Ea Compagnia

C’era poco da fare, a noi quattro sfigati mancava il più importante degli ingredienti necessario per vivere appieno gli anni Ottanta: far parte di una compagnia. Ce ne stavamo lì, in una scassatissima radio, con un microfono ancora più scassato, a comunicare la nostra voglia di emergere… ma a chi, poi? Insomma, mentre gli altri vivevano la magia di quegli anni tra abbracci, risate e canzoni urlate a squarciagola, noi eravamo fuori onda. 

Quello degli anni ’80, era un vento di spensieratezza che soffiava leggero e coinvolgeva tutti. Erano un’epoca unica, quasi magica, che ha lasciato un’impronta indelebile nei ricordi di chi li ha vissuti. Per chi ha avuto la fortuna di esserci, erano anche gli anni delle “compagnie”: quei gruppi veri, tangibili, fatti di amici in carne e ossa, altro che i gruppi sui social. Erano tutte persone reali, palpabili… calma, non fraintendetemi. 

Nella nostra città, le più gettonate erano quelle de piassa Fero, veri e propri miti in cui molti sognavano di entrare, per il semplice motivo che erano ben fornite di “materia prima” di prima scelta. Riuscire a farne parte era come far tredici al Totocalcio. 

Per quelli di bocca buona, poi c’erano le più sboldre, come quea dea Cita di Marghera; roba per amanti del rutto libero per intenderci.  

Nel nostro quartiere imperava quella capitanata da Riccardo Beltrame; uno stronzo megagalattico, nelle grazie del nostro parroco don Gianni che, durante gli incontri del venerdì sera in patronato, si riempiva la bocca parlando di eguaglianza, fraternità e inclusione; mentre, entrare a far parte della sua compagnia era ben altra cosa. 

Il tipo era molto selettivo tanto che, per noi quattro e, per le ragazze che lui giudicava troppo “cattoliche” e timorate di Dio, sarebbe stato più facile ottenere la cittadinanza americana senza sapere una parola d’inglese. Ovviamente, per la gnocca, la porta era sempre aperta, comprese alcune compagne militanti in Lotta Continua che però erano munite di certe curve pericolose. 

Per noi, far parte di una compagnia era più che mai necessario, un bisogno primario come mangiare e dormire. Sì, perché negli anni Ottanta, senza una compagnia, eri praticamente un satellite alla deriva nello spazio dell’adolescenza. Ma, purtroppo, sembrava che, da quando avevamo acceso il trasmettitore, su noi di SolaRadio fosse scesa una sorta di maledizione sociale, quella del “voi no!” 

Eravamo “quelli fuori”, facevamo parte della casta degli esclusi: esclusi dalle compagnie, esclusi dalle feste, esclusi dalla camerata di quelli che contavano al campo scuola e persino dal banco dei tramezzini più buoni alla festa dei giovani in parrocchia.  

Allo scopo di trovare una spiegazione logica a tutto questo, continuavamo ad aggirarci come anime in pena nello sgangherato studio di SolaRadio, uno stanzino minuscolo foderato con i cartoni delle uova, nel quale ristagnava un odore di muffa che nemmeno un vento di bora a duecento chilometri all’ora riusciva a scacciare. 

Per trovare una risposta, comunque, bastava semplicemente guardarci. Sembravamo fatti con lo stampo: pantaloni “acqua alta” di un colore che non lo vedevi nemmeno addosso agli anziani in casa di riposo, idem per quei maglioni larghi che indossavamo. Capelli sui quali sembrava avesse nevicato da quanta forfora c’era, viso stravolto dall’acne che se avessimo fatto scoppiare tutti i brufoli ci avresti potuto condire una pasta. Non serviva aver letto i trattati di Freud e Jung per capire che eravamo, e ancora siamo, degli introversi senza alcuna speranza di reversibilità; era sufficiente osservare la nostra postura. La verità era che non sarebbe bastato neanche un abbonamento per dieci pellegrinaggi a Lourdes per renderci cool.  

Ohi fioi, versimo ‘na compagnia?” Paperoga buttò lì la proposta. Forse, nella nostra solitudine sociale, c’era un filo di speranza. 

Pochi giorni dopo, sotto mentite spoglie di un certo Rudy, decise di lanciare un annuncio epocale: 

Ciao gente! Se siete interessati a formare una nuova compagnia, ci troviamo domani pomeriggio alle sette davanti alla pasticceria della Cesarina!” 

Come a tutti noi, non gli interessava tanto fondare una compagnia per la gloria, la fratellanza o lo spirito di gruppo. No, il vero obiettivo era attirare qualche bella squinzia che potesse portare un po’ di “primavera” nel suo gelido deserto sentimentale. 

Al giorno e ora prefissata, munito di occhiali da sole anche se c’era un cielo grigio, il volpone fece finta di passare di lì per caso allo scopo di verificare se all’annuncio avesse risposto qualche bella squinzia. Noi tre, suoi compari di sventura, eravamo appostati a distanza, nascosti dietro un cespuglio come agenti segreti, ma senza la minima dignità. 

