Fio dei Fiori – Parte I^
© 2009 – 2024 Michele Camillo
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Capitolo 5 – Dobbiamo andare
Anche se il posto mi faceva schifo, non vedevo l’ora di andare in quella specie di officina, il luogo del nostro appuntamento. Nello zainetto avevo qualcosa di scottante, roba esplosiva: il libro di Jack Kerouac e quella fascia da hippy avrebbero, con molta probabilità, fatto saltare in aria la nostra routine. Quel giorno avevano già scombinato la mia esistenza, e ora sarebbe toccato anche agli altri due compari, di cui necessitavo tutto l’aiuto possibile.
I due chilometri di strada che separavano l’officina “Testarossa” dalla pizzeria di Ciro el teron, sembravano cento. Ero carico come un obice pronto a sparare il pezzo da novanta; aspettai solo mezzo secondo dopo che Cesco Tonon, detto l’onto, ebbe chiuso il blocchetto delle ordinazioni; feci il classico profondo respiro e, con grande enfasi calai, come un asso a scopa, il libro sul tavolo. I due mi guardarono in modo strano, anche perché non avevo proferito verbo. Sega lo tirò a sé e iniziò a sfogliarlo, aveva lo stesso sguardo di quel canchero del professor Belloni, mentre era intento a correggermi il compito di matematica. Quel suo sorrisetto sarcastico mi stava innervosendo, sembrava volesse leggere tutto il libro seduta stante, ovviamente non aveva notato la cosa più importante.
“Sacco a pelo e chitarra ce l’abbiamo, il problema sarebbe trovare uno di quei vecchi pulmini Volkswagen, non male come idea, ferie on the road, che figo!” disse Sega, mi prese lo sconforto.
“Questa non l’avevo vista, che roba è?” Finalmente, si accorse della dedica.
“Fammi vedere” Il Bitol gli strappò brutalmente il libro dalle mani. Ero pronto con il foglietto contenente la traduzione ma, il socio, con un cenno della mano, mi stoppò.
“Però,” disse Armando con un groppo in gola, tentando di celare la commozione dietro il libro. Come cavolo faceva a conoscere l’inglese, quel saltafossi uscito a pedate nel culo dalle medie, era un mistero.
Quasi senza voce dall’emozione, raccontai nei minimi dettagli le modalità e il luogo del ritrovamento. I due ascoltavano attoniti, costringendomi a ripetere i fatti per ben tre volte; neanche fossi stato davanti ad un magistrato. Alla fine di quella specie di interrogatorio, osservando le loro espressioni, dedussi che non era più solo una mia questione: la misteriosa Kate, la hippie, era entrata prepotentemente anche nella loro vita.
L’occhialuto Sega dava l’impressione di doversi tuffare con la testa dentro il libro; stava rileggendo la frase, muovendo le labbra serrate da un lato all’altro; fa sempre così quando si trova di fronte a un problema da risolvere con rigore scientifico. “Ma… tu penseresti che…” sussurrò, quasi vergognandosi di dirlo; allargai le braccia.
“D’altronde” interruppe deciso l’altro, “quelli erano i tempi dell’amore libero. Per dirla volgarmente, tutti ciavava co’ tutte.”
Per avere un’ulteriore conferma, feci finta di non capire. Il Bitol si alzò di scatto, afferrandomi per le spalle e scuotendomi bruscamente: “Fuga, astu capio, quea no’ ea gera ‘na hippi quaeunque; ea xe to’ mare e ti; ti xe un fio dei fiori!”. Tra gli sguardi sbigottiti degli altri avventori, iniziammo a ridere senza freni.
Messa così sembrava semplice, ma la realtà era un mosaico complesso. Kate non era solo una che aveva scritto una frase in quel libro, ma una tessera cruciale della mia storia personale. Ogni frammento di informazione che emergeva rendeva il quadro più chiaro e, al contempo, più confuso. Sega continuava a riflettere, la sua espressione era un misto di concentrazione e incredulità.
