Blowin’ in the wind

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 16 – Blowin’ in the wind

Alzai lo sguardo verso il cielo, osservai la scia di un aereo che tracciava una linea sottile attraverso una delle poche nuvole sparse in quel mare di azzurro limpido. Un velo di malinconia mi avvolgeva, consapevole che l’indomani ne avrei preso uno che mi avrebbe riportato alla realtà, lontano da quel breve momento di libertà. Avrei ripreso il mio posto nella grigia routine quotidiana, schiacciato da un destino che conoscevo fin troppo bene; sapevo già cosa aspettarmi. 

Mia sorella e mio cognato non mi avrebbero accolto con calore, non ci sarebbero state domande curiose sul viaggio. Anzi, il loro sguardo giudicante avrebbe detto tutto, un muto rimprovero per aver lasciato mia madre sola, per aver scelto l’evasione piuttosto che il dovere. 

In ditta, paron Franzin mi avrebbe accolto con lamentele amare, il solito piangere il morto per i clienti che diminuivano giorno dopo giorno, inghiottiti dalla sempre più numerosa e agguerrita concorrenza. Parole per farmi capire che mi stava stipendiando per puri motivi caritatevoli. 

Avrei sicuramente fatto el sgrandesson con e bee fie della pasticceria. Era un gioco al quale non sapevo rinunciare, una recita che ripetevo con una costanza quasi ossessiva, perché, alla fine, mi piaceva far colpo su di loro, nutrendo quel bisogno insaziabile di essere visto, di apparire qualcosa di più di ciò che realmente ero. 

Qualche attimo di gloria che sarebbe durato il tempo di incontrare lo stronzissimo Riccardo Bellè. Quel tizio aveva l’incredibile talento di trasformare anche il momento più brillante in un’istantanea di pura miseria. Mi avrebbe fatto sentire la solita merda. In fin dei conti eravamo stati “solo” in America. E che sarà mai? Lui c’era già stato per ben due volte!  La prima, in gita familiare con papi e mami. La seconda, in una di quelle vacanze studio sponsorizzata da papi; durante la quale, a detta sua, si era trombato le ragazze che alloggiavano in casa con lui, quella tettona della sua tutor e, la padrona di casa, facendo becco il marito ovviamente.  

E non era finita qui. Avrebbe sicuramente sfoderato la carta vincente: il suo ultimo viaggio a Curaçao, dove aveva fatto immersioni in acque cristalline con la bellissima Sophia, ultima sua compagna in ordine cronologico. Ovviamente, non avrebbe omesso, il racconto, fitto di particolari dei vari slinguacciamenti e porcate varie fatte a ventimila leghe sotto il mare. 

Devo ammetterlo, mi sarebbe piaciuto tornare al paesello con la speranza di sfoderare lo scoop del secolo, la bomba che avrebbe fatto impallidire chiunque: io, non figlio di Joani Nosea e Bepina Milanese, ma di una tale Kate chi-lo-sa, in realtà il vero nome di una famosissima cantautrice folk americana. Già mi immaginavo i titoloni sui giornali, le interviste a raffica in Tv. Vedevo Riccardo Bellè, per una volta, in crisi. Proprio come Gastone, il fortunato cugino di Paperino, costretto a mangiarsi il cappello quando, raramente, la sfiga lo beccava in pieno. 

La realtà, a cui mi ostinavo a non rassegnarmi, era purtroppo ben diversa: ero costretto a confrontarmi con la mia vita di umile tecnico tuttofare, sfruttato e sottopagato, figlio di due poveri contadini. Ogni giorno mi trovavo a fare i conti con la monotonia e la fatica di un lavoro che mi lasciava poco spazio per i sogni. E come se non bastasse, il quadro era ulteriormente reso più amaro dal fatto che non avevo neanche una donna al mio fianco, una compagna di vita con cui condividere l’esistenza. 

