Niuiò

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 13 – Niuiò

Mi svegliai con la pioggia che martellava la vetrata con forza, eppure lo skyline dei grattacieli era chiaramente visibile oltre il vetro. Non avevo nessuna intenzione di lasciare il mio comodo letto; quella stanza al trentaduesimo piano, tutta per me, era semplicemente fantastica. Elegantissima, dominata dai toni del bianco, sembrava un rifugio di lusso in mezzo alla città frenetica. 

La sera prima, seppur stravolto dal viaggio, notai che era piena di troiate tecnologiche, compresa una specie di filodiffusione, una vera americanata. Mi imbattei in un canale audio tematico chiamato “Relax & Meditation Music”. Mi lasciai trasportare dalla musica e, senza nemmeno mettermi il pigiama, mi infilai sotto le linde lenzuola, con le tende spalancate e il suono rilassante della pioggia a farmi compagnia. Un senso di benessere mi avvolse completamente facendomi addormentare rapidamente.

Al risveglio, i miei occhi si posarono sui due accappatoi bianchi, piegati ordinatamente ai piedi del letto. Era una camera doppia, e ci finii per pura fortuna, dato che non c’era una tripla e la doppia per una persona sola ce la giocammo a sorte. Chissà quante coppie avevano fatto l’amore in quella stanza con quella vista mozzafiato. E io, uno dei pochi sfigati a passarci la notte da solo, non potevo fare altro che fantasticare. Partirono nella mia mente una serie dei miei famosi film mentali, in cui vedevo indossare il secondo accappatoio a tutte le donne della mia vita, intendo quelle che avevo sognato finora. Non da ultima, Verena.

Verena, con il suo sorriso che illuminava le giornate più cupe, avrebbe adorato quella vista. Immaginai di svegliarmi accanto a lei, di vederla alzarsi pigramente, avvolgersi in quell’accappatoio e dirigersi verso la vetrata, lasciando che la luce del mattino disegnasse contorni di ombre sul suo viso. La pioggia avrebbe continuato a cadere, ma dentro quella stanza ci sarebbe stata solo la calma di un momento condiviso, di sguardi che parlavano senza bisogno di parole.

In quel momento, con la pioggia che batteva ancora sui vetri, mi resi conto che la felicità a volte si nasconde nei piccoli dettagli, nelle fantasie di un cuore solitario che sa ancora sognare. 

D’improvviso il sole fece capolino, e il cielo azzurro, densamente velato di nuvole veloci, si rifletteva nei vetri scintillanti dei grattacieli. Fuori, il lamento delle sirene della polizia americana echeggiava, proprio come in una scena da film. La Grande Mela sembrava attendermi con impazienza, per farsi assaporare da un semplice ragazzo di campagna, il figlio di Joani Nosea.

Riuscivo a vedere le strade che brulicavano di vita frenetica, mentre i colori della città risplendevano sotto la luce dorata del sole nascente. Tra i palazzi che si ergevano come monumenti alla modernità, percepivo un’atmosfera di promesse e mistero, pronta a incantare chiunque avesse il coraggio di perdersi tra i suoi viali e le sue piazze.

Tutto questo spettacolo me lo stavo godendo dalla cabina doccia che, altra americanata, aveva uno dei lati vetrati che dava sull’esterno. Mi sentivo come l’imperatore delle docce, immerso nell’idromassaggio con l’acqua calda che scivolava abbondante sul mio corpo. Ero rimasto lì dentro un’eternità, perso tra i getti d’acqua massaggianti e il panorama mozzafiato.

Non avevo sentito nemmeno i due compagni di ventura, che stavano quasi sfondando la porta. Perso nei miei pensieri – principalmente su quanto mi sarebbe piaciuto rivedere Verena e su quanto fosse bello questo posto – non mi accorsi minimamente del casino che i due, ospitati nella camera adiacente, stavano montando fuori dalla mia oasi di vapore.

Mentre quei piacevoli getti massaggiavano ogni muscolo, fantasticavo su Verena, immaginando di raccontarle di questa doccia spaziale e della vista spettacolare. Proprio in quel momento, l’urlo di un grezzo boarotto interruppe i miei pensieri: “Aeora dai che ‘ndemo!”

