Fioi dei fiori

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 15 – Fioi dei fiori

La prima a parlarci del Vietnam, a noi tre Mul, fu il mio amore, la cara maestra Lauretta. Ricordo ancora con chiarezza come i suoi racconti, seppur dai toni drammatici, non fecero altro che alimentare la nostra immaginazione, trasformandosi in ispirazione per le nostre battaglie con i soldatini. Quelle storie lontane, che allora ci sembravano solo avventure e nulla più, si materializzavano nei nostri giochi, senza che potessimo davvero comprendere la portata di quella tragedia.

Oltre trent’anni dopo, tra le dolci e verdi colline di Bethel, fu James a tenerci la sua personale lezione sul Vietnam. Il tempo e l’esperienza avevano cambiato il modo in cui percepivamo quelle storie, ora non più semplici fantasie infantili, ma riflessioni su una realtà complessa e dolorosa. Le parole di James non erano più solo racconti, ma un ponte tra il passato e il presente, un invito a capire e a ricordare.

Anche il nostro James era un reduce, notammo solo il giorno dopo la protesi alla gamba. ”La mia storia non è diversa da quella di tanti altri”, disse per minimizzare la cosa.

In effetti, purtroppo, era la triste realtà. Fu uno fra i tanti sprovveduti ragazzi ammaliati dagli arruolatori dell’esercito. Come James, la maggior parte di loro, proveniva dalle immense zone rurali degli States, venivano mandati in guerra allo sbaraglio facendogli credere che sarebbero diventati degli eroi. La fortuna, chiamiamola così, volle che, appena giunto al fronte, si beccò una sventagliata di proiettili. Fu rispedito al mittente imbottito di psicofarmaci e senza una gamba.

La vera fortuna, invece, fu quella di abitare a Callicoon, una ventina di miglia da Bethel. Il 14 agosto del ’69, notò un gran trambusto sulla strada che portava a White Lake, mosso dalla curiosità, andò a vedere che cavolo stava succedendo. Non credeva ai suoi occhi, migliaia di persone si stavano dirigendo sulla collina, si sentì subito, però, un pesce fuor d’acqua. Tutta quella gente sembrava molto diversa da lui, sicuramente più felici. 

Per quanto lo riguardava, la felicità l’aveva abbandonato da parecchio tempo, il Vietnam gli aveva dato il colpo di grazia, lo aveva completamente svuotato di tutte le emozioni positive, inoltre, lo stava affliggendo uno dei più grandi mali, la depressione. Non sapeva proprio che fare in mezzo a quella accozzaglia di capelloni, tanto valeva tornare a casa.

“Hey amico, cosa ti è successo?”, bastò quella domanda per farlo tornare sui suoi passi. Quel 14 agosto del ’69, qualcuno iniziò finalmente ad ascoltarlo, a fargli capire che ci sarebbe stato un futuro. Era Tim, quel giorno iniziò la loro storia.

Il 18 agosto del ’69, la zona del mitico raduno, ne uscì alquanto devastata. A noi invece, quarant’anni dopo, offrì uno spettacolo incantevole. Il grosso della gente se ne era andata ordinatamente, quell’ultima sera regnava un silenzio surreale, solo il vento riusciva saltuariamente a contrastarlo facendo ondeggiare il mare d’erba. 

“Come on, Muls, it’s time to say goodbye.” James ci guardò con un sorriso malinconico mentre il sole, una rossa palla di fuoco, si adagiava lentamente dietro le colline, tingendo il cielo di sfumature arancioni e rosse. L’aria era dolce, intrisa del profumo della terra e del ricordo di quel luogo sacro. James aveva scelto questo momento per il nostro addio, proprio lì, accanto a quella lapide che commemorava Woodstock ’69.

Non eravamo presenti a quell’epoca, ma per Tim e James era come se il nostro spirito appartenesse a quei giorni di pace e musica, di ribellione e sogni condivisi. Per loro, noi tre eravamo figli dei fiori, anche se nati in un’epoca diversa, ma con il cuore e l’anima sintonizzati su quelle stesse onde di libertà.

Mentre ci avvicinavamo alla lapide, la luce del sole calante sembrava far brillare le parole incise nella pietra. Il vento soffiava leggero, sussurrando antiche canzoni e portando con sé frammenti di ricordi di chi c’era stato davvero, in quei giorni lontani.

Ci fermammo per un momento in silenzio, lasciando che l’energia del luogo ci attraversasse. Era come se potessimo sentire il battito di quei giorni, l’eco delle voci che avevano cantato per la pace, la risata di chi credeva in un mondo migliore. Non eravamo lì nel ‘69, eppure, in quel momento, sembrava che fossimo sempre stati parte di quel sogno.

Il Bitol, con gli occhi lucidi, si chinò per raccogliere un ciuffo d’erba da portare con sé, come a voler trattenere un pezzetto di quel luogo sacro. 

Sega invece, guardando l’orizzonte ormai scuro, sospirò, consapevole che quel tramonto non segnava solo la fine di un giorno, ma la fine di un capitolo della nostra avventura.

“Addio, Woodstock”, sussurrò, con la voce rotta dall’emozione. Capivo che, almeno per lui e il Bitol, non era un addio definitivo. Quel luogo, quel tempo, sarebbero rimasti come una luce guida delle loro vite; mentre io, continuavo a procedere a tentoni nella fitta oscurità causata da dubbi, paure e incertezze.

“Non importa dove andrete ora e cosa farete”, disse James infine, rompendo il silenzio, “porterete sempre con voi lo spirito di questo posto. Siete figli dei fiori, e lo sarete per sempre.”

Continua …..

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