Sentivo un tumulto di emozioni dentro di me: eccitazione, curiosità, speranza. Ero determinato a scoprire la verità, per quanto potesse essere dolorosa. Sapevo che il cammino sarebbe stato lungo e difficile, ma ero pronto ad affrontarlo. Kate era il nostro enigma da risolvere. E io, insieme a Sega e al Bitol, eravamo decisi a svelarne ogni segreto.
“’speta,’speta,‘speta, no’ ea xe finia”. Il viso del Bitol era rosso peperone, tutto ansimante si mise a frugare dentro il suo lercio zainetto. Sperai solo che anche lui non tirasse fuori un vecchio libro con dedica in ultima pagina; due in un giorno solo sarebbero stati troppi per il mio cuore.
Ne trasse fuori una rivista che definire spiegazzata era un eufemismo, dava l’aria di essere una di quelle che giaceva da ormai dieci anni nella sala di attesa del nostro medico di paese.
“Che coincidenza, che segno del destino!“, esclamò con le braccia al cielo, sembrava uno di quei santoni invasati che vedi in televisione. Per un attimo pensai che, nell’orto dietro l’officina, coltivasse delle strane erbe.
Tenendola bene in evidenza, ci fece passare quella specie di rivista davanti gli occhi alla stessa maniera di un prestigiatore quando mostra una carta; vi campeggiava il titolone “Woodstock 40”.
“E’ qui che dobbiamo andare” Ora sembrava zio Paperone alle prese con un’antica mappa del tesoro.
“Dunque, amici, miei cari mul, ascoltatemi bene. Da ignoranti in materia non credo sappiate cosa è successo, fatalità quarant’anni tondi, tondi fa in un paesino in America, piccolo come il nostro, che si chiama Bethel” Non ci lasciò rispondere; iniziò una inaspettata quanto interessante conferenza sulla Beat Generation, in particolare su un mitico raduno de caveoni, come chiamiamo noi gli hippies, svoltosi in quel posto dal 15 al 20 agosto 1969, il tutto con precisi riferimenti a canzoni e relativi cantanti. Lo seguivamo incantati, senza accorgerci che l’Onto ci aveva portato le pizze già da dieci minuti.
“El professor”, come lo soprannominai in quel momento, doveva essersi reso conto che faticavamo a trovare un nesso logico tra la sua estemporanea lezione e “l’affaire” Kate A un certo punto, tenendo un pezzo di crosta della pizza tra le labbra come fosse un sigaro, esclamò: “ditemi pure che sono matto, ma io credo nel destino; come dice quel tale del libro, bisogna andare” Poi sbatté forte la rivista sul tavolo; lo spostamento d’aria, fece volare i tovaglioli e traboccare la birra dai bicchieri.
“Andare dove?” chiesi ingenuamente. L’amico divenne nuovamente rosso. “Ma aeora ti xe proprio soco, ti ga ‘na testa che no ea magna ‘gnanca i porsei; menomal che ti ga studià più de mi”. Sega, nel frattempo, se la stava ridendo.
Spiegò che era venuto alla riunione, più convinto che mai, a proporci una di quelle cose da “almeno una volta nella vita” o meglio, quello che un rocchettaro vintage come lui avrebbe dovuto fare almeno una volta nella vita: recarsi in pellegrinaggio nel luogo dove, nell’agosto del 1969, si tenne il festival rock più famoso della storia.
Balzò in piedi di scatto, brandendo quel povero libro che, da quando era nelle sue mani, aveva subito una rapida accelerazione nel processo di invecchiamento. Con un filo di mozzarella che gli pendeva dalla bocca proclamò: “Ora avete capito cosa c’entra il destino quindi, (qui è meglio saltare la volgarissima esclamazione), a Woodstock 2009 quest’anno ci saremo anche noi, e andremo in cerca di Kate!“. Partì intonando a squarciagola un medley di evergreen dell’epoca, e pensare che non aveva ancora toccato il bicchiere di birra. A pensarci bene, era vero: quel libro, magicamente tornato alla luce poche ore prima, e la stravagante idea del Bitol erano, in qualche modo, legati tra loro, una strana coincidenza.
