Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne
Capitolo 21 – Giuseppina e il mare
Giugno 1965
La vecchia littorina marron procedeva spedita attraverso i campi, i finestrini erano aperti e mi godetti tutta l’aria calda che impattava contro il viso, i campi cessarono, le case sempre più fitte e alte, i palazzoni, la civiltà. Non appena iniziammo a percorrere il ponte che collega la terraferma a Venezia nella carrozza entrò aria salmastra, respirai a pieni polmoni inebriata dalla felicità mentre il cuore iniziò a battere quasi al ritmo del treno, era il mio primo vero viaggio.
La vecchia littorina sembrava ancor più fuori luogo accanto ai treni imponenti che sostavano solenni sulle banchine della stazione. Io e Teresa, con le nostre valigie consumate dal tempo, sembravamo due migranti che sfuggivano alla morsa della miseria e della fame, sbiadite figure in un paesaggio che non ci apparteneva.
In mezzo a quel trambusto, la presenza rassicurante di Suor Speranza riuscì a togliermi tutta l’ansia che avevo addosso; se non fosse stata lì ad attenderci, dubito che saremmo mai arrivate da sole agli Alberoni dove c’era la colonia elio terapeutica. Quel piccolo e quieto angolo di mare sarebbe stata la casa di Teresa per l’estate, il luogo dove prendersi cura della sua asma.
Joani si era opposto con tutte le forze alla soluzione che il medico aveva prospettato per nostra figlia. Nella sua mente, la nostra partenza per il mare non era una necessità, ma un capriccio frivolo, un lusso che non potevamo permetterci. Ogni spesa per Teresa, anche solo per acquistare il suo primo costume da bagno, lo aveva reso furioso. Povera bambina, fino a quel momento non ne aveva mai posseduto uno. Quanto a me, ovviamente, questo acquisto non era consentito visto che dovevo limitarmi a rimanere, ospite delle suore, solo qualche giorno affinché Teresa si ambientasse.
Alla stazione, Joani era nervoso. Forse perché perdeva la sua serva per qualche giorno. Aveva dovuto lasciarmi qualche soldo per le spese impreviste, e questo lo infastidiva ulteriormente. Il suo disappunto era palpabile, ma io cercavo di non lasciarmi condizionare, concentrandomi invece su Teresa e su quello che ci aspettava.
Mentre seguivamo Suor Speranza, la cui andatura decisa metteva in difficoltà la piccola Teresa, non potei fare a meno di rimanere incantata dal primo assaggio di Venezia. Non avevo mai viaggiato, mai fatto il viaggio di nozze, mai visto nulla al di là del mio piccolo paese. Venezia sembrava una città costruita per la bellezza, per i sogni. Non c’erano campi aridi e monotoni da lavorare, nessun lavoro pesante che curvava la schiena. Ogni cosa, ogni angolo, sembrava partecipare a una festa senza fine: la gente passeggiava sorridente, elegantemente vestita, come se non esistesse altro che l’allegria.
Io e Teresa, invece, con i nostri abiti poveri e semplici, sembravamo spuntate da un altro mondo. Le donne che incrociavamo indossavano vestiti leggeri e svolazzanti, colori vivaci che danzavano al vento, e le loro mani, perfette e curate, risplendevano con unghie smaltate e senza traccia di fatica. Guardai le mie mani, rovinate dal lavoro nei campi, con la terra perennemente incastrata sotto le unghie. Un senso di vergogna mi assalì.
Quando salimmo sul vaporetto, il terrore mi colse. Fino a quel momento, i miei piedi avevano sempre calcato la terraferma, e ora mi trovavo su una barca che si staccava dal pontile e cominciava a dondolare dolcemente sulle onde. Per un istante fui presa dal panico, aggrappata disperatamente a una sbarra metallica, rigida come una statua. Teresa e Suor Speranza, divertite, risero di cuore vedendo la mia goffa reazione, e presto anch’io mi lasciai andare, sorridendo di quella mia paura irrazionale.
Fu in quel preciso momento, tra le risate e l’ondeggiare dolce del vaporetto, che mi resi conto di una cosa importante: quella doveva essere la mia prima vacanza. L’aria salmastra e la luce di Venezia stavano lentamente dissolvendo le preoccupazioni della mia vita quotidiana, e per la prima volta, mi permisi di sognare.
Come prevedevo, l’ingresso in colonia di Teresa non fu traumatico. In fin dei conti anche lei era una ruspante piccola donna di campagna avvezza ai sacrifici e alle scomodità per cui, non le fu difficile abituarsi. Per noi due, tutto quello che ci circondava era bello e nuovo, a cominciare dal mare.
Scoprii il mare la sera stessa del nostro arrivo. Alloggiavo al Lido di Venezia, ospite delle suore. Don Guerino, quel sant’uomo, aveva pensato fosse meglio che restassi accanto a Teresa nei primi giorni di colonia, affinché si ambientasse. Telefonò a suor Speranza, la superiora della scuola materna del Lido nonché sua cugina, chiedendole con gentilezza se potesse ospitarmi. l buon parroco conosceva il mio vissuto, intuii che l’aveva fatto anche per darmi la possibilità di starmene per qualche giorno da sola, in santa pace.
Era la prima volta che uscivo da sola per una passeggiata, e la sensazione di libertà mi eccitava. Camminavo lungo quel meraviglioso viale alberato con una leggerezza nuova nel cuore. La vista delle persone sedute ai tavolini dei bar, sorridenti e spensierate, mi riempiva di gioia. Mi ripromisi che, prima di tornare a casa, io e Teresa ci saremmo concesse un gelato, sedute come due signore a quei tavolini, alla faccia di Joani.
Il lungomare, con la sua grande terrazza affacciata sulla spiaggia, era a pochi minuti dall’asilo. All’improvviso, una folata di vento mi accarezzò il volto, e il mare mi si parò davanti con il suo infinito orizzonte, come una rivelazione. Rimasi senza fiato. Il suono delle onde che si infrangevano sulla battigia, in un continuo andirivieni dolce e misterioso, copriva ogni altro rumore.
Con un misto di timidezza e meraviglia, iniziai a scendere i gradini della terrazza. Mi tolsi istintivamente le scarpe: la sabbia sotto i piedi era soffice, come un materasso accogliente. Attorno a me, non c’era nessuno. Mi sentii un’esploratrice solitaria, scopritrice di una terra nuova e sconosciuta. Con passo lento, quasi reverente, mi avvicinai alla riva. Fu il mare, con un’onda gentile ma più lunga del solito a venirmi incontro per primo, bagnandomi i piedi. Per un attimo, il riflusso mi fece perdere l’equilibrio, la testa mi girò, ma non era una sensazione spiacevole. Era una vertigine di felicità, come se il mare mi avesse accolto nel suo abbraccio. Continuai a camminare, immergendo i piedi nell’acqua, lasciandomi cullare dal ritmo delle onde.
Mi fermai, godendomi la brezza marina che scivolava tra le gambe mentre l’acqua defluiva e poi tornava, più forte, a sommergermi i piedi. Inspirai profondamente, chiudendo gli occhi, cercando di catturare tutta l’aria salmastra possibile. Era diversa dalla brezza che sentivo a casa, nei campi. L’aria del mare era più densa, si insinuava persino sul palato, lasciandomi un sapore salato, intenso.
Rimasi a lungo con lo sguardo fisso sull’orizzonte. Quella linea perfetta, dove il cielo e il mare si incontravano, sembrava chiamarmi verso l’ignoto, verso un infinito che mi affascinava e mi faceva paura allo stesso tempo. Mi sentivo piccola, ma stranamente completa.
Mi accorsi solo allora che il mio vestito a fiori, quello buono della festa, era completamente bagnato. E non ero più sola. Poco distante, due ragazzi si abbracciavano, ridendo e scambiandosi baci. Ci scambiammo un’occhiata imbarazzata e, con discrezione, ci allontanammo l’uno dall’altro. Li osservavo di nascosto, da lontano. Nei loro sorrisi, nei loro gesti complici, vedevo tutto ciò che mi era stato negato, tutto quello che avevo irrimediabilmente perso.
Un’ondata di tristezza e rabbia, mi travolse all’improvviso. La mia giovinezza, il tempo in cui tutto avrebbe dovuto essere possibile, era ormai svanita. L’amore, quello vero, quello che avevo sognato per anni, sembrava ormai destinato a rimanere solo un desiderio inappagato, confinato per sempre nei miei sogni più intimi.
I due ragazzi, nel frattempo, si stavano allontanando mano nella mano, non li persi di vista. Vidi che lui stava infilando un foglio di carta in una bottiglia che, subito dopo lanciò in mare. Purtroppo, questa non fece molta strada, destino volle che le onde, da lì a poco, la sospinsero nuovamente a terra proprio ai miei piedi.
Ormai i due erano spariti e io, presa dalla curiosità, raccolsi la bottiglia. Con non poca difficoltà, aiutandomi con un bastoncino, tirai fuori il biglietto.
Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai.
Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio.
Se questo è errore e mi sarà provato, io non ho mai scritto e nessuno ha mai amato.
Ama chi ti ama, non amare chi ti sfugge, ama quel cuore che per te si strugge.
Non t’ama chi di amor ti dice, ma t’ama chi guarda e tace.
William Shakespeare
8 giugno 1965 Maria e Massimo .. per sempre
I miei studi si erano interrotti alla terza elementare, nonostante questo, mi piaceva molto leggere ma, soprattutto, capivo quello che leggevo.
Battei con forza i piedi sulla sabbia, mi arrabbiai con Dio, lui che fondava tutto l’universo sull’amore, mi aveva negato la possibilità di innamorarmi veramente di un uomo. Perché, solo per un istante mi aveva fatto assaporare un vero bacio e aveva permesso che il mio cuore battesse forte poi, più nulla per l’eternità. Perché vivere perennemente con lo struggente desiderio di un altro uomo e, per questo, sentirmi una peccatrice destinata a perire all’inferno.
Rimisi il foglio nella bottiglia e, con tutte le mie forze, la tirai piangendo in mare.
Ormai quello era l’uomo che avevo accanto, quella era la mia vita, che potevo fare? Inutile era ripetermi che mi sarei meritata una vita diversa. L’amore sarebbe per sempre rimasto dentro le pagine sgualcite dei miei fotoromanzi, sogni, solo e, per sempre, sogni.
Continua …
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