L’ultima fila

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 4 – L’ultima fila

La vecchia scuola elementare “De Amicis”, insieme alla chiesa, alla canonica, all’asilo delle suore, al municipio e alla trattoria “Alla Pergola”, costituiva l’anima pulsante del mio paese. I vecchi raccontano che, oltre a questi edifici e a qualche dimora padronale, non c’era altro: tutt’intorno si stendeva solo un’immensa e piatta distesa di campi. Questa vastità, così sconfinata, permetteva di scorgere il viale alberato che conduceva alla chiesa da chilometri di distanza, come un nastro verde che si dipanava nell’orizzonte, unendo terra e cielo in un abbraccio senza tempo.

L’edificio era imponente e austero, circondato da un grande giardino dove, con qualsiasi tempo, centinaia di chiassosi bambini scorrazzavano felici. Progettato con cura, seguendo i canoni di un’architettura d’altri tempi, offriva ampi spazi e solidità. Non fu l’esplosione di una bomba a sconquassarlo, nonostante durante le due guerre qui piovessero come grandine. Fu, piuttosto, un’esplosione demografica a metterlo alla prova, un improvviso aumento di bambini per i quali servivano altrettante aule.

Fu così che una parte terminale del corridoio venne chiusa con una porta, e dentro ci ficcarono ben ventiquattro banchi, disposti in otto file da tre ciascuna. Il primo ottobre del ’72, tutto spaesato e timoroso, indossando per la prima volta, il grembiulino nero, il colletto bianco e il fiocco azzurro, varcai la soglia di quell’aula. Dentro, un silenzio che mi metteva ancora più a disagio: sembrava che tutti fossero lì a squadrarmi. Con lo sguardo abbassato, mi fiondai sugli unici banchi liberi, quelli in ultima fila. In quegli attimi di sconforto, senza alcun compagno di banco, mi sentivo un reietto. Poi, quasi contemporaneamente, sui due banchi vuoti presero posto Armando Zago, un ragazzino cicciottello dai capelli rossi, e Adriano Boer, mingherlino e già con gli occhiali, meglio conosciuto come “el fio dea bidea”.

Il ricordo più bello di quel giorno fu la visione della maestra, la dolcissima Laura Pasquon. Entrò in classe accompagnata dal direttore, il quale ci disse che anche per lei era il primo giorno di scuola. Io, lì per lì, non capii, perché fui immediatamente folgorato dai suoi occhi azzurri e dai lunghi capelli biondi; credo non arrivasse ai vent’anni. Avrei voluto prenderla per mano e portarmela subito a casa per sostituire la vecchia Bepina come mamma. Col senno di poi, dopo tante riflessioni, devo dire che lei è stata la prima donna di cui mi sono innamorato.

Inutile dire che quei due continuano a essere ancora miei compagni di banco, anzi, di bancone del bar; dopo più di quarant’anni, sono ancora qui, sempre pronti ad aiutarmi e a suggerirmi quale tipo di birra bere.

Se nel frattempo non vi siete annoiati (e vi capisco se lo avete fatto), comincerei a parlarvi di Armando e suo fratello.

Dovete sapere che, qui in campagna, abbiamo una lunga tradizione di affibbiare soprannomi. Un’abitudine nata forse a causa dei troppi cognomi uguali. I fratelli Armando e Giorgio Zago non fanno eccezione. Il loro soprannome, “i Bitol”, viene dalla loro sfrenata passione per la musica degli anni ’60, in particolare per i Beatles. Nello slang locale, Beatles diventa Bitol, con una pronuncia tutta nostra.

Il vero problema, però, è che i nostri Bitol non si limitavano ad ascoltare la musica: la suonavano anche! Armando era alla chitarra e Giorgio al basso. Con altri tre sfigati suonatori della domenica formavano un gruppo di cui, dalla disperazione, ho rimosso il nome. Sorvoliamo sul loro curriculum artistico: le loro tournée coprivano al massimo un raggio di cinque chilometri dal paese. Hanno calcato il palco di ben sei edizioni della sagra parrocchiale e tre della concorrente Festa dell’Unità.