Da noi in campagna, oltre al “mal dea piera” – quella irrefrenabile ossessione di possedere una casa propria, possibilmente sproporzionata rispetto alle reali esigenze e costruita senza curarsi troppo dei regolamenti edilizi, tanto poi si condona, altrimenti che gusto c’è – c’è spesso anche la smania di possedere ciò che hanno gli altri. Se un nostro parente, amico, vicino o semplice conoscente ha qualcosa, dobbiamo averlo anche noi, e possibilmente meglio di lui. E non parlo solo di oggetti come l’automobile, ma anche di bestiame e, soprattutto, di donne.

Quello che in dialetto chiamiamo “vuiancamì” è una sorta di virus che circola da tempi immemorabili e non è mai stato estirpato. È un desiderio insaziabile di competere e superare gli altri, un gioco che non ha mai fine. Non per fare l’esperto di geopolitica, ma credo che questo stesso impulso sia stato l’elemento scatenante di molte guerre.

La nostra vita in campagna è fatta di queste piccole rivalità quotidiane. Il bisogno di sentirsi superiori, di mostrare il proprio valore attraverso le proprie conquiste, è una costante che modella i rapporti sociali. D’altronde mia nonna Elvira diceva sempre “Se no’ te ghé, no’ te fé; se no’ ti gà, no’ ti pol dir ‘gnanca a”

Fu a causa di questo misterioso virus che, come prima tappa newyorkese cademmo nella trappola tesa dai megastore della 9Th Avenue, il Bitol si salvò solo grazie al fatto che aveva esaurito quasi tutto il suo budget nell’acquisto del famigerato chitarrino. Quella mattina, saranno passate si e no due ore da quando le nostre suole avevano iniziato a consumarsi sui marciapiedi della grande mela, che noi due polli, uscimmo con il tipico sorriso ebete da uno di questi templi del consumismo high-tech, con due buste zeppe di merce e, non appena svoltato l’angolo e trovato un posto appartato, con la stessa furia che hanno i drogati in crisi di astinenza, aprimmo gli imballi contenenti una macchina fotografica, una telecamera più altre decine di costosissime troiate di contorno.

Quei primi costosissimi acquisti almeno furono sfruttati a dovere. Ogni passo, ogni angolo, ogni pizza mangiata e ogni scoiattolo intravisto a Central Park furono immortalati con una dedizione quasi maniacale.

Come turisti fummo un po’ più originali della media. All’ingresso di Central Park, luogo dove su pressione del Bitol bisognava fiondarsi per prima in quanto vi era lo Strawberry Fields Memorial, altra fondamentale tappa del nostro pellegrinaggio laico; notai il cartello “Discover the city by bike”, che figo, la cosa ci stuzzicò. Scoprimmo che ci sarebbe costato quasi come noleggiare un’auto ma, ne valeva sicuramente la pena. Dopo la nottata piovosa, la giornata era tersa, andare alla scoperta della metropoli in bicicletta, sarebbe stata un’esperienza unica e originale. Perdemmo quasi un’ora per scegliere il tipo di bici e a compilare alla cieca i relativi moduli dove, ci sarebbe potuto tranquillamente essere scritto che, ci impegnavamo a versare un milione di dollari ciascuno in caso di reso del mezzo con un leggero striscio.

“Have a nice day guys”, ci disse con un sorriso da quaranta pollici, el toso addetto alla consegna dei potenti mezzi; ebbi l’impressione che ci stesse prendendo per il culo. “El n’a dit recioni”, esclamai risentito, a causa della mia ignoranza linguistica. Ridicolamente bardati con caschetto e pettorina a alta visibilità sulla quale era stampata, a caratteri cubitali, la pubblicità del noleggiatore, tutti eccitati e, all’ennesimo grido di: “dai che ‘ndemo”, iniziammo la nostra avventura ciclistica per le strade di New York.

Incredibile, fino a quel giorno avevamo pedalato esclusivamente per trosi di campagna, mentre ora sfrecciavamo per le gigantesche avenue con il naso all’insù e il sorriso ebete del turista soddisfatto.

“Parem quasi veri”, urlò da dietro il Bitol alludendo al fatto che sembravamo dei fighetti, come quelli che si vedono in televisione. Sega, nel frattempo, stava mettendo seriamente a repentaglio la sua vita riprendendo l’impresa con quella maledetta videocamera che, ormai era diventata la protesi della sua mano.

