Fio dei Fiori – Parte I^
© 2009 – 2024 Michele Camillo
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Capitolo 10 – Three boarotti in London
Nonostante la velocità, il trenino filava silenzioso e discreto tra la verde campagna come fosse un gentleman inglese. Scemata la tensione per il volo, ero felice e euforico: tra poco avrei incontrato la metropoli. Il Bitol aveva ripreso ad agitarsi e frugava in continuazione nello zaino; per ben due volte rischiai di essere accecato dal tagliente angolo della cartina di Londra che nervosamente continuava a rigirare. L’intensità e l’odore della sua sudorazione erano aumentati, così gli dissi che non appena arrivati in albergo avrebbe dovuto fare una doccia coatta. Ritornai ai miei pensieri. Era quasi un miracolo: erano passate solo alcune ore e mi trovavo a viaggiare su un treno con persone delle più svariate nazionalità, in un luogo così lontano dal mio paesino. Dal finestrino vedevo scorrere un paesaggio con abitazioni architettonicamente molto diverse; mi sentivo già un viaggiatore provetto.
Osservai il mio faccione riflesso sullo sfondo della campagna inglese, che sembrava cullarsi sotto il sole pomeridiano. I campi verdi si estendevano a perdita d’occhio, punteggiati qua e là da casette di pietra e piccoli boschi, come se fossero usciti da un quadro romantico. Il mio riflesso mi pose una domanda: a cosa sarebbe servito questo viaggio? Probabilmente a niente, nel senso che non avrebbe cambiato di una virgola l’andazzo della mia vita. Una volta tornato, mi sarei trovato di fronte agli irrisolti problemi di sempre: non avere una donna, non avere un lavoro serio e appagante, gestire la Bepina evitando i conflitti con mia sorella e mio cognato.
Le abitazioni cominciavano a farsi sempre più fitte, sempre più grandi e sempre più squallide; stavamo pian piano entrando nella grande metropoli. Anche gli altri due miei compagni guardavano fuori dal finestrino in silenzio, con aria preoccupata. Fu un impatto forte: il treno stava entrando nella grande città che finora avevo visto solo in televisione. A vederla, sembrava una giungla pericolosa pronta a inghiottirti e a farti sparire per sempre. Mi chiesi per l’ennesima volta che cosa ci ero venuto a fare. La metropoli era per gente sveglia, furba e veloce; solo quel genere di persone potevano sentirsi a loro agio, non certo un boarotto come me.
Eppure, nonostante i miei timori, c’era qualcosa di affascinante in quella prospettiva. L’idea di perdersi tra le strade affollate, di scoprire angoli nascosti e incrociare sguardi sconosciuti, di vivere esperienze nuove e inaspettate. Immaginai i grandi parchi, il mercato di Portobello Road, i mitici pub dove potermi sedere e osservare la vita della città scorrere. Pensai alle luci della sera, che avrebbero illuminato le strade con un bagliore dorato, e al rombo dei tipici taxi neri che avrebbero attraversato le strade come saette. Forse, dopotutto, questo viaggio avrebbe potuto aprirmi nuovi orizzonti, farmi vedere il mondo con occhi diversi e, chissà, magari anche trovare una parte di me che ancora non conoscevo.
Mentre il treno rallentava, segno che stavamo per arrivare, un senso di eccitazione mista a paura mi pervase. Ero pronto a lasciare il mio segno in quella metropoli, a viverla con intensità, a cercare la mia strada in quel labirinto di possibilità. Forse non sarei mai diventato un cittadino, ma ero deciso a fare del mio meglio per non essere solo un altro volto anonimo tra la folla. Con questo pensiero, mi preparai a scendere, pronto ad abbracciare l’avventura che mi aspettava.
Victoria Station non aveva quell’aria di squallore che ero pronto a trovare; in effetti, ero stato un po’ troppo prevenuto. Si vedevano ristoranti, negozi e persino un fiorista, e nessuno finora, preso dalla fretta, ci aveva urtato violentemente come mi sarei aspettato. Io e il compare Bitol, che continuava a emanare folate di sudore acido, stavamo a bocca aperta e con il naso all’insù come bambini al luna park. Intanto, il capo comitiva aveva già sapientemente smanettato con la biglietteria automatica, acquistando i biglietti giornalieri per la metro.
Iniziammo subito a dar spettacolo: il Bitol, con tutto il suo bagaglio, rimase incastrato nel tornello automatico di ingresso. Prima figura di merda. Coraggio, dovevamo farci il callo e prenderla con filosofia, visto che non sarebbe stata l’unica.
Il capo comitiva, ormai abituato ai nostri disastri, ci guardava con una pazienza che meritava un premio. Arrivati finalmente al binario giusto, ci trovammo davanti al treno della metro che sembrava uscito da un film di fantascienza. Le porte si aprirono e tentammo di entrare con la nostra tipica grazia da elefanti: il Bitol, ovviamente, rimase incastrato tra le porte automatiche. Seconda figura di merda. La gente intorno ci guardava con una mescolanza di compassione e divertimento.
Qualcuno avrebbe dovuto filmarci in metropolitana mentre, guardinghi e diffidenti, tenevamo tutti e tre la mano in tasca dove avevamo il portafoglio. Fissai il Sega e gli chiesi: “Ti eo ga vero el corteo?” E via a ridere tutti e tre come scemi.
Ansiosi, cercavamo di capire come leggere la mappa della metro, la paura di finire dopo un migliaio di cambi treno, come nel Monopoli, al punto di partenza, era tanta. A quel punto, a dar spettacolo fui io, mentre tentavo di pronunciare i nomi delle stazioni.
Mi accorsi che un gruppo di ragazze alle mie spalle se la stava ridendo alla grande. Io continuavo imperterrito, ignorando tutto. Alla fine, decisi che era meglio abbandonare ogni tentativo di pronuncia corretta e mi lanciai in una performance teatrale. Finsi di essere un DJ che annuncia le stazioni come fossero titoli di un concerto rock. Il Bitol, dal canto suo, sembrava ancora più spaesato. Con la faccia contrita dal sudore acido, cercava di capire se doveva ridere o piangere.
E così, tra una stazione e l’altra, tra una risata e l’altra, ci ritrovammo a navigare la metro di Londra come tre esploratori persi in un labirinto di risate. Chissà, forse era proprio questo il segreto per godersi al massimo una città sconosciuta: ridere di sé stessi e lasciarsi trasportare dall’umorismo, anche quando la mappa della metro sembra un puzzle impossibile.
Ogni fermata era un’avventura, ogni scala mobile una sfida, ogni sguardo un motivo di ilarità. Alla fine del viaggio in metro, ci sentivamo come degli eroi sopravvissuti a una battaglia epica. Quando finalmente uscimmo alla luce del sole, ci guardammo intorno con la consapevolezza di essere pronti ad affrontare qualsiasi cosa la grande città avesse in serbo per noi.
Sega, con il percorso ben memorizzato nella zucca, procedeva spedito a piè sospinto verso l’albergo; a fatica riuscivamo a stargli dietro, nemmeno il tempo di guardarci attorno per assaporare i primi momenti di vita londinese. Il traffico era assordante, fortunatamente, attraversato lo stradone a quattro corsie, ci immettemmo in una piccola strada in salita e, d’improvviso il paesaggio cambiò, ci trovammo in un tipico quartiere inglese pieno di edifici in stile vittoriano, uno di questi era il nostro minuscolo albergo, “that’s England!” esclamò con fare saccente la nostra guida.
Il nostro primo test di inglese fu rimandato per il semplice fatto che la ragazza alla reception era italiana. Il Sega rimase deluso per non aver potuto sfoderare le frasi da tempo preparate per l’occasione. El Bitol, impaziente come sempre, non attese nemmeno che la tipa, tra l’altro un bel montareo, terminasse le formalità di rito per la registrazione. Le chiese subito, in mezzo dialetto, dove si poteva mangiare nei paraggi.
I nostri soggiorni in albergo si potevano contare sulla punta delle dita di una sola mano e, tutte le volte, la prima domanda del Bitol era sempre la stessa. Speravo che almeno stavolta, nella terra di sua Maestà la Regina dove noblesse oblige, evitasse di comportarsi da grezzo.
El montareo, sorridente e con fare gentile, fornì al boaro abbondanti informazioni, invitandoci tra l’altro a visitare il villaggio (così definivano il quartiere) attorno all’albergo. Il socio ebbe un’erezione, non tanto per le bocce della tipa che facilmente si riuscivano a intravvedere, quanto per una dritta che quella ci passò. La sera stessa, nell’unico pub del villaggio, dove, tra l’altro, avrebbero servito dell’ottimo cibo, ci sarebbe stato un concerto blues di un tipo, a suo dire, molto in gamba.
“Non mancheremo per nessuna ragione al mondo” disse il Sega con la cadenza tipica di un maggiordomo inglese. “Musicisti?” chiese la nostra amica. “Quasi”, fu la risposta. In effetti, definire il Bitol un musicista sarebbe stato spararla grossa.
Dopo aver armeggiato per alcuni minuti a testa con la chiave elettronica e aver pronunciato centinaia di “lassame far a mi”, riuscimmo finalmente a entrare in camera. Il “musicista”, un attimo dopo aver posato lo zaino, cominciò a saltare da un letto all’altro come un bambino, facendo finta di suonare la chitarra e improvvisando un medley dei Beatles. Lo lasciammo fare per il tempo che ci servì ad andare al bagno, almeno aveva avuto la decenza di togliersi le scarpe.
Calcolammo di avere poco più di ventiquattrore a disposizione per il nostro tour londinese, come missili ci fiondammo in metropolitana direzione Green Park, optammo per quella fermata perché, in teoria, era una delle più centrali sul percorso della nostra linea e poi, il nome evocava un parco; in effetti il parco c’era. Da buon Fugassetta decisi di prendermi la mia prima soddisfazione londinese, nonostante l’ora, mi fermai al primo chiosco che trovai e ordinai un bicchierone maxi di caffè aromatizzato alla cannella e una ciambellona; non riuscii a capire quanto dovevo pagare, per non sbagliare gli sganciai un bigliettone da dieci Pound, senza nemmeno controllare che il resto fosse giusto, con quel bollente bicchierone in mano, mi sentii pienamente realizzato, il caffè mi rese subito euforico, Londra era ai miei piedi.
“Quanto hai pagato ‘sta porcheria?”, Sega cercò di spegnere il mio entusiasmo, non lo badai, sentivo già l’irresistibile richiamo di quella bella erbetta soffice che avevo innanzi. Mi distesi sul prato testa appoggiata sullo zainetto, occhi al cielo e cannuccia in bocca, Sega mi imitò, il terzo uomo dovette adeguarsi alla maggioranza.
Ero incantato dalla bellezza del posto. Forse era il contrasto tra il luogo dove sono nato, in cui ogni cosa che sbucava dal suolo era asservita all’utilità, e questo giardino inglese, dove tutto sembrava progettato per rendere l’ambiente bello e rilassante. Mi voltai su un fianco per osservare meglio la superficie del manto erboso. Lo tastai più volte, cercando di carpire le differenze con “l’erba di casa mia”. Era senz’altro più folta, quasi fosse fatta apposta per distendersi sopra.
Mi persi in quella sensazione, affondando le mani tra i fili d’erba morbida e fresca. Ogni singolo stelo sembrava curato con amore, come se qualcuno avesse dedicato ore a pettinarli uno ad uno. Era una sensazione nuova, un lusso inaspettato che mi fece chiudere gli occhi e immaginare di essere in un quadro dipinto a mano.
Mi sentii sopraffatto da un senso di gratitudine per quel momento, per quella semplice e pura bellezza che mi circondava. In quel momento, lontano dalle mie paranoie quotidiane, mi sentii rinascere.
“No par vero”, anche Sega, faccia a quel cielo azzurro con qualche sporadica nuvoletta, si stava gustando il primo traguardo in terra straniera.
El Bitol, con fare da orangotango, gesticolava selvaggiamente e emetteva “hu hu hu” mentre ci pregava di alzarci in piedi alla svelta. Stava porgendo la macchina fotografica a una ragazzina per scattare la nostra prima foto ufficiale di gruppo. L’inglesina, una mezza punk dotata di grande spirito artistico, ci sorprese: volle fotografarci tutti e tre distesi sull’erba, perché, a suo dire, era più “cool”. Quegli scatti, in effetti, rimasero indimenticabili.
Mentre l’orango continuava a saltellare attorno scattando foto all’impazzata, io e Sega, rimanendo distesi sull’erba a osservare le nuvole che accarezzavano le chiome degli alberi, ragionammo su quello che doveva essere lo spirito del viaggio. Non dovevamo assolutamente farci prendere dall’ansia di vedere tutto, ma piuttosto assaporare con lentezza quello che ci sarebbe capitato lungo il percorso. “Vedi,” disse il saggio Sega, “è lo stesso con il cibo. Se non lo assapori lentamente, non riuscirai mai ad apprezzarlo e sentirti appagato.” Stava parlando a uno che, posseduto dallo spirito demoniaco del Fugassetta, ingurgitava sempre tutto con avidità e in fretta, pensando già a quello che avrebbe mangiato dopo.
“Rimetto la guida nello zaino e, da ora in poi, cammineremo guidati solo dal nostro istinto o dal caso,” dissi. “C’è il serio rischio di perdersi, ma è veramente figo, ci sto!” rispose Sega. L’orango, messo al corrente delle nuove linee guida, era un po’ meno convinto, ma con la garanzia che per cena saremmo andati in quel pub, che avremmo visitato qualche negozio di musica e, l’indomani, attraversato le strisce pedonali di Abbey Road, ci diede il suo nulla osta.
Miracolosamente non ci perdemmo affatto. Riuscimmo, in assoluta tranquillità, a schiacciarci contro la cancellata di Buckingham Palace, a intingere nell’acqua di Hyde Park i nostri piedi gonfi, a fare ordinatamente la fila per prendere uno dei famosi autobus rossi a due piani, a mangiare dei gustosissimi sandwich fatti fare “su misura” e a farci spintonare dalla folla a Covent Garden.
El Bitol, sempre lui, ogni tanto ci sorprendeva con i suoi scatti d’entusiasmo, come quando provò a fare l’equilibrista sul bordo di una fontana, finendo inevitabilmente con un piede in acqua e strappando risate ai passanti. Io e Sega, con il nostro nuovo mantra del “viaggio lento”, ci godevamo ogni singolo momento, ogni dettaglio della città che si svelava davanti a noi come un libro da sfogliare pagina dopo pagina.
Fu una giornata perfetta, fatta di piccoli miracoli e grandi risate, con l’orango che saltellava attorno come un bambino iperattivo, Sega che dispensava saggezza a ogni angolo e io che mi perdevo nella bellezza di Londra, finalmente libero dall’ansia di vedere tutto e, pronto a vivere ogni attimo con serenità.
Continua …..
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