Nel 1978, don Guerino gli affidò l’appalto per l’animazione della messa delle dieci. La gente del posto ribattezzò subito l’evento “ea messa bit” (per chi frequenta Oxford, si traduce “la messa beat”). Purtroppo, la loro avventura durò poco: un comitato inquisitorio composto da un gruppo di vecchie vedove bigotte e generose con la questua, riuscì a farli mettere al bando.

Indimenticabili erano i loro sound-check: duravano quattro volte tanto le esibizioni. I fischi che uscivano dalle casse acustiche stordivano noi poveri amici presenti alle prove fino al giorno dopo.

Bitol riescono maldestramente a sopravvivere facendo i meccanici, gestiscono una specie di officina sperduta in mezzo al nulla, ricavata da una vecchia stalla, chiamata la “Testarossa”. Il nome ha un doppio significato: non solo richiama la leggendaria Ferrari, ma anche i loro capelli rossi fiammanti. 

Qui dalle nostre parti, terra di capannoni abusivi e coltivazioni OGM, si è arricchita, più o meno legalmente, una sfilza enorme di generazioni; gente che non temeva Dio ma, la Guardia di Finanza sicuramente sì. Per la stirpe degli Zago, soprannominati i Semensa, niente da fare. Per secoli, hanno cercato invano di uscire da una condizione di arretratezza economica e sociale senza risultati. Non vi starò a citare tutte le loro innumerevoli imprese fallimentari nel tentativo di “far schei”; per ragioni di spazio ma, soprattutto per compassione verso i loro antenati; pensate solo che, quando furono inventati gli ascensori sociali, sul loro c’era sempre un cartello con scritto “Guasto”.

La loro “azienda” rispecchiava perfettamente tutto questo, una continua lotta contro la sfortuna e la mancanza di risorse. Guardando quell’officina, appariva chiaro a chiunque che i due stentavano a campare. 

Lo spazio esterno è un mix tra l’interessante e il desolante. In bella vista c’è una Fiat 127, prima serie del ’76, verde pisello e un furgone Fiat 238 del ’74, ex “mezzo aziendale” dei Bitol, nostalgici dei bei tempi andati. Entrambi i veicoli sono diventati magazzini su ruote, pieni di vecchi pezzi d’auto ammassati alla rinfusa. Seguendo la filosofia contadina per cui “del porseo no’ se butta via niente” i Bitol conservano tutto, convinti che un giorno potrebbe servire.

Attorno ai veicoli, il caos regna sovrano: fusti, marmitte, portiere sparsi ovunque, spesso nascosti sotto un manto di erbacce che la giungla amazzonica, a confronto, ti sembra un giardino inglese. Mi vergogno a dirlo, ma finisco per gettare nella spazzatura i prodotti dell’orto che mi offrono con insistenza. Prendiamo l’acqua piovana per esempio: la raccolgono in fusti che chissà cosa contenevano prima.

Ah, e non dimentichiamoci dell’antifurto. Dopo la chiusura, attivano il sistema di sicurezza: Dik, un cane lupo con un pedigree incerto e un aspetto ancor più incerto, legato alla classica catena che scorre su un filo di ferro. Dik è un po’ come mio cognato Gino: sempre di cattivo umore, ringhia a chiunque e mangia tutto quello che trova, polpacci degli amici inclusi.

L’unico lato positivo è che l’officina funge anche da sala prove per i fantastici Bitol & soci. Situata in mezzo ai campi, le loro dolci note non disturbano nessuno. Forse solo porsei e gaine, ma a loro non importa.

