Piccoli uomini crescono

Sulle note di Just an Illusion degli Immagination, arrivarono in un attimo, per noi quattro mandoeoni, i diciott’anni. Il primo a diventare maggiorenne fu Paperoga. 

Quel giorno nello studio di SolaRadio si tenne un feston bueo non nel senso che c’era molta gnocca ma, tanta roba onta da sfondarse el bueo. Il neomaggiorenne si presentò con decine di lattine di birra della marca preferita dai muratori di mezza Italia e, due vassoi contenenti il meglio che Ciano l’onto potesse offrire in quanto a tossicità.  

Negli ultimi tempi, il nostro spacciatore di fiducia aveva introdotto tra le sue specialità oltre che al già menzionato craf il panzerotto fritto nelle due varianti pizzaiola e boscaiola.  

Diciott’anni si compiono una volta sola e, non potevamo esimerci da fargli un bel regalo. Dell’incombenza se ne occupò il Mauri. Il giorno prima, poco prima della chiusura, in modo da non essere visto, aveva fatto visita all’edicola di Franco “Gasetin” il quale, su sua precisa indicazione, gli aveva confezionato un pacco contenente una selezione delle più famose riviste di “anatomia”. Subito dopo, sempre con fare circospetto, si era recato in farmacia a farsi dare una scatola, non certo di Aspirine.  

Unico problema, non potevano fargli il pacco regalo; per cui, dovette consegnarla al festeggiato così come gliela aveva messa in mano Federico il farmacista; aggiunse solo: “go tolto ea misura più picoea, dovaria ‘ndarte ben.” 

Paperoga precisò che, per certi articoli, non esistevano misure ma c’era solo taglia unica e che, comunque, di certe “scatole” in casa ne aveva uno scatolone pieno. Inoltre, i “libri di testo” che gli avevamo fornito non sarebbero serviti in quanto sapeva benissimo come fare certe cose. Ringraziò comunque per il pensiero. 

A questo punto, el Mauri, in qualità di decano degli speaker di Solaradio nonché esperto docente in una certa materia, fece un discorsetto al neomaggiorenne. 

A lui non sfuggiva niente, la sua constatazione si basava su parametri prettamente statistici. Se lo scatolone con le scatole era ancora pieno, significava che non aveva praticato ovvero, poteva anche saper benissimo come fare ma, come per una fetta sostanziosa di maschi, … gli mancava la materia prima. Il suo giudizio fu quello tipico di molti insegnanti: l’allievo pur essendo in grado di comprendere ciò che gli viene insegnato, non si applica. 

Riguardo il resto del sermone, per ragioni di pubblica decenza, ometto la trascrizione. 

In effetti Paperoga a scuola non si era mai applicato tanto; ciò nonostante, riuscì a prendere la patente in tempi record. Ci venne il sospetto che l’avesse comprata. 

Fu memorabile il giorno che superò l’esame di guida. Con una serie di eccitate telefonate venimmo convocati, ad una certa, davanti il bar da Nane. Qui, a quella certa, vedemmo sbucare dalla fine del vialone una FIAT 127 gialla che stava avanzando a tutta birra.  

Il bolide, ovviamente pilotato da quel mona di Paperoga, terminò la sua folle corsa con un testacoda, urtando con il paraurti il Califfo di Memo Bottacin; il quale, non mancò di tirare giù tutti i santi del paradiso.  

Con ben sette persone a bordo, il neo-pilota cercò di emulare un suo idolo: il mitico Sandro Munari a bordo dell’altrettanto mitica Lancia Stratos Alitalia, esibendosi in una spericolata gimcana tra alberi, panchine e …vecchi pensionati. Seguì un giro di tramezzini e birrini usando come tavolino il cofano della fuoriserie.  

A margine, ritengo opportuno chiarire due cose: la 127 era del fratello; il quale, non era a conoscenza del “prestito”; inoltre, il vialone centrale dei paeassoni, è da sempre zona pedonale. 

Bisognò aspettare molto tempo prima che il nostro socio riprendesse in mano una macchina. Per sedersi infatti dovette aspettare che non gli dolesse più il culo che gli aveva spaccato il fratellone. 

Arrivata la maggiore età, arrivarono sempre più frequenti, le esortazioni di Memo Bottacin e compagnia ad abbandonare l’infruttuoso ambiente parrocchiale. Era ora e tempo che iniziassimo a ‘ndar in batua in discoteca.  

Il problema era che, per andarci, non disponevamo di uno straccio di macchina. 

Paperoga, oltre al culo, si era bruciato anche la 127. Gino, il fratellone, non gliela avrebbe fatta toccare, nemmeno per portare in ospedale qualcuno in punto di morte. 

A proposito, vi sblocco un ricordo. A quei tempi, non si chiamava l’ambulanza (anche perché ce n’erano poche) ma, si preferiva caricare il malcapitato a bordo di un’auto e, suonando il clacson a manetta, partire a tutta velocità verso l’ospedale più vicino; unica accortezza, tenere un fazzoletto bianco fuori dal finestrino.  

Morale della favola, dopo alcuni minuti arrivavano al pronto soccorso: il malcapitato che, in realtà, non aveva niente di grave ma solo una semplice indigestione, il pluri-traumatizzato autista della macchina, il suo accompagnatore con il braccio fratturato per aver tenuto il fazzoletto fuori dal finestrino e, una certa quantità di pedoni e ciclisti messi sotto dall’improvvisata ambulanza. 

Per la disco, dovemmo aspettare che il Tito si decidesse a farsi la patente e che sior Sergio si decidesse a prestargli la Prinz. Tra una cosa e l’altra, arrivò il tardo autunno del 1983. 

La NSU Prinz azzurra, detta “vasca da bagno”, del padre di Tito, era tenuta in maniera maniacale dal medesimo nonché, ricca di optional, tra cui: plaid sul sedile posteriore, orologio a calamita sul cruscotto con la scritta “papà vai piano”, rosario appeso sullo specchietto retrovisore e, posizionati sulla cappelliera, centrino in pizzo con sopra gli immancabili due cagnolini con la testa semovente. Con una macchina del genere, l’insuccesso era assicurato. 

Comunque, fu grazie a quella “vasca da bagno” che, per noi, iniziò l’epoca delle discoteche. 

Dovevamo solo avere l’accortezza di parcheggiarla il più lontano possibile dall’ingresso, per non essere derisi da tipi come Moreno Pinton dotato di Alfetta 2000 Turbodiesel, blu pervinca metallizzato; roba del genere, attirava le ragazze come una carta moschicida; mentre, la Prinz,attirava quelli che, quando la vedevano, si toccavano le palle (comprese le ragazze che non le avevano). 

Vabbè, era il prezzo per iniziare a vivere dal vero la febbre della domenica pomeriggio

Il primo ingresso in discoteca me lo ricordo benissimo; cinquemila lire compresa consumazione; appena sborsata la folle cifra, mi ritrovai, con il biglietto in mano, al cospetto di due gigantesche porte a ventola intarsiate di brillantini dorati, varco di ingresso di quel peccaminoso mondo. 

A scuola, in lettere ho sempre, a malapena raggiunto la sufficienza. Non me ne voglia il buon vecchio Dante che, per questo, si rivolterà nella tomba; la sua Divina Commedia, l’ho usata come spessore sulla libreria. Però, quel giorno, non so perché, il canto primo dell’inferno, apparve nitido in sovrimpressione nella mia mente. 

Indugiai non poco, aspettai che arrivasse anche il resto della ciurma, non avevo il coraggio di affrontare da solo quel momento. Era come se dovessi saltare in mare da una scogliera, meglio se lo facevamo tutti e quattro assieme. 

Fu un mezzo shock; venni contemporaneamente, investito da una folata contenente un misto di acre odore di sudore e profumo dozzinale da supermercato; abbagliato dalle luci strobo, nonché assordato da Der Kommisar, sparato a mille decibel.  

Rimasi per un po’ lì, spaesato ai margini della pista, con quella faccia tipica di chi si chiede se non avrebbe fatto meglio a restarsene a casa a guardare Domenica In, magari commentando gli ospiti con la nonna. 

Poi, però, dalle casse uscì Paris Latino e qualcosa dentro di me, forse l’istinto, forse un’entità sovrannaturale amante della disco dance, prese il controllo o forse, semplicemente la voglia repressa di non sembrare un soprammobile umano.  

Mi lanciai nella mischia, opponendomi con forza all’introverso che era in me e che, da sempre, mi comandava come un dittatore. 

Quello che provai fu quasi mistico: ero in estasi, totalmente impermeabile al resto del mondo. Non vedevo più nessuno, nemmeno certi fenomeni da pista che credevano di essere i John Travolta della situazione. Sentivo solo la musica e il mio corpo che, senza nessun permesso firmato, aveva deciso di muoversi in autonomia. 
In quell’attimo capii che si era aperta una porta segreta: un universo parallelo fatto di ritmo, luci psichedeliche e passi che non avrei mai immaginato di essere in grado di fare senza provocare incidenti diplomatici. 

Nemmeno io ero John Travolta, ma, e questa fu la vera sorpresa, mi sentivo incredibilmente a mio agio lì, in mezzo alla pista. Incredibile; mi si stava spalancando un mondo nuovo, scintillante e rumoroso. 

Ballavo senza freni e ogni tanto facevo lo scemo con qualche gruppo di ragazze. Ridendo mi lanciavano delle occhiate; probabilmente non a causa del mio fascino, ma perché stavo facendo el mona a livelli olimpionici. 

Ad un certo punto, Paperoga mi strattonò via; mi urlò che era il momento di consumare la consumazione; l’avevamo pagata e ci spettava di diritto, fosse mai che ce ne andassimo via senza averne usufruito.

Fu anche quella una prima volta, tutti e quattro trangugiammo un Gin & Tonic, convinti che ci avrebbe reso immediatamente uomini veri. 
 

Paperoga tentò, senza alcuna dignità, di fare un secondo, abusivo giro chiedendo un Bacardi & Cola. Poi, non pago, svuotò la ciotola delle arachidi salate, come se non mangiasse da tre giorni. 

Il barman gli lanciò uno sguardo che diceva tutto: 
“Tu, oltre a essere un morto di figa… sei anche un morto di fame” 

EnsoPenso stava facendo strane acrobazie con la lingua per estrarre la fettina di limone dal bicchiere; in fin dei conti, aveva pagato anche quella. A missione compiuta, ancora con mezza fetta di limone che pendeva dalle labbra, con fare solenne ci disse: 

Me sa che che finalmente xé femo un bel giro in giostra” 

In effetti, in quanto a giostre, il tipo era eccitato come un bambino a Disneyland. 

Probabilmente era a causa del gruppo di stivaone (trattasi di squinzie abbigliate con maglietta attillata, minigonna e stivaloni; termine coniato dallo stesso EnsoPenso, n.d.r.) che aveva adocchiato.  

Mmmvarda quanta roba, el xè drio ‘ndarme in pression” 

Da quando eravamo entrati che le aveva puntate; per segnalarmele, continuava a tirarmi la manica della giacca fino quasi a strapparmela. 

Quando le vidi, mi resi conto che Memo Bottacin aveva ragione; tutta quella roba in parrocchia non l’avremo mai trovata, nemmeno se aspettavamo il prossimo concilio.  

Purtroppo, mi resi anche conto che il nostro amico, coperto dal rumore assordante si divertiva a mollarne di potenti. Inutile dirvi che la discomusic ad alto volume, copriva il sonoro, ma non la puzza delle sue performances. 

Mi fu subito chiaro il motivo di certe sue improvvise toccate e fuga in pista; ma, soprattutto, mi fu subito chiara l’origine di quel tanfo che si sentiva e che, creava un certo imbarazzo tra i discotecari presenti. 

Roba da matti; nell’attesa de farse un giro in giostra, il tipo aveva trovato il suo personalissimo modo di divertirsi.  

Il Tito invece, notò che Moreno Pinton e socio, invece di ballare, se ne stavano guardinghi a bordo pista appoggiati alle colonne. Secondo lui, aspettavano il momento opportuno per tuffarsi sulle prede che poi si sarebbero caricate a bordo dell’Alfetta 2000 Turbodiesel. 

Il giorno dopo probabilmente, in bar da Nane, lo stesso Pinton, ci avrebbe riferito, con maniacale dovizia di particolari, tutto quello che era successo sui sedili di quella macchina. 

Il nostro neo-antropologo da discoteca si affrettò a denominare quel genere di persone i condor, definizione che rimase nei secoli. 

Con una bella carica alcolica addosso e con l’alone di sudore che ormai si era esteso fino alle mutande, tornammo tutti e quattro in pista.  

Tito, che probabilmente si avvaleva di qualche sofisticato sensore a noi sconosciuto, aveva individuato le già citate stivaone intente a ballare in cerchio con le loro borsette appoggiate per terra al centro. Almeno apparentemente, non erano marcate a vista da nessun condor

Danzando con la grazia di una tribù maori, ci avvicinammo all’obiettivo. Le squinzie ci notarono e ci sorrisero; le cose erano due; o buttava bene oppure, semplicemente stavamo facendo la figura dei coglioni. In quel momento, ero anche preoccupato che a EnsoPenso non venisse in mente di sparare uno dei suoi … petardi. 

Poi, avvenne quello che mi sembrò un miracolo; il cerchio delle ragazze si aprì per farci entrare e ballare assieme. 

La pacchia durò fino alla fine di Happy Children. Poi, all’improvviso, le casse iniziarono a sussurrare le note di I Like Chopin, le luci si abbassarono e tutto il locale fu avvolto da una strana atmosfera. La musica cambiò in tutti i sensi. 

Denis Sgorlon ci aveva avvisati. Quando arrivavano i lenti, ci si giocava il tutto per tutto. Era quello il momento giusto par butar sardon; il punto di non ritorno; bisognava essere pronti.  

Denis, poi, non si era limitato a darci consigli tattici: ci aveva descritto con un entusiasmo quasi poetico il famigerato lento sbregamudande, cioè la sensazione fisico-cosmologica che avremmo dovuto provare quando “una nostra cosa” si sarebbe trovata in intimo contatto con “una loro cosa”. 
 

Invece, Gazebo con la sua I like Chopin ci colse impreparati, in men che non si dica le ragazze si dileguarono e intorno a noi si formò il vuoto.  

Un fuggifuggi talmente sincronizzato che per un attimo sospettai un attentato chimico di EnsoPenso; per qualche minuto, inspirai fortemente per verificare. 

Rimanemmo lì, come dei pampe nel mezzo della pista; immobili e inutili. 
Visto che la situazione era disperata e del tutto priva di prospettive, non ci rimase altro da fare che battere in ritirata, cercando rifugio ai bordi della pista con la dignità a brandelli. 

Il panorama era completamente cambiato. 
La pista non era più affollata come prima: I Like Chopin aveva innescato una selezione naturale implacabile. 
Erano rimaste solo coppie; gli eletti, quelli che ce l’avevano fatta. Mentre ballavano i lenti, si muovevano con l’aria di chi appartiene a una casta superiore. 
 
E noi, lì a rosicare, relegati ai margini come dei poveri diseredati, la conferma vivente che il destino aveva deciso: stasera si torna a casa a bocca asciutta. 

Con i timpani ancora lesionati, salimmo sulla Prinz, destinazione Ciro El Rutto. Urgeva affogare quella delusione in un boccale di birra.  

Alla fine, dopo una pizza, un litro di birra e tre Profitterol a testa, convenimmo che essendo quella la nostra prima volta in discoteca, era quasi fisiologico che fosse anche il nostro primo fallimento totale. In fin dei conti si trattava di una specie di rito di passaggio, ci saremmo rifatti le volte successive. 

Devo dire che, dalla seconda volta in poi … le cose non cambiarono. 
Anzi, diventò una tradizione: musica, luci, puzza da fumo, … e noi che diventavamo sempre più sordi e racimoliamo sconfitte come fossero punti del supermercato. 

E dire che di tacamenti de boton ne avevamo collezionati più che figurine Panini, e di sardoni ne avevamo lanciati così tanti che avremmo potuto ripopolare l’intero Adriatico. 
 

Fu inutile fare i sgrandessoni, usando senza remore la carta di SolaRadio spacciandola per una mega radio di fama internazionale. Pensate che il Tito, aveva osato chiamarla SolaRadio International. Nemmeno quell’international aggiunto al nome della nostra minuscola radio servì a farci apparire dei fighi agli occhi delle varie squinzie.  

Eravamo addirittura arrivati a dare la colpa al tempo; convinti più che mai che, per le nostre puntate in discoteca, sceglievamo le giornate meteorologicamente sbagliate, quelle senza una goccia di pioggia. Questo perché, non davamo retta al grande proverbio sacro: “Giornata piovosa, discoteca fruttuosa. Giornata splendente, in discoteca non si combina niente.” 

Nonostante tutto, capii che la discoteca non era affatto quel luogo demoniaco che mi ero immaginato.  

Per me, era semplicemente un posto dove la musica mi entrava dentro e, senza nemmeno chiedere permesso, si metteva a sistemarmi la psiche meglio di uno psicologo convenzionato. 

Il ballo, poi, non era solo un modo per agitare arti a caso sperando di non colpire nessuno: aveva una valenza terapeutica, anche se allora non lo avrei mai ammesso. 
Mi liberava la testa, mi faceva sentire più leggero, mi trasformava per un attimo nell’essere umano che avrei voluto essere sempre: meno impacciato, più spontaneo e … un filo più scemo. 
 

E c’era un’altra cosa che scoprii con lentezza, come tutte le mie migliori intuizioni: il ballo aiuta le relazioni; mi costringeva a socializzare, a sorridere, a incrociare sguardi, a dire “ciao” anche se mi tremava pure la gola. 

Era, semplicemente, un modo per sentirmi libero. Un po’ sudato, magari, ma libero. 

In pista ero più vivo. 
E non perché la gente mi spingeva da tutte le parti costringendomi a dimostrare di avere ancora riflessi funzionanti, ma perché il ritmo mi ricordava che sotto la timidezza, l’insicurezza e il deodorante inefficace… c’era un cuore che aveva voglia di battere forte. 

_______ 

L’altro giorno nel parcheggio del centro commerciale ho visto una Prinz azzurra “vasca da bagno”, è ormai rarissimo vederne una; una visione quasi mitologica, ormai. 
 

Volutamente ho parcheggiato a fianco, quasi fosse un vecchio amico che non vedi da una vita. 

Da una certa distanza la osservavo, silenzioso, come se stessi misurando il tempo attraverso quella carrozzeria squadrata. 

Poi, mi sono messo a fare il confronto con la mia macchina. 

Se l’avessi avuta a quei tempi un’auto così, anziché quella scatola di sardine” mi sono detto. 

Ma a quei tempi non lavoravo. 
E non lavoravo certo in un’azienda abbastanza generosa da darmi persino l’auto. 
 

Mi sono tornate in mente le parole di mia nonna, che ogni tanto mi sembravano esagerate e invece erano verità scolpite nella pietra: 
“Co’ ti ga i denti no’ ti ga el pan e, co’ ti ga el pan no’ ti ga più i denti.” 
Aveva sempre ragione lei, dannazione. 

Sono risalito in macchina e ho messo su la mia compilation preferita: i lenti degli anni ’80. 
 

La mezzeria della strada scorreva veloce, come una pellicola srotolata; mentre, lentamente scorrevano tutti quei brani che hanno costruito, un mattone alla volta, la mia giovinezza. 

Quelle canzoni, ogni volta, mi prendono per mano e mi riportano indietro, quando tutto era più facile e più vero. 

Mi riportano a quella manciata di anni in cui ho vissuto libero da vincoli mentali e non; che, assieme a innumerevoli paure sarebbero subentrate da lì a poco. 

Sapete, alla fine, dopo mille tentativi, mille figuracce e altrettanti silenzi imbarazzati, i lenti sono riuscito a ballarli anch’io. Una volta, addirittura, con tre ragazze contemporaneamente. 
Non so come sia successo, forse un allineamento dei pianeti, forse la misericordia divina. 
Ma è successo. 

Il primo, però… 
Il primo non si scorda mai: Through the Barricades, degli immortali Spandau Ballet. 
 

Quella canzone che non è solo musica; è un respiro, un battito, una poesia contro i muri del mondo. 

Sono sempre più convinto che, in quegli anni abbiamo avuto la musica migliore, quella che non si limitava a riempire il silenzio ma ti cambiava dentro e ancora continua a farlo. 

Canzoni come Through the Barricades, forse non avranno contribuito ad abbattere del tutto le barricate politiche o sociali ma, contribuiscono, anche ora, a darci il coraggio di abbattere le nostre piccole e invisibili barricate personali. Quelle che ogni ragazzo porta con sé quando tenta di diventare uomo.  

Mentre continuavo a guidare, ho capito che è anche grazie a quelle canzoni, a quei lenti e a quelle emozioni che noi, piccoli uomini, siamo cresciuti. 
Magari non molto. 
Magari non perfetti. 
Ma abbastanza da ricordarlo con un sorriso. 

Through the Barricades … ascolta il podcast

Sex & the Paeassoni

De come va el mondo a mi no’ me intriga, mi penso soeo aea figa” 

La scritta, nel bagno del bar da Nane, non è mai stata cancellata. 
Aveva il suo effetto leggerla dopo essere stato all’incontro giovani del venerdì in patronato: quasi un dogma laico, messo lì a sfidare quelli che frequentavano la Chiesa e, diciamolo, onestamente molto più facile da accettare. 

Quando esci dal bagno ed entri nel microcosmo del bar da Nane Sbérega, capisci perché quella frase sta ancora lì, intatta. 
Tutti a parlar de quea o de ‘staltra, mentre sullo schermo della TV scorrono, nell’indifferenza generale, manifestazioni di piazza, guerre e le solite disgrazie del mondo. 
L’attenzione si desta solo quando un pallone comincia a correre su un campo verde oppure, ultimamente, una pallina rimbalza velocemente da un lato a un altro del campo da tennis. 

Da tutto questo, almeno, SolaRadio ne trae un indubbio vantaggio. 

La nostra sarà anche una delle radio più piccole al mondo ma, la sua “redazione” si è da sempre avvalsa di un eccellente gruppo di collaboratori esterni, esperti a livello internazionale in quello che è il tema che, alla fine, interessa di più alla popolazione maschile di basso lignaggio alla quale appartengo anche io; il sesso. 

Visto che dai nostri genitori, sull’argomento, non cavavamo un ragno dal buco, questo team di esperti si è occupato della nostra formazione sin da bambini. Siamo stati fortunati perché, altri nostri coetanei, come unica fonte di apprendimento, avevano i programmi notturni di Tele Capodistria (quei pochi che riuscivano a captarne il segnale). 

Non c’è social o forum sul Web che, in materia di sesso, possa competere con certi personaggi stanziali del nostro bar: mi basta percorrere poche centinaia di metri da quello che si può definire il nostro “studio” per assistere a delle interessanti conferenze sul tema.  

L’ultima in ordine cronologico è stata tenuta da uno dei nostri più prestigiosi “docenti”, Gianni Bencivenni detto el romagnoeo a causa della sua terra di origine.  

Il tema era “autoerotismo e sogni erotici: un’opportunità più che un surrogato per sfigati e un peccato da condannare”. Ovviamente ho tradotto dal dialetto, in “lingua originale” non è pubblicabile. 

Gianni, che già faceva ridere sentirlo parlare nel suo accento romagnolo; aveva una dote senz’altro singolare, ovvero riusciva, a suo dire, a fare sogni erotici a comando. Raccontava, più o meno, le stesse storie (o balle), degli altri con la differenza che le aveva vissute in sogno. 

Pensate che le protagoniste dei suoi sogni, seppur molteplici, le conosciamo tette, pardon, tutte a memoria. 

Per ragioni di spazio, vi cito solo le “presenzialiste”, ovvero le protagoniste del maggior numero di episodi onirici: la Roby ex collega, la Lolly collega attuale, la calda Teresa protagonista dei sogni “vintage” ovvero quelli che narrano, in una miriade di varianti, la prima trombata. Ci sono poi Iva e Roby2, le ragazze che frequentavano la palestra, quando ci andava, ovvero, quindici chili e passa fa. Non parliamo poi dell’immancabile Fede, l’amica dell’amica; nelle puntate in cui appare, si vede il Gianni che va a farle dei lavoretti in casa che poi lei, immancabilmente ripaga con altri … lavoretti. Recentemente la saga si è arricchita con dei nuovi episodi aventi come protagonista Dorina la rossa; la ragazza che lavora in pasticceria dalla Cesarina; non oso raccontarvi quello che accade dietro il bancone. 

Franco “Gasetin”, patron dell’edicola di quartiere, follower della prima ora del Bencivenni, sta pensando seriamente di dare alle stampe un volumetto da vendere sottobanco. Ormai la gente non legge più e questa sarebbe una soluzione per salvarsi dal probabile fallimento, così da campare ancora qualche anno per permettergli di andare in pensione. 

Una delle giornate clou della saga che io chiamo “Sex & the Paeassoni” è sempre stato il pomeriggio del primo gennaio. 

Se uno voleva ascoltare le più belle favole del periodo natalizio, quello era il posto e il momento giusto, ovviamente, tutta roba da “vietato ai minori”. Poche volte nella vita mi sono perso i fantasiosi resoconti della nottata precedente. Anche se mi costava fatica, cercavo sempre di esserci, ed era forte la tentazione di portarmi appresso, di nascosto, il registratore per poi, mandare tutto in onda, l’indice degli ascolti sarebbe andato alle stelle, non ci sarebbe stato Auditel che tenesse e, almeno in zona, per una volta, avremmo battuto mamma RAI. 

Era inoltre un’occasione di business per Silvano Visentin, general manager del bar da Nane. In un pomeriggio come quello, riusciva a smerciare tutti i tramezzini scaduti; tanto, gli avventori erano fortemente concentrati su altro. 

Era divertente ascoltare i personaggi che si avvicendavano. Dava solitamente inizio allo spettacolo Denis Sgorlon; “che bea ciavada” esordiva toccandosi la pancia; non si capiva se avesse mangiato o trombato, probabilmente più la prima che la seconda e, per giunta, anche male. Gli faceva concorrenza Toni Lovadina, “che ciava de sera e anca de matina”, le sue storie ricalcavano fedelmente le sceneggiature del maestro Tinto Brass; soldi per il cinema risparmiati. 

Riguardo le cifre sul numero totale di ciavae ; valeva la stessa cosa delle manifestazioni di piazza dove, la cifra dei partecipanti, fornita dalla prefettura e quella comunicata dagli organizzatori, in genere, differiscono di molto.  

L’argomento, in realtà, rimane ancora oggi, uno dei grandi misteri irrisolti della storia; un giorno scopriremo cosa ha fatto sparire navi e aerei nel famoso triangolo delle Bermuda oppure, se gli alieni sono stati sulla terra ma, probabilmente mai verremo a sapere quante volte, e se, realmente, uno ga ciavà

Anche Silvano si cimentava in racconti piccanti; il bancone, il bagno e, ovviamente, il tavolo da biliardo con le relative stecche divenivano di colpo le scenografie di un film porno. 

Ogni tanto sul giornale salta fuori che nelle vicinanze hanno chiuso un centro di estetica gestito da cinesi a causa di certi trattamenti extra che vi venivano eseguiti con perizia sui maschietti.  

E, ogni volta, tutti lo sapevano già da tempo. Tutti tranne la polizia e … il sottoscritto. 

E ogni tanto, qualcuno, leggendo quell’unica notizia di tutto il giornale che gli interessa, sospira: 

Eh, bei tempi, quando ghe jera ea vecia Wanda operativa…” 

Sin da bambini sapevamo che la siora wanda, quella che abitava in fondo a una delle viette … lavorava in casa.  

Se chiedevamo ai nostri genitori cosa facesse di preciso; la risposta era sempre la stessa: 

No xe roba che ti pol saver.” 

Il tipo di lavoro che faceva lo intuimmo, quel giorno memorabile, in cui si presentò davanti il banchetto dove vendevamo i nostri giornalini ormai letti e straletti.  

Ci diede una borsa di fumetti dicendoci che, con una certa facilità, li avremo venduti a ragazzi più grandi di noi, ricavandoci alla fine un bel po’ di soldini. 

Ci consigliò per questo di mostrali solo quando si avvicinava un potenziale cliente … di una certa età. Ci ordinò inoltre di non tentare di sfogliarli.  

Come si sa, se dici ad un bambino di non prendere la marmellata che è dentro quel vasetto, sta pur sicuro che non appena ti volti è già con le dita dentro. 

Fu davvero … eccitante leggere i fumetti di Lando, Cappuccetto Rosso, Il Montatore e altri; ci si aprì un mondo e, alla fine, scoprimmo qual era il mondo della siora Wanda

L’eccitazione durò poco; perché, quando venne scoperto il “materiale” e la provenienza, finì tutto in tragedia.  

Il povero Paperoga, che custodiva il malloppo, venne ritenuto il capo dell’organizzazione e subì l’immediato sequestro dei fumetti. Ci fu revocata la “licenza” del banchetto e i nostri rispettivi padri ci sottoposero a un percorso riabilitativo fatto di sberle e calci nel culo in quantità industriale. 

La cosa ebbe un positivo risvolto culturale. Da quel giorno, Paperoga trovò delle valide alternative ai fumetti di Topolino. Nel suo garage, ben occultati dietro annate di Tex e Zagor, ci sono ancora alcuni giornaletti della siora Wanda salvati dal sequestro. 

Dimenticavo di dirvi che al bar da Nane non entrano quasi mai donne. 
Peccato, davvero. Perché se solo sapessero che lì dentro potrebbero saltare mesi di liste d’attesa del sistema sanitario e farsi una TAC Total Body gratuita, condotta da una delle più rinomate équipe di “radiologi” (da bancone), accorrerebbero a frotte. Un reparto così, la sanità pubblica se lo sogna. 
Pensate che Memo Bottacin usa ancora i mitici occhiali a raggi X, pubblicizzati sul “Monello”, che vendevano per corrispondenza negli anni ‘70. 

Tra le pochissime che ricordo ci sono due tipe con la balconata che sfidava le leggi della fisica e le labbra a canotto gonfiate più di un materassino da spiaggia. 

Entrarono al seguito di un politico locale in piena campagna elettorale. Il tipo non poteva trovare argomento migliore per farsi votare; quelle due, sortirono l’effetto di centomila volantini. 

Ora, non so dire se furono decisivi i voti degli avventori di Nane, fatto sta che il tizio fu eletto. 

Di certo, l’uomo la sapeva lunga: interpretando a modo suo la piramide di Maslow, seppe far leva sui bisogni primari dei suoi elettori maschi. 
 

Tipico caso di campagna ormonale

Sex & the Paeassoni potrebbe essere tranquillamente il titolo di un programma cult di SolaRadio e avrebbe già il suo bravo conduttore: EnsoPenso. 

Si, perché se c’è una persona che crede fermamente nella frase scritta nel bagno da Nane e che ne ha fatto il suo mantra esistenziale, è proprio lui; tanto che sono quasi convinto che l’autore anonimo di quella perla di saggezza sia lui stesso. 

Non c’è volta che, quando siamo in giro, il nostro amico non vada completamente in tilt alla vista di una squinzia vestita secondo il suo canone estetico non negoziabile: minigonna, stivaloni e maglietta attillata. 
Un look che per EnsoPenso è come per un toro, la muleta rossa. 
 

E mica finisce qui. 
Il mio socio, oltre a credere nella filosofia del bagno, crede fermamente anche nel grande proverbio universale: 

La donna del vicino è sempre più figa.” 

E su questo principio fonda tutta la sua carriera di osservatore sociale; sempre impegnato a far paragoni tra Paola e le compagne / mogli degli altri. 

È il Leopardi di SolaRadio: malinconico, incompreso e perennemente arrapato. 

Quando lo trovo nel pieno di una crisi depressiva, e succede spesso, faccio da psicoterapeuta della domenica; per cui gli chiedo cosa lo affligge. 
 

Uno si aspetterebbe risposte tipo: 

  • “La Paola mi ha lasciato.” 
  • “Mi hanno licenziato.” 
  • “Ho finito i soldi.” 
    Oppure, nella sua scala personale delle tragedie, quella peggiore: 
  • “Ha perso la Juve.” 

E invece no. La risposta è sempre la stessa, scandita con la voce spezzata dell’uomo che ha visto troppe ingiustizie: 

Ti ga visto co chi che xe insieme quel rutto de tissio? A ‘sto mondo no ghe xe ‘na logica, anzi, no ghe xe giustissia!” 

E lì capisci che quella frase in bagno rimane maledettamente vera e attuale, la corrente di pensiero più diffusa tra i maschi, il vero mainstream. 

Basta leggere quelle due righe scarabocchiate sul muro, per capire che la “maggioranza silenziosa” non è solo un astratto concetto sociopolitico, ma una presenza viva, concreta, fatta di occhi abbassati su certe immagini e sogni proibiti rinchiusi dietro la porta del bagno. 

All’inizio dell’autunno, passeggiare per le viette ha sempre avuto un sapore di malinconia. 
L’estate è ormai un ricordo sbiadito, e con i primi freddi ritorna quel tanfo inconfondibile di brodaglia della siora Antonia Masiero. 
Ormai Antonia ha superato i novant’anni e ha ceduto la licenza del suo minestrone alla badante moldava, una donna gentile ma generosa con la cipolla e con gli odori forti della sua terra. Il risultato è un effluvio ancor più penetrante, quasi una nebbia densa che porta a immaginare i grigi casermoni popolari e l’odore delle mense dell’ex Unione Sovietica. 

Quel tanfo misto all’umidità che penetrava nelle ossa mi faceva sentire ancora più solo, tornava a galla quella stessa malinconia di tanti anni fa, quella che provavo ogni volta che, passeggiando tra le viette, mi illudevo di vederla comparire da lontano. 

Capisco che forse, anche a me non interessa di come va il mondo ma, penso sempre a un’unica persona e rimpiango il mio primo amore di bambino. 
Non era quel genere di infatuazione alla sex & the paeassoni fatta di occhiate rapide a tette e culi ma, un innamoramento vero, innocente, puro come un quaderno di scuola elementare appena comprato. 

Di lei non mi colpiva il corpo, perché non avevo ancora il vocabolario per capirlo. 
Mi colpiva l’anima, anche se allora non sapevo chiamarla così: era una sensazione che mi attraversava come una corrente leggera, un’intuizione che mi faceva stare bene solo a starle vicino. 

Ricordo il momento esatto: un incrocio di sguardi, uno di quelli che durano tre secondi ma lasciano impronte che non se ne vanno più. 
I suoi occhi mi guardavano davvero. Non sopra, non oltre, non attraverso. 
 

Dentro. 

E io, bambino confuso e felice, avevo la certezza impossibile di essere visto per quello che ero, con le ginocchia sbucciate, il fiocco del grembiule perennemente storto e quella timidezza che mi faceva inciampare nelle parole. 

Quando ricambiava quello sguardo, sentivo qualcosa che somigliava moltissimo alla pace, come se il mio esistere diventasse improvvisamente semplice; senza tante bugie per farmi credere chissà chi, solo una piccola verità luminosa che esisteva tra noi due. 

Era amore senza saperlo dire, senza bisogno di dimostrarlo, senza paura di perderlo. 
Era amore nella sua forma più elementare e, forse proprio per questo, la più preziosa. 

Ed è per questo che oggi lo rimpiango: perché non c’è mai stato, dopo, uno sguardo così limpido, così diretto, così capace di raccontarmi chi ero prima ancora che io lo capissi da solo. E, soprattutto, non c’è mai stato un dopo. 

Era il mio primo amore. 
 

E certi primi amori restano addosso come una cicatrice bella: non fa male, ma si sente. 

Sento ancora il puzzo di brodo penetrarmi nelle narici. Questa volta però non è quello della vecchia Antonia ma esce dallo sfiato della cucina della casa di riposo. Quella tetra costruzione sorta, nel giro di pochi mesi che si erge sulle piccole casette delle viette. 

Di fronte all’ingresso, scorgo una sagoma amica. Gianni, el romagnoeo stava imprecando, ovviamente in romagnoeo, per lo scooter che non voleva saperne di stare fermo sul cavalletto. 

Quando l’ho visto, mi sono subito rallegrato. 

Dovete sapere che Gianni, oltre a essere un grande regista di film auto-erotici è anche un grande conoscitore di musica. Da buon romagnolo mi ha fatto apprezzare il liscio e altri generi che prima disdegnavo. 

Mo tieni … per la radio. Roba buona … roba forte” Non so quanti CD mi ha prestato e che non ha mai voluto indietro. 

Vacca boia, mo guarda chi c’è! Vieni che ti presento una gran figa” 

Pensavo che a momenti sarebbe uscita una biondona dell’est di quelle che lavoravano lì invece, mi fece cenno di seguirlo dentro. 

Di Marta, mi colpirono subito i suoi occhi scuri profondi che emanavano una dolcezza infinita. Mi colpì anche quella vecchia scatola di latta che teneva stretta tra le mani, quasi ad abbracciarla.  

La riconobbi dall’inconfondibile scritta consumata “Malto Kneipp – Mens sana in corpore sano”. Era la stessa che usava mia nonna Angela per custodire i suoi ferri da maglia. 

Eppure, l’ironia era crudele: Marta non aveva più né un corpo sano, e ancor meno una mente lucida. La sua vita intera, la sua memoria, tutto ciò che era stata, giaceva racchiuso lì dentro, in quella scatola battuta dal tempo, ricolma di fotografie di lei e di Gianni. 

Sai, ogni volta questa bella gnocca fa finta di non conoscermi, ma io, conosco le parole magiche per farle tornare la memoria, le prime che mi ha detto” 

Si chinò verso di lei, le sfiorò la fronte e sussurrò: 
 

Fammi un coccolo…” 

Li lasciai così, stretti l’uno all’altra, e me ne andai con il groppo in gola. 

È vero, a volte non ci interessa niente di come va il mondo, abbiamo altro a cui pensare. 

La canzone dell’amore perduto … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

Due vite

Ho sempre considerato il “fare radio” una sorta di missione. E come missionario dell’ordine dei radiofonici, mi sono sempre prodigato con ogni mezzo, spesso a pedali, per far sì che la nostra minuscola emittente potesse raggiungere il maggior numero di ascoltatori. Voglio essere sincero, preciso; preferibilmente ascoltatrici. 

Non so quanti copertoni di bicicletta avrò consumato, alla ricerca di nuovi proseliti e anime affini. Un piccolo mondo, il mio, fatto di confini ben definiti e di strade che sembravano portare altrove, ma finivano sempre per riportarmi lì, tra il silenzio delle viette e la desolazione dei paeassoni. 

Il quartiere aveva una particolarità: dopo l’ultimo palazzone, quello al civico 144 del vialone, iniziava di colpo il nulla. Nessuna transizione morbida tra città e campagna. Solo una stradina sterrata che pareva condurre fuori dal mondo, o forse dentro un altro mondo. Perfino la periferia aveva la sua periferia. 

All’inizio di quella via c’era un capitello, con una statuetta della Madonna di Lourdes. Sembrava messo lì a ricordare che, per uscire dalla miseria di quelle lande, ci voleva un miracolo. O forse per instillare qualche senso di colpa a chi, di notte, imboccava quella strada per faccende molto terrene. Perché di notte, lì, passava più gente che di giorno. Una cosa che ci incuriosiva fin da piccoli. 

Chiedere spiegazioni ai genitori era un suicidio: bastava nominare quella strada e giù ceffoni. Così ci rivolgevamo ai fioi più grandi, che ci raccontavano con ricchezza di dettagli cosa accadeva dentro le auto parcheggiate al buio.  Quando, la professoressa Bergamo, pioniera assoluta, tenne a noi di terza media il primo corso di educazione sessuale della storia italiana, tutte quelle informazioni ci tornarono utili; insomma, eravamo già preparati. 
 

Ricordo come fosse ieri che, il giorno dopo la lezione sui contraccettivi, Lele Vianello, provocatore nato, si presentò in classe con una collezione di “campioni” usati, raccolti freschi, freschi lungo la stradina durante il tragitto verso scuola. 

Io, lo giuro, da quelle parti di notte non ci sono mai stato. Anche se, lo ammetto, qualche film mentale con quella scenografia me lo sono girato. 

Anzi, diversamente dalla gran parte della popolazione maschile, che frequentava quel luogo nelle ore più buie, ad un certo punto, quella stradina, suscitò il mio interesse di giorno. Non era castità o moralismo: quello che mi spingeva a passare oltre quel confine segnato dal capitello, era una stuzzicante novità.  

La grande casa colonica della stradina, dopo una faraonica opera di restauro si era trasformata in villa ed era finalmente di nuovo abitata. Fino a qui niente di particolarmente eccezionale, se non per il fatto che la famiglia che si era insediata era nientepopodimeno che quella di tale ing. Alberto Scandagliato el paron di una fabbrica che faceva non so bene cosa. E anche fino a qui, almeno per me, niente di particolarmente eccezionale, se non per il fatto che ‘sto ingegner della minchia aveva, a detta del Tito e del Paperoga, una figlia della nostra età da tenere in considerazione o meglio in attenta osservazione. 

L’allerta era scattata una domenica mattina, quando don Gianni, cosa assai strana, a fine messa si prese la briga di presentare ufficialmente la squinzia ai due soci. Non come Francesca, sia chiaro, a quello ci pensò lei con discrezione tutta femminile; lui ci tenne piuttosto a sottolineare che era figlia dell’ingegner Scandagliato. Perché, si sa, in certi ambienti il nome di battesimo è un dettaglio folkloristico: prima si dichiara di chi si è figli; poi, se proprio resta tempo, come ci si chiama. 

Don Gianni di solito certe presentazioni le riservava ai suoi pupilli, ma la sfiga volle che in quel momento fossero tutti in quel di Cortina impegnati in attività pastorali: ovvero a fare un’ammucchiata nella casa dei genitori di non so bene chi. 

Così, rimasto orfano dei suoi preferiti, non gli rimase altra alternativa che presentarla agli unici due giovani che erano venuti a messa quella domenica, annunciando a loro che in autunno, si sarebbe unita al gruppo giovanissimi di Azione Cattolica. 

I due tipi irruppero in radio ancora con le bave alla bocca. Di quella new entry non sapeva ancora niente nessuno. Anche se, per pudore, non lo ammettevano apertamente, era chiaro che, per nessuno, intendevano lo stronzissimo Riccardo Beltrame e amici. Non correvamo, almeno nell’immediatezza, il rischio che, com’era avvenuto per altre interessanti squinzie, fosse fagocitata dalla loro compagnia. 

Potremo proporle di far parte di SolaRadio; sarebbe la nostra prima donna” 

Se fossi stato un oratore ad un comizio di piazza, sarebbe esploso un fragoroso applauso della durata di alcune ore. 

Altro che Azione Cattolica, questa la dirotto qui in radio e gli faccio fare apostolato radiofonico. In fin dei conti, l’abbiamo vista prima noi” pensai mentre ero già che studiavo un piano di azione. 

Sono sempre stato affascinato dal personaggio dell’agente segreto. Fin da bambino mi piaceva inventarmi delle missioni speciali. Quella che inventai per cercare di avvicinare Francesca la chiamai “impissa”, ovvero accendi.  

Bisognava solo trovare un pretesto plausibile per transitare davanti alla villa e, con un po’ di fortuna, attaccar bottone, possibilmente usando l’argomento SolaRadio.  

Mi venne in mente una genialata, un alibi perfetto: verificare il “tiraggio” del nostro trasmettitore, installando a bordo di un potente mezzo la mia fida radiolina PHONOLA. 

L’operazione iniziò sabato 22 agosto 1981 alle 17.30 precise. 

Cercai di passare il più spesso possibile davanti alla ex-casa colonica ora lussuosa villa; in quel modo ero sicuro mi si sarebbe presentata l’occasione di un “contatto”.  

L’occasione si presentò quando, dopo due passaggi a vuoto vicino alla villona, al terzo, “l’occasione”, mi lasciò appiedato. “L’occasione”, non era altro che un vecchio CIAO usato che, un gran volpone aveva venduto a quel gran pollo di mio fratello, gran maestro nel farsi fregare dal prossimo.  

Chi ha provato a usare il CIAO solo con i pedali sa che non c’è via di scampo nel caso un cane stia prendendo la rincorsa per fare un happy hour con le tue chiappe.   

Porca troia, quella maledetta ex casa colonica aveva il cancello aperto e quel pastore tedesco aveva tutta l’aria di volermi far la festa, me la stavo facendo sotto le braghe. Fortunatamente, si limitò ad abbaiare come un forsennato, rimanendo nei confini della proprietà, quasi avesse una catena virtuale al collo.  

Tranquillo, non ti fa niente. Vuole solo giocare” 

Giocare un cazzo! Quello, se non ci fossi stata tu che lo richiamavi, mi avrebbe dilaniato i jeans nuovi di palla messi per l’occasione di fare il figo con te e pasteggiato con un pezzo del mio culo!” 

Ovviamente la menzionata frase rimase solo nella mia mente. 

Ora che era davanti a me, non potevo far altro che dar ragione al Tito e Paperoga. Occhi scuri come due bottoni di velluto, sorriso che scioglieva ginocchia. Vabbè, avrei sacrificato volentieri metà chiappe pur di essere lì. 

Tranquilla lo avevo capito” dissi mentre il cuore marciava ancora come una locomotiva in piena corsa, rivoli di sudore scorrevano per tutto il corpo e il culo non si decideva di smettere di tremare. 

È la prima volta che vedo una moto-radio. Ce l’hai montata tu o la vendono già così?” 

Domanda perfetta, segno del destino. Forse anche quello lassù preferiva che la squinzia fosse attirata da SolaRadio anziché finire nelle sgrinfie del Beltrame e soci.  

La domanda accese la miccia che innescò un esplosivo monologo dal titolo “Solaradio dai primordi della sua esistenza ai giorni nostri”. Sottotitolo “siamo quattro affamati di quella cosa lì e stiamo disperatamente cercando uno straccio di ragazza che venga a parlare in radio” 

Anche se mi sarebbe piaciuto invitarla in radio, preferii non lanciarle la proposta. Sarebbe rimasta delusa nel vedere il tugurio dal quale trasmettevamo e nauseata dal tanfo delle scoregge di EnsoPenso. Lo studio, se così si fosse potuto definirlo non sarebbe stato, al momento, un posto per signore, almeno quelle di un certo livello come Francesca; e poi, mi avrebbe smascherato. 

Ho sempre avuto la dannata mania de far el sgrandesson, abilissimo nel barare riguardo il mio status, creando una sorta di cortina fumogena atta a mascherare la realtà, anche a me stesso. Nella mini-conferenza che le avevo fatto, spacciai quella misera radio di quartiere come appartenente a un network nazionale e il medesimo come DJ di punta.  

Ok, allora ci vediamo in giro. Comunque, piacere Francesca. E tu DJ come ti chiami?” 

Doppia figura di merda. Primo avevo esagerato con il pippone sulla radio e poi non mi ero nemmeno presentato. 

Pazienza, il risultato comunque l’avevo portato a casa. Guardai l’orologio, l’operazione “impissa” si era conclusa positivamente lo stesso sabato 22 agosto 1981 alle 19.16 

Dalla contentezza, pedalai così velocemente che il CIAO sembrava fosse tornato a motore. Arrivai davanti il civico 69 dei paeassoni dove, ve lo ricordo per l’ennesima volta, c’era lo studio di SolaRadio, che ero praticamente da ricovero per tachicardia acuta. 

Fatta, fatta, fatta!” Entrai urlando e fregandomi le mani. EnsoPenso mi prese per matto. 

La sera stessa ci fu una riunione straordinaria del comitato di redazione presso la pizzeria da Ciro “El Rutto” 

Dopo esserci, dalla contentezza, strafogati con le peggiori porcherie che “El Rutto” aveva nel menù, cito solo ad esempio, la mitica pizza “Porcona”; wurstel, patatine fritte, scamorza e porcini; deliberammo quanto segue: 

  • Tentare un approccio dopo messa 
  • Cercare di “assumerla” in radio. 
  • Entrare nelle grazie del facoltoso padre che avrebbe potuto sponsorizzarci. Avremo così potuto comprare un po’ di dischi e finire di usare audio cassette. 

Ci presentammo alla messa delle undici vestiti come dei damerini, con addosso quello che, secondo noi, era il miglior outfit che avevamo in armadio.  

Tito, nonostante fuori ci fossero ancora più di trenta gradi, ebbe la malsana idea di indossare la giacca usata per il matrimonio di suo cugino che era stato, tre anni orsono, in ottobre. 

EnsoPenso si era cosparso di non so quanti litri di dozzinale deodorante spray da supermercato, probabilmente lo faceva per coprire il tanfo del sudore e delle scoregge. 

Io quattro kili di gel in testa che se uno mi toccava i capelli si pungeva come se toccasse un riccio. 

Paperoga sfoderava i suoi più preziosi capi di abbigliamento, comprati al mercato nel banco di tale Aziz storico venditore di capi firmati “originali”. 

Cosa fate questo pomeriggio?”  

Eravamo appena usciti dalla chiesa, con ancora la sensazione di aver scontato almeno un paio d’anni di purgatorio solo per aver assistito alla predica di don Gianni; Francesca se ne uscì con quella domanda che ci spiazzò. 

Non potevamo certo confessare che la maggior parte delle nostre domeniche pomeriggio, inverno o estate che fosse, si consumavano al bar da Nane a parlare con Meno Bottacin, Denis Sgorlon e compagnia briscola della figa che non arrivava mai. 

Ci guardammo cercando di non farle vedere le nostre facce da ebeti. Furono, almeno per me, attimi di panico.  

Se vi va, potreste venire a casa mia per un gelato” 

Salvi! 

Alle quattro del pomeriggio in punto, tutti eccitati e sempre vestiti come dei damerini, solo un po’ più casual, prememmo quel pulsante tondo dorato accanto alla targhetta, sempre dorata, riportante la scritta “Ing. Alberto G. Scandagliato”.  

Mezzo secondo dopo il dindon, il pastore tedesco del giorno prima, come il giorno prima, prese la rincorsa abbaiando furiosamente. Questa volta però, il cancello era chiuso; ciò nonostante, EnsoPenso, preso dal panico cosmico, mollò una scoreggia nucleare che però, fece zittire il botolo. 

Ce la stavamo ridendo alla grande per l’accaduto e non ci accorgemmo che un tale, presumibilmente l’ing. Alberto G. Scandagliato, ci stava squadrando da dietro il cancello. 

Che cosa volete?” 

Usò un tono tale che, oltre al pastore tedesco, rimanemmo in silenzio pure noi, tranne ovviamente il culo di EnsoPenso che si esibì in un’altra delle sue performance, silenziosa ma estremamente puzzolente. 

Oltre al tono di voce, quello che ci mise soggezione fu il suo aspetto: piccolo, tarchiato, testa pelata e abbronzatissimo. La sua postura eretta, le braccia ai fianchi e il suo modo di atteggiarsi ci ricordarono “lui”. 

La bella Francesca arrivò giusto in tempo a salvarci da quella imbarazzate situazione e … dalle scoregge dell’amico. 

Quel gelato sarebbe stato meglio se ce lo fossimo andati a mangiare da Nico alle Zattere. Avremo speso più di cinquemila lire a testa per una bella coppa Nafta, ma almeno, non ci saremo sorbiti l’interrogatorio dell’ingegnere e le cazzate di suo fratello Raffaele.  

Cominciò quest’ultimo chiedendoci qual era il nostro sport preferito e poi subito giù a tirarsela con la storia del tennis; nel quale, a suo dire, lui e papi erano dei provetti giocatori. 

Mi veniva da rispondergli che le uniche palle che finora avevamo toccato erano le nostre quando, in bar da Nane entrava quello iettatore del Walter Radonic e che, comunque, tutti e quattro avevamo una profonda avversione per ogni tipo di sport.  

In primis perché eravamo delle schiappe con tanto di certificazione ministeriale. La competizione ci metteva più ansia di un’interrogazione a sorpresa in matematica e il nostro massimo gesto atletico era quello di camminare a passo veloce in direzione di Ciano l’Onto per riuscire a sbafarci un bollente Craf appena emerso dal padellone. 

Quando c’era da formare una squadra, nessuno mai ci sceglieva. Ma proprio mai. Restavamo lì, come i pacchi di pasta in fondo allo scaffale del supermercato, quelli prossimi alla scadenza che nessuno vuole. E così, quasi per una legge cosmica, la vita ci ha spesso trattati allo stesso modo: sempre ultimi, mai protagonisti, un po’ come comparse nella nostra stessa esistenza. 

Comunque, non ci fu dato neppure il tempo di replicare a quel cagalto di Raffaele; l’esimio ingegnere si intromise subito. 

Non ci diede il tempo di dire nulla. Ci ordinò di sederci come se fossimo dei suoi sottoposti poi, ostentando machismo da tutti i pori, partì con la lezione motivazionale versione caserma. Capimmo subito che, per lui, eravamo delle mezze seghe da raddrizzare. Era chiaro che gli stavamo sulle palle; se fossimo capitati nella sua azienda avrebbe pensato lui a drizzarci la schiena. 

Poi, simulando finto disinteresse, l’interrogatorio proseguì coi dossier familiari. Voleva sapere di chi eravamo figli. Non per interesse. Per schedarci. 

Mi venne voglia di dirgli: “Guardi, se ci avesse avvisato avremmo portato direttamente la dichiarazione dei redditi così risparmiavamo tempo tutti.” Perché, alla fine, ciò che voleva davvero sapere non era chi eravamo, ma quale classe sociale ci stava cucita addosso. 

La verità è che sulle nostre famiglie non c’era molto da raccontare. E, soprattutto, nulla che potesse interessare a lui. Ma evitarlo era quasi impossibile: ogni volta che cercavamo di restare vaghi, lui ci incalzava con domande sempre più precise. E appena riusciva a carpire un’informazione riguardo il posto di lavoro di un genitore, subito partiva con il dirci che, in quel posto, conosceva questo, aveva rapporti con quello, naturalmente sempre personaggi di rilievo. Sembrava quasi un catalogo vivente di nomi altisonanti 

Io, intanto, ero lì, lì per perdere la pazienza. Non era la prima volta: fin dalla materna, suore, insegnanti, preti e chiunque altro avevano sempre trovato il modo di fracassarmi i maroni con le stesse domande sul lavoro di mio padre. Non per sapere qualcosa di lui, ma solo per incasellarmi come “figlio di”, etichettarmi e basta. Ero stufo. Io volevo che mi vedessero per quello che ero, o almeno per quello che sarei potuto diventare. 

Volevo dirgli che, in realtà, la sola ragione per cui mi trovavo in quella mega villa, insieme agli altri tre poveri sfigati dei miei amici, era una soltanto: Francesca; sua figlia. La prima ragazza che, sin dai primordi delle nostre misere esistenze, aveva avuto la bontà di considerarci. E questo valeva più di qualsiasi pedigree sociale. 

Francesca si era accorta che ci stavamo impantanando, provò a rivalutarci agli occhi del padre dicendoli che “avevamo una radio”. Apriti cielo!  

Ma ‘sta roba a che serve? Ci fate soldi almeno? Avete degli sponsor?” 

Lo disse con un sorrisetto di quelli che ti fanno girare i coglioni a velocità supersonica. 

EnsoPenso stava per scoppiare era tutto rosso, credo ne stesse trattenendo una di potente da fargli sul muso. 

In quel preciso istante, feci un pensiero: un ingegnere costruisce ponti, case e macchinari. Ma quello, stava cercando di demolire SolaRadio, uno dei nostri pochi sogni e una delle nostre poche certezze. 

Il famigerato gelato poi si rivelò una delusione: due misere palline che, detto tra noi, erano state davvero… due gran palle. 

L’unico che uscì euforico da quel maniero fu Paperoga. Probabilmente a causa del litro di Branca Menta che si era fatto mettere nel gelato. Lungo la strada del ritorno, sull’onda dei consigli del quel cagacazzi di ingegnere, cominciò a sparare una serie di jingle pubblicitari in rima per i nostri improbabili sponsor 

  • Se ti xé sensa ‘na cocca, vien tor un birin in bar da Nane e ti sparagni i schei par e puttane 
  • Cavei longhi? Vien a tajartei da Vittorio i mejo scalpi del territorio 
  • Laboratorio pasticceria da Ciano l’Onto; serca i so’ Craf e dopo el fegato te manda el conto 
  • Ti serchi ‘na pisseria? Vien da Ciro, anca parché no ghe xé altro in giro. 
  • Frutta e verdura da Arduino che te ciava sol peso come un marochino 
  • Ti vol notissie fresche?  Va in edicoea da Franco “Gasetin” che el sa chi che xé morto ancora prima che riva el bechin. 

E ci credo che fosse stato euforico perché, alla fine, fu l’unico che portò a casa qualcosa. Più precisamente, dopo alcuni giorni, portò Francesca davanti il bar da Nane sul ferro della sua bici. 

Quella scena non la scorderò mai. Lui, con un sorriso stampato sulla faccia grande quanto lo schermo di un cinema, mentre la bici, a proposito di cinema, sembrava volare come nella scena del film Mary Poppins. 

E io, lo ammetto, ero felice per lui. Con la famiglia che si ritrovava, un cumulo di macerie più che un focolare, si meritava un po’ di affetto e un po’ di luce. 

Si vedeva che Paperoga si sentiva un uomo nuovo. In quel sorriso c’era tutto: rivincita, emancipazione e una sorta di vittoria che, per lui, anche se odiava il calcio, era pari a vincere lo scudetto. 

Sapevo che solo una donna sarebbe stata in grado di farlo uscire dal suo mondo fantastico fatto di fumetti e vecchi dischi, da una vita trasandata come i vestiti che indossava e dal vizio di mettersi le dita nel naso; insomma, da tutto ciò che gli aveva affibbiato il soprannome di Paperoga. 

Quea i ghea ciava prima che el xea ciava” 
Memo Bottacin, con la solita delicatezza da caterpillar, sparò immediatamente la sua sentenza. 

E purtroppo, come spesso accade quando Memo apriva bocca, aveva ragione. 
La profezia si avverò in men che non si dica. 

La fine arrivò con una scena da manuale del disastro. Paperoga, ormai gasato, pensò bene di replicare il suo ingresso trionfale con Francesca sul ferro della bici entrando nel cortile del patronato, convinto di fare il pieno di applausi misti ad invidia. 

E questa perché non me la presenti?”  

Riccardo Beltrame, come un condor che piomba di sorpresa sulla preda, si frappose tra i due e l’ingresso della sala cinema dove stava per cominciare la riunione di inizio anno pastorale del gruppo giovani. Aveva una calma glaciale di chi sa già come andrà a finire. 

Furono sufficienti quella frase e un festin bueo nella sua taverna al quale ovviamente noi quattro non eravamo stati invitati, affinché la Francy cadesse tra le braccia del Riky come un mozzicone nel tombino.  

E i sogni di Paperoga? Spazzati via come i coriandoli dopo il Carnevale. Un vero e proprio dramma sentimentale degno di un best seller. 

Lui rimase lì, impotente. Con la faccia del tifoso che vede il suo bomber sbagliare il rigore al novantesimo. Quel rigore che valeva lo scudetto. 

Ma, come nel calcio, ogni anno c’è un nuovo campionato. E le squadre cambiano. E i giocatori pure. 

Il primo a cambiare fu proprio lui, Riccardo Beltrame. Cambiò ragazza come si cambiano i calzini: Francesca era troppo acqua e sapone. A lui serviva una gnocca da esibire fuori dalla chiesa. Francesca pianse sulla spalla di Paperoga… e per qualche fugace istante lui vide la luce. 

Durò poco. Francesca, ad un campo estivo, conobbe quello che diventò suo marito e dal quale ha avuto due figli; ciao core. 

Dopo qualche anno, cambio anche il prete. Sparito don Gianni, da quella parrocchia donGiannicentrica  sparirono improvvisamente certi personaggi. 

La cosa mi colpì profondamente. Mi domandavo come fosse possibile che, da un giorno all’altro, persone che sembravano animate da una fede incrollabile scomparissero insieme, quasi avessero perso ogni convinzione. Quel pensiero iniziò a lavorarmi dentro. 

Forse Dio non c’entrava nulla e tutto quell’apparato; messe, incontri, gruppi, iniziative; era solo una costruzione dei preti per avere un pubblico, qualcuno che li ascoltasse. Per usare un linguaggio matematico; i preti stavano alla chiesa come noi stavamo a SolaRadio. 

Questi pensieri mi scossero nel profondo. Fu come se all’improvviso si aprisse una crepa sotto i piedi: ciò che avevo sempre dato per scontato vacillava, e con esso anche l’immagine che avevo di me stesso. Cominciai a chiedermi se credere fosse soltanto un’abitudine, un riflesso sociale, un modo per riempire i silenzi o sentirsi parte di qualcosa. Questa presa di coscienza mi gettò in una crisi silenziosa ma intensa, dalla quale non sapevo bene come uscire. 

Arrivò un nuovo pretino. Il suo gruppo giovani aveva meno iscritti degli ascoltatori di SolaRadio; e ce ne voleva! 

Anche lui venne a piangere sulla mia spalla per chiedermi se potessi far qualcosa per i giovani del quartiere e ne fui felice. 

Durò poco. Anche lui, a un campo estivo (maledetti campi estivi!), si infatuò di una bella giovane. Si spretò e se la sposò. Purtroppo, non so dirvi se, e quanti figli hanno. So solo che, forse a causa di questo andirivieni di preti, alla domenica presi ad andare sempre meno alla messa e sempre più a SolaRadio. 

Ovviamente durò poco anche il gruppo giovani. Amen. 

Ci sono tre cose che invece continuano a durare: SolaRadio, la nostra amicizia e un flebile canale di comunicazione tra Paperoga e … Francesca. 

Il destino volle che Francesca diventasse dirigente di un sindacato. Non uno qualsiasi: il più estremista e socialmente pericoloso agli occhi dell’ingegner Scandagliato. Sono quasi convinto che, per questo, quel clone di “lui”, l’abbia diseredata. 

Il destino inoltre volle anche che, qualche anno fa, Paperoga, cazzeggiando in rete, lo scoprisse. 

Il mio amico che, fino a quel momento, non risultava essersi mai iscritto ad un sindacato, nemmeno a quello dei fancazzisti superpagati associati … non si iscrisse nemmeno a quello di Francesca. Fosse mai che qualche dirigente della sua azienda venisse a saperlo; temeva fortemente che gli avrebbero ridotto di brutto l’ammontare del piano welfare aziendale. Addio abbonamento a Topolino, biglietti per i concerti e carnet del cinema (al quale, pur comprandoli, non andava mai). 

Così, non appena gli capitò l’occasione, optò per un’azione meno rischiosa per il suo posto di lavoro: partecipare a un incontro pubblico dove lei era tra i relatori. Ci trascinò pure me con lo scopo di reggergli il gioco. 

Anche grazie al mio contributo; i due dopo tanti anni si reincontrarono. Non riuscì, come quella volta, a caricarla sul ferro della bici (anche perché, diciamolo, sono secoli che non ne tocca una) ma fece meglio: la caricò in rubrica. 

Iniziò così uno scambio di messaggi. Prima timidi, quasi impacciati, poi via via più frequenti, come se le parole avessero ritrovato un sentiero interrotto anni prima. 

Ogni volta che lei scriveva, in qualità di “consulente sentimentale non retribuito” ne venivo messo al corrente. Apriva il telefono con la stessa esitazione di chi ha tra le mani un testamento o una dichiarazione d’amore dimenticata nel tempo, e mi faceva leggere tutto: il suo messaggio, la sua risposta, persino le bozze che non aveva avuto il coraggio di inviare. 

Ogni volta la stessa domanda: 

Secondo te, da quello che scrive, è ancora interessata a me?” 

Si faceva un sacco di paranoie; “eh, non mi ha messo il cuoricino ma, solo la faccina con gli occhi a cuoricino; però, mi ha scritto … un bacio … sarà un segno?”

Voleva sapere. Cercava in ogni virgola un segno, in ogni “come stai?” un battito nascosto, in ogni punto sospensivo una promessa. 

Io cercavo di convincerlo che sì, era evidente: tra loro c’era ancora qualcosa. Non un semplice ricordo. Non solo un rimpianto. Un filo, sottile ma indistruttibile, che negli anni nessuna distanza, nessun legame, nessuna vita parallela era riuscita a spezzare. Erano due persone che non avevano mai smesso davvero di cercarsi. 

Forse mi scrive così come scriverebbe a chiunque.” 

Testardo, continuava a rimanere nel suo eterno dubbio. 

Il problema era che lui cercava nelle parole una certezza matematica, quando invece il sentimento, quello vero, non si lascia misurare: lo senti. Ti cresce dentro in silenzio. E un giorno ti accorgi che, senza quasi accorgertene, stai sorridendo leggendo un messaggio sul telefono… e ti tremano le mani mentre scrivi la risposta. 

Mi ha scritto che sono e rimarrò sempre una persona speciale” 

Come diceva Shakespeare: “Il tempo è troppo lento per chi aspetta, troppo veloce per chi ha paura, troppo lungo per chi soffre, troppo breve per chi gioisce… ma, per chi ama, il tempo è eterno“.  

Quell’ultimo messaggio, l’aveva fatto sussultare. Era apparso sul suo telefono dopo un’eternità che non gli scriveva; poche parole, leggere come il volo di una farfalla. Gli era bastato per sentirsi di nuovo felice come quel giorno che la portò da Nane sul ferro della bicicletta. Aveva un sorriso limpido e pieno di vita, come se il tempo non fosse mai passato. 

Era chiaro che vive ancora per lei. Vive di quel ricordo che non invecchia, che non si piega al tempo, che si ripresenta sempre con lo stesso profumo di gioventù e la stessa ferita dolce. 

Il loro era un duello elegante fatto di battute leggere e complimenti camuffati, di attenzioni non dichiarate e sorrisi scritti.  

Ogni parola che si scambiavano ne era la prova. Sotto la superficie delle frasi leggere, si avvertiva un sottotesto sottile, quasi impercettibile a uno sguardo distratto, ma chiarissimo per chi conosce l’amore quando si nasconde. Era come se ogni messaggio fosse un passo avanti e allo stesso tempo un passo indietro: nessuno dei due osava dichiararsi apertamente, eppure entrambi lasciavano cadere piccoli indizi, come briciole sul sentiero di una storia mai del tutto interrotta. 

Il loro dialogo era diventato un gioco elegante, un valzer fatto di allusioni, mezze frasi e sorrisi scritti. Un corteggiamento discreto, pudico, quasi antico, in cui l’audacia non stava nell’osare, ma nel trattenersi.  

Un corteggiamento in punta di dita, dove nessuno dei due osava nominare il sentimento, per paura che dirlo ad alta voce lo rendesse troppo vero. Il loro scambiarsi messaggi era una sorta di gioco romantico un modo velato e delicato di flirtare. 

Nonostante gli anni trascorsi, tra loro esiste ancora un filo invisibile, qualcosa di antico e indissolubile. Non è semplice nostalgia, né un affetto di circostanza: una forma silenziosa di eternità, un legame che non chiede conferme perché sa di esistere oltre il tempo dentro di lui come una musica fragile eppure eterna. 

E lui non ha bisogno di molto: gli basta quella voce lontana, quell’eco che lo chiama ancora “persona speciale”, per sentirsi salvo, per sentirsi ancora intero. 

Gli basta condividere certe emozioni con noi tre che, nel tempo, assieme a lui, siamo rimasti a parlare dentro a un piccolo microfono di una radio minuscola, quasi senza pubblico, come se trasmettessimo solo per noi stessi e per l’eco delle nostre stesse voci.  

Siamo quattro anime sospese, rimaste a metà strada tra ciò che sognavamo di diventare e ciò che la vita ci ha concesso di essere. Quattro uomini che, in segreto, avevano immaginato esistenze diverse, forse anche amori capaci di salvarli o stravolgerli. Desideri rimasti accesi a bassa voce, come brace che non si spegne. 

Eppure, siamo ancora qui, fedeli a un unico rito che ci tiene in vita: la musica che trasmettiamo giorno dopo giorno attraverso la nostra piccola radio, e i ricordi che diamo in prestito alle onde dell’etere. È così che respiriamo quando ci manca l’aria, è così che resistiamo quando il tempo ci sfiora con mani troppo pesanti. La musica è la nostra memoria e, paradossalmente, anche la nostra speranza. 

A volte ho l’impressione che ognuno di noi abiti due vite. C’è quella esteriore, che gli altri osservano e giudicano, fatta di abitudini, volti consueti, compromessi silenziosi. E poi c’è l’altra, quella che non si vede: la vita interiore, intima, dove abitano le nostre passioni segrete, i sentimenti che non osiamo dire, le fragilità che ci rendono veri. 

È lì che sopravvivono i nostri ricordi più intensi, quelli che non si cancellano nemmeno con gli anni. Ed è lì che continua a battere il cuore della nostra piccola radio: non un rifugio, ma un filo sottile che ci tiene uniti a ciò che eravamo e a ciò che, forse, siamo ancora destinati a diventare. 

Forse non siamo diventati degli uomini forti, dei vincitori. Qualcosa di grande agli occhi del mondo, degni di ricevere considerazione da tipi come l’ingegner Alberto G. Scandagliato. 

Ma di certo siamo fortemente uomini deboli e fragili: un talento che, almeno quello, nessuno ci può negare. 

È forse quello che fa sì che, da qualche parte, là fuori, ci sono ancora persone che ci ascoltano. Forse poche, ma autentiche. Persone che non si scorderanno mai di noi perché, senza clamore né vetrine, ci riconoscono come speciali. Non per quello che possediamo, ma per quello che doniamo: un’emozione, un sorriso, anche solo un ricordo, un frammento di vita che continua a vibrare nell’etere. 

Viviamo per un ricordo che non smette di pulsare, che sia amore o musica, la sostanza non cambia; senza quella fiamma, senza quell’eco che ci accompagna, sarebbe tutto infinitamente più vuoto. 

Due vite … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

La mia estate … da Nane

Nel pignaton, dove prima galleggiava el musetto, ora ci sono i bovoeti. In realtà, c’è una montagna de ajo sotto la quale devi metterti, con santa pazienza, a cercare qualche bovoeto; è il segnale inequivocabile che è arrivata l’estate. 

Ho riflettuto parecchio e, secondo me, il bar da Nane Sberéga, è uno degli ultimi posti dove sono rimasti alcuni pezzi della tipica estate italiana; quella, per intenderci, dove primeggiava l’anticiclone delle Azzore, meglio conosciuto come anticiclone del colonello Bernacca e non, quel cancaro bueo marso di anticiclone africano; che, a detta di certi esperti di geopolitica, di cui il bar da Nane è strapieno, è stato portato in Italia, assieme alle zanzare tigre, da quelli che arrivano con i barconi.  

Oltre ai bovoeti, ci sono le fette di anguria che, Silvano Visentin, general manager, nonché, per discutibili diritti di famiglia, proprietario del marchio Nane Sberéga, ha ancora il coraggio di vendere sfuse, nonostante le mille intimazioni dell’ufficio di igiene.  

In tutto questo c’è comunque un innegabile vantaggio. Se uno ingurgita velocemente, prima ‘na sbrancada debovoeti co’ tanto ajo e poi due fette di anguria, molla un possente rutto, in grado di uccidere tutti i mussati presenti in un raggio di trenta metri dal plateatico del bar, facendo risparmiare al Visentin un bel po’ di soldi per il trattamento.  

Se poi, Denis Sgorlon e Memo Bottacin, uniscono le loro forze per produrre un corale super rutto, l’efficacia è ben superiore a quando, negli anni ’70, veniva spruzzato il DDT con l’elicottero; roba da matti; almeno, rispetto al DDT, ‘sta cosa è più ecosostenibile. 

Oltre ai bovoeti e alle fette di anguria, ci sono i restai ovvero, quelli che, per una ragione o un’altra, non vanno a trascorrere l’estate in nessun posto, che non sia a stretto tiro di sigaretta dal bar. Quelli che, se sottoposti al domandone dell’estate ovvero, “dove ti va in ferie ‘sto ano?”, non possono far altro che ripetere mentalmente, come un mantra, un vecchio detto locale: 

Ghe xé chi che va ai monti, chi che va al mare, e chi, che va; ben, ben in cueo de so mare”

Anch’io, Paperoga e EnsoPenso, facciamo parte del gruppo dei restai. Discendiamo da una stirpe di restai, figli dei figli di restai. I nostri avi, non si sono mai mossi dalle loro case, non hanno mai visto né monti né mari ma, solo la piatta e triste pianura padana dove, l’orizzonte è così piatto che, se cadi, al massimo, rischi di rotolare fino al vicino di casa. Gente che la carta geografica la usava solo per accendere la stufa. 

Noi restai, non abbiamo lo spirito del viaggiatore; viaggiare, allontanarci dalle nostre sicurezze, ci mette ansia. Siamo quelli che, quando raramente partiamo, ci voltiamo indietro, centinaia di volte, per la preoccupazione di non aver chiuso il rubinetto del gas. Quando poi arriviamo; in genere in posti che non sono a più di qualche ora di macchina dalla nostra casetta; come sotto naja, contiamo i giorni che ci mancano per tornarci.  

Sia ben chiaro; noi non partiamo per scoprire il mondo: noi partiamo solo per ricordarci quanto ci piace stare a casa! 

L’istà da Nane, ha il suo particolare dress code; braghe curte, calseti longhi, savate ai pie, camisa sbotonada e pansa fora; è tollerata la canottiera ma, rigorosamente bianca e ingiallita dal sudore.  

A proposito di sudore, nelle ultime torride e afose estati furoreggia ea gara del petaisso.  

Consiste nell’appiccicarsi al petto una carta da gioco; vince il più petaisso, ovvero intriso di sudore, quello che riesce a rimanere con la carta appiccicata più a lungo. Il record lo detiene Lele Bulegato; pensate, ha fatto addirittura il giro dei paeassoni di corsa, senza che la carta si staccasse dal petto.  

Non c’è da stupirsi quindi se, al Lele, passandogli una fetta di pane pugliese sotto le ascelle, ne ottieni un’ottima bruschetta al gusto ajo ojo e segoa

L’istà da Nane, è triste. Ci sono tipi come Walter Radonic meglio conosciuto come el mulo de Parenzo o anche el Soeta (civetta n.d.r.),che passano tutto il giorno a parlarti di morti annegati, morti avvelenati, morti dal caldo, morti di malattie portate dalle zanzare e morti di figa. Governi che cadono, borse che cadono, montagne che cadono e palle che cadono. Prezzi degli ombrelloni che salgono, temperature che salgono, contagi che salgono e terroni che salgono. 

L’istà da Nane, è malinconica. Il campionato di calcio è ormai alle spalle. Ci sono tipi come Memo Bottacin ai quali, non rimane altro che fare l’elenco delle occasioni perse durante le innumerevoli estati spese alla perenne ricerca di quella cosa che fa girare il mondo. Sono sempre le solite storie di more italiane e bionde tedesche; di folte pinete e grandi dune. Posti sconti dove c’è sempre mancato un pelo per …  

L’istà da Nane, sembra non passare mai. Ogni anno fa sempre più caldo e ci sono sempre più zanzare. I restai, hanno sempre più casini e preoccupazioni; prima fra tutte, quella de tendar i veci. I parenti si eclissano, lasciando solgropon del restà, ea vecia o el vecio o, tutti e due. 

Ogni giorno i restai sono alle prese con badanti che spariscono improvvisamente, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi, badanti che spariscono improvvisamente assieme ai soldi e al cognato. Medici che non si fanno trovare, medici che quando si fanno trovare, non vogliono farti la prescrizione. Medici che quando si fanno trovare, sotto minaccia armata ti fanno la prescrizione ma, la sbagliano. 

Per questo, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché, almeno dal freddo, vestendoti, ti puoi difendere e perché, il freddo ammazza tutti quei cancari de mussati. I restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché torna il campionato e el museto coe verze. Alla fine, i restai non vedono l’ora che ritorni l’inverno perché non si sentono più restai

Che dire. Anch’io, da buon restà, non ho più molta simpatia per l’istà che, mi riduce a essere più petaisso di Lele Bulegato. Mi chiedo che fine hanno fatto le notti d’estate italiane, quando arrivava un po’ di fresco e, nella vietta, si usava portar fuori le sedie che avevamo in casa, per starcene tutti all’aperto a chiacchierare con i vicini, condividendo qualche fetta di anguria; ora, si sente solo il sordo rumore dei condizionatori.  

Per fortuna, ho ancora la mia fidata ATALA nera, classe 1978, assieme a lei e a una tanica deUtan, alla sera, andiamo alla ricerca dei rimasugli dell’estate italiana.  

Ci basta varcare il confine dei paeassoni e salire sull’argine del canale dove, di colpo, la vegetazione e i campi de panoce, rendono l’aria più fresca. Dopo qualche centinaio di metri, le luci e i rumori sfumano. Si sente solo il canto dei grilli e nel cielo appare una miriade di stelle, fino a poco prima offuscate dalle luci della città. 

Mi distendo su un pontile della cavana a godermi lo spettacolo.  

La luna che si specchia sull’orizzonte della laguna sembra voler fare la civetta e strizzare l’occhio a certi che, come me, sanno ancora lasciarsi incantare. E io, da buon radiofonico nostalgico, non posso non pensare a Luna di Gianni Togni. È come se in quell’alone d’argento si nascondesse quella canzone e tutte le mie estati passate. 

Estati infinite in cui ho lanciato mille palloni sulla battigia, rigorosamente “per caso”, sperando che li raccogliesse una ragazza. Magari una con un sorriso timido e uno sguardo che avrei voluto fosse eterno… o almeno durasse più di quei due secondi prima che si girasse verso il suo fidanzato muscoloso e abbronzato. 

Quella miriade di ragazze che mai si ricorderanno di me, ma che io, invece, porterò per sempre nella memoria, anche se le ho viste solo per una frazione di secondo, come lampi fugaci in un pomeriggio di sole accecante. Sono rimaste lì, ferme in me, come fotografie ingiallite che la memoria, ha voluto ritoccare a mano. 

E ogni volta che torna l’estate, con il vento caldo e l’aria salmastra della barena, tornano anche loro. I ricordi e le dolci speranze, fragili come schiuma che muore a riva. Torna il desiderio di rivivere ancora, solo per un attimo, quei momenti che non torneranno più. 

Ormai, mi sono quasi abituato a vivere di rimpianti e ricordi, per cui, come Silvano che, non appena sente aria di estate, mette su i bovoeti, io, a SolaRadio, metto su Luna di Gianni Togni. 

L’istà da Nane, è ascoltare SolaRadio. E’ l’unico bar sulla faccia della terra e forse anche dell’universo conosciuto, che offre questo servizio di alto valore sociale, a cui tutta l’umanità dei paeassoni, sarà per sempre grata.  

E non perché, come asserisce qualche nostro spiritoso ascoltatore, Solaradio ha il potere di scacciare i mussati in quanto, certe canzoni che mandiamo in onda, non le sopportano neppure loro. Ma, fondamentalmente perché questo nostro scassatissimo e unico microfono che abbiamo, aiuta a combattere il vero flagello dell’estate; la solitudine.  

Perché SolaRadio entra in bar da Nane con la leggerezza di quella brezza che, nelle vecchie notti di estate italiane puntualmente, dopo cena, arrivava a farti compagnia.  

Perché SolaRadio, fa sentire chi resta in bar attaccato a quello scassatissimo e rumoroso ventilatore, parte di una scassatissima e rumorosa famiglia … più del ventilatore. 

 Parché l’istà da Nane no sia nà istà passada da soeo … come un Nane

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Dedico questo piccolo racconto a Luciano Minghetti; al bel ricordo delle mattinate estive, quando, da ragazzino, mi divertivo ad ascoltare “Lettere a Luciano” su Radio Capodistria. E’ anche a lui che devo la passione di “fare radio”, quella che mi fa stare tutt’ora, seppur sotto falso nome e “part-time”, dietro un microfono. 

Ciao Luciano 

… Uno dei tuoi “Balubini” 

Luna … ascolta il podcast

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

Un mare di ricordi

Memo Bottacin non sopportava che, nonostante fossimo appena a fine maggio, avessi già osato mandare in onda Miele del Giardino dei Semplici, uno storico tormentone estivo fine anni Settanta. Diceva che certe stupide canzonette da spiaggia, oltre a gonfiargli smisuratamente le palle, gli facevano sentire anzitempo el sofego e lo rendevano tutto petaisso

Io invece, quella canzonetta la amavo, perché ogni nota mi riportava a lei: Vera, il primo amore, la mia occasione perduta. 
Era agosto del ’77 quando la vidi per l’ultima volta. Quell’estate, Miele spopolava tra le radio; un motivetto leggero, quasi ingenuo, che si insinuò nel cuore e lì rimase, come un segnalibro lasciato su una pagina mai voltata. Una canzone che sembrava parlare di noi due, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. 

Ogni volta che la ascoltavo, sognavo il mare con lei; le nostre mani intrecciate tra gli ombrelloni sbiaditi dal sole, il sapore dolciastro dei ghiaccioli che si scioglievano troppo in fretta e il suono infinito delle onde. 
 

“Ea verità xé che col sente ‘ste canson ghe vanta ‘na Gianni” sentenziò el Mauri. Non occorreva che lo dicesse il Freud del quartiere; tutti sapevano che era questo il vero motivo della sua irritazione. 

Ora, è giusto anzi, doveroso, dedicare qualche riga alla spiegazione scientifica della celebre locuzione “me vanta ‘na Gianni”, entrata di prepotenza nello slang in uso nel piccolo universo che è il bar da Nane. 

Questo modo di dire prende il nome da tale Gianni Scarparo, storico frequentatore del bar. Un tizio che, fin dall’adolescenza, ha sofferto di sindrome da gnocca irraggiungibile. Ovvero, quel forte disagio psichico causato dal fatto che la gnocca non ti arriva perché manco ti vede e, se per caso ti vede, preferisce prendere un’altra direzione.  

In effetti lo Scarparo è perennemente depresso; ha in bocca sempre la solita frase: “ea ghe casca a tutti tranne che a mi”. Inoltre, passa gran parte del tempo al bar a fare discorsi sui tizi ai quali, apparentemente senza una logica ben precisa, quella cosa lì, è caduta alla grande. “Varda ‘sto molton che cocca che el xé ga trovà!”. Quando poi ti spiaccica sul muso le foto dei profili social di qualche suo conoscente è segno che è nel pieno di una delle sue crisi. 

Una delle sue teorie più famose è quella dell’inutilità. Un esempio per tutti: è inutile frequentare posti pieni di figa come Piassa Fero solo per constatare che finisce nelle mani dei soliti quattro rotti in culo. Alla fine, questo non fa altro che farti star male facendoti tornare a casa col magon.  

Ed è in onore di lui, uno dei più inguaribili malati di questa sorta di depressione sessuale che, i frequentatori del bar da Nane hanno attribuito il nome di “Gianni”. 

Tornando a noi, nella fattispecie al Bottacin “ghe vantava ‘na Gianni” perché, certe canzoncine estive gli facevano sentire tutto il peso dei decenni passati a battere quasi tutti i lidi del nord Adriatico a fare i più svariati, stravaganti e inutili tentativi de ‘ndar dee bone co ‘na cocca.  

A quasi settant’anni, non gli restava altro che sedersi sulla panca all’esterno del bar, fumarsi centinaia di sigarette e guardare sconsolato la gnocca che transitava per il vialone centrale dei paeassoni. Gnocca che, va detto, non entrava mai. Nemmeno per sbaglio. Anche in caso d’urgenza, preferivano farsela addosso piuttosto che varcare la soglia dell’infimo bar da Nane. 

Ma, come ho già raccontato, il Bottacin non era solo il mentore del fallimento erotico. A modo suo, aveva a cuore anche la nostra salute sessuale. Lo tormentava il fatto che i vent’anni ormai non li aspettavamo più e fossimo ancora senza uno straccio di donna. Non voleva che finissimo per diventare dei sensacocca come lui che, ad ogni persona che gli chiedeva come stava, rispondeva in rima: 

Come ti vol che ea sia; el problema xe sempre queo; no’ so mai ‘nda in mona e continuo a menarme l’oseo” 

Credo che la cosa preoccupasse anche sior Sergio. Erano ormai passati quasi sette anni dalla fondazione di SolaRadio e la realtà era inquietante: non c’era mai stata nemmeno una donna che si sognasse di venire a parlare al suo, unico e sgangherato microfono. Una radio completamente al maschile, un’emittente quasi monastica in cui l’unico segnale forte era la disperata, continua ricerca di quella roba lì che fa girare il mondo. E che, nel nostro caso, girava sempre altrove per, alla fine, cascare addosso a degli emeriti stronzi come Riccardo Beltrame; chiara evidenza che piove sempre sul bagnato. 

Sarà stato questo che lo portò a condurre un estenuante trattativa con suo cognato Giacomo. Zio Giacomino, il prediletto del Tito, aveva deciso di pensionare la sua leggendaria Fiat 128 gialla per passare a una fiammante Ritmo. Con la scusa che sarebbe rimasta in famiglia, lo convinse a cedere ad un prezzo simbolico il cimelio al caro nipotino. 

Come era già successo con la radio, anche quella macchina segnò una svolta. Una nuova era. Un altro passo avanti verso quel sogno confuso di libertà, musica, e, chissà, forse pure un po’ di figa; se non altro per l’effetto vintage della carrozzeria. 

A inizio luglio del 1985 la 128 color giallo Positano stracarica come un vaporetto al ritorno dal Redentor, arrancava lungo la strada alberata che portava dritta al mare. I finestrini abbassati, l’autoradio a palla, e fuori sparata senza pietà la cassetta Philips C-90 con la raccolta di tormentoni estivi, quelli più odiati dal Bottacin. 

A bordo c’erano quattro esseri umani in piena tempesta ormonale. Io, il Tito (pilota e responsabile logistico della missione), EnsoPenso (presunto stratega del butasardon), e il già citato Bibo dea Cipressina, il nostro più fedele ascoltatore, promosso sul campo a compagno di viaggio per meriti radiofonici. A terra erano rimasti Paperoga e il Mauri incaricati di custodire, con le loro cazzate radiofoniche estive, la frequenza di SolaRadio. 

La scelta della località non fu casuale. Per quella ci eravamo affidati un consulente di prim’ordine in materia di figa: Tony Pavan, detto el foResto, soprannome guadagnato per l’abbronzatura perenne che sfidava ogni stagione e dermatologo. Conosceva il Paperoga per motivi mai del tutto chiariti. Un Caveon che bazzicava le radio “vere”; ma, soprattutto era presenza fissa in spiagge, discoteche e luoghi dove la patonza girava in libertà. 

Aveva, ed ha tutt’ora, la fama di gran puttaniere certificato. Per certificato intendo uno che tromba sul serio e non un millantatore come, ad esempio, Denis Sgorlon. 

Altra parentesi. Distinguere un puttaniere vero da uno da bar è facilissimo: se gli chiedi com’è andata con una tipa e lui ti risponde “soito” con uno scrollo di spalle e lo sguardo annoiato, allora ha fatto strike. Se invece ti dice “che ciavada”, massaggiandosi la pancia come dopo aver mangiato tre porzioni di trippa, allora puoi star certo che di quella cosa lì, non ne ha nemmeno sentito l’odore. Chiusa parentesi. 

Ma il Tony non si limitò a indicarci la meta. Ci fornì pure un elenco dettagliato di discoteche che lui definiva senza alcun pudore “puttanodromi”. Lì, a detta sua, giravano a flotte certe tedesche attempate separate dal marito: signore esperte, disinibite e, soprattutto, “piene de voja”

Aveva capito al volo che nessuno di noi aveva ancora toccato palla, chiamiamola così, nella partita della vita, e ci spiegò con tono da missionario laico che quelle donne, poco o per nulla timorate di Dio, erano perfette per l’iniziazione alla “pratica”; dovevamo solo lasciar perdere tutte le paure inculcateci dai preti nel corso degli anni e buttarci. 

Dire che eravamo eccitati è poco. Era la prima volta che potevamo disporre di un appartamento tutto nostro. Anche se chiamarlo appartamento era un insulto all’edilizia civile. Si trattava, in realtà, di un monolocale borderline, con annesso bagno delle dimensioni di un confessionale, dove in teoria avrebbero dovuto soggiornare al massimo due esseri umani adulti, possibilmente di corporatura mingherlina. 

Il signor Vinicio, titolare dell’agenzia immobiliare e uomo dal sopracciglio giudicante, quando io e EnsoPenso firmammo il contratto, non disse una parola. Ma ci guardò con quella classica espressione che traduceva perfettamente il pensiero: 

“Se scopro che c’è anche solo mezza persona in più, vi inculo.” 

Naturalmente, alla faccia del Vinicio, ci infilammo in quattro, battezzando subito quel buco come “la base operativa”, soprannome coniato dal Bibo. Lascio a voi immaginare quali erano le “operazioni” che dovevamo intraprendere. Con un po’ di strategia e dei materassini gonfiabili, riuscimmo a ricavare dei giacigli tutto sommato “dormibili”. Si faceva a turno per l’unico divano letto disponibile, mentre gli altri si alternavano tra tappeto e gonfiabili, come naufraghi che si spartiscono i rottami di una nave. 

Il tocco di classe? La terrazza dava direttamente sul tetto della friggitoria sottostante, la cui canna fumaria, come un’arma puntata con sadismo, scaricava fumo denso e maleodorante dritto contro le nostre finestre. Aria fritta, letteralmente. L’unica cosa che non ci friggeva era la speranza. 

A peggiorare ulteriormente la qualità atmosferica dell’alloggio c’era EnsoPenso. Ora, non so se fosse per via degli ormoni a livelli da reazione a catena; fatto sta che continuava a mollarne di più potenti del solito. Aveva iniziato già in macchina tanto che Tito andò a controllare il posto su cui era seduto per vedere se c’erano strane tracce di materiale semisolido.  

In appartamento i miasmi che uscivano dal suo sfiato si mescolavano a quelli del fritoin, per cui, vi lascio immaginare. Un’esperienza olfattiva che avrebbe messo in fuga anche le più motivate delle tedescone di cui ci parlava el Tony. 

Inoltre, come se non bastasse, quando all’amico di cui sopra, toccava il turno di dormire sul materassino soprannominato “Cunegonda”, si sentivano degli strani sfregamenti.  El Bibo lo redarguiva: “moighea de pinciar el materassin; varda che no el xé ‘na bamboea gonfiabie. Va a finir che ti neo sbusi! ”. E difatti, nel bel mezzo di una notte … Pum! Credo che quello che svegliò gli abitanti del condominio in cui alloggiavamo e i due adiacenti non fosse stato il botto ma, piuttosto le nostre fragorose risate. 

Tornando al nostro primo giorno al mare, sempre  EnsoPenso, grande stratega della missione, già da tempo, aveva pianificato tutto nei minimi dettagli per sfruttare al meglio quella settimana. 
Una volta preso possesso del maniero, la priorità assoluta era scegliere il posto in spiaggia. 
Mi stavo fiondando, voucher alla mano, verso il baracchino dello stabilimento quando mi strattonò. 

«Va pian, dovemo prima vedar», disse. 
Intendeva che non potevo farmi assegnare dall’omino del gabbiotto un posto qualsiasi. No, prima bisognava studiare il terreno e capire quale fosse davvero il migliore. E per migliore non si intendeva certo la distanza dal mare, dalle docce o dal chiosco, ma la vicinanza… con la gnocca

Iniziò così un tour estenuante sotto il solleone, alla ricerca del posto spiaggia strategico. Passavamo a zig-zag nel nostro settore, scrutando con occhi da falco gli occupanti degli ombrelloni. Lo scoramento sopraggiunse quasi subito: solo famiglie di tedeschi, sovraccariche di pargoli urlanti e ben rifocillati. 

«Ciao Tiziano! Che ci fai qui?» 
Il Tito restò immobile, come una caldaia in blocco: bisognava urgentemente trovare il pulsante rosso per riavviarlo. 

«Mimorti!» 
Quasi contemporaneamente, EnsoPenso venne catturato da due squinzie con le tette al vento. 

Una biondina dalla voce squillante aveva paralizzato il Tito, mentre era evidente che EnsoPenso, stava impartendo ordini all’aggeggio sotto il costume di non muoversi per non metterlo in imbarazzo. 

«B-29! Come el bombardier che ga buttà l’atomica so Hiroschima! Fa presto!» 

Bibo, il più sveglio di tutti, aveva, nel frattempo, preso le coordinate dell’ombrellone libero più vicino ai due target principali. Mi invitò a correre al baracchino prima che qualche signor Kurt, Franz o Otto ci fregasse il tratto. 

Soddisfatti della scelta strategica, ci sedemmo a un tavolino del chiosco per la prima riunione operativa. Fummo subito addosso a Tito per chiedere dati anagrafici e biometrici della biondina e relativa compagnia al seguito. 

“Ah sì, quea. Gera ‘na me compagna de classe” 

Con il tempo ho imparato che, quando Tito inizia con un «Ah sì» riferendosi a una donna o, facendo finta di non ricordarsi come si chiama; in realtà, sta dissimulando un interesse spasmodico. 

Era evidente che quell’incontro aveva riacceso qualcosa in lui: era inebetito, parlava in fretta e a voce troppo alta, 
cosa che gli capita solo quando è particolarmente agitato e felice. 

Ci riferì che quella tale Anna era lì con le due sorelle e un’amica, alloggiate nell’appartamento dei genitori di quest’ultima. 
EnsoPenso, invece, fu prodigo di dettagli nella descrizione delle tipe: una TAC non avrebbe potuto fare meglio. 
Quando gli chiedemmo se ci avesse parlato, si limitò a un silenzio eloquente. 
Bibo, che aveva attivato le orecchie oltre che gli occhi, ci informò che parlavano francese: da quel momento vennero ufficialmente classificate come “le francesi con le tette fuori”

Proposi subito di andare a sederci sotto l’ombrellone B-29 “Enola Gay” (nome dato all’aereo in onore della madre del pilota n.d.r.). Strizzando l’occhio a Tito, dissi che, secondo me, bisognava battere il ferro finché era caldo e avviare immediatamente le prime operazioni di abbordaggio delle sorelle più amica. Ovviamente il Tito avrebbe avuto diritto di prelazione su Anna. 

Il socio diventò rosso in viso e iniziò a sudare fisso. Disse che serviva pazienza: buttarsi subito all’attacco ci avrebbe fatti sembrare dei bavosi morti di figa. Era chiaro che la sua introversione patologica lo paralizzava, era visibilmente terrorizzato all’idea di butar el sardon con Anna. 

Non mi aveva mai parlato di lei, ma era evidente che ne fosse ancora innamorato cotto. E in fondo la cosa, mi consolava: anche lui, come me, aveva avuto un primo amore rimasto… sospeso.  

Per evitare di creare un trauma irreparabile al nostro amico, l’assemblea deliberò di rientrare alla “base operativa”, fare un rapido giro docce, uscire per una pizza e poi discoteca. 

La nottata al “Desideria” mi fruttò solo un terribile mal di testa. Di quella cosa lì non ci cascò, come da previsione, nemmeno una goccia; probabilmente, sarà stato perché il locale non figurava nella lista dei puttanodromi forniteci dal Tony. 

La domenica mattina, quasi senza aver toccato il letto, mi stesi all’ombra dell’Enola Gay; era meglio pisolare in spiaggia che morire asfissiato dalle scoregge di EnsoPenso. L’amico, come d’altronde faceva in radio, non aveva nessun rispetto per quei tre che condividevano con lui quei pochi metri quadrati per dormire. 

Ciao” 

Ad un certo punto sentii una voce, forse stavo sognando. Aprii lentamente l’occhio destro dato che il sinistro si rifiutava di collaborare. Pian piano vidi definirsi la sagoma di una ragazza bionda. Man mano che la palpebra si schiudeva vidi che era Anna. 

Mi chiese di Tiziano. Tiziano! Mi faceva sempre strano sentir chiamare il Tito con il suo vero nome. Dal modo in cui pronunciava quel nome, e da come mi tempestava di domande particolareggiate sulla sua vita presente, passata e futura, mi ci volle poco a capire che anche la tipa, illo tempore, ea gaveva vantà ‘na incocaia par el Tito.  

Quindi, da buon amico decisi di aiutarlo: iniziai a tessere lodi sperticate, ovviamente esagerando. Le parlai di Solaradio, di come senza di lui non sarebbe mai nata, e già che c’ero, gonfiai un po’ anche il mio curriculum; non si poteva mai sapere. 

Lei ascoltava attenta, quasi incantata. Dopo una mezz’ora buona di agiografia Tizianesca, arrivò la doccia fredda: stava partendo per tornare a casa ed era passata per salutare il Tito o Tiziano, come lo chiamava lei. Ma quel che è peggio, mi disse che nel posto dove abitava non si prendeva Solaradio: ciò voleva dire che, come Vera, si era trasferita in un’altra città. Era come se, anche lei, fosse scivolata in quell’universo parallelo dove finiscono le persone che spariscono dalla tua vita. 

Siete davvero dei bravi ragazzi, salutami tanto Tiziano. Digli che … non importa”. Mi rifilò un tenero bacio sulla guancia. In quell’istante vidi in Anna la stessa dolcezza della mia Vera. Dall’emozione, mi ritrovai a scavare con i piedi una buca profonda nella sabbia, quasi un piccolo cratere dei sentimenti repressi. 

Il povero Tito continuò per giorni a chiedermi di lei, bramoso di ogni dettaglio sul nostro colloquio. Era arrivato al punto di pretendere quasi una trascrizione parola per parola. Credo lo facesse per cercare in ogni sfumatura delle sue parole, una conferma che lei fosse ancora innamorata di lui.  

Poi seguirono i rimproveri, primo fra tutti quello di non aver chiesto indirizzo e numero di telefono, almeno capire la città dove abitava. Credo l’avrebbe percorsa tutta a piedi chiedendo ai passanti se conoscessero la sua Anna. E aveva ragione, forse me l’aveva anche detto. Ma io, in quel momento, ero più vicino al coma che alla lucidità. E poi, c’era stato quel bacio che non mi aveva fatto capire più niente. Pensate che di questo, ancora oggi, non gli ho mai detto niente. 

Ripensando al Tito e alla sua Anna, mi viene in mente che, anche lui, come me, per buona pace di tipi come Memo Bottacin, non appena nell’aria c’è sentore d’estate, manda in onda “Due ragazzi nel sole” dei Collage. 

Era, anche questa, una di quelle canzonette che uscivano, leggere, leggere, dalle radio, da quelle musicassette cigolanti o dai juke-box arrugginiti dalla salsedine, parlavano di passioni intense, di notte e pelle, di abbracci rubati e sogni a due.  

Ora, col senno di poi, mi è facile capire che il cuore gli fa ancora male per una storia non vissuta e che, canzoni come quella, non erano mai state sue. Erano esperienze mai fatte, emozioni che gli erano scivolate accanto, troppo veloci o troppo timide, e che, proprio come me, aveva lasciato andare senza nemmeno accorgersene. 

Per fortuna, quel pomeriggio ci fu l’indimenticabile partita di bocce con le francesi. Ricordo come fosse ieri l’espressione di EnsoPenso; aveva lo sguardo di chi avrebbe voluto giocare con ben altre bocce. Poi seguì un bagno collettivo, momento immortalato in una foto in cui EnsoPenso sembrava pronto a saltare addosso alla più grande, quella con le tette più sviluppate, da un istante all’altro. 

Il giorno dopo, non seguì invece un bel niente; anche le francesi si volatilizzarono. Serafico il Bibo con il suo sorrisetto sarcastico teorizzò che, probabilmente avevano cambiato settore in quanto si sentivano minacciate da quattro bavosi mandoloni. 

I posti accanto all’ombrellone B-29 Enola Gay si riempirono di nonne con frignanti nipotini. Di certe tedesche assatanate di sesso non ce n’era nemmeno l’ombra. O il Tony aveva fatto male i conti oppure, cosa più probabile, ci aveva presi per il culo.  

Il resto della settimana, per rimanere in tema teutonico, lo passammo a consolarci mangiando prelibatezze tedesche. Scoprimmo i favolosi Weißwurst bavaresi, ottimi con birra e patatine fritte. Ma, cosa ancora più degna di nota, nel panificio accanto al nostro condominio, vi era un tal assortimento di Craf che, al confronto, quelli di Ciano l’Onto, erano dolci per diabetici. 

Alla fine, ce ne tornammo a casa pieni di illusioni, scottature, una manciata di speranze e … qualche chilo in più. 

L’anno successivo arrivò la seconda edizione: niente Anna, niente sorelle e amica, niente francesi col seno al vento… ma almeno niente appartamento sopra la friggitoria. Questa volta avevamo un comodo due camere con soggiorno e, al piano di sopra, Marisa, la baby-sitter del figlio della coppia che gestiva l’edicola sottostante. 

Marisa accettò di essere condivisa da noi quattro sfigati. Si impietosì perché capì che, alla fine, in quella settimana, dei tipi come noi, non avrebbero trovato niente di meglio e, praticamente, si trovò a far da baby-sitter ad altri quattro bambini affamati di una certa cosa.  

Solo io, quell’estate, una sera, ebbi un’illusione breve ma intensa, come un lampo nel buio del mio eterno deserto affettivo. Accadde al Mr. Charlie, una discoteca praticamente sulla spiaggia (quella sì, era nella lista del Tony), con la pista che sembrava sospesa sul mare. Era tardi, l’aria fresca saliva dalle onde e la brezza salmastra sembrava darmi una tregua dal caldo e da tanti altri pensieri. 

Quando partirono le prime note di “The Captain of Her Heart”, la terrazza si tinse di una bella luce blu. Quella musica, con quel ritmo lento, aveva qualcosa di ipnotico. E fu in quel momento che accadde. 

Una ragazza, una biondina tedesca dagli occhi chiari e il volto sereno, si avvicinò senza dire nulla e mi porse la mano. Così, all’improvviso. Non ci fu tempo per pensare, solo per seguire il gesto e salire con lei su quella pista che guardava l’infinito. 

Ballammo in silenzio, con il vento che ci accarezzava i volti e il mare sotto di noi che sembrava suonare insieme alla musica. E in quella luce sfocata, con il battito lento del brano e il profumo del mare nell’aria, fu come se stessi ballando con Vera. Non era solo una somiglianza: era un’impressione profonda, viscerale, quasi mistica. Come se il ricordo di Vera si fosse incarnato per un istante in quella sconosciuta. Per tutta la durata della canzone non parlammo. Solo i nostri corpi, leggeri e imprecisi, si muovevano seguendo la musica e qualcosa di più antico, come se quel ballo fosse scritto da tempo, da un’altra vita. 

Poi, la canzone finì. 

E lei, dopo aver detto qualcosa che assomigliava a un “grazie”, come una Cenerentola senza scarpetta, sparì tra la folla, inghiottita dalla notte e dalle luci della discoteca. Non ci fu nemmeno il tempo per un “ciao”, una frase, uno scambio di nulla. 

Eppure, quel momento resta uno dei più belli e intensi della mia vita. Un sogno che durò una sola canzone, ma che continuo a ricordare come se fosse durata un’estate intera. Una breve apparizione che mi lasciò addosso la sensazione che, per un attimo, Vera fosse tornata davvero. Solo per me.  

L’anno dopo ancora non ci fu più nulla. Tutti e quattro ci “sistemammo” e passammo allo status di “impegnato”. 
 

Ma io al mare ho continuato ad andarci.  

Con lui, ho sempre avuto un rapporto di amore-odio: odio per come l’ho conosciuto da bambino: in una colonia dove sono stato peggio dei primi anni da militare. Amore per le occasioni che mi ha offerto da ragazzo… e che, il più delle volte, ho buttato. Di nuovo odio per il caldo soffocante di questi ultimi tempi e certe vacanze dalle quali non vedevo l’ora di tornare. Di nuovo amore per i bei sogni che mi ha regalato e perché, fondamentalmente … io con il mare ci parlo e lui mi ascolta. 

C’è un rituale che ripeto ogni anno: circa a metà luglio, al mattino presto, prendo la bici e percorro tutta la ciclabile sul lungomare, da casa mia fino al penultimo stabilimento balneare prima del faro. 
Lì c’è quel pezzo di spiaggia che quarant’anni fa ci vide ragazzi spensierati. Poi mi fermo al nostro chiosco, divenuto nel frattempo carissimo, per una colazione.  Mi siedo a guardare il mare. È una sorta di pellegrinaggio laico, un modo per toccare con mano chi ero e chi siamo stati. 

Quest’anno mi sono pensato di invitare il compare EnsoPenso, sperando che tirasse fuori un pensiero profondo, qualcosa di degno per commemorare i quarant’anni della nostra prima vacanza insieme. 

Ma a ti, co ti vedi tutte ‘ste fie coi costumi sgambai e col cuèo fora, no te vanta ‘na Gianni?” 

Ecco la sua riflessione esistenziale. Pensare che si è fatto più di cento chilometri per dirmi questo.  

Poi, ha iniziato a parlarmi di Tony Pavan. 
 

Secondo lui, è solo grazie a qualche raccomandazione ecclesiastica che Tony si era sistemato in una nota compagnia di assicurazioni, con super stipendio e mega benefit. 

Che gran rotto in culo. Bastava guardare le sue foto su Facebook: aveva trovato una compagna molto più giovane di lui, architetto di grido e gran bellezza ma, era più che certo che continuava a divertirsi “fuori casa”. Nonostante i sessantatré anni, era sempre in giro per discoteche, serate con DJ “veri”, radio “vere” e posti esotici. 
Sempre super abbronzato, camicetta bianca ben stirata, collana, braccialetti alla moda e circondato da una nuvola di gnocca.  

Insomma, vedere quelle immagini aveva fatto venire al compare una “Gianni” colossale. 

Secondo lui, i preti ci avevano fregato, imponendoci una vita grama e senza divertimenti. Dovevamo imparare a vivere dal Tony, diceva. 
E giù con quelle mezze parole che, tra le righe, celano il rimpianto di non aver mai trovato la sua donna ideale. Ormai la conosco a memoria, potrei disegnarla: bionda con i capelli ricci, gambe lunghe, tette piccole ma sode, brillante, non obbligatoriamente laureata ma obbligatoriamente patentata e automunita. Praticamente il ritratto di una di quelle francesi con le tette fuori. Una donna che, quando la porti in giro, faccia venire “una Gianni” agli altri. 

Xe stai anni de libertà, che bei…” 

Lo disse con lo sguardo malinconico rivolto al mare, come se parlasse direttamente alle onde. Capì subito che stava pensando a quel periodo prima che si “impegnasse”. 

Se ne stette per un po’ in silenzio, non mi restava altro che capirlo e osservarlo. 

Sulla spiaggia, i giovani ridevano, si rincorrevano, si sfioravano con quella disinvoltura che appartiene solo a chi non sa ancora cosa si può perdere. Ragazze e ragazzi che si corteggiavano, si guardavano negli occhi con la fame e la fiducia di chi ha tutto il tempo del mondo. E lui li osservava da lontano, come dietro un vetro che non si poteva rompere. Non era invidia. Era qualcosa di più sottile: rimpianto. 

Il rimpianto per un tempo che c’era stato, ma che, forse, non aveva saputo vivere davvero. Un periodo troppo breve, e troppo esitante, in cui le possibilità erano ovunque ma sfumavano prima ancora di diventare scelte. Una libertà che aveva, sì, ma che non sapeva di avere. O, forse, aveva paura di usarla. 

Poi, prese a parlarmi della chiesa e dei preti, non era la prima volta che mi faceva certi discorsi. Secondo lui, ci avevano riempito la testa di regole, di timori, di sensi di colpa. Ci avevano detto di aspettare, di comportarci bene, di non bruciare le tappe, e così, mentre aspettavamo, il tempo è passato. Alla fine, certe occasioni non tornano e se le beccano gli altri, meno inquadrati in certi schemi. 

Ti sa cossa che ea xé ea me vita? ‘Na gran finta!” 

Riprese a starsene in silenzio a guardare il mare e la compagnia di giovani ragazzi. 

E adesso, ad entrambi, con il mare davanti, e il vento addosso, e le voci allegre dei nuovi vent’anni che esplodono tutt’intorno, una malinconia ci si aggrappa addosso piano, come un lenzuolo sottile. È una malinconia strana, quasi dolce. Non è solo bellezza, è qualcos’altro; una specie di richiamo muto, come se l’acqua conservasse il ricordo di quello che poteva essere e non è stato. 

Ognuno di noi ha ancora nel cuore una ragazza che ama ricordare mandando in onda su Solaradio, con nostalgia e occhi lucidi, qualche vecchia canzonetta da spiaggia, come fosse una favola che avrebbe voluto vedersi realizzata. 

Tito non ha mai dimenticato Anna. Bibo pensa sempre a Vania, EnsoPenso; boh non saprei. Ma credo abbia centinaia di primi amori; o meglio, centinaia di tette culi e gambe che avrebbe voluto afferrare.   

Ed io, spero che proprio qui, su questa spiaggia, davanti a questo mare che trabocca di ricordi e che meglio di chiunque altro sa custodirli, un giorno il destino mi riporti a incontrare Vera. Quel primo amore intenso, acerbo e purissimo, mai davvero vissuto, e proprio per questo rimasto perfetto. Un amore così profondamente sentito da rimanermi addosso come un tatuaggio invisibile. 

Non mi vergogno di pensarci ancora, perché oggi il suo ricordo è persino più vivo di allora, pulsante e intenso. Perché quello che non è mai successo rimane puro, incontaminato, come se il tempo stesso avesse avuto paura di rovinarlo. Perché ciò che non accade mai non si consuma: resta inviolato, quasi sacro. 

Ho sempre avuto la sensazione che, anche senza un bacio, anche senza una parola d’amore pronunciata davvero; dentro di noi, ci siano frammenti d’anima condivisi, incastrati, stretti come radici e mai più sciolti. 

Nonostante gli anni, le storie vissute e quelle mancate, continuo a chiedermi se anche lei non abbia fatto lo stesso e, qualche volta, davanti a un altro mare, in un’altra città, in un altro tempo, sotto un altro cielo non stia rivolgendo lo sguardo altrove per pensare a me. 

Anche se non so se la vita mi darà questa occasione, resto qui, davanti a questo mare, fedele a un ricordo che non vuole morire. 

Il mare mi sussurra che è amore vero, proprio perché non è mai diventato altro. 

Tornami a mente il dì che la battaglia 
D’amor sentii la prima volta, e dissi: 
Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia! 

Giacomo Leopardi 

La stagione dell’amore … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

El Bibo dea Cipressina

Condannato per omicidio con l’aggravante dei futili motivi”; probabilmente, se non mi fossi trattenuto, sarebbe quello che avreste letto sui giornali, ma, vi assicuro che, la voglia di scaraventare fuori dal treno, non appena fossimo entrati nella galleria degli Appennini, quella tipa che mi sedeva davanti, colpevole solo di avere addosso lo stesso profumo di Maria Vittoria Benzoni Savelli; era tanta. 

Prima ora del primo giorno di liceo; una folata di quel maledetto profumo riempì l’aula precedendo l’esordio in scena della nostra professoressa di lettere; tubino verde, scarpe bianco lucido con tacco dodici e, un fastidioso tintinnio provocato dalla ricca dotazione di gioielli. Alla bionda sembrava che gli occhi dovessero uscire, da un momento all’altro, dalle orbite; assomigliava, in tutto per tutto, a un personaggio politico in voga oggi. 

Non ricordo bene la formula matematica ma, il rapporto figa / stronza attribuito dalla commissione di maschietti che, da lì a poco, si sarebbe insediata; era bassissimo, intorno allo zero virgola qualcosa. 

Non mi serviva la sfera di cristallo, tanto immaginavo dove sarebbe andata a parare; dopo una rapida ma estremamente accurata, scansione di tutti i venticinque elementi della classe iniziò con l’appello-interrogatorio, gli interessavano sostanzialmente tre dati; cognome, nome e classe sociale. Si capiva che, avrebbe voluto andare direttamente al sodo chiedendo subito, ad ognuno di noi, informazioni sul lavoro del padre ma, alla codarda mancò il coraggio per cui, indagò prima sul luogo di residenza, altamente indicativo dello stato sociale. 

Quando, la numero uno, tale Andreatta Vania, toccandosi i bellissimi riccioli biondi, con voce sensuale, pronunciò “Rotonda Garibaldi” ovvero, i Parioli di Mestre, si innescò in me una incontrollabile reazione a catena chimico-ormonale; ma questa è un’altra storia. 

Fino a quel giorno, ero abituato ad avere in classe gente che proveniva, dal mio quartiere, in più, non ero particolarmente ferrato nella geografia locale. Il numero due, tale Bibolin Mauro, un ricciolino con la faccia da Bassethound bastonato; a domanda, con un filo di voce e scarsissimo entusiasmo, rispose; “Cipressina”. Mi fu subito simpatico, provai nei suoi confronti, una grande tenerezza mista allo stupore derivato dal non sapere dove cavolo si trovasse quel luogo. 

Io ero al diciassettesimo posto; per cui, visto come buttava, avevo tutto il tempo di prepararmi le risposte; da navigato speaker di una radio libera, ea sbatoea non mi mancava. 

Campalto dove?” 

il sarcasmo della Benz sembrava uscire anche dalle tette, tenute ovviamente bene in vista. 

C puntato, E puntato, P puntato; meglio conosciuto come Lido di Campalto; signora professoressa” 

Realizzai di essere praticamente già stato rimandato a settembre. L’illustre futuro avvocato Campesan, seduto a mio fianco, si mise istantaneamente la mano in tasca, non capivo se per toccarsi le palle o mettere al sicuro il portafoglio. 

Non era finita qui; dopo averci minacciato di incularci se facevamo assenze non causate da gravi malattie invalidanti, ci propinò subito un tema dall’originale titolo “mi presento”; in sostanza aveva bisogno, al solo fine di schedarci, di quante più informazioni possibili. Istintivamente girai lo sguardo in direzione del Bibolin; stava con gli occhi rivolti al soffitto a mo’ di imprecazione. 

Dopo due giorni, riecco la folata; tailleur nero, stivaloni sadomaso dello stesso colore; sbatté sulla cattedra il registro con sotto i nostri temi. Per un attimo mi squadrò, nella mia immaginazione mi vedevo steso per terra davanti la cattedra, mentre lei mi premeva la testa con il tacco dello stivale. 

Iniziò a recensire i lavori mentre, alcuni esimi colleghi, diedero vita a concerti per solo violino e lingua. Il tempo passava e, ancora non arrivava il mio turno né, tantomeno quello del Bibolin; brutto presentimento. Quando giunse alla fine del pacco si mise a sbuffare; con quelle lunghissime unghie laccate in maniera ineccepibile, prese a tamburellare sopra i due fogli protocollo rimasti; stette un attimo in silenzio, cercai conforto nello sguardo del Bibolin che però, prontamente, da sotto il banco, con la mano chiusa a pugno, fece l’inequivocabile gesto, chiaro preludio alle intenzioni della prof. 

– “Bibolin e … come cavolo si chiama questo. non ci siamo”. 

Il sospiro della Benz provocò un’altra tremenda zaffata di quel suo, chiamiamolo, profumo; gli occhi uscirono ancora più fuori dalle orbite; sembrava che un bottone della camicetta, quello posizionato sul davanzale, stesse per saltare da un momento all’altro; si tirò su le maniche per sistemare meglio quel mezzo kilo d’oro che aveva su ogni braccio, come se si preparasse per prenderci a sberle. 

“Fuori tema”, fu il verdetto; la masnada degli sviolinatori si girò verso di noi guardandoci con ghigno diabolico, in attesa di ordini superiori ed eseguire la sentenza ovvero; metterci alla gogna. 

– “A ciccio almeno l’ironia no’ te manca. Mò me devi spiegà ‘sta storia che parlicchi so ‘na fantomatica radio” 

Fui il primo al quale si rivolse in romanesco; l’avrebbe fatto ogni qualvolta intendeva sminuire qualcuno. “Parlicchiare su una fantomatica radio”; come fanno presto due parole sbattute la, dall’alto di una cattedra, a mandare in frantumi l’entusiasmo di un adolescente. Menomale che l’Andreatta mi lanciò un’occhiata complice che, mi tirò su il morale e, anche qualcos’altro. 

“Il Piave mormorò, non passa lo straniero!”; mi risuonò nella testa la famosa canzone; il nemico, ovvero la Benz, stava passando il limite; passai alla riscossa verbale. L’entusiasmo e la passione per la radio furono la mia arma letale; alla fine della mia arringa, in classe non volò una mosca; la campanella salvò la signora da un certo imbarazzo. 

“Ma che casso ti gà scritto?” 

Bibolin mi affiancò in corridoio, non aveva più la faccia da Bassethound bastonato, era alquanto divertito dalla situazione; ci scambiammo i fogli protocollo. 

In piazza Barche, i nostri autobus prendevano direzioni diametralmente opposte; era facile però intuire che, alla fine, ci avrebbero sbarcato sulla stessa identica realtà. Un posto ambito era il sedile dove un tempo stava il bigliettaio, in pelle, comodo, disponeva di un tavolino che, noi studenti sfruttavamo come banco autotrasportato per sistemare gli appunti e altre incombenze scolastiche; quel giorno ci stesi sopra il tema del Bibolin. 

Sono nato e abito alla Cipressina, detta anche Depressina, uno dei tanti quartieri dormitorio di Mestre ..”. Quartiere dormitorio, che strano termine; mi immaginavo palazzoni con camerate piene zeppe di letti a castello, un po’ come nella colonia dove d’estate, fin dalla tenera età di sei anni, mi spedivano i miei. 

Campetto da calcio, due bar, dove le bestemmie erano usate a mo’ di punteggiatura; la chiesa, dove vengono favoriti sempre i soliti seduti in primo banco. Per i giovani non c’era ‘sta grande offerta di attività; potevi giocare a basket sul campetto del patronato a patto che frequentassi l’incontro del venerdì; dove, un pretino sedeva a capotavola con a fianco, i suoi discepoli preferiti; l’insegnamento impartito era sempre quello; non trombare prima del matrimonio, nemmeno con la fantasia; non andare a far vasche in piazza o peggio, in discoteca. 

Fortuna che eravamo distanti di banco altrimenti, la Benz avrebbe montato su un impianto accusatorio non facilmente demolibile; i nostri due temi erano praticamente una fotocopia, stessi luoghi stesse persone ma, soprattutto stessa vena malinconico-ironica usata per descrivere la banalità. 

Tirate su da quel letto, che go da passar ea lucidatrice !!” 

Ormai non riuscivo più a sopportare il tono di voce di mia madre; ogni qualvolta doveva impormi qualcosa, mi fracassava i timpani; altra cosa che non sopportavo era la brusca interruzione di una fantasia erotica; il faro della vecchia Sangiorgio, illuminò a giorno la mia cameretta, mentre stavo per avere il mio primo rapporto sessuale completo con la Andreatta. Chissà se anche Bibo, ormai lo avevo già soprannominato tale, aveva una mamma così disgraziata; nel suo tema non c’era menzione alcuna della famiglia. 

Nel mio, l’argomento era stato volutamente relegato tra gli omissis; in primo luogo, perché non c’era niente di particolare da dire o, di che vantarmi anzi, me ne vergognavo; la gente comune non fa colpo, tanto vale non parlarne. La mia tesi fu avvalorata il giorno della lettura dei temi; era tutto un susseguirsi di padri avvocati o ingegneri. Mi immaginavo madri affettuose alle quali i padri avvocati o ingegneri avevano appena regalato la macchina nuova in quanto, la pelliccia di visone era già stata regalata l’anno prima e, dolcissimi nonni che facevano migliaia di chilometri per scendere giù dalle loro case al mare o in montagna e andare a trovare i nipoti ovviamente, portando con se una busta regalo, ben imbottita di bigliettoni da cinquantamila lire. 

Cosa dovevo dire di mio padre, che all’età di dieci anni fu preso da mio nonno a pedate nel culo e mandato a lavorare in mezzo ai campi; colpevole solo di avergli chiesto una bicicletta. Oh, certo, potevo raccontare che era giunto all’apice della carriera, ora aveva un tornio tutto suo e un “bocia” a cui insegnare, a suon di bestemmie e tangare sulla testa, il mestiere.  

Non credo facesse molta poesia, se raccontavo che se ne stava giorni interi in quel maledetto orto ad annaffiare le colture con l’acqua del putrido fosso ma che, almeno quello, gli faceva dimenticare le ciminiere di Porto Marghera. Che dire poi di mia madre, sfatta nel fisico e assente con la mente, passava tutto il giorno, come un automa a ripetere le stesse faccende domestiche, cantando a squarciagola le solite canzoni; unica distrazione alcuni fotoromanzi sgualciti che gli passava la parrucchiera, le rare volte che ci andava. Lasciamo perdere mio fratello; il vero uomo, tenuto su un piedestallo dai miei in quanto, già da tempo lavorava; unico e valido supporto al magro bilancio familiare; non come me che, magnavo schei a tradimento. Devo dire però che c’era, qualcosa in cui credere, una solida la fede che reggeva la mia famiglia, per noi uomini il Milan, per mia madre la Carrà. 

Non ho mai sopportato quelli che, come Maria Vittoria Benzoni Savelli, ancor prima di sapere come ti chiami, ti chiedono informazioni dettagliate riguardo la tua famiglia; e lei, probabilmente, non sopportava chi volontariamente o meno, ometteva di fornire queste informazioni per cui, qualsiasi altra cosa avessimo scritto era ovviamente, “fuori tema”. 

“No go capio, to pare xè ingegner, professor o avvocato? In cossa el xé laureà?”;  

El Bibo, non perse tempo per, come diciamo noi, tirarme in lengua

– “El xé laureà in tornitura de fin”; 

-“Ah, el mio invesse in saldatura col caneo”; 

-“E dove, l’esercita ea profession?”; 

-“El ga el studio a Marghera, al Breda”; 

-“Orpo, el mio la vissin; Vetrocoke Azotati! E to mare?”; 

-“Casa a batar strassa tutto el giorno”; 

-“Idem con patate”; 

-“Scolta, però, ea to’ radio ea fa un fià da cagar; a casa mia no ea ciapo”; 

-“Par forsa, el posto dove che ti abiti fa da cagar”; 

-“Senti chi parla, queo coi rubinetti de oro in casa” 

Consideravo un preciso impegno istituzionale, fare in modo che, in un quartiere sfigato come il nostro, si potesse ricevere Solaradio. Fracassai i maroni per settimane a sior Sergio, alla fine, il segnale, giunse chiaro e forte alla “Depressina”; al Bibo, comunque ‘sta cosa sembrava non fargli né caldo, né freddo.  

In quel periodo, alla sera io e Paperoga, ci alternavamo a condurre quello che era un classico delle prime radio libere; le dediche in diretta. Un nebbioso lunedì di fine ottobre, arrivò una telefonata indimenticabile: 

– “Pronto xè ea radio?” 

– “Si, chi parla?” 

-“’Sera maestro, so Umberto Cassador detto Berto, un barbier qua de Mestre” 

-“Bene, finalmente una telefonata dal centro città, vuole fare una dedica?” 

-“No, un annuncio, se el me parmette” 

-“Certo, dica pure” 

-“Steme a sentir, insomma, voria dir a tutti che ea mujer de Gino Visentin; … lo fa beco!!” 

-“Scusi ma ..” 

-“No, no ghe xè ma e no ghe xè se; maestro, so sicuro de queo che digo” 

“Come fa ad essere sicuro, ha le prove?” 

La cosa iniziava a divertirmi 

-“Ostia xè go e prove! Xo mi che me ea cia…” 

La telefonata di quel fantomatico Berto Cassador, durò quasi mezz’ora; iniziò a descrivere nei minimi particolari, i focosi incontri con la sua amante; non appena eccedeva con le oscenità o, accennava a frasi volgari; mi divertivo a censurarlo mandando della musica. Da quella sera, Berto Cassador, non mancò di continuare a telefonarci e ad allietarci con le sue storie “de done nue”. Dalle sere successive, fatalmente, iniziammo a ricevere anche le tristi telefonate di Gianni “Nane Sfiga” Berton, il cui motto era “ea vita xè un cesso sporco”, i comizi in diretta del compagno Piero “el Ce” Cecchinato, gli indimenticabili consigli per cuccare di Antonio “Tony Piassa Fero” Lovadina e, i commenti calcistici di Luigino “Ginetto in baeon” Passarin, opinionista ubriaco.  

C’era una cosa che accumunava questi personaggi, un tono di voce stranamente simile. Credo che, ancora oggi, a parte noi della radio, il grande pubblico ignorasse che, dietro a quei personaggi, ormai entrati nell’immaginario mitologico, si nascondeva el Bibo; un segreto che ci porteremo nella tomba. 

A parte questa sorta di collaborazione radiofonica, io e lui condividevamo ea poca voia de far ben a scuola e, ‘ndar in batua.  

A causa dei continui insuccessi nei due ambiti precedentemente menzionati, eravamo dediti al consumo, o meglio, abuso, di tramezzini e birrini, presso un popolare locale di via Mestrina. Non era cosa semplice, dovevamo faticare non poco a racimolare i soldi necessari per permetterci quella sorta di dipendenza. I nostri genitori, a differenza di molti altri, non ci davano la paghetta settimanale in quanto, adottavano il metodo self-service ovvero, ci dicevano “co te serve i schei totei” il che, sembrerebbe semplice ma, in realtà, quella frase sottintendeva che, per ogni biglietto da mille era necessaria una formale domanda in carta bollata nella quale, sotto giuramento, si dovevano elencare i validi e giustificati motivi del prelievo.  

L’evasione e il godereccio non erano contemplati, per cui, era necessario ricorrere a una sorta di elusione fiscale, mascherando le uscite relative a, pizzette, tramezzini, mozzarelle, Giambonetti, birrini, colini, gelatini e altre sostanze classificate alla stregua della droga; come spese per materiale scolastico; non era facile ma, bastava far ricadere la colpa sul quel cagacazzi ed esigente professore di turno che, ci faceva spender un sacco de schei per niente. 

C’era anche un’altra cosa che condividevo col Bibo la sbindolata megagalattica per quella ricciolina bionda che avevamo in classe. 

A differenza degli altri tre soci che avevo in radio, Bibo non faceva mistero delle sue passioni amorose. Con lui, tutto era trasparente: dai dischi che adorava alle emozioni che lo agitavano. Eppure, quando confessò di essersi invaghito della stessa ragazza che abitava i miei pensieri, rimasi spiazzato. Lui, il mio confidente, il mio alleato di battaglie quotidiane, si era infilato nella stessa guerra del cuore. 

Entrambi ci eravamo fatti dei film sulla tipa ma, a differenza dei miei, che erano roba da sale di dubbia moralità, i suoi erano dei lungometraggi romantici, capolavori da serata di gala. Insomma, il ragazzo puntava alto. 

Guardai il suo viso illuminato da una speranza che non avevo mai visto prima. Non potevo competere con tanta nobiltà d’animo. Io, il regista di film mentali al limite del legale, non avevo diritto di stare in quella corsa; per cui, decisi di ritirarmi dalla competizione. 

Ad un certo punto, in radio cominciammo a ricevere telefonate da un altro misterioso personaggio.  Un tale “innamorato fradicio” che usava dedicare ad una altrettanto misteriosa “Shirley Temple”, bellissime canzoni d’amore. Avrete sicuramente già capito chi erano i due. 

Diceva di vederla ormai dappertutto, seduta al suo fianco nella penombra del cinema Excelsior e poi, mentre salivano, mano nella mano, sulle scale mobili di Coin.  

Ho ancora bene impressa l’immagine di quello stronzo e gran rotto in culo del Narozzo che, sfoderando un sorriso da quarantacinque pollici, avanzava verso me e Bibo, stringendo con il braccio la spalla della Andreatta. Quel giorno, quando al Bibo il palco crollò, il tonfo fu veramente forte. Balbettava mentre con un falso sorriso di circostanza salutava la coppia. Seguì un buon quarto d’ora di silenzio durante il quale perdemmo l’orientamento dopodiché, emise un sospiro; 

“Se magnemo ‘na mossarea?” 

Ancora oggi faccio fatica a credere che il vero motivo per cui El Bibo, alla fine di quell’anno scolastico, abbandonò il liceo per approdare all’Istituto Tecnico; per giunta, in una classe popolata esclusivamente da maschi, non fosse il suo rendimento disastroso. No, quella fu solo la scusa ufficiale. La verità, nascosta tra i corridoi di quella scuola, era un’altra: quella fortissima delusione amorosa. 

Forse perché ormai eravamo legati da quel filo invisibile che solo certi amici possono tessere, decisi di seguirlo anch’io. Così, lasciai il liceo e mi unii a lui nel regno del Tecnico. Alla fine, i nostri genitori vinsero la loro battaglia. In fondo, per loro, era scritto nel destino: i figli degli operai, se proprio va bene, possono aspirare al massimo a diventare capi squadra. Inoltre, c’era la questione dei soldi. Il liceo richiedeva tempo, troppo tempo, prima che potessimo iniziare a portare a casa i tanto agognati schei

E così è stato, i schei ora li abbiamo. Il problema è che, ad entrambi, sembra ancora mancare qualcosa di più importante. 

Tralasciamo per il momento i miei vuoti da colmare, riguardo i quali, scriverò un libro a parte e, torniamo al Bibo. In tutti questi anni non si è mai tolto dalla testa, o meglio, dal cuore, Vania Andreatta. 

Nonostante ci tenga ad apparire come un uomo sentimentalmente appagato, a me l’ha detto chiaramente. Credo anche di non essere il solo a saperlo o, perlomeno a sospettare qualcosa. Sicuramente tra questi c’è l’Agenzia delle Entrate che, si starà chiedendo perché un tipo come il Bibo, che non soffre di particolari e documentate patologie, porta in detrazione centinaia di scontrini di una particolare farmacia; quella dove lavora Vania Andreatta. 

È vero, è sempre stato un ipocondriaco cronico, ma io so che gran parte delle medicine, degli integratori e di altre cianfrusaglie acquistate nella farmacia di Vania sono solo un pretesto. Una scusa per incrociare ancora il suo sguardo. 

Mi è facile capire quando riceve un suo messaggio, è per lui un piccolo terremoto emotivo. Sussulta, sorride, e in quegli istanti si trasforma nel ragazzo di quarant’anni fa, ancora innamorato perso di quella ricciolina bionda. Giuro che non ho mai visto uno che sprizza di felicità alla vista di un messaggio che gli notifica la disponibilità dell’unguento per le emorroidi. 

Ancora oggi, dopo decenni, “l’innamorato fradicio”, con la sua voce che arriva come una carezza malinconica, velata di speranza, quella speranza tenace che solo i cuori romantici sanno coltivare. Dedica canzoni d’amore struggenti alla misteriosa “Shirley Temple”. Per El Bibo, quel sentimento nascosto rimarrà sempre lì, sospeso, come un vecchio disco che, ogni volta che lo rimetti su, suona sempre le stesse note: dolci, immutabili, perfette. 

Ho chiesto al Bibo un sacco di volte, di venir a parlare in radio, ma lui ha sempre declinato l’offerta dicendo che preferiva rimanere un semplice ascoltatore. 

Definirlo un semplice ascoltatore è un eufemismo. Non è mai stato un ascoltatore qualunque ma, il più fedele, il più vero, il più umano. L’amico che non ha mai smesso di sintonizzarsi, che mi ha aperto il cuore con la disarmante sincerità di chi non teme più il giudizio. 

È lui che mi parla senza vergogna delle sue paure, delle fragilità che porta con sé come fossero foglietti spiegazzati in tasca, pieni di appunti sparsi di una vita vissuta a metà. Una vita che, mi confessa, non è quella che avrebbe voluto, incanalata da scelte fatte solo per paura. 

È lui che, per mettermi in guardia, mi cita spesso una frase di Pirandello “nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Con me non ha bisogno di maschere, e io lo ascolto come si ascolta una vecchia canzone che conosci a memoria ma che, ogni volta, riesce a emozionarti. 

È lui che mi ha insegnato che per essere un bravo uomo di radio, non basta saper parlare. Bisogna saper ascoltare. Saper interpretare quelle parole fra le righe che ti fanno decifrare quel messaggio che il tuo ascoltatore vuole lanciarti. Ascoltare le sue canzoni scelte con timidezza, i silenzi che raccontano più delle parole, le vite che si intrecciano sulle onde radio. 

Mi ha insegnato che puoi lasciare un segno nella vita degli altri anche come semplice ascoltatore. Perché finché c’è una voce che chiama e un cuore che risponde, anche tra mille interferenze, resta aperto un canale. E finché c’è un canale aperto, c’è speranza per qualcuno che cerca risposte, cerca compagnia. Una voce che gli dica: “ti ho sentito”, e io sono lì per questo.  

È per questo che, ogni notte, da anni, sto con il microfono acceso e il cuore attento ad ascoltare, come una vecchia canzone che non smette mai di commuovere, la storia di qualcuno che, in fin dei conti, è anche la mia.  

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Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo