Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare. – Luigi Pirandello
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Fio dei Fiori – Parte II^ Storie di due donne
© 2009 – 2024 Michele Camillo
Capitolo 17 – Caigo e aguasso
La nottata passata al pronto soccorso con la Bepina, mi ha devastato fisicamente e moralmente. Ho ancora nella testa le urla di Gino e le porte sbattute da Teresa. Come sempre, ero reo di non curarmi della situazione lasciando tutto sulle loro spalle. Sono stato fermo in piedi in mezzo al corridoio della casa nova, paralizzato, senza dir niente; tanto, non c’era niente da dire.
Una gran bella giornata oggi, pensare che mancano pochi giorni a Natale.
Sin da bambino, ogni anno, in questo periodo, sogno che arrivi la neve. E invece, solo e sempre: caigo e aguasso, che tristezza!
È dalle cinque e mezza del mattino che sto guidando a casaccio per desolate stradine di campagna senza una meta precisa e, per giunta, con un tale gaigo da non riuscire a vedere oltre la metà del cofano. Il tepore del riscaldamento e la luce soffusa del cruscotto creano un piacevole senso di isolamento, mi concentro sulla guida quel tanto che basta per non andare a sbattere contro uno dei platani che ne delimitano i bordi.
Questo graticolato di stradine strettissime lo conosco a memoria, mi pare di guidare a ritroso nel tempo. Da bambini, a farle in bicicletta ci sembravano infinite. Sognavamo il giorno in cui ci saremo comprati la macchina e, da quelle strade saremo partiti sgommando verso posti lontanissimi invece, almeno fino a quattro mesi fa, non siamo mai andati molto lontano.
Per fortuna la musica sembra non abbandonarmi mai, nella testa echeggia la canzone che trasmettevano alla radio mentre, tutti eccitati e agitati, stavamo andando in aeroporto per il nostro primo vero viaggio.
Ripenso a tutti gli anni finora scivolati via velocemente nella routine e nella monotonia più piatta che possa esistere, piatta e monotona come i campi che mi circondano. Li contrappongo a questi ultimi mesi vissuti intensamente. Strano come può cambiare in pochi mesi quello che non cambia in anni.
Il sonno comincia a farsi sentire ma, non ho voglia di tornare a casa. Come un automa mi dirigo verso quello che rimane della nostra Woodstock. Sta lì, dietro quel gruppo di villette a schiera abitate solo il sabato, la domenica e altre feste comandate. El gaigo rende l’atmosfera ovattata amplificando il senso di solitudine, mi deprimo nel vedere le villette addobbate con decorazioni falso country e i babbi Natale che si arrampicano sulle terrazze, il tutto rigorosamente made in China. Mi soffermo per un attimo a guardare la mia immagine riflessa in una delle porte finestre, quasi avessi bisogno della conferma di essere triste. Inutile illudermi, non esiste più la piccola Woodstock, del luogo dei nostri sogni, era rimasto solo il boschetto di gasie.
Eppure, pur sapendo che mi impantanerò tutto, entro nel campo. In fin dei conti è il posto giusto dove stare in un momento come questo. Ho un freddo fastidioso alla punta dei piedi, i capelli ormai tutti bagnati da questa maledetta umidità e il naso che inizia a colarmi, mi frugo in tasca e come sempre quando servono, niente fazzoletti.
Una lunga inspirazione poi, fuori l’aria piano piano per far durare a lungo la fumata di vapore che esce dalla bocca. Appoggiato con la schiena al parapetto del ponticello, cerco di ricordarmi con precisione il posto dove sorgeva la nostra collina.
In momenti come questo mi piacerebbe avere il vizio di fumare per potermi accendere una sigaretta, serve quando non si sa che cavolo pensare e soprattutto che cavolo fare.
Abbiamo avuto la sensazione che quel viaggio in ambulanza sarebbe stato l’ultimo. Dico abbiamo perché la prima è stata lei. In un momento di straordinaria lucidità, mi ha detto che ‘sto giro finalmente andava “di là”.
Sembrava un’altra, attraverso la maschera dell’ossigeno, serena in volto, mi sorrideva. Invece di strillare continuamente e richiamare l’attenzione del personale come usualmente faceva in occasioni simili, si mise a farmi una sorta di intervista quasi a voler recuperare tutte le informazioni finora perse durante il periodo della sua demenza; mi chiese del viaggio in America. Stesa sulla barella si comportava come una vera mamma desiderosa di ascoltare pazientemente ciò che suo figlio ha da raccontare. Presi allora la palla al balzo e ricominciai con la storia del libro. Mentre le parlavo, fissava il soffitto sorridendo, a un certo punto mi diede un buffetto sulla guancia e sospirò. Io continuavo a farle domande ma lei non disse niente per il resto della nottata.
Mentre la guardavo, una frase della Bibbia si insinuò nella mia mente, come un sussurro dal passato: “Anche se perde il senno, sii misericordioso ...” Quelle parole, semplici e profonde, mi colpirono con la forza di una verità che avevo a lungo ignorato. Un groviglio di emozioni mi avvolse, e senza poterlo controllare, iniziai a piangere.
Le lacrime non erano solo un segno di commozione; erano il risultato di anni di sensi di colpa che avevo sepolto sotto strati di orgoglio e ostinazione. Per tutta la vita avevo disprezzato i miei genitori, specie mia madre, sentendoli inadeguati, incapaci di comprendere il mio mondo e di rispondere alle mie aspettative. Li avevo giudicati con durezza, incapace di vedere oltre la mia frustrazione. Non li sentivo all’altezza del loro ruolo, non per quello che mi davano, ma per quello che non riuscivo a ricevere da loro.
Mi ritornavano in mente le parole di Teresa e Gino, che più volte mi avevano detto che la mia unica preoccupazione era fuggire. Ed era vero. Tutta la mia vita era stata una corsa disperata per sfuggire a quel senso di soffocamento, a quella famiglia che mi sembrava una gabbia. Ogni mia scelta, ogni decisione presa in fretta e furia, aveva un unico scopo: mettermi il più possibile alle spalle quel mondo che mi stava stretto, che non riuscivo ad accettare.
Li criticavo, li giudicavo con sdegno per il loro carattere, per la loro ignoranza, per il loro essere fuori dal tempo. Mi sembravano arretrati, incapaci di stare al passo con i cambiamenti del mondo moderno. Ma mai, nemmeno per un momento, avevo cercato di mettermi nei loro panni. Non avevo mai provato a vedere la vita attraverso i loro occhi, non avevo mai considerato le sfide che avevano affrontato, le battaglie che avevano combattuto in silenzio.
Mi resi conto di quanto fossi stato ingiusto. I miei genitori non erano perfetti, ma chi lo è davvero? Avevano fatto del loro meglio con quello che avevano, con le risorse, le esperienze e le conoscenze che possedevano.
In quel momento, decisi che era tempo di fare pace con il passato, di guardare i miei genitori non più con disprezzo, ma se non con l’affetto, almeno con il rispetto che meritavano. Non potevo cambiare le scelte fatte, ma potevo cambiare il mio atteggiamento verso di loro, riconoscendo finalmente il loro valore. E con questa nuova consapevolezza, sentii che una parte del mio cuore, quella che avevo chiuso a chiave per troppo tempo, si stava finalmente aprendo.
Le gocce cadono insistenti, prendo il libro che ho in tasca, ho quasi voglia di far cancellare quella frase dalla pioggia in modo da dire addio a tutte le fantasticherie sulle mie origini.
Niente, non ne ho il coraggio. In fin dei conti quel mistero è giusto che rimanga per sempre.
Continua
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