Che dire poi del Sega? Lo chiamavamo così per due motivi: il suo aspetto fisico, magrolino e di bassa statura, e la sua abilità nel costruire di tutto, specialmente con il legno. A lui, come potete immaginare, quel nomignolo non è mai piaciuto. Sinistro come un gioco di parole che lo faceva sembrare uno che se lo mena tutto il giorno.

Di noi tre, è l’unico ad avere dei genitori di stampo moderno e non dei trogloditi campagnoli come quelli miei e del Bitol. Il papà Sergio faceva il custode alla SICE, una grossa fabbrica di mobili, dove ora lavora il Sega come responsabile della manutenzione macchinari. Fu lui a regalargli, quand’era piccolo, la scatola del traforo che scatenò la sua abilità. La mamma Marisa era bidella nella scuola elementare nonché ottima cuoca. Io e il Bitol continuiamo a darle scherzosamente la colpa di averci fatto crescere la pancia a forza di inviti a cena e pranzo.

Con una famiglia così, non sorprende che il Sega abbia sviluppato la sua passione e competenza nella lavorazione del legno e affini. La sua cameretta era un laboratorio in miniatura, pieno di utensili e materiali, dove passava ore a costruire modellini e oggetti vari. 

Mio padre, non aveva una grande opinione dei genitori di Sega, li definiva spregiatamente dei “basabanchi democristiani” a causa della loro assidua frequentazione della chiesa. Non c’era da stupirsi lui, in genere, non aveva una grande opinione di nessuno, me compreso.

Sior Sergio, quarant’anni fa, era uno dei pochi in paese a possedere un’auto. Grazie a lui, abbiamo cominciato a scoprire un po’ di mondo, quello che si stendeva appena oltre i confini del nostro piccolo borgo. Ci portava in giro con la sua mitica 600 azzurrina, una scintilla di libertà che illuminava le nostre domeniche, altrimenti piatte e senza colore.

Anche Sega ha, come dico io, la musica nel cuore. All’età di sette anni ricevette in regalo dai suoi genitori un mangiadischi, che ancora oggi mi confida essere uno dei più bei regali ricevuti. Immediatamente condivise quella meraviglia con noi: il miracoloso strumento che faceva uscire suoni ingoiando un piccolo disco di vinile ebbe il potere di colorare tante giornate grigie, di metterci di buon umore quando eravamo giù di corda ma, soprattutto, di farci sognare. Lo portavamo con noi dappertutto e, all’ombra del figher accanto casa mia, iniziammo ad ascoltare le prime canzoni “da grandi”, ovvero i 45 giri che Sega si faceva prestare da sua cugina Franca. Così, in quell’angolo sperduto di campagna del basso Piave, risuonavano le note dei più famosi artisti in voga al momento. Quei momenti magici erano spesso interrotti bruscamente da un imbestialito Joani Nosea che, urlandoci contro, ci cacciava via in quanto gli davamo fastidio.

Sega si appassionò a tutto ciò che riproduceva un suono e, in seguito, iniziò a costruirsi personalmente casse acustiche e amplificatori per ottenere sempre più la perfezione nell’ascolto. La sua stanza, già un laboratorio di lavorazione del legno, divenne anche un tempio della musica. Ogni volta che entravamo lì, ci sembrava di entrare in un mondo nuovo, fatto di suoni cristallini e melodie affascinanti. Sega non si accontentava mai, sempre alla ricerca del suono perfetto, sperimentando e migliorando ogni dettaglio. Unico difetto è il suo fatalismo cronico, ogni volta che incappiamo nella malasorte è sempre pronto a dire “eo savevo mi”.

Un mistero rimane ancora il motivo per cui non abbia proseguito gli studi nonostante gli ottimi risultati alle superiori e l’incoraggiamento dei genitori.

