Minnie & Dave

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 11 – Minnie & Dave

Giungemmo esausti nei pressi del pub, tanto da aver voglia di fare marcia indietro e andare a letto senza cena. Ci colpì l’aspetto del locale, almeno visto da fuori sembrava un vero pub frequentato da indigeni locali e non un’attrazione per turisti come alcuni in centro a Londra poi, il ritmo del blues che proveniva dall’interno ci diede uno slancio di energia supplementare ed entrammo.

Fino a quel momento non avevo mai avuto una particolare attrazione per il blues, ma quella sera tutto cambiò. Dave, il leader della band cantava suonando in maniera, oserei dire, acrobatica, un vecchio organo Hammond dal legno tutto consumato. Ci metteva una tale foga che mi aspettavo di veder, da un istante all’altro, spaccarsi in due quel cimelio risalente, a detta dell’esperto compare Bitol, almeno a cinquant’anni orsono. Il nostro amico, di fronte all’esibizione dei “colleghi” d’Oltremanica, entrò quasi subito in uno stato di trance, tale da dover provvedere noi all’ordinazione per suo conto.

Ancora non so come tutto sia iniziato. La stanchezza e la birra mi avevano creato una sorta di buco nero nella memoria. Fatto sta che, uscito dal bagno, vidi il Bitol alla chitarra accanto a Dave. Pensai subito che si trattasse di uno strano e surreale effetto collaterale della faticosa giornata da turista, sommato alla troppa birra trangugiata. 

La “strana coppia” rese l’atmosfera incandescente. Il ritmo del blues stava vorticosamente trascinando i presenti in frenetici balli. Non feci in tempo ad avvicinarmi al minuscolo palco per rendermi conto di quello che stava succedendo, che venni trascinato nella mischia da quel beo montareo di cameriera, che soprannominai Minnie, a causa della minigonna nera con vistosi pois bianchi. La tipa mi prese per mano spiaccicandomi addosso al suo corpo; il primo punto di contatto furono le sue gigantesche bocce. Contemporaneamente, qualcosa, che fino a quel momento era rimasto tranquillo, iniziò ad attivarsi.

Niente panico, pensai, sarebbe stato, al contrario, preoccupante se in quella situazione non si fosse mosso niente. Da noi in campagna c’è un vecchio detto: “tira più un peo de mona che un paro de bo’,” niente di più vero. Adeguatamente stimolato, mi trasformai improvvisamente in uno scioltissimo ballerino blues, sempre ammesso che esista un modo di ballare il blues.

La situazione continuò a degenerare in modo esilarante. Bitol, con una passione che non gli avevamo mai visto prima, suonava la chitarra come se fosse nato per quel momento. Dave sembrava divertirsi un mondo, incoraggiando il nostro amico con occhiate compiaciute e sorrisi complici. Sega, dal canto suo, stava immortalando tutto con una dedizione maniacale, ridendo a crepapelle dietro l’obiettivo.

Nel frattempo, Minnie si dimostrò una ballerina esperta, guidandomi in una serie di mosse che non avrei mai pensato di saper fare. Ogni tanto mi lanciava uno sguardo complice, e il suo sorriso malizioso mi faceva sentire come se fossi l’unico uomo nella stanza. Il pubblico ci guardava, alcuni applaudivano, altri ridevano, ma tutti sembravano divertirsi un mondo.

A un certo punto, Bitol decise che non era abbastanza essere solo un musicista improvvisato. Con un colpo di scena degno di un film comico, iniziò a cantare una versione completamente inventata di “Sweet Home Chicago”, mescolando parole in inglese e dialetto veneto. Il risultato fu un disastro esilarante, con il pubblico che rideva così forte che alcuni dovettero appoggiarsi ai tavoli per non cadere.

Non bastò; ad un tratto l’improvvisato, e ormai famoso bluesman italiano, nel bel mezzo della canzone intonò: “el Fuga xé pusa, el Fuga xé pusa, ohi fioi ! Bum bum, stasera, bum bum, el Fugassa, xé cassaaaa!! Ooooh yeah!”. 

