Woodstock 40

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 14 – Woodstock 40

Quella mattina alla stazione dei pullman realizzammo che eravamo giunti al clou del nostro viaggio o meglio della nostra missione. Era assurdo, in pochi giorni avevamo attraversato i cieli di mezzo mondo ma, quando salimmo su quell’autobus, ci prese un’ansia mai provata prima; si avvicinava il momento tanto atteso, il Bitol avrebbe realizzato il suo sogno e io avrei forse scoperto qualcosa su Kate. Le aspettative del criptico Sega non le conoscevo ma, fatto sta che sembrava il più ansioso di tutti.

Al moro, l’autista di quel pullman semivuoto per Monticello, doveva esser parso strano avere a bordo tre turisti stranieri, visto che, ogni tanto, si voltava verso di noi ridendo. Scoprimmo solo dopo che c’erano, in occasione del raduno, delle corse speciali che portavano direttamente sul sito alla velocità della luce.

“I è de legno”, furono le prime parole di Sega una volta scesi; si riferiva ai pali dove erano appesi centinaia di fili. In effetti, una cosa del genere ce la saremo immaginata in uno dei nostri paesini ma non negli evolutissimi Stati Uniti d’America, fatto sta, che quel posto ci parve strano davvero, in netto contrasto con la metropoli. Stava per piovere e non avevamo la ben che minima idea della strada da prendere. Tutti e tre fummo presi dallo scoramento, ci guardammo attorno pensando a che cosa ci stessimo a fare li. In giro non c’era nessuna traccia o indicazione del mitico raduno, tanto da farci dubitare di essere nel posto giusto ma, soprattutto, nel giorno giusto.

Poco convinto Sega disse che intanto sarebbe stato meglio dirigersi verso la Rd. 117, ovvero la strada che portava in direzione di White Lake, sommessamente uscì dalle sue labbra “mal che vaga sea fasem a piè”, ero già parecchio stanco, a sentire quella frase mi caddero i cosiddetti.

All’incrocio con lo stradone, c’era solo un’officina in tutto e per tutto simile a quella del Bitol, tanto era decadente. Solo innumerevoli rottami di vecchi camioncini, nessuna indicazione riguardo la nostra destinazione. Il Bitol sparì improvvisamente al di là della strada, io e Sega cademmo in un profondo disorientamento spaziale e temporale, in quel momento, non ci rendevamo nemmeno conto se fosse mattina, pomeriggio o sera.

Un colpo di clacson ci fece trasalire. Sembrava proprio che il capellone riccioluto che si sporgeva dal finestrino di quella specie di camper grande come un autobus, ce l’avesse con noi. Pensammo che il Bitol, e relativo chitarrino, fossero finiti sotto quel bestione. Fortunatamente dopo due secondi lo vedemmo apparire davanti al muso, si sbracciava come un forsennato facendoci cenno di attraversare e raggiungerlo. Pure il capellone continuava a urlare qualcosa che non riuscivamo a capire; ci guardammo preoccupati e li raggiungemmo. Scoprimmo subito che, mentre noi due eravamo lì impalati, incapaci di intendere e di volere, il nostro intraprendente e avventuroso socio, si era comportato da vero hippie mettendosi a fare l’autostop.

Dopo le reciproche presentazioni, i due proprietari del pullman-camper, tali James e Timothy, Tim per gli amici, ci fecero accomodare dietro il posto di guida, su quello che più che un sedile era un divano a quattro piazze. A giudicare dalla prima impressione, i due, dovevano essere entrambi dei “pezzi originali”, ovvero tra gli hippies presenti al mitico raduno del ’69. 

Il Bitol si stava ancora riprendendo dallo shock anafilattico provocato dalla vista di due Harley Davidson appese sul retro del bestione. Bisognava proprio prenderne atto, in America era tutto più grande, per fare un camper, al posto di un furgone usavano camion o pullman e, al posto delle bici, dietro ci mettevano le moto.

James, il guidatore, quello che gridava dal finestrino, era molto più loquace di Tim. Il suo aspetto, a essere sinceri, non era molto rassicurante ma, vista la precedente esperienza con il “terrorista”, era bene che non mi lasciassi influenzare dal primo approccio. Però, uno così alto e grosso, capelli lunghi e unticci, orecchini, jeans, maglietta nera sgualcita, gilet in pelle con borchie e ovviamente tatuaggi vari, non mi dava certo l’impressione di essere “un fio de cesa”. Sega, irrigidito sul sedile, sussurrava a denti stretti una serie di ottimistiche litanie: il camper era rubato e pieno di droga, i due ci avrebbero rapinato e violentato, se il compare non la avesse smessa con lo strimpellare quel maledetto chitarrino gli avrebbero infilato il manico in quel posto; a parte l’ultima ipotesi, mi pareva stesse esagerando.