Quello che sembra accumunarci davvero è una gran voglia di emergere e di riscatto. Nonostante gli anni siano passati, noi tre continuiamo a star seduti nell’ultima fila della vita, proprio come ai tempi della scuola. Ma forse, proprio come ai tempi della scuola, è in quest’ultima fila che troviamo la nostra vera forza, la nostra amicizia e il nostro spirito indomabile. E mentre ci sediamo al bancone del bar, scherziamo e sogniamo insieme, ci rendiamo conto che, nonostante tutto, abbiamo già vinto la nostra battaglia più importante: quella di rimanere uniti, sempre pronti a sostenerci l’un l’altro, qualsiasi cosa accada e, quel 18 giugno 2009, qualcosa stava per accadere.

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I Mul

Fio dei Fiori – Parte I^

© 2009 – 2024 Michele Camillo

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Capitolo 3 – I Mul

Ero un groviglio di emozioni contrastanti: eccitazione sfrenata e ansia paralizzante. D’altronde, ciò che mi era successo era talmente sconvolgente per uno come me che, fino a poche ore prima, conduceva una vita piatta come una pizza margherita senza mozzarella. E così, con il cuore che mi batteva come un tamburo in un concerto rock e le mani sudate come un gelato al sole, decisi di uscire. Dovevo adempiere all’ultimo punto della riunione, una fatica erculea – almeno per uno che fino a ieri sera si emozionava solo per un nuovo episodio della sua serie TV preferita.

Il rito del cappuccino con brioche è molto più di una semplice sosta in pasticceria. È una delle mie comfort zone. Oltre a mettermi di buon umore, questo rituale mi aiuta a compensare le frustrazioni. È una forma di autogratificazione e ricompensa che mi aiuta a gestire le emozioni negative; insomma, una vera e propria seduta di psicoterapia quasi low cost.

Dalla tensione, avevo le gambe così rigide che sembravo un ultranovantenne dimenticato in lungodegenza. Ogni passo era una sfida epica: il piede destro si muoveva a scatti, il sinistro sembrava incollato al pavimento. Ho iniziato a scendere le scale con la grazia di un elefante in un negozio di porcellane, aggrappandomi al corrimano come se fosse la mia unica speranza di salvezza. Ogni gradino era una piccola vittoria, anche se a un certo punto ho pensato seriamente di chiamare i pompieri per farmi calare con una corda. Quando finalmente sono arrivato in strada, sembrava che avessi completato una maratona – peccato che il pubblico fosse composto solo da un paio di piccioni per niente impressionati.

Le ragazze che gestiscono il locale di cui sono frequentatore abituale ormai mi conoscono bene, e io ho imparato a conoscere loro altrettanto bene. Chissà se si sono mai accorte degli innumerevoli sguardi lanciati dietro il bancone che qui in volgo chiamiamo scanociae; mi chiedo continuamente che impressione si siano fatte di me. Sono due ragazze veramente carine, dentro e fuori, e non vorrei che mi vedessero unicamente come un bavoso sfigato segaiolo che non riesce a rimediare uno straccio di donna.

Nella pasticceria che ormai chiamo “dae bee fie”, ho lasciato così tanti stipendi che potrei avere una targa commemorativa sulla parete. Ogni cappuccio & brioche era un investimento nella mia felicità – o almeno, così mi piaceva pensare mentre svuotavo il portafoglio con l’entusiasmo di un giocatore d’azzardo. Ecco perché quando parlo della mia psicoterapia come “quasi low cost” lo faccio con un sorriso sornione. Dopotutto, mi sa che un’ora di chiacchiere sul divano del terapista mi verrebbe a costare come una settimana di colazioni “dae bee fie”. Vuoi mettere la differenza? Specie se sotto il camice indossano la minigonna. D’altronde, che ci volete fare, come si dice da noi, “se no’ go el tocio, almanco che me gusto l’ocio”.