Nonostante il rumore assordante del traffico, si udivano le nostre grida di felicità, rigorosamente nello slang del basso Piave, ci faceva piacere vedere che, ogni tanto, qualcuno si girava a guardarci divertito, specie se si trattava di qualche bel montareo

Io continuavo a pensare a Verena. Sarebbe stato bello incontrarla, immaginavo di vederla spuntare all’improvviso; avrei fatto il romantico, l’avrei caricata sul tubo della bici come facevano una volta, i ragazzi più intraprendenti e menu introversi di me, con le fie che gli piacevano.

In bici a New York, detti già il titolo a quelle centinaia di scatti, tutti uguali che, alla stregua del peggior turista nipponico, freneticamente continuavo a fare. Il mio narcisismo era alle stelle, in continuazione, rischiando il tamponamento, inchiodavo per passare la macchina a uno dei due soci, perché mi ritraesse in sella, nelle pose più svariate, con lo sfondo dei grattacieli e il classico bicchierone formato large, di caffè in mano.

La vecia mora, ovvero la mia vecchia bici, avrei voluto essere in sella a lei, come me, anche lei si meritava quel felice momento di riscatto. La vecia mora, prima della macchina, fu il mio unico mezzo di locomozione. Antichissima, di quelle ancora con i freni a bacchetta, la ebbi in eredità da un “poro” zio. Non era certamente il massimo ma, è stata una fida compagna per non so quanti anni. La consideravo alla pari di un cavallo nel senso che, con lei ci parlavo pure, specie nei momenti in cui mi sentivo giù di corda.

Anche negli orari più assurdi, quando ero triste o incazzato, montavo in sella alla vecia mora, la chiamavo così in quanto tutta nera, e iniziavo a pedalare a più non posso a tutta velocità per i trosi, fino a quando non mi scoppiava il cuore. Notte, giorno, caldo, freddo, afa, nebbia, pioggia, sole, neve non importava, mi era sufficiente passare un po’ di tempo in sella parlandoci assieme tanto, eravamo soli io e lei, nessuno mi avrebbe preso per matto. Solitario pedalavo immerso nella scenografica campagna del basso Piave che, regalava fresche notti estive rallegrate dal canto dei grilli, folate di vendemmia autunnali, profumo dell’erba appena tagliata sotto il primo timido tepore primaverile e la silenziosa e ovattata atmosfera della nebbia invernale. Avrei voluto essere in sella a lei, quando, come tre cavalieri sulle nostre City Bikes, varcammo i confini di Central Park, diretti allo Strawberry Fields Memorial per celebrare la memoria del guru del Bitol, il mitico John Lennon.

 “Centoquattro dollari e ottanta,” continuava a ripetere all’infinito il Bitol, ovvero la cifra che avevano guadagnato lui e il suo nuovo socio, il chitarrino, durante il loro personalissimo Concert in Central Park. Era iniziato tutto per gioco, quando il Bitol aveva deciso di strimpellare una sua personalissima versione di “Imagine”. Le note, seppur imperfette, avevano un’energia particolare, una sincerità che attirava l’attenzione.

In poco tempo, una piccola folla si radunò attorno a loro. Persone di ogni tipo, affascinate dalla musica e dalla spontaneità del momento, si fermavano ad ascoltare. Tra di loro, un tale in giacca e cravatta, dopo qualche minuto di esitazione, si fece avanti e mise gentilmente una moneta dentro il casco rovesciato in mezzo all’erba. Fu il primo contributo, e ne seguirono molti altri. Monete e banconote di vari tagli iniziarono a riempire il casco, creando un piccolo tesoro improvvisato.

Il Bitol, galvanizzato dal successo inaspettato, continuò a suonare, passando da “Imagine” a brani che non avevo mai sentito prima. Erano pezzi suoi, creazioni originali che sembravano nate in quel momento, cariche di emozioni e storie non dette. La gente applaudiva, incitava, chiedeva il bis. Il tanto bistrattato chitarrino e un sorriso contagioso, faceva da perfetto contraltare, aggiungendo un tocco di magia con le sue note improvvisate.

Fece solo una decina di canzoni; poi, la folla si disperse lentamente, ma l’energia del momento rimase sospesa nell’aria. Il Bitol guardò il casco pieno di denaro con un misto di incredulità e soddisfazione. Non era solo una questione di soldi, era la prova che la sua musica, la sua passione, poteva toccare i cuori delle persone.

