El Mauri

Mai avremmo immaginato che il primo sarebbe stato lui. Fermò me e EnsoPenso  sotto i portici del palazzo dove abitava; “Ve go scoltà”, disse secco. “E aeora?”, rispondemmo all’unisono noi due. Il tipo era più che mai determinato a far parte dei nostri, a “fare radio” con noi. Conoscendo il personaggio ci guardammo alquanto perplessi e preoccupati. 

Non posso fare a meno di parlarvi del Mauri, senza prima raccontarvi del suo garage. Oggi si fa un gran parlare di startup e via discorrendo. Quarant’anni fa, nulla di tutto questo, c’erano però i garage. 

Servivano a tutto tranne che a tenerci la macchina, anche perché, non tutti ce l’avevano. Il garage era fondamentalmente un punto di ritrovo, deposito di sogni, laboratorio, discoteca, ludoteca, palestra, rifugio anti-genitore che ti voleva pestare a sangue dopo un brutto voto a scuola, sala prove, officina, deposito alimentare per far fronte all’imminente avvento della terza guerra mondiale, luogo in cui stare fuori dalle sgrinfie della moglie per cazzeggiare in assoluta libertà. Mi fermo qui, l’elenco sarebbe lunghissimo. 

Il portone di quello del Mauri, al secolo Maurizio Furlanetto, non era color grigio topo come gli altri ma, dipinto in rosso vivo, alla faccia del regolamento condominiale. Per essere un garage, l’arredamento era un po’ particolare: luci colorate, divanetto e, appesi alle pareti, dei poster che vi lascio immaginare. 

Quei dieci metri quadrati scarsi erano la sua confort zone. Il rifugio dalla sua scalcagnata famiglia, di cui Mauri non aveva mai fatto parola con nessuno.  In realtà il triste quadretto facevi presto a farlo, padre lavoratore saltuario a Porto Marghera, alcolizzato e sempre pronto ad alzare le mani. La madre, come se non bastasse, era una alla quale mancava un boio ovvero, non era molto a posto con la testa, Ermanno, il fratello maggiore, praticamente volatilizzato. 

Non appena chiudeva il basculante, ti ritrovavi immerso in un’atmosfera peccaminosa, pareva di essere al night. Mauri iniziava col tirare fuori dai calzini il pacchetto di sigarette; nulla di illegale, solo puzzolentissime Camel. Poi, con aria da sfida lanciava addosso a noi sbarbai gli ultimi arrivi in fatto di riviste porno. Lo faceva principalmente perché riteneva non sufficienti le nozioni di educazione sessuale che ci venivano impartite a scuola; in più, aveva a cuore che noi fioi de cesa, venissimo a conoscenza di certe cose di cui i preti non ci parlavano ma che, secondo lui, praticavano ugualmente. 

La domenica pomeriggio, per il piazzale dei paeassoni, transitava uno strano autobus che, al posto del numero aveva un cartello con disegnati due piedi neri e la scritta “Ranch”. Mi ricordo che chiesi a mia madre se potessi salirci assieme a Tito. “Porseo!”, seguito da una cinquina ben piazzata sulla guancia, fu la pronta risposta. 

Mauri era più grande di noi ed era anche l’unica persona di nostra conoscenza che la domenica pomeriggio saliva su quell’autobus. A noi, non restava altro che affidarci ai suoi racconti che, il tizio non esitava a propinarci con dovizia di particolari. 

Restavamo incantati mentre narrava delle sue performances di alto livello con quea o ‘staltra. Quea e ‘staltra erano fie dei paeassoni alle quali il Mauri, aveva appioppato una certa reputazione e che, per me, finirono per essere le interpreti principali di certi film che mi proiettavo. 

Qualcuno di noi, in piena tempesta ormonale, nonostante fosse facilmente intuibile che, el Mauri, le contava che e pareva vere, pensò bene di chiedere udienza a quea e ‘staltra chiedendogli esplicitamente de caearghea. Le ruspanti ragazze ripagarono le sue richieste sull’unghia, nel senso che, il malcapitato ne uscì con cinque sfregi su entrambi i lati del volto; in più, come se non fosse bastato, venne colpito con un calcio ben assestato la, dove non batte mai il sole. 

Quell’episodio, se non fosse stato evidente, rese chiaro a tutti che el Mauri raccontava solo delle favole, assai piccanti ma sempre favole; e questo, gli valse l’appellativo di Andersen. 

Ripensando alla proposta di collaborazione di Mauri… Va bene, eravamo i pionieri delle radio libere, ma uno con quel curriculum ci faceva sudare freddo. Non è che potevamo proprio mandar su un porno show in radio! Anche se, a pensarci bene, a cominciare dai frequentatori del bar da Nane Sbérega, potevamo contare su una cospicua platea di potenziali ascoltatori bavosi; il successo sarebbe stato assicurato. Forse, però, era un po’ troppo audace. E poi, diciamocelo, all’epoca c’era già Cicciolina a monopolizzare l’attenzione. 

Dovetti tenermi aggrappato a una colonna, cercando di non rotolarmi per terra mentre EnsoPenso, in dialetto stretto, mi snocciolava i titoli possibili per il programma. Ero piegato dalle risate. 