Alessia era piuttosto sorpresa nel vedermi arrivare lì alle sei del pomeriggio e, per di più, ordinare il solito: cappuccino con poca schiuma e brioche. “Allora, avete deciso dove andare in ferie?” La moretta mi fece scattare un campanello d’allarme. Accidenti, ero andato completamente nel pallone, dimenticandomi che alle 19:30 dovevo trovarmi con Armando “el Bitol” e Adriano “el Sega” per la nostra annuale riunione di programmazione delle ferie.

Tornai velocemente a casa, per fortuna avevo già pronti tutti gli incartamenti necessari, ovvero un pacco di stampate ricavate da ricerche sul Web che, ovviamente sarebbero come sempre state sprecate. Buttai l’occhio sul libro e la bandana e, presi anche quelli; a remengo le decisioni appena deliberate in riunione, l’affare era troppo grosso, era meglio vuotare il sacco e sfogarmi subito con gli altri due compari.

Erano anni che, già dopo Pasqua, noi tre Mul, così si chiamano da queste parti i single irreversibili, iniziavamo la nostra epica battaglia su dove trascorrere le mitiche ferie di agosto. Sul tavolo delle proposte c’era di tutto: il Bitol, amante delle note e delle arti, puntualmente suggeriva mete musical-culturali; il Sega, sognatore solitario, proponeva posti sperduti in capo al mondo; mentre io, il pragmatico del gruppo, cercavo di rimanere con i piedi per terra proponendo qualcosa di rilassante e, soprattutto, proficuo per la nostra condizione di scapoli incalliti, tipo un villaggio turistico pieno zeppo di “materiale” interessante.

Si discuteva, ci si accapigliava, ci si sfiniva, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso: il costo delle vacanze risultava un salasso per le nostre povere tasche. E così, ogni anno, dopo tanto sognare, ci ritrovavamo a fare i conti con la dura realtà del nostro portafoglio.

In realtà, anche se ci seccava ammetterlo, eravamo ben consapevoli che lo scopo fondamentale del viaggio non era la conoscenza, ma la ricerca. E che cosa stavamo cercando con tanta disperazione? Ma sì, proprio quella cosa lì, quella che alla fine fa girare il mondo: il sacro graal delle vacanze da sfigati.

Perciò, se volevamo portare a casa un qualche risultato decente, dovevamo fare affidamento su quello che il mercato locale poteva offrire. E non eravamo certo dei gran viaggiatori: fondamentalmente eravamo paurosi ed eternamente insicuri. Pensare di fare un viaggio più lungo di duecento chilometri ci faceva venire l’ansia come se dovessimo attraversare l’Oceano Atlantico a nuoto. Per non parlare dei miei sensi di colpa causati dalla situazione familiare, che mi facevano sentire come se stessi abbandonando una nave che affondava.

Alla fine, dopo tanto parlare e discutere, la meta era sempre la stessa: appartamento in affitto, che noi chiamavamo con un po’ di orgoglio “base operativa”, alternativamente a Lignano o Bibione. Se ancora oggi ci troviamo nella stessa condizione di Mul, è facile concludere che i quindici anni di questo collaudato cliché non hanno portato a nessun significativo risultato. In pratica, abbiamo solo contribuito alla crescita demografica delle zanzare locali, meglio note come mussati.

Eravamo talmente introversi da non avere nemmeno il coraggio di usare, quando parlavamo di ragazze, quei volgari termini canonici, ormai da secoli coniati dal maschio cacciatore. El me paron, il ragionier Emilio Franzin, mi ha insegnato un sacco di cose fondamentali per l’esistenza tra cui, come farsi fare un perfetto cappuccino con poca schiuma e a chiamare un pezzo di gnocca, montareo. Il termine montareo, plurale montarei, divenne per noi la parola in codice per definire l’oggetto del nostro desiderio, calzava a pennello in quanto era un nome maschile e nessuno avrebbe mai immaginato a cosa ci riferissimo.