“Centoquattro dollari e ottanta,” ripeté ancora una volta, con un sorriso questa volta. Era più di una cifra, era un simbolo di quello che potevano raggiungere insieme. Il chitarrino annuì, e senza bisogno di parole, entrambi sapevano che quella giornata era solo l’inizio di qualcosa di più grande.

“Eo savevo mi”, toccava a lui ora pronunciare quella frase, ovviamente, per la prima volta nella vita, in senso ottimistico. Agitando il casco al fine di farci sentire quanto era pieno, iniziò a farci una paternale per tutte le perplessità che avevamo avuto riguardo l’acquisto del chitarrino. A quel punto potevamo solo star zitti, erano i primi soldi guadagnati con ciò che più nella vita amava fare, non lo diedi a vedere, ma ero commosso. Per quasi un ora, la star, non ci cagò manco di striscio, impegnato com’era, in appassionati confronti con passanti e “colleghi” d’oltreoceano. Pagò lui la cena, in un fast food dalle dubbie norme igieniche, pazienza, non osavamo di certo obiettare.

Sembrava già passata un’eternità da quando eravamo partiti, l’oceano si era frapposto tra me e le mie preoccupazioni contribuendo a tenerle lontane. Nei due giorni di intense pedalate, respirai a pieni polmoni, oltre allo smog, quel senso di libertà che ti dava la grande mela. Ci sentimmo anche noi, come a volte si definiscono gli americani, sons of liberty, figli della libertà, lo testimonia la foto che ritrae noi tre, con le dita a “V”, e la famosa statua sullo sfondo.

L’ultima pedalata la compii in solitudine, fino all’Oak Bridge. Anch’io, come il Bitol, dovevo onorare un rito. Nella mia borsa, custodivo un piccolo sacchetto con un pugno di terra raccolto nel campo di fronte alla casa vecia

Mi guardai un attimo intorno; poi, mi feci coraggio e con il cuore che batteva forte, passai al di là della piccola recinzione che proteggeva la riva del lago. Là, dove i grattacieli si riflettevano nell’acqua, con un cucchiaino sottratto con discrezione dalla sala colazioni, scavai una piccola fossa e vi depositai quella manciata di terra, la nostra terra. “Per Joani, mio padre, e per tutti i miei paesani che hanno invano sognato la loro Niuiò,” sussurrai silenziosamente, mentre stavo lì, in piedi, quasi sull’attenti. 

Tornai sui miei passi furtivo, ma improvvisamente le lacrime iniziarono a scorrere. In quell’istante capii di aver compiuto un gesto significativo, un omaggio a quel sogno americano spezzato, di Joani e di tanti altri suoi compagni.

L’ultima sera la trascorremmo al 102° piano dell’Empire State Building. Nell’aria vibrava l’elettricità della città che non dorme mai, una sinfonia di luci e suoni che catturava l’essenza del sogno americano. Non ero un semplice turista in mezzo a tutto questo; io, il ragazzo di campagna, con gli occhi pieni di meraviglia e il cuore colmo di speranza, mi aprivo al fascino irresistibile di New York. La città, con le sue mille luci, sembrava pronta a svelarmi ogni segreto, a donarmi il ricordo di ogni sfumatura della sua magia e del suo splendore.

Le strade sottostanti, come vene luminose, pulsavano con un’energia che sembrava provenire direttamente dal cuore della metropoli. Ogni angolo, ogni edificio raccontava una storia di sogni e di ambizioni, di successi e di lotte. Sentivo il vento accarezzare il viso, portando con sé il profumo del futuro, un futuro che sembrava brillare come le stelle sopra di noi.

New York mi abbracciava con la sua vastità, mi faceva sentire piccolo ma al contempo parte di qualcosa di immensamente grande. Guardando l’orizzonte, dove i grattacieli sfioravano il cielo, mi sembrava di poter toccare con mano l’infinito. Ogni respiro era un inno alla vita, ogni battito del cuore una promessa di avventure a venire, a cominciare da quella che ci attendeva il giorno dopo; dove forse, avremmo saputo qualcosa di più su Kate.

Quella sera, in alto sopra la città, capii che il sogno americano non era solo un mito, ma una realtà tangibile, un’esperienza da vivere con ogni fibra del proprio essere. E così, con il cuore leggero e l’anima colma di emozioni, lasciai che New York mi conquistasse, promettendo a me stesso di custodire per sempre quel momento, quell’istante di pura magia e splendore.

Continua …..

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