Uno così però non ce lo potevamo lasciar scappare; intuimmo che comunque avrebbe portato ascoltatori. Così sin dal giorno dopo, fu il quinto a parlare davanti a quel microfono dentro quella mansarda al civico 69 dei paeassoni. L’unico favore che gli chiedemmo fu quello di evitare di fumare in studio; rispose che lo avrebbe fatto se EnsoPenso avesse smesso di scoreggiare. Andò a finire che nessuno dei due cedette e io, Paperoga e il Tito ne pagammo le conseguenze. 

DJ Andersen, così decise di farsi chiamare; come da previsioni, si rivelò una sorpresa pazzesca. Le sue storie? Altro che quello che immaginavamo noi! Erano racconti fantastici, tutti frutto della sua mente galoppante. Esordiva sempre con frasi tipo “ho sentito dire che…” o “mi hanno raccontato che…”, e poi via, era un fiume di parole in piena, riusciva ad incantare anche noi quattro che lo conoscevamo da anni. 

Era un genio creativo: non avevamo mezzi per ricevere telefonate in diretta, che allora erano il top dell’interazione, ma lui che faceva? Fingeva! Cambiava voce, faceva accenti improbabili, usava audiocassette—e noi eravamo lì a ridere e scuotere la testa. E tra una storia inventata e l’altra, infilava pure della buona musica. Si badi bene, roba piratata che gli procurava il suo spacciatore di fiducia un tale Ciro Ammendola, frequentatore abituale del bar da Nane, nonché figlio di Vincenzino, appuntato della Finanza. 

Memorabile quella volta che raccontò del bottino di guerra, sepolto da un gruppo di soldati tedeschi in fuga, accanto a un albero solitario nei pressi del cimitero; alcuni giorni dopo, tutti gli alberi dell’intera gronda lagunare, avevano delle strane buche attorno. 

Una sera, mentre eravamo soli io e lui in radio, gli chiesi da dove nascesse la sua passione per il raccontare storie. Mi rispose che era qualcosa che aveva sempre avuto dentro, come se fosse innato. Mi spiegò che raccontare era anche un modo per far prendere, almeno nella fantasia, alla sua vita, la piega che avrebbe voluto. Nei suoi racconti, poteva scegliere di essere chiunque e, soprattutto, di smettere di essere uno qualunque. A quel punto, fu facile, per me, intuire che i suoi personaggi celavano di volta in volta, una singola parte nascosta di sé, una verità che rivelava solo attraverso le sue storie. 

DJ Andersen, fu il primo a unirsi al nostro viaggio, e anche il primo a lasciarci. Fin dall’inizio compresi che Solaradio era una realtà troppo stretta per un’anima vasta come la sua. Misi in preventivo che un giorno, inevitabilmente, avrebbe raccolto tutte le sue storie in una valigia, per partire alla ricerca dell’infinito, seguendo il richiamo di orizzonti senza confini. 

Lo fece come solo le anime libere sanno fare: con il coraggio di chi è disposto a buttarsi, a rinunciare a certezze e abitudini per cercare qualcosa di più. Era così, Mauri: una persona che non aveva paura di mettere in discussione la strada conosciuta, pronta a scommettere su sé stesso, a differenza di me, legato alle mie sicurezze, alle mie piccole certezze che, col tempo, ho riconosciuto come illusioni confortanti. 

Non avrei mai voluto che quel giorno arrivasse ma ero contento per lui. Prima di partire, volle salutarmi con un ultimo spritz da Nane. Gli chiesi, con una punta di nostalgia e curiosità, se nella grande radio dove era diretto avrebbe continuato a raccontare storie, quelle sue magiche “balle” che sapevano incantare chiunque ascoltasse. Mi guardò e rispose: “Par forsa, no’ so bon de far altro”. 

Spesso mi capita di voltarmi indietro, di indugiare nel rimpianto, convinto di, non aver mai fatto nulla di buono e non aver lasciato un segno. Poi mi torna in mente ciò che mi ha insegnato il Mauri: il valore delle relazioni, l’arte di seminare una piccola, luminosa traccia di sé negli altri. Un frammento della propria anima, condiviso con sincerità, può vivere per sempre nei ricordi di chi lo ha accolto. E in quel pensiero, trovo conforto: non si è mai davvero invisibili quando lasci, anche per un minuscolo attimo, un pezzetto del tuo cuore lungo il cammino di un’altra persona. 

Vi è al mondo una strada, un’unica strada che nessun altro può percorrere salvo te: dove conduce? Non chiedertelo, cammina. Friedrich Nietzsche 

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

E tu come stai

Sono ormai anni che la domenica non vado più a messa, il motivo preciso non so spiegarmelo. Probabilmente sarà perché la chiesa non è più frequentata da belle squinzie come una volta ma, solo da vecchiette intente a sgranare il rosario, al fine di ottenere, solo per loro, la priority line per il paradiso. Mentre, per un’infinità di altre persone, chiedono a Dio di riservargli un posto all’inferno tipo, ad esempio, l’immigrato che, secondo loro, gli è ingiustamente passato davanti al pronto soccorso. 

Comunque, penso che se anche compio un rito più laico, ovvero quello di andare in radio quasi ogni santa domenica mattina, faccio qualcosa di buono per una piccola fetta di umanità. Non sarà una grande cosa ma, far sorridere quelle quattro anime che mi ascoltano, mi fa sentire almeno un po’ a posto con la coscienza. 

L’unica cosa che son sicuro non faccio di buono è quella di fermarmi prima in pasticceria dalla Cesarina, quella di fianco alla chiesa; per questo so di certo che finirò all’inferno nel girone dei golosi. 