Parlare di vacanze era comunque piacevole. Un saggio ha detto che la felicità non sta nel raggiungere la meta, ma nel viaggio per arrivarci. Noi, però, non facevamo nemmeno il viaggio, eppure andava bene lo stesso. La vera gioia risiedeva nei momenti di condivisione, nei racconti e nei sogni che costruivamo insieme, immaginando luoghi esotici e avventure lontane. Era la possibilità di evadere dalla quotidianità attraverso le parole, di vivere esperienze fantastiche solo con la mente. Così, anche senza partire, trovavamo un modo per essere felici.

A proposito di viaggi, ora non resta che portarvi alla scoperta del piccolissimo mondo in cui vivo e dal quale, finora, non mi sono mai allontanato più di tanto.

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La riunione

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Capitolo 2 – La riunione

Mezzo secondo dopo la “e” di Kate, mi precipitai in bagno; dall’agitazione, uscii con i pantaloni ancora mezzi abbassati e senza aver tirato lo sciacquone. Irina, testimone ufficiale dell’evento, se ne stava appoggiata al mobiletto del corridoio; da persona molto saggia e perspicace, come può esserlo una con una storia complicata alle spalle, dava l’aria di aver già capito tutto.

Mamma irruppe brutalmente tutta agitata, tanto da rischiare di ribaltarsi dalla carrozzina. Sospettosa fino allo stremo, non sopportava sentir parlare le persone tra loro senza che fosse coinvolta, aveva la fissazione che tutti stessero complottando contro di lei. Irina corse con le gocce di Valeriana che poco prima aveva dato a me; mentre io, con il malloppo in mano, optai per la ritirata, salutai frettolosamente e mi diedi a una sana fuga da quella gabbia di matti che, ormai da qualche anno, era diventata ea casa nova

La prima cosa da fare era convocare subito una riunione urgente, alla quale, come è facile dedurre, ero l’unico partecipante.

E’dai primordi della mia esistenza che dimoro in una sconfinata solitudine, naturale effetto collaterale per un introverso costretto a vivere in mezzo ai campi con un padre autoritario, una madre assente e una sorella troppo grande. Era in quel contesto che, per trovare un modo di affrontare la vita e consolarmi dalle punizioni che ricevevo, iniziai a indire riunioni con me stesso. Questi incontri solitari erano il mio modo di sfuggire alla realtà opprimente e rifugiarmi in un mondo dove potevo parlare apertamente, senza paura di essere giudicato o punito. In quei momenti, discutevo con me stesso delle ingiustizie che subivo, delle emozioni che mi travolgevano, e delle strategie che avrei potuto adottare per affrontare le avversità e le decisioni che dovevo prendere.

Ancora oggi, dopo più di quaranta anni, la mia agenda continua a essere piena di riunioni che, richiedono la presenza obbligatoria di quell’unico partecipante. Molto spesso, si trattava di meeting lunghi, estenuanti e ripetitivi; in quei giorni, ad esempio, ne stavo facendo parecchi per decidermi sull’acquisto di una nuova automobile. La mia sala riunioni preferita è il bagno; seduto sul water ho preso le più importanti decisioni strategiche della mia vita. In quei giorni, il mobiletto a fianco del bidè era stracarico di preventivi, depliant e riviste specializzate per le quali, finora, avevo speso una tale cifra che avrei tranquillamente potuto, nel frattempo, comprarmi già le gomme e mezza carrozzeria.

Presi delicatamente i reperti e mi infiali nella scassatissima auto aziendale per frecciare a tutto gas in direzione della mia tana, ovvero il miniappartamento, ai margini della cittadina di provincia, dove abito ormai da sei anni.  Acquistato con i sudati risparmi più l’inevitabile mutuo, per mia sorella Teresa e mio cognato Gino era invece frutto di soldi abilmente sottratti per anni ai miei genitori, nonché una mossa strategica, pianificata a tavolino, per sottrarmi ai doveri verso mia madre; mentre loro, rimasti ad abitare al piano superiore della casa nova, si sono dovuti accollare l’onere di farle assistenza nonché, tutte le altre faccende tipiche di una abitazione rurale.