Non sono mai stato uno da facili illusioni; tanto che i pochi venditori porta a porta con cui ho avuto il dispiacere di interagire, finivano col filarsela in preda all’esaurimento nervoso. Eppure, stavolta sembrava che il caso fosse guidato da una misteriosa mano. Al solo pensiero, un brivido gelido mi percorse la schiena. Quel giorno, un enigma mi si era presentato all’improvviso, e proprio in quel momento, si prospettava quel viaggio che pareva l’unica via per tentare di risolverlo. Non sapevo bene il perché, ma sentivo profondamente che esisteva un legame invisibile tra la misteriosa donna che aveva lasciato intenzionalmente una traccia di sé in quel libro e quel lontano angolo d’America. Un legame che vibrava silenzioso nel mio animo.
Come se mi avesse letto nel pensiero, anche lo scettico Sega avvalorò la tesi che frullava nella mente del Bitol; se c’era un posto dove trovare tracce di Kate, era Woodstock 2009, il messaggio che aveva lasciato era chiaro, bisognava seguire la musica.
Era una coincidenza perfetta e mi eccitai al pensiero che l’idea del Bitol, stavolta, potesse finalmente realizzarsi concretamente; per noi questo sarebbe stato “il viaggio” con la V maiuscola. Sega, nonostante la sua diffidenza e negatività insite nel DNA, con insolito entusiasmo, si fece carico dell’organizzazione. Le sue parole, “dobbiamo proprio andarci“, richiamavano, riguardo al destino, quelle scritte da Kerouac: “dobbiamo andare e non fermarci“. Il dado era tratto, e in quel momento capii che il viaggio non solo era una realtà, ma una necessità.
Il nostro pellegrinaggio non era solo un cammino fisico, ma un viaggio dell’anima, una ricerca di qualcosa che sembrava sfuggire alla comprensione. La musica era il nostro filo di Arianna, capace di guidarci attraverso il labirinto dei ricordi e delle speranze. Ogni nota, ogni accordo, sembrava chiamarci verso una destinazione incerta ma inevitabile.
Sega, con la sua solita meticolosità, cominciò già a pensare ai dettagli. C’era una luce nei suoi occhi che non avevo mai visto prima, un luccichio di speranza e avventura. Il nostro scettico compagno stava, forse per la prima volta, lasciandosi trasportare dall’onda del sogno.
Sentivo crescere dentro di me un senso di inevitabilità. Era come se tutte le strade percorse, tutti gli errori e le scelte fatte ci avessero condotto precisamente a quel punto, a quel viaggio. Non era solo una questione di ritrovare Kate, ma di ritrovare noi stessi, di scoprire cosa significasse davvero vivere il momento, abbracciare l’incertezza e la bellezza del destino.
Woodstock 2009 non era più solo una meta geografica. Era un simbolo, un faro nel buio delle nostre piatte e insignificanti vite. Seguendo la musica, avremmo forse trovato le risposte che cercavamo, o forse no. Ma in quel viaggio, sapevamo di poter ritrovare la parte più autentica di noi stessi, quella che il tempo e le circostanze avevano sepolto sotto strati di quotidianità.
Il cammino era tracciato, e con il cuore in tumulto e l’anima in festa, eravamo pronti a seguire la melodia del destino, ovunque essa ci avrebbe portato.
Uscimmo fuori in religioso silenzio. Poi, prima che salissi in auto, Sega mi si avvicinò e disse: “Dai che andiamo da Kate“. Mi mise un braccio intorno al collo, un gesto mai fatto da quando lo conoscevo. In quel momento, il mondo sembrò fermarsi, e il calore di quell’abbraccio raccontò più di mille parole.
Continua …..
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