A James pareva alquanto strano che tre italiani si trovassero da quelle parti per un evento che considerava come “roba loro”. Immaginai che, per lui, doveva essere come se, appositamente, tre americani, fossero venuti in Italia per partecipare alla nostra sagra parrocchiale. Entrambi i soci indicarono me come causa di quella stranezza; quello designato a dare tutte le spiegazioni del caso. Basta, dopo essermi svuotato con Verena, mi sentivo sfinito e non avevo più voglia di ripetere tutta la storia. Passai all’atto pratico chiedendo informazioni per l’alloggio. Il ciccione si fece una risata, si voltò anche Tim che, finora era stato quasi sempre in silenzio, rassicurandomi con un deciso “no problem”.

Non riuscii a capire molto quello che mi disse, parlava di una sorta di “camera degli ospiti”, questo mi fece di nuovo preoccupare. Mi tranquillizzai quando, il vecchio James, rivolto verso di me con un sorriso quasi paterno, mi disse: “coraggio Angie”, d’ora in poi mi avrebbe sempre chiamato così, “non vedo l’ora di sentire cos’hai da dirci”.

D’improvviso come se tutto fosse spuntato dal nulla, ci trovammo nella bolgia, una lunga coda di auto e camper, tutti big size ovviamente; il Bitol, riconoscendo i luoghi del mitico Woodstock ’69, ebbe un orgasmo.

La stanza degli ospiti non era altro che una tenda, dalle americanissime generose dimensioni; i nostri due, ormai amici, la tenevano sempre nel camper per ogni evenienza; in men che non si dica, nonostante i nostri maldestri tentativi di aiuto, la montarono accanto al loro camper.

Rimanemmo stupefatti da quanto erano organizzati, dopo la nostra tenda, si misero a installare una sorta di gazebo sotto il quale montarono tavolo e sedie, nel frattempo era uscito il sole e faceva anche caldo per cui, l’ombra fu provvidenziale. Ci rendemmo conto che era ora di mangiare, l’atmosfera del posto e la situazione mi avevano messo una certa fame. “Ora italiani tocca a voi”, disse Tim; da una cassa tirò fuori un cartoccio di pasta e un gigantesco vaso di sugo, “self made”, aggiunse con orgoglio. Ulteriore stupore nell’apprendere che i due vivevano in una sorta di comune agricola, dove producevano alimenti biologici.

È proprio vero che la felicità sta nelle piccole cose, ne ebbi la certezza quel giorno. Fiero come un direttore d’orchestra, rappresentante dell’orgoglio italiano nel mondo, immerso nell’atmosfera vintage di Woodstock, mi esibii nella mia arte culinaria. Mi beccai l’applauso di un piccolo gruppetto di hippies che, vista l’abbondante dose cucinata, ebbero il piacere di unirsi a noi per condividere quella favolosa pasta.

L’improvvisata e chiassosa festicciola mi impedì di sputare il rospo riguardo il nostro viaggio, il pranzo sarebbe stato il momento ideale ma, bisognava attendere che gli inaspettati intrusi se ne andassero. Ero sulle spine, dentro di me intuivo che da quei due sarebbero arrivate delle risposte, in particolar modo il silenzioso Tim, dava l’impressione di essere un intellettuale navigato.

Restammo finalmente solo noi cinque in santa pace, James tirò fuori una vecchia cuccuma per preparare, si fa per dire, del caffè; ormai a quella brodaglia nera ci avevamo fatto il callo. I miei soci, a son di sentirlo, erano nauseati dal mio racconto. Non mi ero accorto che l’imperscrutabile Tim, da un po’ teneva il libro tra le mani fermo sulla pagina della dedica, ormai cosparsa di cenere della sua sigaretta. Secondo me, quello la sapeva lunga e tra un po’ avrebbe sentenziato sulla faccenda, un brivido mi percorse la schiena.

“Quindi, cosa ne pensi, professore?” lo ridestò James con impazienza. “Professore?” A quel punto, preso in prestito da Sega, mi scappò un sonoro “eo savevo mi!”. Tim era niente meno che un docente di storia della musica, appassionato di tutto ciò che riguardava la beat generation. Inoltre, era conduttore radiofonico, scrittore con qualche saggio pubblicato, maestro di yoga e altro ancora che ora non ricordo. Il destino aveva messo quel libro nelle mani giuste. Un piacevole filo di vento portò il profumo dei campi, purificando l’aria dagli odori dei vari barbecue, proprio mentre Tim distolse lo sguardo dal libro e, fissandomi negli occhi, iniziò a parlare lentamente, assicurandosi che capissi ogni parola.

