle collezioni: soldatini, modellini d’auto, di aerei, di camion, … di tutto. Li prendo, uno dopo l’altro, come se potessero riempire certi vuoti. Un po’ come fa ancora un craf onto, anche se non c’è più il vecchio Ciano. Se n’è andato qualche anno fa. Non so se esista davvero il paradiso, ma se c’è, sono sicuro che Ciano è lì, a rendere quel posto meno asettico, più unto, più vero. E chissà, forse lì la gente non bada all’igiene, tanto sono già morti.
Quel giorno, però, fu diverso. Lanciai uno sguardo distratto a una colonnina vicino all’edicola. Di solito la ignoro, è lì da sempre, invisibile come certi arredi urbani che smetti di vedere.
Ma quella scritta — “onde corte” — non poteva non catturare l’attenzione di un radiofonico della domenica come me.
Prima di continuare, devo dirvi due parole sulle onde corte.
Si tratta una gamma di frequenze radio per così dire, molto più “antica” rispetto a quella che usano, per esempio, i telefonini. Hanno la particolarità di riflettersi sulla ionosfera e viaggiare oltre l’orizzonte. Per cui, in particolari condizioni atmosferiche e di attività solare, le onde corte possono coprire migliaia di chilometri.
Per farvi un esempio pratico, se SolaRadio trasmettesse in onde corte, in certi giorni e, con qualche botta di culo, potrebbero sentirla gli americani, i cinesi, gli australiani e gli indiani anziché, i soliti quattro ruttatori seriali del bar da Nane.
Onde corte
Vicini e lontanissimi
Presentazione del libro di Valeria …
Ebbi un leggero mancamento e mi trovai praticamente abbracciato a quella colonnina degli eventi in biblioteca. Allo stesso tempo iniziarono a suonare le campane del duomo, percepii qualcosa di divino in quello che stava accadendo.
Un quarto d’ora dopo, uscii dalla libreria della piazza con “onde corte” in mano.
Iniziai a leggerlo subito, rannicchiato sotto il piumone, con quella intimità silenziosa che solo i libri e certi ricordi sanno evocare.
Erano passati più di trent’anni dall’ultima volta che l’avevo vista. Fu su un autobus, come fosse una scena destinata a ripetersi ciclicamente, come nei sogni.
Parlò soprattutto lei, allora. Della facoltà che aveva scelto, dei progetti, delle battaglie che voleva combattere.
“Dove vai? Resta qua! Stai qua!” Mentre mi parlava, risuonavano ancora le parole di mio padre. In quel momento avevo voglia di andarmene da una casa troppo stretta, da una famiglia che mi tratteneva come radici troppo profonde.
Chissà perché mi confidai con lei. Le raccontai proprio di quelle parole, quelle a cui cercavo, inutilmente, di disobbedire.
Le parlai anche della radio, del mio sogno di far arrivare la mia voce oltre i muri di casa, oltre gli ostacoli, oltre la notte. Di raccontare il mondo senza doverci stare dentro per forza.
Ma le confessai anche l’altra verità, quella che custodivo più in fondo: il desiderio di fuggire da un certo mondo e da imposizioni soffocanti.
Le dissi che sognavo di partire. Di imbarcarmi su una nave mercantile e sparire tra le onde, restare in mezzo al mare, senza mai scendere in porto, senza radici, senza ormeggi.
Solo cielo e sale, e il suono costante dell’acqua a ricordarmi che, forse, è solo nel movimento che avrei potuto trovare pace.
“Lo so che parli in radio… ti ascolto, ogni tanto.”
“… ti ascolto” Sorprendentemente parlò di me, in modo strano, sottile. Ma non capii.
Allora ero troppo acerbo per leggere tra le sue parole.
Non vedevo che mi stava scrivendo messaggi segreti, piccoli biglietti per esprimere un sentimento nascosto nella sua anima mentre io, come spesso ho fatto, ho lasciato che mi scivolassero via.
Non vidi l’invito, non riconobbi il segnale.
Scesi dall’autobus poco dopo, con quel senso vago di occasione mancata che si insinua lento.
E ancora oggi mi chiedo: perché non rimasi un po’ di più? Perché non le chiesi di continuare la conversazione davanti a un caffè?
Forse perché scappare mi sembrava più semplice che restare.
Forse perché, a volte, c’è qualcosa che fa più paura della solitudine.
Ero così immerso nella lettura che non mi accorsi del temporale che imperversava fuori. La pioggia scendeva fitta, decisa, battendo contro i vetri puliti solo il giorno prima.
Ma quel temporale… ce l’avevo dentro anch’io.
Un’agitazione silenziosa, fatta di ricordi che tornavano come raffiche di vento contro il cuore.
Poi, tra le righe di quel libro, accadde qualcosa.
Come in camera oscura, piano piano, lo sviluppo iniziò; davanti a me si delineò l’immagine in bianco e nero di due ragazzi su un autobus. Due volti familiari, il mio e il suo.
Ma no, non poteva essere.
Non potevo essere io quel tale Andrew, salito su una nave mercantile per sfuggire alla sua stessa voce, per smarrirsi lontano dal cuore. Eppure… la somiglianza era disarmante.
E non poteva essere lei, quella tale Kate che, con una piccola ricetrasmittente a onde corte, lanciava ogni sera messaggi nell’etere, sperando che attraversassero oceani e cieli e interferenze, arrivassero, deboli ma integri, fino a lui.
Non poteva.
Eppure quel libro sembrava raccontare esattamente i nostri incroci, i nostri sguardi mancati, le emozioni sospese, le paure taciute.
Come se Valeria avesse registrato i battiti di quei momenti e li avesse messi nero su bianco, per farli arrivare, finalmente, dove avrebbero dovuto arrivare molti anni prima.
Mancavano circa venti minuti e la sala conferenze della biblioteca era ancora mezza vuota. Non avevo il coraggio di sedermi nelle prime file. Valeria era già lì, circondata da un folto gruppo di persone. Cercai di capire chi potessero essere; amici, letterati, politici, compagno, figli o, semplicemente gente che la ammirava e voleva conoscerla.
Poi, successe quello che, con il cuore che batteva a mille, mi aspettavo.
Mi vide, sorrise, e di nuovo, con lo sguardo abbassato, quel suo flebile “ciao” seguito dal mio nome. Fu come una lama dolce che affondava nei ricordi.
“Come stai?” Ebbi l’impressione che, in qualche modo, volesse qualcosa di più di una semplice risposta di circostanza; un messaggio eterno e definitivo.
Ma che potevo dirle? Che potevo mai raccontarle?
Che non ho viaggiato davvero, che la paura mi ha fermato più delle catene?
Che i sogni, continuando a parlare in quella piccolissima radio, li ho raccontati più di quanto li abbia vissuti?
Che una voce come quella di mio padre continuava a dirmi: “dopo tutti questi anni, ma dove vuoi andare? dove vuoi arrivare? Resta qua, stai qua!”
Forse è questo il mio vero fallimento:
non averle mai detto che, pur se lontanissima, l’ho sempre sentita vicina; che tramite la mia piccola radio le ho sempre lanciato dei messaggi e che ogni sua parola era un porto e io, invece, ho sempre scelto il mare.
Ti ho voluto bene veramente … ascolta il podcast
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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo