Il mio piccolo Natale

Credo che per ognuno ci sia un momento preciso in cui crolla definitivamente il mito di Babbo Natale. Per me fu quando Paperoga piombò nello studio in modo teatrale, con sottobraccio Christmas Jollies della Salsoul Orchestra. Preso usato a solo cinquemila lire, l’affare del ventesimo secolo.  

La faccia di EnsoPenso, mentre ammirava la tipa in copertina vestita da Babbo Natale – o meglio, svestita – con mezzo lato B in libera esposizione, diceva tutto. Non parliamo poi dei commenti sulle “qualità artistiche” della ragazza. Una sequela di volgarità che non posso ripetere senza rischiare di essere censurato. Poi, prese il disco del Piccolo Coro dell’Antoniano e mimò il gesto di buttarlo dalla finestra. Ormai, quelle canzoncine di Natale che avevano allietato la nostra infanzia erano roba vecchia. La Salsoul Orchestra prese il posto di quel coretto. 

Stavamo crescendo e ormai a Babbo Natale non ci credevamo più, ma continuavamo ad aspettarlo lo stesso; parlo di quello con le sembianze della ragazza in copertina.  

Qua no’ xé drio cagarne nissun”. Tito, aveva il morale sottoterra. Erano giorni che sparavamo a ripetizione quel maledetto tormentone di Christmas Jollies, roba che se avessimo avuto uno spiritello del Natale in studio si sarebbe licenziato per esaurimento nervoso. Eppure, niente: risultati zero. 

Preciso che, per risultati o target come si usa dire per sciacquarsi la bocca con un termine in voga, non intendevamo la quantità di ascoltatori ma … la qualità. 

Per capirci, non ci interessava se chiamava siora Antonia, la nonna del Tito per chiederci se potevamo mandare in onda Bianco Natale che, tra parentesi, pur essendo il singolo discografico più venduto della storia, non avevamo. Ad ognuno di noi interessava che chiamasse una ben precisa persona. Il bello era che nessuno di noi quattro trovava il coraggio di chiamarla per nome. Era come se fosse un segreto di stato, custodito con la serietà di una spia sotto copertura.  

L’unico che osava rompere il silenzio era EnsoPenso, ma a modo suo. Il nostro amico, si prodigava in descrizioni millimetriche su come avrebbe dovuto essere vestita la misteriosa chiamante. Il tipo era molto attento al risparmio sulla stoffa; bastava una finissima magliettina luccicante, una minigonna “lunga” dieci centimetri e stivaloni con tacco venti. Quando ne parlava, vedevamo chiaramente la bava che gli usciva dalla bocca. 

Il mio segreto, la mia grande aspettativa natalizia, era un dono che non potevo mettere sotto l’albero ma che speravo di trovare comunque, avvolto in un sorriso. Speravo che Babbo Natale, con la sua magia goffa e onnipotente, mi concedesse un miracolo: incontrarla di nuovo. Speravo che le onde radio della nostra piccola emittente, fragili e incerte come un aquilone che sfida il vento, potessero arrivare fino a lei dovunque si trovasse. 

Era il primo Natale da quando, qualche anno prima SolaRadio, aveva acceso il trasmettitore, che decidemmo di passarlo in studio a trasmettere in diretta ma – con sommo sconforto – devo ammettere che né io né gli altri tre mandoloni conserviamo un ricordo particolarmente entusiasmante di quel debutto natalizio. Diciamo pure che, come battesimo, fu più simile a un gavettone gelido in piena faccia. 

Dopo il pranzo di Natale, il giorno di Santo Stefano, ci facemmo una colossale scorpacciata… di fegato, quando scoprimmo che la leader dei basabanchi di Azione Cattolica Giovani, tale Caterina Crevatin, aveva organizzato un’interessante festaio (festin con troiaio n.d.r.), nella taverna della sua villetta al quale aveva invitato tutti, tranne qualcuno. I tranne qualcuno eravamo noi quattro più Lele Zanon e Fabio De Bellis. 

Ora, per dovere statistico, va detto che Lele e Fabio erano da sempre fuori dai giochi sociali: li avevano esclusi già al momento dell’iscrizione all’anagrafe, con un timbro “non invitabile” sul certificato di nascita. Ma noi? Noi quattro speravamo ancora in un miracolo natalizio, sentivamo di meritarcelo in quanto ci illudevamo, in qualità di fioi dea radio, di essere dei gran fighi. 

Personalmente, ciò che mi devastò fu che all’uscita della messa di mezzanotte, proprio dalla Crevatin, mi beccai il primo bacio sulla guancia della mia vita, condito da calorosi auguri. Un bacio che, mi fece sentire una persona speciale. Ma quando scoprii del festone il giorno dopo, mi resi conto che quel bacio non era un gesto dolce. Era il bacio di Giuda in versione femminile. Altro che il cattolico spirito di fratellanza Natalizia! 

E come se non bastasse, la batosta finale arrivò a Capodanno. Alle feste di San Silvestro non ci invitò nessuno. Zero totale. Nessuno, tranne la solita siora Antonia, che ebbe il coraggio di chiedere se potevamo animare la festa del gruppo anziani della parrocchia.  

Fu così che le nostre prime festività natalizie da speaker di SolaRadio si trasformarono in una perfetta parabola esistenziale: da “La voce della comunità” a “Gli esclusi di professione”. Una lezione di vita, certo. Ma, almeno per quello che mi riguarda, il mio fegato, da allora, ne sta ancora soffrendo. 

Fu l’inizio di un periodo di amare consapevolezze. Le feste di Natale smisero l’abito fatto di lucine e magie per diventare il teatro di aspettative deluse. 

Cominciava a essere dolorosamente chiaro che non bastava fare i fighi perché parlavamo in una fantomatica radio. Pensavamo che il microfono fosse un’arma segreta, capace di darci fascino e autorevolezza, ma scoprimmo presto che non funzionava così. 

Tito e Paperoga si posero dei seri quesiti di carattere teologico sul significato del santo Natale: ma Gesù Bambino, esiste davvero? Perché, se esiste, come mai non ci manda una squinzia, o almeno un invito al festino dell’ultimo? Ma, soprattutto perché tutte le squinzie della parrocchia se le cuccavano certi stronzissimi miscredenti che non avevano nel curriculum nemmeno un’ora di frequenza al gruppo giovani del venerdì sera? Da quel Natale, smisero di andare a messa alla domenica.  

EnsoPenso, invece, non ebbe il coraggio di voltare le spalle alla sacra romana chiesa. Aveva una fifa blu – no, anzi, rosso fuoco – di finire dritto all’inferno, “là dove sarà pianto e stridore di denti”. Non che fosse un grande frequentatore delle scritture, ma quella frase gli ronzava in testa come una minaccia permanente, sparata a ripetizione da certi preti campioni di terrorismo psicologico. 

Così, per evitare ogni rischio di combustione eterna, decise di unirsi al coro parrocchiale. Oltre alla salvezza dell’anima, aveva anche un altro nobile obiettivo: butar sardon e attirare l’attenzione di una certa ragazza di cui preferiva non fare il nome, ma che noi tutti conoscevano. 

Fu, manco a dirlo, l’inizio delle sue disgrazie. Ma questa, cari lettori, è un’altra storia, è una tragedia che merita un capitolo a parte. 

Io invece, tanto per cambiare, non presi nessuna decisione, rimasi con il culo su due sedie, il mio classico modo di affrontare la vita. 

Anche quest’anno, nonostante tutto, il Natale continua inesorabilmente a presentarsi il 25 dicembre, che palle! Visto che non è legato al giorno preciso del compleanno di quello strano bambino di cui tutti ormai si stanno dimenticando; sono tentato di scrivere al Papa per far cambiare la data, festeggiandolo magari in estate; con buona pace per l’economia globale. 

Davanti alla friggitoria ambulante dove, da qualche anno ci ritroviamo per il rito della mossarea dea vigilia, Paperoga si è presentato, come quella volta, con un disco sottobraccio.  Anche se è quasi Natale era felice come una Pasqua per aver trovato in una bancarella di roba usata il vinile di Last Christmas degli Wham a soli tre euro, l’affare del ventunesimo secolo. 

Già eravamo felici per il puntuale arrivo di quella roulotte dall’aspetto vintage piena de roba onta da magnar; la vista di quella copertina poi, è stata la ciliegina sulla torta o, per dirla in termini natalizi, lo zucchero a velo sul pandoro. 

Vedere George Michael vestito da Babbo Natale, non ci attizzò come la tipa di Christmas Jollies, ma mise in moto una sorta di macchina del tempo ormonale iniziando a scatenare in noi quattro fioi dea radio, una vera e propria tempesta di particolari ricordi.  

Dal dicembre ‘84, anno di uscita di quel disco, per noi quattro, le cose iniziarono ad andare per il verso giusto; mi riferisco all’attività principale che più ci interessava allora (e forse anche adesso) ovvero, ‘ndar in batua, come si dice da noi. In effetti, da quel punto di vista, il Natale del 1984, forse grazie soprattutto a Last Christmas, fu memorabile. 

Tito mi ricordò quella volta che la ballai avvinghiato a ben tre ragazze contemporaneamente; le mitiche fie dea Cita, noto quartiere “bene” (si fa per dire) della nostra città. Al pensiero, sento ancora il “profumo” della bionda con i capelli alla Tina Turner, un misto tra sudore e deodorante da supermercato. La cosa più sconcertante fu quando tirò fuori dalla borsetta, che allora si teneva per terra sulla pista da ballo, un enorme flacone di lacca per capelli che puntualmente si spruzzò in testa. La densa nuvola ricadde anche sui miei, che già avevano addosso quattro chili di gel, irrigidendoli come se fossero di marmo.  

Paperoga alzò il bicchiere di vin brulè per ricordare che a breve sarebbero stati i quarant’anni del famoso 31 dicembre. Quell’ultimo dell’anno lo passammo nella mitica pizzeria “all’inferno” con ben nove fie tutte per noi. Il problema fu il trasporto ma, alla fine, grazie all’Alfasud di mio fratello, alla 127 Special del fratello di Paperoga e alla mitica NSU Prinz detta “vasca da bagno” del papà del Tito, riuscimmo nell’impresa; roba da guinness dei primati.  

Ma il vero record – e qui serve un po’ di suspence – lo battemmo nel nulla cosmico che successe dopo. C’erano nove fie. Nove! E noi quattro. Matematicamente imbattibile. E invece? Niente. Nada. Neanche un appuntamento il giorno dopo. Quelle, com’erano arrivate, si volatilizzarono. Puf! Ancora oggi non sappiamo come sia successo; forse erano delle extraterrestri. Certe cose potevano capitare solo a noi quattro. 

Visto che comunque, grazie a quello straordinario evento, mi ero fatto certi film; da bravo fio de cesa, dopo le feste andai a confessarmi da don Fabio, un pretino appena arrivato nella nostra parrocchia. Vuotai il sacco riguardo il mancato rispetto del sesto comandamento indotto dalla quantità industriale di scanociae che avevo dato a tutte quelle cocche. Mi assolse con un sorriso, dicendomi che forse nemmeno Lui avrebbe creduto a quello che gli avevo raccontato. 

Fu anche l’anno che fregammo il tratto allo stronzissimo Riccardo Beltrame dirottando quasi tutte le squinzie della sua compagnia nella gita che organizzammo sulla neve; una delle primissime iniziative sociali di SolaRadio. Quella volta fu EnsoPenso, adottando il classicissimo metodo della caduta accidentale, ad avvinghiarsi a ben quattro cocche. Quando glielo rammentai, il socio fece un gran sospiro dicendo che quelli erano stati i suoi unici anni felici e pieni di speranze. Vista la sua attuale situazione sentimentale non ho potuto far altro che allargare le braccia. 

Nella penombra le luci della console audio fanno tanto atmosfera natalizia. Mi piace starmene da solo in radio, la nostra fabbrica dei sogni. Rintanato nel minuscolo studio, circondato da pareti che sembrano assorbire i miei sospiri. 