Faceva ridere osservare il nostro socio mentre si guardava intorno con aria speranzosa, scrutando ogni angolo della strada. Forse, pensava, sarebbe arrivata qualche Venere in jeans e maglietta, una musa che avrebbe trasformato la sua vita in una commedia romantica. Invece, come da copione, comparvero solo Berto Perdon detto “ipnotisaeo” per via dei suoi occhiali a fondo di bottiglia e Nicola Martin detto “manovea”, il perché ve lo lascio intuire. Due solitari moltoni in perenne batua.  

A quel punto, Paperoga fece quello che ogni grande leader farebbe: un cenno di pollice verso rivolto verso di noi, un gesto chiaro e inequivocabile. Noi, dal nostro nascondiglio, scoppiammo a ridere così forte che si sentiva su tutto il piazzale della chiesa. Era il suo modo per dire: Missione fallita, qui c’è da scappare. E mentre si dileguava con la nonchalance di un ladro beccato con le mani nella marmellata, capimmo una cosa: l’amico non sarebbe mai stato il leader di una compagnia, ma cavolo, sapeva come farci morire dal ridere. 

Per consolarci dal tentativo naufragato, ci rifugiammo in bar da Nane; alla fine comunque, una sorta di compagnia ce l’avevamo. Certo, i fioi del bar, non erano proprio coetanei ma, maestri di vita. A loro modo, dispensatori di perle di saggezza e aneddoti indelebili. Ce n’erano certi che, ogni volta che aprivano bocca, era un po’ come ascoltare un oracolo. 

“’Ste ‘tenti che ea fame fa brutti schersi”. A proposito di compagnie, Gianni Passarella, meglio conosciuto come Nane Passarea, con il tono solenne di chi stava rivelando un segreto universale, più di una volta ci aveva messo in guardia.  

All’inizio pensammo si riferisse alla necessità di mangiare, ma presto capimmo che parlava di un’altra fame. Quella che ti spinge a buttarti sulla prima donna che incontri solo per non restare solo. Se gli chiedevi di spiegarsi meglio, si limitava a indicare sé stesso con un gesto teatrale e un mezzo sospiro.  

Il tutto per confessare che era il classico morto de figa; un uomo che, aveva agito in preda a questa “fame” e ora ne pagava il prezzo, intrappolato in una vita di coppia non appagante. Di questa cosa, avrebbe dovuto farne tesoro EnsoPenso. 

Chi invece ascoltava certi “insegnanti” fin troppo era Paperoga. 

Un pomeriggio, entrammo proprio nel mentre Massimo Zoccarato stava deliziando i presenti con l’ultima delle sue avventure erotiche. I popcorn, come al cinema, non c’erano ma, andava bene lo stesso un bel tonno e cipolline accompagnato da una spuma. 

Ma ti, … ti fumi?” Il Maci stava facendo uno strano gesto con le dita della mano portata a fianco del suo naso. 

Memo Bottacin ci spiegò che l’illustre docente, stava erudendo i presenti su come chiedere a una donna se fosse disposta a fare un certo “lavoretto”. 

Notai che Paperoga seguiva attento come se stesse prendendo mentalmente degli appunti. 

Purtroppo, il giorno seguente avvenne quello che temevo. Durante l’ora di matematica, il troglodita, facendo lo stesso gesto con la mano, si rivolse all’avvenente Veroni; “Professoressa, … lei fuma?” 

Probabilmente quel gesto convenzionale e quella domanda erano di dominio pubblico; in classe scoppiò una risata fragorosa e il deficiente si beccò una nota sul registro. 

Alla fine, anche incidenti di percorso come questi, facevano parte del fascino di essere dei “follower” di certi personaggi. I “vecchi” del bar ci avevano adottati a modo loro, e noi li guardavamo con ammirazione (e un pizzico di paura). Era una compagnia strampalata, ma l’unica che ci aveva accolto. Cominciavamo a capire che il bar da Nane Sbérega era molto più di un locale: era un teatro, una scuola, e forse anche un piccolo circo. 

Inoltre, noi con la nostra piccolissima radio, avevamo qualcosa di unico, qualcosa che nessuna compagnia, nessun grande gruppo organizzato avrebbe mai potuto offrirci: la libertà di esprimerci liberamente nell’universo meraviglioso dell’etere. Esclusi, imperfetti, forse anche sfigati agli occhi del mondo, ma incredibilmente orgogliosi di ciò che eravamo. Quella radio era il nostro rifugio e il nostro megafono, un luogo dove potevamo sparare tutte le cazzate che volevamo e, non era cosa da poco. 

E poi, col tempo, quella compagnia che tanto ci mancava, proprio come voleva fare Paperoga, l’abbiamo costruita con le nostre mani. Sì, perché quella scassatissima emittente che avevamo fondato è diventata molto più di un semplice esperimento: si è trasformata in un rifugio, un punto di incontro per altri esclusi come noi. Anime erranti in cerca di un posto nel mondo, desiderose di far sentire la propria voce, di esistere agli occhi degli altri, proprio come lo eravamo noi. La nostra radio non era soltanto un progetto: era un simbolo di riscatto, una casa per chi si sentiva fuori posto, costruita con le onde dell’etere e il battito dei cuori.  

Non ci importa tanto di non arrivare da nessuna parte quanto di non avere compagnia durante il tragitto. Anna Frank 

Gli anni più belli … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

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