Ad un sacco di gente piace l’estate, a me no! Caldo e zanzare mi fanno andar via di testa, non vedo l’ora che arrivi il freddo. Forse c’entra mio padre, che mi diceva sempre che ero “un salame e tale sarei rimasto”: e si sa, i salami stanno bene al fresco. Sarà anche per questo che adoro ficcarmi a letto con il piumino, che mi avvolge come il budello di un salame. 

Altro che agosto, preferisco novembre con i suoi colori caldi e avvolgenti, che dipingono il paesaggio come una tavolozza d’artista. Adoro persino la nebbia, che avvolge tutto in un abbraccio soffice e sfumato, rendendo ogni cosa più dolce e misteriosa. 

Questa mattina la nebbia è una figata pazzesca; il cupo suono delle sirene delle navi, che arriva da porto Marghera, rende l’atmosfera perfetta. Da un momento all’altro mi aspetto di veder sbucare dal portico di uno dei caseggiati, Diabolik e Kriminal assieme. Da appassionato di fumetti, non ho idea di quante storie, ambientate nel quartiere, mi sono inventato finora.  

Una sagoma in lontananza; dalla stazza sembra proprio Patsy, il fido assistente di Nick Carter, invece è lui, Icio el Ciccio. Eccolo, puntuale come un orologio svizzero, solo ed esclusivamente la domenica mattina, dalle otto alle nove, fa la sua sana passeggiata, fumandosi un intero pacchetto di sigarette. Il fumo della sigaretta sommato alla nebbia rende la sua sagoma ancora più fosca, lo riconosco solo dal lercio impermeabile grigio topo e dalla voce roca da nicotin-dipendente.  

“Ohi maestro, titamorti, ti el to’ amigo Bajoni gavè rotto i cojoni … e fa anca rima”.  

Dovevo aspettarmelo. In effetti, ultimamente con il “mio amico”, sto esagerando. Sarà che sto attraversando un periodo particolare, in cui i ricordi legati alle sue canzoni sembrano riemergere con prepotenza, come se ogni strofa aprisse un vecchio cassetto della memoria. Mi rendo conto che questa mania di rimanere ancorato al passato, di rifugiarmi nelle sue melodie, sta lentamente risucchiando il mio presente, rischiando di rovinarmi anche il futuro. 

Dovrei smetterla di cercare risposte in pezzi di vita già vissuti e lasciare andare quei versi che mi trattengono. Sento che, per andare avanti, dovrò trovare una nuova colonna sonora, una che mi accompagni verso il domani senza farmi guardare troppo indietro. Sento anche che è più facile far smettere di fumare Icio el Ciccio

Nei mitici ’80, dire che ti piacevano le canzoni di Baglioni, era quasi una bestemmia. Per non giocarmi la reputazione, in radio, non mettevo mai i suoi dischi. Quando mi chiedevano se lo conoscevo, lo rinnegavo come fece Pietro nel cortile del sommo sacerdote. A quei tempi, specie qui in quartiere, eri qualcuno se ti riempivi la bocca con De André o Guccini, a malapena ti tolleravano se parlavi di Venditti. Quando però uscì Strada facendo, inno autobiografico ufficiale di noi moltoni dagli occhi scuri, non resistetti dal mandarlo in onda a ciclo continuo; in conseguenza di ciò, cadde brutalmente la mia facciata di DJ impegnato e, il Baglioni divenne, “el me amigo”. 

La nebbia la domenica mattina è una figata pazzesca se poi, come colonna sonora, ci metti la malinconica e poetica Poster del mio amico Claudio, è la morte sua. Mentre la fischietto, mi prende una felice nostalgia, accelero per arrivare in radio quanto prima, secondo me è ancora lì, ne sono sicuro, “del porseo no xé butta via mai ‘gnente”, come dicono i nostri contadini. 

Qualcuno si è divertito a mescolarli ma, dovrebbero essere all’incirca in ordine per autore; lettera B, mi prendono le palpitazioni, eccolo! Lo annuso, odore di muffa, le macchioline gialle sì, è proprio lui, quello di casa mia, l’originale del 1972. 

Nel 1972, avevo otto anni ed ero in terza elementare, mi ricordo benissimo la sua posizione nella libreria, era tra Close to the Edge degli Yes e Tick as a Brick dei Jethro Tull. Fino all’arrivo de, Il mio canto libero di Battisti, era l’unico disco in lingua italiana posseduto da mio fratello e, ovviamente, l’unico del quale riuscivo a comprenderne le parole. L’interno era scritto tutto in corsivo e aveva un sacco di figure, cosa che, è universalmente noto, lo rendeva particolarmente attraente per un bambino.  

Mio fratello, dieci anni più vecchio di me, aveva il monopolio nell’uso del giradischi. Lo sfigato però, cacciato a suo tempo a calci in culo dalle medie, era al lavoro tutto il santo giorno, per cui, durante il pomeriggio, l’aggeggio infernale era completamente a mia disposizione. Anche se potevo ascoltare tutti i suoi dischi, nell’autunno del 1972, le uniche note che facevo uscire dal mitico WILSON ALLEGRO erano quelle di, Questo piccolo grande amore

Su ricordi ed emozioni che questo disco evoca, si sono spesi fiumi di parole. Credo però, che nessuno finora, lo abbia mai associato alle scatole di montaggio degli aerei AIRFIX. Lo so che molti sentimentaloni mi condannerebbero al rogo sulla pubblica piazza ma, non ci posso fare nulla. Quando ancora oggi sento Porta Portese o Piazza del Popolo, mi rivedo nella mia cameretta, curvo sulla scrivania, con le mani impiastricciate di colla BRITFIX e macchiate di colori HUMBROL, intento nella maldestra costruzione di un caccia VIGGEN o di un bombardiere BOSTON. Non me ne vogliano i soprannominati sentimentaloni ma, confesso, che ho usato la copertina come base per non rovinare la scrivania; sacrilegio! 

“La favola più bella che ti hanno raccontato”, all’incirca, era questo il titolo del temino da svolgere che Lauretta ci appioppò un piovoso lunedì. Piero Longato, il mio compagno di banco, iniziò a sbuffare e a scaccolarsi il naso. Io invece ero talmente incocaio, come diciamo noi, da quella giovanissima maestra che, qualsiasi cosa ci ordinava di fare, mi rendeva felice. 

La dolcissima Laura, una ragazza dai lunghi capelli biondi; da qualche mese sostituiva la signora Visentin, rimasta a casa perché, “doveva comprar un puteo”, così si diceva quando una era incinta. Credo non avesse nemmeno vent’anni. Non aveva nemmeno il moroso; questo era un dato certo visto che Lucia Manente, glielo chiese esattamente dopo circa trenta secondi dalla sua apparizione in classe. Questa notizia, per me, era, in qualche maniera, confortante. 

Quando mi ripresi dallo stato di trance, in cui cadevo ogni volta che la sua voce dettava qualcosa; realizzai che la faccenda era impegnativa. Finora, nessuno mi aveva raccontato una favola. I miei genitori lo avrebbero fatto solo qualche anno più tardi, titolo: “co’ ti gavarà finio ‘e medie te compremo el motorin”. 

Non potevo assolutamente deludere la bella Laura, dovevo lavorare di fantasia, cosa che, fin dai primordi della mia esistenza, mi è sempre riuscita bene. La osservavo mentre, con aria malinconica, seduta alla cattedra con le mani tra i capelli, era intenta a leggere un libro. La ragazza raffigurata nella copertina del disco le assomigliava tremendamente, stessi capelli, stesso sguardo dolce, forse era proprio lei; mi venne l’ispirazione del secolo. 

Con la mano sudata e, come sempre, sporca di inchiostro, iniziai a riversare sulle paginette del PIGNA a righe, quella che finora era la favola più bella che avevo sentito: “la maglietta fina”. 

Scrissi velocemente tanto quanto correva quel Claudio inseguito dalla Polizia che, per fortuna, riuscì a rifugiarsi in un bar fuori mano dove incontrò quella ragazza, bella come la maestra. Che lui si chiamasse Claudio era ovvio, perché aveva scritto il disco, mentre lei, boh, forse Maria, quella signora che aveva passato la trentina, (vallo a dire adesso), con cui passava la notte; così recitava una delle canzoni. 

Oltre alle pozzanghere di inchiostro, non ricordo con precisione quello che uscì dalla mia stilografica. Di certo affrontai un argomento un tantino spinto o, quantomeno inconsueto, per un bambino della mia età. A otto anni non avevo assolutamente idea di cosa significasse “andare a letto insieme” però, non mi sembrava una cosa brutta da scrivere; ricordo pure di aver scritto che erano nudi. Questo era vero; riguardando i disegni del mitico 33 giri, si vedono loro due nudi ai piedi del letto. Ora, non oso immaginare se, al posto della maestra Laura, ci fosse stata quella pia donna della signora Visentin, detta da mio padre “ea democristiana”, la mia faccia, come fosse la Walk of Fame di Hollywood, avrebbe ancora l’impronta della sua mano con, a fianco, quelle dei miei genitori. 

Man mano che la mitica PELIKAN riportava senza sosta e continuando a macchiare all’impazzata, quella storia incisa nel disco; iniziai a sognare che, un giorno anch’io, avrei fatto l’amore giù al faro, anche se, non sapevo ancora cosa volesse dire. 

E con lei, con lei ..”, la canzone mi risuonava nella testa; nei miei pensieri, la maestra Laura, in quel momento, prese il posto dell’aereo da montare di turno. Mi sarebbe piaciuto camminare con lei, mano nella mano, lungo il Tevere che scorreva lento, lento. 

Il martedì, leggemmo il tema di Enrichetto, quello di Francesca, di Marco, di Stefania, di Cristina; addirittura, quello di quel troglodita di Piero Longato. Suonò la campanella, il mio PIGNA era ancora lì, solo soletto sulla cattedra, quei vigliacchi dei miei compagni si erano già dileguati in un battibaleno. Avevo la netta sensazione di averla combinata grossa. Mi ero profondamente pentito di aver scritto quelle robe, confidavo nella mia calligrafia da gallina e speravo che Lauretta con avesse capito una mazza di quello che avevo scritto. Prevedendo la reazione di mio padre, sentivo già il culo bruciare. 

E’ una bella storia sai; tieni, mettilo via”; i suoi occhi divennero lucidi; mi abbracciò forte e mi diede un bacio sulla fronte poi, tenendomi ancora stretto a lei, mi accompagnò fuori dalla scuola. Non dissi una parola, ricordo solo un buon profumo come di talco. Anche lei, quel giorno, indossava una maglietta fina. Immaginavo tutto, soprattutto immaginavo, e speravo, che potesse essere quella mamma che non era mai presente. 

Cara maestra Laura, ti scrivo per dirti che il ricordo di quel tuo abbraccio ancora mi conforta nei momenti in cui le mie tante paure e fragilità prendono il sopravvento. Se mi permetti, come cinquant’anni fa, prendo ancora spunto da Baglioni e uso le sue parole. 

Cara maestra Laura, tu come vivi ? 

Tu cosa pensi, dove cammini ? 
Come ti trovi ? 
Chi viene a prenderti ? 
Chi segue ogni tuo passo ? 
Chi ti telefona, e ti domanda adesso; tu come stai? 

Io, sai, sto così, così; solo che adesso … 

Adesso che; non saprei ancora cosa dire; 

Adesso che; non saprei ancora cosa fare. 

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Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE – © 2024 Michele Camillo

Quei dea radio

Dopo più di quarant’anni il culo ancora mi trema, ormai è un riflesso condizionato che si attiva quando attraverso lo stradone. Dovete capire che, una volta, passare il confine, ovvero lo stradone che delimita il quartiere dei palazzoni popolari, comportava un certo rischio, specie per chi, come me, abitava nelle viette; che, per ea banda dei paeassoni, era considerato un territorio nemico. 

Necessitavo di vista da falco al fine di individuare con anticipo la presenza minacciosa del terribile Maci Sabbadin e della sua gang. Dal punto di vista puramente statistico il 97% delle volte filava tutto liscio, riguardo il rimanente 3% preferisco sorvolare.  Purtroppo per me, anche se ero dotato di un fratello maggiore un po’ sbandato, questi non aveva una ammirevole fedina penale, tale da incutere timore e, nemmeno l’hobby di spaccare culi a gogo per difendere il fratellino. Che fare, non avevo alternative, visto che, all’ultimo piano del civico 69, c’era la mansarda di Paperoga, sede di SolaRadio. 

Amo ricordare; ad una certa età, diventa un gesto quasi naturale, un rito segreto che si compie con il cuore.  

Oggi, seduto su una panchina del vialone centrale, tra i colori e i profumi che mi avvolgono, celebro, in silenzio e con un sorriso tra me e me, i quarantacinque anni della prima trasmissione. È come se il tempo fosse qui accanto, un vecchio amico, e mi sussurrasse ricordi di un passato che, a pensarci bene, sembra ancora così vicino. 

I mesi che precedettero quel mitico giorno, li passammo a fare le cosiddette prove tecniche di trasmissione.  

L’unico posto rimasto disponibile sulla banda FM era in fondo alla scala, ai margini; per cui, sior Sergio tarò il trasmettitore sui 107,8 MHz.  Ormai ad essere ai margini ci eravamo da tempo abituati, se anche la frequenza di SolaRadio, rispecchiava questo status, non c’era da stupirsi. Il problema era che poco più in là iniziava la banda aeronautica. Ancora oggi quando sono in finale vista pista e in cuffia ho i 118,255 MHz, ovvero la frequenza di avvicinamento di Tessera, mi par di sentire voci familiari provenienti dal passato. 

Frequenza a parte, quello che a noi quattro interessava maggiormente era il “tiraggio” ovvero, la portata del trasmettitore. Anche se mai dichiarato, ognuno di noi aveva uno specifico obiettivo. Badate bene, non si trattava di raggiungere una certa fetta di popolazione ma, una determinata potenziale singola ascoltatrice. Così, ognuno, all’insaputa degli altri, fracassava i maroni a sior Sergio affinché orientasse l’antenna in una direzione piuttosto che in un’altra. Al sant’uomo stava per venire l’esaurimento nervoso. 

Pochi giorni prima dell’esordio mettemmo in atto un’intensa campagna pubblicitaria. Iniziammo con una conferenza stampa in bar da Nane; ottenemmo una serie di osservazioni del tipo: 

  • Voialtri se fora come un balcon 
  • Ma cossa casso faressi? 
  • Tanto no’ ve ‘scolta nissuni 
  • Gavè ea gente? Gavè i schei? 
  • Pensè a studiar e ‘ndar a eavorar che xe mejo 
  • Eo sa el prete che fe ‘ste robe? Eo sa vostro pare? Eo sa vostra mare? 
  • Se eo fè par ciavar, fe prima ‘ndar a puttane, ve costa anca manco 
  • Ste ‘tenti che i ve incuea  

Quest’ultima osservazione, fu senz’altro la più azzeccata. Con i soldi delle multe che ci hanno, nel tempo, appioppato avremo potuto costruire un palazzo tale e quale la sede RAI di viale Mazzini. 

Nonostante gli “incoraggiamenti” dei fioi del bar, ci mettemmo in sella alle nostre bici per un ecosostenibile volantinaggio. Spargemmo in giro un’infinita serie di minuscoli bigliettini con su scritto “Ascolta SolaRadio FM 107,8”. Guarda caso, alcune migliaia di queste striscioline di carta, finì nel giardino dei Bonesso; la loro secondogenita Silvia era la squinzia per cui si era preso ‘na incocaia el Paperoga. 

Di quel giorno, ricordo persino l’odore. Quel sabato pomeriggio alle quattro, in quartiere ristagnava un olezzo di fritto persistente; qualcuno, probabilmente, stava friggendo sardee usando l’olio esausto dell’auto. Non parlo delle bianche che, per l’emozione, EnsoPenso, mollò nel nostro minuscolo studio. La quantità di gas emesso dal retrobottega del socio era tale che se ci fosse stato un cortocircuito saremo saltati in aria, dando addio ai nostri sogni di gloria ancora prima di cominciare. 

Ricordo nitidamente le nostre facce rosse paonazze mentre eravamo pronti ad andare in onda. Il momento era solenne, i tre soci guardarono me; ero il predestinato per cominciare. 

Batte forte il cuore ogni volta che ci ripenso. Un respiro profondo, l’indice che sfiora il cursore del mixer, quello con l’etichetta “MIC”; in quell’istante, la mia voce ha iniziato magicamente a viaggiare nell’aria, leggera e vibrante, come sospinta da un’energia sconosciuta. 

Siamo sempre noi di Solaradio” Furono le prime parole che mi vennero in mente. Strano, quel “sempre”, come se trasmettessi da una vita. Forse, in fondo, era proprio così: come se una parte di me fosse sempre stata destinata a quella frequenza, a quel microfono, a quel momento. 

Poi, l’altra magia; appoggiai con la mano tremolante la testina sopra il disco, prima un leggero gracchio e poi … 

Music was my first love 
And it will be my last 
Music of the future 
And music of the past 
To live without my music 
Would be impossible to do 
In this world of troubles 
My music pulls me through (*) 
 

La musica è stata il mio primo amore 
e sarà l’ultimo. 
Musica del futuro 
musica del passato. 
Vivere senza la mia musica 
sarebbe impossibile. 
In questo mondo di guai, 
la mia musica mi tirò fuori. (*) 

L’emozione di quel giorno è anche legata indissolubilmente a Music di John Miles, il brano che scegliemmo per la prima volta, sapendo che avrebbe segnato un momento speciale. Quelle note scivolarono nelle nostre anime come raggi di sole attraverso finestre chiuse, e lì sono rimaste, ancorate nel profondo, pronte a risuonare nei momenti di silenzio e a farci sollevare lo sguardo oltre i muri delle difficoltà. 

Music è diventata il nostro talismano, una presenza sottile ma costante, una melodia che ci accompagna, ci sostiene, e non ci ha mai abbandonato. Da allora, è come se portassimo con noi un rifugio segreto, un’armonia che ci ricorda che la bellezza può trovare il suo spazio anche nei giorni più complessi, pronta a trasportarci altrove ogni volta che ne abbiamo bisogno. 

l giorno dopo fu ancora più memorabile. La gente ci fermava per strada, gli occhi brillanti di entusiasmo, e diceva: “Ve go scoltà!”. Erano i nostri “like” ante litteram, l’approvazione sincera e spontanea che solo le persone reali sanno dare. 

Da quel momento, ogni richiesta di collaborazione iniziava con quella stessa frase. Era come una password segreta, un segnale di appartenenza, un filo invisibile che ci univa a chi ci ascoltava. Non era più solo una radio: era una piccola comunità che cresceva, che credeva in noi e che ci spronava a fare sempre di più. 

Da quella prima trasmissione, “te go scoltà; ti ho ascoltato”, sono parole magiche che, per noi fioi dea radio, hanno il potere di trasformare una giornata, se non addirittura cambiare la vita intera. Parole che spesso hanno segnato l’inizio di una speranza, un incontro o un ritrovarsi. Parole che hanno fatto germogliare un’amicizia o addirittura qualcosa di più profondo. 

Sior Sergio, quel giorno, non si limitò ad accendere il trasmettitore. No, accese una scintilla molto più grande: la possibilità di uscire dall’ombra dell’isolamento e della noia, che qui nel nostro quartiere, più che in altri luoghi, pesavano come zavorre. Non era solo un tecnico con in tasca un diploma della mitica Scuola Radio Elettra, ma un sociologo a tutti gli effetti, sebbene senza laurea ufficiale. Aveva intuito che quella radio, per noi ragazzi, non era un capriccio, ma un bisogno vitale. La voce che potevamo far sentire attraverso le onde, ci permetteva di esistere davvero, di raccontare al mondo che eravamo qui. In fondo, non è solo una radio. È stata ed è ancora, la nostra via d’uscita, la nostra casa, il nostro sogno collettivo. 

E di questo gliene sarò grato per sempre, insieme anche a quella moltitudine di personaggi stravaganti che si sono succeduti ai nostri microfoni, ognuno portando la propria storia, il proprio sogno. Alcuni, dopo aver condiviso questa meravigliosa avventura hanno trovato la loro strada. Altri sono rimasti, ancora qui, a combattere in una giungla di frequenze, dove i segnali più forti cercano sempre di sovrastare i più deboli. Eppure, nonostante tutto, siamo felici. Felici di parlare ai microfoni di una minuscola radio e di appartenere a questo piccolo universo fatto di parole e suoni, felici di essere, per tutti, “quei dea radio”. 

 (*) © 1976 – John Miles 

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

Io ed i miei occhi scuri

Per capire chi fossimo noi quattro fondatori di SolaRadio, vi basta immaginare che quando c’era da formare due squadre per una partitella, noi eravamo quelli che usualmente venivano scelti per ultimi, o spesso non venivamo scelti affatto. 

Eravamo anche quelli che quando veniva organizzato un festino, a noi non veniva detto niente. E se al festino per miracolo qualcuno accidentalmente ci invitava, eravamo quelli appoggiati al muro con il bicchiere di Coca Cola in mano, che guardavano il pavimento con la speranza che qualcuna venisse a parlare con loro. E quella qualcuna, ovviamente, non arrivava mai. 

Eravamo anche quelli perennemente squattrinati. El progetton non avrebbe mai preso forma se sior Sergio, il papà di Tito, e i suoi amici radioamatori, non avessero creduto, con cuore e portafoglio, nel nostro sogno. 

A vederli lavorare sembravano dei ragazzini come noi. Costruirono trasmettitore e antenna come se stessero allestendo una stazione spaziale. 

Il nostro sogno non si sarebbe potuto realizzare nemmeno senza quella mansarda al civico 69 dei paeassoni. Era il magazzino dei ricordi della famiglia di Paperoga e noi, l’abbiamo occupata abusivamente pian piano facendo sparire un po’ alla volta i cimeli di famiglia. Ancora oggi i suoi, si chiedono dove sia finito quel divano anni ’50 appartenuto alla nonna Elvira. Pensare che assomiglia tanto a quello che abbiamo adesso ma, di un colore diverso. 

Il trasmettitore, l’antenna e il microfono sono indispensabili per fare una radio, ma senza qualcosa di autentico da comunicare, restano oggetti vuoti. Fortunatamente per noi, grazie a certi personaggi, clienti fissi del bar da Nane Sbérega, l’ispirazione non è mai mancata. 

Devo ammettere che senza il bar dei paeassoni, non avremo mai saputo cosa dire a quel microfono. È sempre stato il vero centro nevralgico della nostra esistenza, la nostra cattedrale laica nonché il crocevia di personalità incredibili con le loro storie esagerate. Lì, tra un birin e un tramesin onto, sono nate tutte le nostre idee strampalate. 

Il bar è la nostra vera redazione e la nostra scuola di vita (educazione sessuale compresa). Un’università a cielo aperto dove ogni giorno passano esami di sopravvivenza sociale, e i professori sono i personaggi più improbabili che possiate immaginare. Gente che non si è mai spostata di più di qualche centinaio di metri dai paeassoni, eppure sa come va il mondo meglio di tanti altri che si vantano di avere “girato”. I nostri amici non hanno bisogno di viaggiare, perché il mondo l’hanno già visto passare davanti agli occhi, seduti al tavolino co ‘na ombra de vin in mano. È una saggezza antica e concreta, quella di questi personaggi, fatta di aneddoti raccontati mille volte e di opinioni spicce, ma che in qualche modo centrano sempre il bersaglio. 

I tipi che vi farò conoscere su queste pagine sono quelli che, all’apparenza, sembrano vivere in una dimensione parallela, scollegati dal mondo moderno. Eppure, a sentirli parlare, scopri che hanno un’opinione su tutto, sport e sesso in primis e che potrebbero tenere testa a chiunque nel dibattito sull’andamento globale. 

Si narra che tra gli avventori ci sia stato il maestro Tinto Brass. La leggenda vuole che frequentasse il bar in incognito al fine di trarre ispirazione per i suoi capolavori. I cinefili che sono andati a vedere tutti i suoi film (io no, mai visto uno, giuro) dicono che le trame sono del tutto simili ai racconti di Denis Sgorlon, Gianni Bottacin, Toni Lovadina ed Elio Prendin. 

Si dice che anche i grandi manager del calcio frequentino questo luogo, anche loro in incognito, per captare le opinioni dei presenti e ottenere preziosi suggerimenti sugli acquisti dei giocatori, oltre ad apprendere nuove tattiche di gioco. 

Senza il popolo del bar, probabilmente, non avremmo mai trovato la nostra voce. Per loro eravamo, siamo e, per sempre, saremo “quei dea radio”. Sempre pronti a sparare cazzate nell’etere, anche grazie a tutti quegli stronzi che, non paghi di ignorarci ai festini, hanno sempre cercato di metterci i bastoni tra le ruote… il che, a onore del vero, ci ha motivato di più. 

Alla fine, penso che non ci sarebbe mai balenata l’idea di fare una radio se non fossimo stati un concentrato di sfiga e insicurezze, specialmente con le ragazze. Sì, perché tutto nasce da lì, da quel nostro disperato bisogno di essere notati, di sentirci importanti, de farse vedar, come si dice in dialetto.  

Un bisogno di approvazione che personalmente mi ha sempre ronzato forte in testa come una certa canzone che sparo a manetta nei momenti di tristezza. 

È una canzone che racconta chi sono davvero. Racconta che io e i miei occhi scuri siamo cresciuti insieme, compagni di un eterno viaggio alla ricerca incessante di un altrove ideale che continuo a inseguire. L’anima, smaniosa, si nutre del desiderio di una terra lontana fatta di sogni e promesse non ancora mantenute. Sento ancora quella fame profonda, quella sete insaziabile di sorrisi sinceri, di braccia che si aprono intorno a me, pronte a darmi rifugio.  

Racconta delle mie passeggiate malinconiche e solitarie, dove ogni passo sembra portare con sé un senso di inutilità e un’ombra di paura per il futuro incerto. 

Quando però la mando in onda, una forza invisibile mi spinge a stare di fronte al microfono, anche quando sembra che dall’altra parte non ci sia nessuno in ascolto ma, solo il silenzio. Eppure, in quel silenzio, io continuo a sperare, a immaginare che almeno una persona, quella persona, stia ascoltando. 