Ogni volta che percorrevo la strada dalla casa nova al mio appartamento e viceversa, sentivo un continuo affiorare di sensi di colpa che mia sorella e mio cognato mi avevano instillato. Ma questa volta era diverso. L’eccitazione era alle stelle. Sul sedile accanto a me, c’era un mistero che prometteva di cambiare per sempre, e in meglio, la mia vita. Finora l’unica cosa eccitante, appoggiata su quel sedile di cui avevo ricordo, era la Micol, impiegata tuttofare, della Emme Zeta Profilati, uno dei miei clienti storici. Le avevo dato un passaggio dal meccanico per ritirare l’auto, la minigonna di jeans che indossava quel giorno, alimentò certe mie fantasie per alcuni mesi.

Una volta in casa predisposi tutto per garantire il massimo confort e favorire la concentrazione; misi il condizionatore a manetta, accesi l’impianto stereo per diffondere dell’ottima musica New Age e il PC per iniziare le ricerche sul Web. Telefonai al Franzin, ovvero el paron, per dirgli che, a causa di problemi con mia madre e, secondo i miei sospetti, forse lo erano davvero, ci saremo rivisti l’indomani. Il mio lavoro di tecnico installatore e riparatore di registratori di cassa, fotocopiatrici, distruggi documenti, calcolatrici, scaffali e tutto quello che commerciava il Franzin, poteva aspettare.

Terminai velocemente i preparativi in quanto, a causa dell’agitazione, dovetti di nuovo correre in bagno per cui, la riunione, iniziò anche questa volta, tanto per cambiare, seduto sul water.

Sistemai il materiale sul mobiletto, gettando brutalmente a terra decine di riviste di auto, cominciai a sfogliare nervosamente il libro in cerca di altri indizi, una annotazione una sottolineatura niente, solo quella frase scritta alla fine. Notai la calligrafia, molto bella e chiara, mi feci scorrere velocemente le pagine a mo’ di ventaglio sotto il naso per sentire ancora quel tipico odore vintage.

Il Web ormai è uno strumento indispensabile per risolvere i misteri più intricati; in televisione, l’avevo visto fare un sacco di volte dai più famosi investigatori, intendo quelli delle fiction poliziesche. L’unico elemento finora disponibile era il titolo del libro, con trepidazione digitai “Jack Kerouac on the road” nella casella di ricerca e poi, click. Chiusi gli occhi in attesa dei risultati; cominciai a sudare, conscio che da quel preciso momento, cominciava un’avventura; aspettavo i risultati come se si trattasse di un esame clinico di vitale importanza.

L’attesa era insopportabile, ogni secondo sembrava dilatarsi all’infinito. Quando finalmente decisi di aprire gli occhi, lo schermo si illuminava di innumerevoli link, articoli, recensioni e discussioni su forum. “On the Road” non era solo un libro, era un fenomeno culturale che aveva ispirato generazioni di lettori, artisti e sognatori.

I primi risultati erano schede informative che riassumevano la trama: un viaggio attraverso l’America degli anni ’50, un’odissea di scoperta personale, amicizia e libertà. Più scorrevo la pagina, più sentivo crescere una strana sensazione di connessione con quel mondo, fino a quel momento per me nuovo, descritto da Kerouac; la beat generation e gli hippies 

Schizzavo nervosamente da una pagina web all’altra senza mai soffermarmi a leggerne con calma i contenuti, in mezz’ora sarò corso in bagno almeno tre volte, avevo i piedi freddi come a gennaio; continuavo inoltre, ad alzarmi dalla scrivania e andare avanti e indietro continuamente come un criceto in gabbia. Non mi ero reso conto che, nel frattempo, erano passate quasi due ore, stavo ancora in mutande, avevo inghiottito un intero pacco di frollini al cioccolato, un kilo di Giambonetti, nonché esaurite tutte le riserve di the freddo e chinotto.

