Fio dei Fiori – Parte I^
© 2009 – 2024 Michele Camillo
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Capitolo 3 – I Mul
Ero un groviglio di emozioni contrastanti: eccitazione sfrenata e ansia paralizzante. D’altronde, ciò che mi era successo era talmente sconvolgente per uno come me che, fino a poche ore prima, conduceva una vita piatta come una pizza margherita senza mozzarella. E così, con il cuore che mi batteva come un tamburo in un concerto rock e le mani sudate come un gelato al sole, decisi di uscire. Dovevo adempiere all’ultimo punto della riunione, una fatica erculea – almeno per uno che fino a ieri sera si emozionava solo per un nuovo episodio della sua serie TV preferita.
Il rito del cappuccino con brioche è molto più di una semplice sosta in pasticceria. È una delle mie comfort zone. Oltre a mettermi di buon umore, questo rituale mi aiuta a compensare le frustrazioni. È una forma di autogratificazione e ricompensa che mi aiuta a gestire le emozioni negative; insomma, una vera e propria seduta di psicoterapia quasi low cost.
Dalla tensione, avevo le gambe così rigide che sembravo un ultranovantenne dimenticato in lungodegenza. Ogni passo era una sfida epica: il piede destro si muoveva a scatti, il sinistro sembrava incollato al pavimento. Ho iniziato a scendere le scale con la grazia di un elefante in un negozio di porcellane, aggrappandomi al corrimano come se fosse la mia unica speranza di salvezza. Ogni gradino era una piccola vittoria, anche se a un certo punto ho pensato seriamente di chiamare i pompieri per farmi calare con una corda. Quando finalmente sono arrivato in strada, sembrava che avessi completato una maratona – peccato che il pubblico fosse composto solo da un paio di piccioni per niente impressionati.
Le ragazze che gestiscono il locale di cui sono frequentatore abituale ormai mi conoscono bene, e io ho imparato a conoscere loro altrettanto bene. Chissà se si sono mai accorte degli innumerevoli sguardi lanciati dietro il bancone che qui in volgo chiamiamo scanociae; mi chiedo continuamente che impressione si siano fatte di me. Sono due ragazze veramente carine, dentro e fuori, e non vorrei che mi vedessero unicamente come un bavoso sfigato segaiolo che non riesce a rimediare uno straccio di donna.
Nella pasticceria che ormai chiamo “dae bee fie”, ho lasciato così tanti stipendi che potrei avere una targa commemorativa sulla parete. Ogni cappuccio & brioche era un investimento nella mia felicità – o almeno, così mi piaceva pensare mentre svuotavo il portafoglio con l’entusiasmo di un giocatore d’azzardo. Ecco perché quando parlo della mia psicoterapia come “quasi low cost” lo faccio con un sorriso sornione. Dopotutto, mi sa che un’ora di chiacchiere sul divano del terapista mi verrebbe a costare come una settimana di colazioni “dae bee fie”. Vuoi mettere la differenza? Specie se sotto il camice indossano la minigonna. D’altronde, che ci volete fare, come si dice da noi, “se no’ go el tocio, almanco che me gusto l’ocio”.
Alessia era piuttosto sorpresa nel vedermi arrivare lì alle sei del pomeriggio e, per di più, ordinare il solito: cappuccino con poca schiuma e brioche. “Allora, avete deciso dove andare in ferie?” La moretta mi fece scattare un campanello d’allarme. Accidenti, ero andato completamente nel pallone, dimenticandomi che alle 19:30 dovevo trovarmi con Armando “el Bitol” e Adriano “el Sega” per la nostra annuale riunione di programmazione delle ferie.
Tornai velocemente a casa, per fortuna avevo già pronti tutti gli incartamenti necessari, ovvero un pacco di stampate ricavate da ricerche sul Web che, ovviamente sarebbero come sempre state sprecate. Buttai l’occhio sul libro e la bandana e, presi anche quelli; a remengo le decisioni appena deliberate in riunione, l’affare era troppo grosso, era meglio vuotare il sacco e sfogarmi subito con gli altri due compari.
Erano anni che, già dopo Pasqua, noi tre Mul, così si chiamano da queste parti i single irreversibili, iniziavamo la nostra epica battaglia su dove trascorrere le mitiche ferie di agosto. Sul tavolo delle proposte c’era di tutto: il Bitol, amante delle note e delle arti, puntualmente suggeriva mete musical-culturali; il Sega, sognatore solitario, proponeva posti sperduti in capo al mondo; mentre io, il pragmatico del gruppo, cercavo di rimanere con i piedi per terra proponendo qualcosa di rilassante e, soprattutto, proficuo per la nostra condizione di scapoli incalliti, tipo un villaggio turistico pieno zeppo di “materiale” interessante.
Si discuteva, ci si accapigliava, ci si sfiniva, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso: il costo delle vacanze risultava un salasso per le nostre povere tasche. E così, ogni anno, dopo tanto sognare, ci ritrovavamo a fare i conti con la dura realtà del nostro portafoglio.
In realtà, anche se ci seccava ammetterlo, eravamo ben consapevoli che lo scopo fondamentale del viaggio non era la conoscenza, ma la ricerca. E che cosa stavamo cercando con tanta disperazione? Ma sì, proprio quella cosa lì, quella che alla fine fa girare il mondo: il sacro graal delle vacanze da sfigati.
Perciò, se volevamo portare a casa un qualche risultato decente, dovevamo fare affidamento su quello che il mercato locale poteva offrire. E non eravamo certo dei gran viaggiatori: fondamentalmente eravamo paurosi ed eternamente insicuri. Pensare di fare un viaggio più lungo di duecento chilometri ci faceva venire l’ansia come se dovessimo attraversare l’Oceano Atlantico a nuoto. Per non parlare dei miei sensi di colpa causati dalla situazione familiare, che mi facevano sentire come se stessi abbandonando una nave che affondava.
Alla fine, dopo tanto parlare e discutere, la meta era sempre la stessa: appartamento in affitto, che noi chiamavamo con un po’ di orgoglio “base operativa”, alternativamente a Lignano o Bibione. Se ancora oggi ci troviamo nella stessa condizione di Mul, è facile concludere che i quindici anni di questo collaudato cliché non hanno portato a nessun significativo risultato. In pratica, abbiamo solo contribuito alla crescita demografica delle zanzare locali, meglio note come mussati.
Eravamo talmente introversi da non avere nemmeno il coraggio di usare, quando parlavamo di ragazze, quei volgari termini canonici, ormai da secoli coniati dal maschio cacciatore. El me paron, il ragionier Emilio Franzin, mi ha insegnato un sacco di cose fondamentali per l’esistenza tra cui, come farsi fare un perfetto cappuccino con poca schiuma e a chiamare un pezzo di gnocca, montareo. Il termine montareo, plurale montarei, divenne per noi la parola in codice per definire l’oggetto del nostro desiderio, calzava a pennello in quanto era un nome maschile e nessuno avrebbe mai immaginato a cosa ci riferissimo.
Parlare di vacanze era comunque piacevole. Un saggio ha detto che la felicità non sta nel raggiungere la meta, ma nel viaggio per arrivarci. Noi, però, non facevamo nemmeno il viaggio, eppure andava bene lo stesso. La vera gioia risiedeva nei momenti di condivisione, nei racconti e nei sogni che costruivamo insieme, immaginando luoghi esotici e avventure lontane. Era la possibilità di evadere dalla quotidianità attraverso le parole, di vivere esperienze fantastiche solo con la mente. Così, anche senza partire, trovavamo un modo per essere felici.
A proposito di viaggi, ora non resta che portarvi alla scoperta del piccolissimo mondo in cui vivo e dal quale, finora, non mi sono mai allontanato più di tanto.
Continua …..
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