Desidero che tornino certi Natali, ma mi ostino a ignorare una verità che brucia: quei Natali non torneranno. Sono diventati un’eco, un frammento incastonato nella memoria, intoccabile e distante. Un ricordo che mi abbraccia e mi trafigge al tempo stesso. 

Oggi mi trovo immerso in un vortice di aspettative, una corsa frenetica per fare mille cose che non voglio fare, mostrare una felicità che spesso non sento e, non da ultimo, essere costretto a fare gli auguri a chi mi sta sulle palle.  

Davanti a questo microfono continuo a mascherare la realtà, fatta di una vita che probabilmente non avrei mai scelto, di bilanci che non tornano. C’è la tristezza di un mondo che si muove troppo veloce, che sembra aver dimenticato il calore e l’autenticità, rimpiazzandoli con la corsa incessante verso qualcosa che non so neppure definire. 

Intorno a me, il mondo porta il peso delle sue difficoltà: le notizie che rattristano, le disuguaglianze che sembrano insormontabili, le ferite che si fanno sentire più forti nei giorni di festa. L’avvicinarsi del Natale è foriero di ansie e sensi di colpa che non riesco a scrollarmi di dosso; insomma, un incubo. 

A proposito di incubo, alcune notti fa, ho sognato che stavo correndo affannosamente a piedi scalzi sotto un cielo plumbeo, assieme ad un sacco di gente, in prevalenza donne e bambini. Dietro di noi c’era qualcosa di enorme che ci inseguiva e ci spaventava. 

E quando mi sono svegliato, sudato e confuso, ho capito che quel sogno era un riflesso, un’immagine rovesciata del mondo che vedo ogni giorno. Il peso delle sue difficoltà, delle sue ferite, non è solo nei titoli dei giornali o nei racconti lontani. È qui, nel mio cuore, nella mia mente, in quella corsa disperata verso una luce che forse non so più dove trovare. 

Nonostante questo, sono uscito di casa frettolosamente perché nel negozio dove dovevo andare era l’ultimo giorno che facevano il trenta. 

L’aroma di abete mi riporta a quando, bambino, aspettavo sotto l’albero che papà decorava in salotto; restavo lì, in una magica attesa. 

Eh già, l’attesa: ho capito che è proprio lei il cuore nascosto del Natale. 

Anche se ora non è più il fremito di un bambino che sognava di scartare un trenino Lima – perché il Rivarossi, purtroppo, era un lusso troppo grande per le tasche di mio padre ma, un’attesa diversa, più intima e sottile. 

Scopro che mi basta un piccolo Natale, fatto di emozioni minute ma preziose: la meraviglia di un incontro inaspettato, un gesto capace di sorprendermi, uno sguardo che accende, come una piccola fiamma, che sa riscaldare anche il gelo di un cuore distratto. 

Quel piccolo Natale non solo il solo ad aspettarlo. Natale è attesa e, per qualcuno che aspetta un segnale, anche piccolo: una bella canzone che risuona in un momento di solitudine, una frase gentile che esce da questo microfono e arriva a scaldare il cuore; quell’attesa sono proprio io. 

Fai anche tu un buon piccolo Natale 
Spingi il cuore su 
D’ora in poi stai fuori dai tuoi guai 
Se puoi, se vuoi, puoi 
 
Fai anche tu buon piccolo Natale 
Tieni il male giù 
Dopo un po’ finisce anche un momento no 
 
Siamo qui come tempo fa 
In quei giorni di allegria 
In compagnia di chi c’era già 
E non vorremo mai andasse via 
 
Tutto va, ma stiamo ancora insieme 
E se Dio vorrà 
Quella stella che ci guida da lassù 
Ci porterà un piccolo Natale in più 
 
Se è così che la vita va 
E il futuro è nostalgia 
Una bugia detta in verità 
E domani sia quel che sia 
 
Fatto sta che siamo ancora insieme 
Quanto poi, chissà 
Finché il cielo sopra questa notte blu 
Ci lascerà un piccolo Natale in più 

© 2012 Claudio Baglioni. Adattamento di “Have Yourself a Merry Little Christmas”, © 1943 Ralph Blane e Hugh Martin 

Un piccolo Natale in più … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

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