“Che cosa sta dicendo?”, mi urlò nell’orecchio Minnie, per ben tre volte prima che riuscissi a capire cosa voleva sapere, “niente, niente, un pezzo di una vecchia canzone italiana”, risposi, senza riuscire a trattenere una sonora risata. Mentre me ne stavo avvinghiato alla tettona pensai che il viaggio stava iniziando già a dare i suoi frutti, insomma, soldi ben spesi, inoltre, Il detto di Tony Carrer: “co ghe xé odor de figa no se sente tristessa né fadiga”, mi sembrava pienamente azzeccato.

Alla chiusura del locale, ci trovammo seduti sul muretto antistante, noi, i tre della locale band e, sorpresa, Minnie, ovvero Debbie, titolare del pub. Il Bitol doveva aver perso la tramontana, stava fumando con estrema soddisfazione una sigaretta offerta da Dave. Si dimenticò del fatto che erano più di quattro anni che aveva smesso; come rifiutare però una sigaretta offerta da un così illustre collega. Sir Sega parafrasò Enrico IV “Londra val bene una sigaretta”, che uomo di cultura!

“Tiralo fuori”, menomale che non l’aveva detto Minnie, altrimenti il mio amico sarebbe tornato ad agitarsi, el Bitol si riferiva al libro che, assieme alla bandana, tenevo nello zainetto. I soci, mentre me ne stavo chiuso in bagno per un’ultima pisciatina, avevano spifferato tutto riguardo la nostra “missione”. 

Sotto la luce fioca del lampione, il gruppetto di inglesi, compresi gli altri due della band dei quali non ricordavo i nomi, esaminò attentamente la frase di Kate. Mi ritrovai improvvisamente quattro paia di occhi puntati addosso, compresi quelli lucidi di Minnie. Cercavo di abbozzare una frase quando Dave mi strinse in un abbraccio solidale, portando con sé un odore penetrante di fumo, sudore e birra.

I quattro nostri amici inglesi si riunirono per porsi le nostre stesse domande su Kate. Come noi Mul, anche loro cercavano di ripercorrere a memoria le biografie delle cantanti folk che conoscevano. La discussione li appassionava visibilmente e sentivo un tuffo al cuore ogni volta che udivo un nome che nelle nostre ricerche non era emerso. Tuttavia, alla fine ammisero che la questione era complicata.

Il batterista, di cui ricordavo solo i vistosi tatuaggi sulle braccia, ci assicurò che avrebbe utilizzato i suoi contatti per aiutarci; roba da matti, il primo batterista 007 che incontravo. 

Minnie, dotata di un’ottima calligrafia, trascrisse la frase di Kate e altri dati rilevanti sul blocchetto usato per le ordinazioni. La notte era avvolta da un senso di mistero e urgenza, mentre ci immergevamo sempre di più in quel labirinto di domande senza risposta.

La band ci propose di farci scoprire un lato insolito di Londra, ci incamminammo lungo alcune stradine che, a detta loro, ci avrebbero condotti in un posto magnifico. In altre circostanze la cosa poteva preoccuparmi ma, avevo Minnie appiccicata al fianco che mi cingeva la vita con la mano, per cui, non mi importava nulla di tutto quello che accadeva attorno; ero tutto preso dall’emozione di quel inaspettato contatto, più intimo e intenso del ballo. Attraverso le parti del mio corpo a contatto con il suo cercavo di immaginare la sua pelle nuda, ovviamente, anche il mio amico sotto i pantaloni si era ridestato.

Intercalavo monosillabi o al massimo qualche “yes”, alle sue parole, non capivo una mazza di quello che diceva, facevo una fatica boia a concentrarmi, le pause di silenzio erano imbarazzanti, niente da fare, non mi veniva fuori uno straccio di frase; da irreversibile introverso, fui solo capace di lanciare un messaggio subliminale, fischiettando Somebody to love dei Queen.

Entrammo in un immenso parco, in cima alla collina di Hampstead, dal punto panoramico, ci sembrò che Londra stesse ai nostri piedi, uno spettacolo che sembrava riservato a pochi intimi. Ritto in piedi sopra una specie di basamento Lord Armando Bitol Semensa proclamò un discorso sull’ormai sancita alleanza con i bluesman inglesi; seguì l’annuncio ufficiale di una tournee del gruppo in terra veneta, della quale, lui, sarebbe stato l’organizzatore. 

“Bravo mona, cussì va a finir come quea volta”, la voce secca del fatalista Sega gli ricordò uno spiacevole episodio, stroncando l’uomo che, mogio, mogio, scese subito dal piedestallo.

Trovai il pessimismo del Sega eccessivo, non era il caso di spegnere così brutalmente gli entusiasmi del povero Bitol per giunta poi, in una magica serata come quella Riuscii a stupire me stesso per il modo deciso con cui intervenni. Rimisi a forza il socio sopra il piedestallo insieme a me, e poi via con il sermone.

“Esimi colleghi mul, abbiamo avuto la fortuna di incontrare, all’inizio di questo nostro primo vero viaggio, delle belle persone, (pensavo a Minnie) le quali, complice la musica, sembrano essere amici da una vita. Sinceramente non credevo che già il primo giorno facessimo una così bella esperienza (continuavo a pensare a Minnie), apprezzo quindi la lodevole iniziativa del qui presente Lord Armando Bitol Zago duca di Semensa, di invitare i nostri nobili amici a diffondere le loro piacevoli melodie lungo le rive del sacro Piave. Personalmente mi impegnerò a rimuovere qualsivoglia ostacolo che si frapponesse nel percorso, eventuali stronzi compresi! Chiedo ora a Sir Sega di tradurre per gli amici”, scoppiò l’applauso generale, mentre Minnie mi guardò divertita.

Erano quasi le due di notte quando, davanti agli scalini d’ingresso dell’albergo, l’aria si impregnava di baci, abbracci e scambi di email. In quel breve, intenso frammento di una notte londinese, avevamo scoperto, complice la musica, un altro incanto di un viaggio con la V maiuscola: l’incontro con persone destinate a diventare amici veri, per sempre.

Ogni sorriso, ogni gesto, ogni parola scambiata nell’oscurità vibrante di quella sera, era un seme gettato nel giardino del nostro destino, pronto a germogliare e a fiorire in legami che nessun tempo o distanza avrebbero potuto sradicare. In quel momento, la città, con il suo rumore sommesso e le luci sfocate, sembrava tessere un arazzo di ricordi destinati a durare, dove ogni incontro, ogni sguardo incrociato, era un capitolo nuovo, un frammento di eternità condiviso sotto il cielo delle mille storie.

Quella notte, rientrando in albergo, mi resi conto che avevamo vissuto un’esperienza unica e indimenticabile, fatta di musica, risate e una buona dose di follia. Il pensiero che tutto fosse iniziato con una semplice serata in un pub mi riempiva di meraviglia. L’eco delle risate e delle canzoni cantate a squarciagola risuonava ancora nelle mie orecchie, mentre i volti sorridenti dei nuovi amici mi accompagnavano come ombre gentili lungo il corridoio silenzioso.

Fu in quel momento che compresi qualcosa di più profondo: per qualche donna, forse, potevo essere una persona interessante, qualcuno che aveva qualcosa da dire. Questa realizzazione accese una scintilla di autostima nel mio cuore, una luce calda che mi avvolse mentre mi infilavo sotto le coperte.

Addormentarmi quella mia prima notte in terra straniera, con il cuore leggero e colmo di speranza, mi sembrò la conclusione perfetta di una giornata straordinaria. Sotto il manto della notte londinese, sognai di futuri incontri, di altre serate piene di vita, e di quella sensazione dolce e rara di sentirsi, anche solo per un attimo, al posto giusto nel momento giusto.

Continua …..

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