Invidiavo chi sembrava aver trovato il proprio posto nel mondo, mentre io mi sentivo intrappolato in una vita che non avevo scelto, una vita che non mi apparteneva. Ogni tanto mi chiedevo se ci fosse davvero qualcosa di più per me, qualcosa oltre quella routine che sembrava non finire mai. Ma ogni risposta che mi davo tornava a scontrarsi con la realtà: quella di un uomo solo, con il cuore pieno di desideri inappagati e con in tasca pochi soldi e tante fantasie. 

Non mi consolava il ricordo di tutte quelle miglia percorse, sospesi tra sogno e asfalto, in sella alle due Harley. Su una, c’eravamo io e James, mentre sull’altra, quella del generoso Tim che, in nome della nostra amicizia ormai consolidata, cedette volentieri il manubrio, viaggiavano Sega e il Bitol. Fu una scoperta di quell’insolita America rurale nascosta ai più, tanto vasta quanto intima, un luogo che sembrava abbracciare l’immensità e al contempo svelare piccoli angoli di autenticità. 

Non so quante pagine Sega abbia riempito nel suo misterioso quadernetto con Snoopy in copertina. Ogni volta che lo vedevo scribacchiare con aria assorta, mi chiedevo quali segreti stesse immortalando su quelle pagine. Era come se quel quaderno fosse una parte di lui, un’estensione della sua mente, e forse anche del suo cuore. Ma non ha mai voluto mostrarcelo, custodendolo come un segreto prezioso, come un tesoro che solo lui poteva capire e apprezzare. Ogni tanto, un sorriso enigmatico si allargava sul suo volto mentre scriveva, e io restavo lì, a metà tra l’ammirazione e la curiosità, consapevole che c’era un mondo intero racchiuso in quei fogli che mi sarebbe rimasto per sempre sconosciuto. 

Non saprei dire cosa stesse architettando il Bitol, sempre intento a stringere mani con fricchettoni dal sorriso largo e dagli occhi pieni di storie. Sembrava essere ovunque, tra la gente, a scambiare idee e a raccogliere frammenti di vita da sconosciuti che, per qualche motivo, si fidavano immediatamente di lui. Era un camminatore instancabile in quel vasto giardino umano, dove ogni incontro sembrava piantare un seme nella sua mente fertile. Ogni volta che lo osservavo, mi colpiva la sua capacità di connettersi con gli altri, di aprire porte che per me rimanevano chiuse, e di far germogliare qualcosa di nuovo da quelle esperienze. 

E poi c’ero io, in piena confusione, ancora intrappolato tra dubbi e incertezze. Mentre loro sembravano raccogliere certezze, io mi ritrovavo a vagare in un labirinto di pensieri irrisolti. Eppure, nonostante tutto, una cosa era chiara: Sega e il Bitol tornavano a casa con idee ben radicate, come semi pronti a germogliare. Forse avevano trovato risposte, o forse solo nuovi interrogativi, ma quelle idee sembravano avere un peso, una sostanza che io ancora cercavo disperatamente. Li guardavo con un misto di invidia e ammirazione, chiedendomi se anche io, un giorno, sarei riuscito a trovare la mia strada, a dare un senso a quel caos che ancora mi avvolgeva. 

Mentre loro piantavano i semi di una nuova comprensione, io mi chiedevo se avessi mai avuto il coraggio di coltivare i miei, di affrontare le mie paure e di trovare, finalmente, un terreno fertile dove far crescere qualcosa di vero.  

I nomi delle persone che incontrammo sembravano persi nel vento, sfuggenti come i paesaggi che scorrevano accanto a noi. Erano nomi che, come granelli di sabbia, scivolavano via dalle mani della memoria, mentre il tempo ci trascinava verso nuove destinazioni. Eppure, nonostante la nostra natura introversa, radicata nella terra come i contadini della razza Piave, li abbiamo abbracciati tutti, uno per uno. Non ci importava chi fossero, da dove venissero o dove fossero diretti. Ciò che importava era quell’istante di connessione, fugace ma reale, in cui le loro vite si intrecciavano con la nostra. 

E ciò che li accomunava, più dei loro nomi dimenticati, era la fede. Non una fede cieca in un’autorità lontana, ma una fede profonda in qualcosa di più grande di loro stessi. Credevano in un ideale, in un progetto, in un sogno condiviso che superava i confini delle parole e delle convenzioni. Credevano in Dio, non come un giudice severo, pronto a punire ogni deviazione, ma come una presenza che non giudica né castiga, che accoglie e comprende. La loro religiosità non era fatta di regole e riti vuoti, ma di una spiritualità vissuta, sentita, vibrante. 

Quella loro convinzione, così incrollabile e genuina, sgretolò il fragile palcoscenico su cui si ergeva la mia fede, costruita su una cieca obbedienza ai precetti appresi al catechismo. Era come se avessi stipulato un contratto con Dio, una sorta di polizza assicurativa sulla vita eterna: segui le regole, non farti troppe domande, e sarai ricompensato con l’eternità. Altrimenti, finisce tutto a schifio. 

La mia fede, fino a quel momento, non era stata altro che una negoziazione silenziosa, una transazione in cui il comportamento corretto prometteva un premio ultraterreno, mentre ogni deviazione, anche solo intenzionale, era punita con la dannazione. Ma quella loro certezza, così limpida e priva di compromessi, mi fece rendere conto di quanto fosse vacillante e priva di sostanza la mia fede, spingendomi a mettere in discussione tutto ciò che avevo accettato senza mai veramente comprendere. 

Mi sentii uno senza basi, che immobilizzato dalle sue paure, non riesce a prendere nessuna decisione. Un viandante smarrito in un mondo dove tutto sembrava avere un senso tranne la mia esistenza. Fu come se mi trovassi davanti a uno specchio, e in quello specchio non riconoscessi più me stesso. 

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Quel sabato di fine estate, sul pontile davanti all’ospedale al mare, aleggiava ancora la magia del nostro viaggio. Il Bitol, con il suo chitarrino, che in realtà era un ukulele, riempì l’aria con le note della stessa canzone che, sotto il cielo stellato di quel lontano agosto dell’81, ci aveva fatto sognare in cima alla collinetta della nostra piccola Woodstock domestica. 

How many roads must a man walk down 
Before you call him a man? 
How many seas must a white dove sail 
Before she sleeps in the sand? 
Yes, and how many times must the cannon balls fly 
Before they’re forever banned? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind. 

Yes, and how many years can a mountain exist 
Before it is washed to the sea? 
Yes, and how many years can some people exist 
Before they’re allowed to be free? 
Yes, and how many times can a man turn his head 
And pretend that he just doesn’t see? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind. 

Yes, and how many times must a man look up 
Before he can see the sky? 
Yes, and how many ears must one man have 
Before he can hear people cry? 
Yes, and how many deaths will it take ‘til he knows 
That too many people have died? 

The answer, my friend, is blowin’ in the wind 
The answer is blowin’ in the wind.  

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Quante strade deve percorrere un uomo 
prima che lo si possa chiamare uomo? 
Quanti mari deve sorvolare una colomba bianca 
prima che possa riposare nella sabbia? 
E quante volte le palle di cannone dovranno volare 
prima che siano per sempre bandite? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Quanti anni può esistere una montagna 
prima di venire lavata dal mare? 
Quanti anni devono vivere alcune persone 
prima che possano essere finalmente libere? 
E quante volte un uomo può voltare la testa 
fingendo di non vedere? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto 
prima che riesca a vedere il cielo? 
E quante orecchie deve avere un uomo 
prima che possa sentire la gente piangere? 
E quante morti ci vorranno affinché egli sappia 
che troppe persone sono morte? 

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento 
La risposta sta soffiando nel vento 

Non riuscii a scoprire chi fosse Kate, il suo nome rimase per sempre un enigma avvolto nel mistero delle dolci colline in terra d’America. Ma, attraverso quel viaggio, capii meglio chi fossero Adriano e Armando. E forse, in qualche modo, anche un po’ di più chi ero io. 

Non ho avuto le risposte che cercavo ma, come dice la canzone, forse anche quelle stavano soffiando nel vento. 

Fine della prima parte

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