Di sicuro, la misteriosa Kate aveva qualcosa a che fare con gli hippies ma, c’era una domanda, alla quale, nel Web non avrei mai trovato risposta; era questo che, in realtà, mi faceva agitare. 

Dovevo cercare di calmarmi; mi distesi a letto, feci alcuni profondi respiri, dicono sempre di fare così; per cercare di ragionare con lucidità. C’era poco da girarci attorno; quel dubbio, il dubbio dei dubbi, mi aveva assalito sin dal primo istante successivo alla lettura della frase. 

Ero suo figlio?

La mia mente era un turbine di pensieri, come un tornado che travolge tutto ciò che incontra. Quella possibilità mi scuoteva profondamente. Il dubbio si era insinuato in me come un serpente velenoso, paralizzandomi con il suo morso. Chi era davvero Kate? E come poteva essere collegata a me in modo così intimo e sconvolgente?

A dar man forte alla questione c’era la cortina fumogena che copriva i primi istanti della mia vita, a cominciare dal fatto che, a differenza della maggior parte dei miei coetanei, venuti al mondo in ospedale, io, sono nato in casa e, senza troppa gente attorno. La casa colonica di noi Furlan, detti nosea per il noceto secolare piantato dai miei avi dietro il casolare, si trovava, a quei tempi in una posizione parecchio isolata rispetto al paese. Siamo sempre stati isolati geograficamente ma, ancora di più socialmente, a causa soprattutto del carattere burbero di mio padre, pur avendo entrambi i miei genitori famiglie numerose, ricevevamo visite di rado. Tra l’altro mia sorella non era presente quando nacqui; stava trascorrendo un periodo di cura in colonia agli Alberoni, una testimone in meno. Altro tassello importante, l’età di mia madre, nel ’66 aveva quarantatré anni; a quei tempi, non era certo usuale partorire a quell’età.

Riaffiorò poi quel pensiero sopito, nascosto nei meandri più profondi della mia mente: la strana convinzione di non sentirmi veramente figlio di Ioani e Bepina e la vergogna che, da sempre, provavo nei loro confronti, considerandoli troppo vecchi.

Le parole di Kate risvegliarono in me molti ricordi, soprattutto riguardo alla misteriosa attrazione per la musica. La musica era la mia compagna di vita; mi accompagnava in ogni momento, diventando un sostegno prezioso nelle difficoltà e un conforto nei momenti di tristezza. Era il legame che mi univa a Kate.

Cercavo di immaginarla fisicamente. La raffiguravo come una giovane e bella ragazza dai lunghi capelli biondi, con una fascia rossa sulla fronte come una vera hippy. La immaginavo seduta, a gambe incrociate sul prato accanto a casa, all’ombra del Morer, in quel momento speciale dell’agosto del ’66 in cui la campagna assolata sembrava prendersi una pausa. Il vento, il canto delle cicale, il suono della chitarra e la sua dolce voce erano gli unici suoni che si percepivano quel pomeriggio. Le immagini si intrecciavano con i pensieri su Kate, rendendola sempre più viva nella mia mente; era lei la persona speciale che, da sempre, attendevo.

Le emozioni mi stavano travolgendo, forse era il momento di prendermi una pausa e uscire per raccogliere i pensieri, non prima di aver deliberato quanto segue: 

  1. Massima riservatezza a cominciare da mia sorella e mio cognato, per finire con i fedelissimi Armando e Adriano;
  2. Necessità di un accurato interrogatorio all’unico testimone vivente, ovvero zia Teresina; 
  3. Comprare l’edizione italiana del libro al fine di capirci qualcosa su ‘sta Beat Generation e gli hippies;
  4. Spararmi una dose di cappuccino con poca schiuma.

Continua …..

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