“Angie, so che ti interessa scoprire chi possa essere questa Kate. So che saresti soddisfatto e felice se ti dicessi che sei figlio di una famosa cantante folk; è quello che ti aspetti di sentirti dire da me, vero? Ti conosco da poche ore ma so che faresti salti di gioia e andresti in giro a vantartene con tutti. 

La verità, credimi, è che al momento non ho idea di chi sia. Ma il punto non è questo. Hai davvero letto bene questa frase? Hai letto tutto il libro? Sai quanti viaggi, oltre a quello di questa misteriosa ragazza, ha ispirato? Il bello è che, dopo quarant’anni, ha avuto il potere di ispirarne un altro. Questo è più importante che scoprire chi è Kate! 

Ho sempre creduto che le cose non succedano per caso. Questo libro è riemerso con uno scopo ben preciso. Anche se non te ne sei reso conto, Kate ti ha preso per mano e ti ha condotto qui. 

La domanda è: per fare cosa? Sta a te scoprirlo. 

Guardati attorno. Da quarant’anni, questo luogo è stato il simbolo del motto pace e amore

È il tipo di posto che, come è accaduto a noi, ti fa lasciare ciò che eri e scoprire ciò che sarai. Ora è giunto il momento di fermarsi a pensare e meditare, non solo per te, Angie, ma per tutti e tre.”

Il tono del professore era carico di profonda riflessione e di una suggestiva consapevolezza del significato più profondo delle esperienze umane. Nemmeno don Guerino durante la quaresima era capace di tanto, me ne stetti a testa bassa senza profferir verbo.

Fortunatamente stava per esibirsi Richie Havens che, almeno per quanto mi riguarda, mi tolse dall’imbarazzo. Anche se era un’occasione irripetibile, non avevo voglia di andarci, i “compiti per casa” di Tim mi avevano provocato una certa inquietudine interiore.

Compresi ciò che dovevo fare: isolarmi e camminare a passo svelto. Una terapia che ormai conoscevo bene e che avevo sperimentato per la prima volta a diciassette anni, quando quel bastardo di Riccardo Bellè decise di escludermi intenzionalmente dalla festa di Capodanno. Incredibile come, dopo più di trent’anni, quella rabbia bruci ancora dentro di me, un trauma mai del tutto superato.

Il cielo limpido e la luce del tardo pomeriggio rendevano ancora più suggestivo e rilassante il paesaggio rurale. Più mi allontanavo dall’accampamento, più il frastuono della folla si dissolveva, lasciando spazio al sussurro del vento. Per me, con un legame ancestrale con la campagna inscritto nel DNA, quella vista era infinitamente più affascinante dei grattacieli di New York. L’erba, gli alberi e il profumo nell’aria, nonostante la distanza enorme, richiamavano quelli della mia terra. L’orizzonte, però, era diverso: non piatto come la pianura del Piave, ma animato da dolcissime colline verdi, con fattorie isolate dai colori vivaci con accanto, una sorta di mulino a vento.

I fumetti di Topolino erano la mia unica lettura estiva, momento topico in cui navigavo a lungo con la fantasia, emulando le avventure delle Giovani Marmotte. Mi divertivo a fare l’esploratore, ovviamente nei paraggi di casa e con ciò che avevo a disposizione. Che bello, quello che avevo davanti, era lo stesso paesaggio che attraversava zio Paperino a bordo della mitica 313, quando portava i nipotini in vacanza alla fattoria di nonna Papera.

Dei miei trascorsi da giovane marmotta; purtroppo, ricordo ancora le botte che mi rifilò Joani per aver usato dei paletti di legno che a lui servivano per i pomodori; solo al pensiero, sento ancora bruciare il culo. Ma quel brutto ricordo svanì presto, lasciando spazio a un altro estremamente piacevole: anche noi tre, a cavallo degli anni ’80, avevamo vissuto la nostra Woodstock.

Appena fuori del nostro paesello scavarono un canale scolmatore con relativo bacino di contenimento; la terra estratta venne depositata provvisoriamente sulla riva del bacino. Come sempre succede, le cose provvisorie alla fine restano definitive, poco male però; noi villici locali, in pochi mesi, ci ritrovammo con una pittoresca collinetta e un pescoso laghetto a due passi da casa. La collina, grazie alla buona terra razza Piave, non ci mise molto a rinverdirsi mentre, il continuo calpestio tracciò il sentiero per salirci. Un sant’uomo, probabilmente un ambientalista ante litteram, sulla sommità costruì tre panchine e ci piantò alcuni alberi. Quel pezzo di terra, fortunatamente sottratto all’agricoltura, divenne un piccolo angolo di paradiso. Oggi di quel posto, sopranominato “el Monteo”, dalla vicina zona collinare, non è rimasto più nulla, “el mal dea piera”, di cui vi ho già accennato, ha preso il sopravvento. Se cercate la mitica collina vi troverete solo un agglomerato di anonime villette a schiera.

Ogni estate portava con sé una nuova moda, un gioco che definiva la stagione. C’era l’estate delle biglie in vetro, quella del Subbuteo, e per chi aveva meno da spendere, quella del calcio Atlantic. E come dimenticare le mitiche palle clic-clac, che col loro incessante ticchettio facevano inevitabilmente perdere la pazienza a Joani. Ma l’estate del 1981 fu diversa, speciale, scolpita nella memoria come un capitolo a parte. Tutto iniziò a metà giugno, quando, in un tardo pomeriggio, il Bitol, con la sua chitarra in spalla, ci invitò a seguirlo in cima al Monteo per ascoltare qualche brano. Quello che doveva essere un semplice miniconcerto, divenne presto un rito quotidiano, una sorta di pellegrinaggio musicale.

Sulla sommità della collina, sotto il cielo che si tingeva d’oro e di porpora, nacquero i nostri primi discorsi seri, ispirati dalle note e dalle parole impegnate dei cantautori che il Bitol tanto ammirava. Eravamo ragazzi cresciuti sotto l’ombra di un indottrinamento cattolico che ci portava a evitare certi argomenti, come il sesso, preferendo concentrarci sui sogni per il futuro, su ciò che desideravamo diventare. Col passare delle settimane, il nostro legame si rafforzava, e così pure il tempo che trascorrevamo insieme su quella collina. A volte cenavamo lì, portando con noi cesti da pic-nic carichi di leccornie preparate da casa Sega.

Il culmine di quell’estate lo raggiungemmo una notte di agosto. Dopo una lunga battaglia, ottenemmo da chi, a vari titoli, ci aveva in tutela, il permesso di passare fuori la notte. Lì, in vetta al Monteo, sotto un cielo che sembrava splendere per noi, piantammo una tenda canadese a tre posti. Non dormimmo nemmeno cinque minuti, ma fu una notte indimenticabile. Le ore scivolarono via tra canti, risate, e conversazioni infinite, sotto un firmamento di stelle come mai ne avevamo visto prima. In un momento di pausa, dissi: “Ragazzi, chissà fra trent’anni cosa staremo facendo.”

E ora, senza che fossero passati esattamente trent’anni, eccomi di nuovo in cima a una collina, con quella domanda che riecheggiava ancora nella mia mente. I pensieri mi rimbalzavano in testa come facevano i canali sul vecchio televisore in bianco e nero di casa. Non riuscivo a soffermarmi su un’idea che subito ne affiorava un’altra. Pensavo al senso della mia vita, e l’istante dopo al telefono di ultima generazione che mi ero dimenticato di comprare a New York.

Senza accorgermene, avevo camminato parecchio. Davanti a me si stagliava il mitico Filppini Pond, il laghetto dove, un tempo, gli hippies si tuffavano nudi, abbracciando la libertà in tutte le sue forme. Era pieno di gente, stavano sicuramente rievocando quei giorni gloriosi. Ma io mi sentivo vuoto, inutile, senza uno straccio di ideale o progetto. “Peace & love, pace e amore” Continuavo a ripetere quelle parole come un mantra, ma la parola amore era la più difficile da pronunciare. Facile per Tim invitarmi a cercare l’uomo nuovo dentro di me, che assurdità; l’avevo già sentito dire da svariati preti; come se nessuno potesse davvero inventare qualcosa di nuovo.

A malapena riuscivo a riconoscermi. Mi ritrovai anch’io nudo, in senso metaforico. Non avevo una fede né un ideale da perseguire; una solida base su cui poggiare la mia esistenza. Non ero una persona speciale come quegli hippies; ma, uno fra tanti miliardi di uomini, tutti uguali, concentrati solo sui propri banali bisogni. Altro che pace e amore. Nella mia mente, le priorità erano ben altre: figa, schei e magnar. 

E mentre osservavo il lago, mi chiedevo se la distanza tra ciò che ero e ciò che avrei voluto essere fosse davvero incolmabile.

Continua …..

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