Io ed i miei occhi scuri siamo diventati grandi insieme 
Con l’anima smaniosa a chiedere di un posto che non c’è 
Tra mille mattini freschi di biciclette 
Mille più tramonti dietro i fili del tram 
Ed una fame di sorrisi e braccia intorno a me 

Io e i miei cassetti di ricordi e di indirizzi che ho perduto 
Ho visto visi e voci di chi ho amato prima o poi andar via 
E ho respirato un mare sconosciuto nelle ore 
Larghe e vuote di un’estate di città 
Accanto alla mia ombra nuda di malinconia 

Io e le mie tante sere chiuse come chiudere un ombrello 
Col viso sopra il petto a leggermi i dolori ed i miei guai 
Ho camminato quelle vie che curvano seguendo il vento 
E dentro a un senso di inutilità 
E fragile e violento mi son detto tu vedrai, vedrai, vedrai 

Strada facendo, vedrai 
Che non sei più da solo 
Strada facendo troverai 
Un gancio in mezzo al cielo 
E sentirai la strada far battere il tuo cuore 
Vedrai più amore, vedrai 

Io troppo piccolo fra tutta questa gente che c’è al mondo 
Io che ho sognato sopra un treno che non è partito mai 
E ho corso in mezzo a prati bianchi di luna 
Per strappare ancora un giorno alla mia ingenuità 
E giovane e invecchiato mi son detto tu vedrai vedrai, vedrai 

Strada facendo vedrai 
Che non sei più da solo 
Strada facendo troverai 
Anche tu un gancio in mezzo al cielo 
E sentirai la strada far battere il tuo cuore 
Vedrai più amore, vedrai 

E una canzone neanche questa potrà mai cambiar la vita 
Ma che cos’è che ci fa andare avanti e dire che non è finita 
Cos’è che mi spezza il cuore tra canzoni e amore 
Che mi fa cantare e amare sempre più 
Perché domani sia migliore, perché domani tu 

Strada facendo vedrai … 

© 1981 – Claudio Baglioni

Strada facendo … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

Il mio primo amore

Sono convinto che la vera scintilla che ha dato vita alle radio private non sia stata tanto la passione per l’informazione o la musica d’avanguardia, ma il bisogno primordiale de butar el sardon, come lo definiamo noi in dialetto, ovvero quello di lanciare un’esca sottile per accendere un’attrazione, un incontro. Altro che informazione locale o musica innovativa: il vero obiettivo delle radio libere era far battere i cuori e accorciare le distanze. Far sì che chi si osservava da lontano trovasse finalmente il coraggio di avvicinarsi. 

Ci ho pensato l’altro giorno mentre, con il cuore colmo di ricordi e attese, passeggiavo solitario e malinconico per le  viette. Mi sembrava quasi di vederla apparire all’improvviso, come un miraggio tra la nebbia autunnale, pronta a ridare una direzione alla mia vita. 

Le viette non sono altro che un reticolato di stradine asfaltate alla meno peggio dove, fin dai primordi dell’esistenza umana, vennero edificate, sempre alla meno peggio, delle casette. 

Visto che gli abitanti delle casette erano, per la maggior parte, operai di Porto Marghera, venne costruita quasi subito, la sezione del P.C.I. e, solo dopo, quando il clero si accorse che era necessario contrastare l’avanzata comunista, furono costruiti chiesa e patronato. 

Alla fine degli anni Sessanta, come ciliegina sulla torta, arrivò la vera opera d’arte urbanistica: il quartiere dei paeassoni. Doveva servire a dare alloggio ai “migliori” disadattati della città, una specie di riserva naturale per le personalità più bizzarre e meno adattabili della popolazione. 

Visto che i comunisti e i preti con relativi democristiani al seguito, c’erano già ma non un luogo dove potevano insultarsi a vicenda e sputarsi negli occhi, i progettisti dei paeassoni inserirono nel masterplan un bar. Praticamente, fu prima costruito il bar di Nane Sbérega e poi tutt’attorno i paeassoni. E non avevano torto: nel corso degli anni, in quel bar è volato di tutto. Sedie, boccali di birra, bottiglie, perfino la tavoletta del water — e tutto per le più nobili ragioni, ovviamente. Ma sorprendentemente, non per questioni politiche o religiose. No, no! In un mondo dove comunisti e democristiani avrebbero potuto scatenare guerre intestine, le vere scintille si accendevano per due cose: sport e donne. Ho vissuto in prima persona una sorta di “compromesso storico” molto particolare, dove comunisti e democristiani riuscivano a mettere da parte ogni ostilità, uniti da una fede che superava ogni ideologia politica: quella per il Milan. Era quasi poetico vedere questi acerrimi nemici che, invece di scannarsi su riforme e ideali, si ritrovavano fianco a fianco per mandare in cueodesamare altri democristiani e comunisti, uniti però dalla fede per l’Inter. 

Per quelli dei paeassoni, noi abitanti delle viette eravamo una specie di aristocrazia locale. Loro non capivano, però, che anche tra noi c’erano delle distinzioni. In pratica, nelle viette esistevano due caste: i poareti, che vivevano in casette di un solo piano, e i siori, padroni di villette a due piani.  

Le case dei poareti erano costruite senza fondamenta, giusto appoggiate lì, come un mazzo di carte dopo una partita. E nel tentativo di risparmiare anche sull’aria che respiravano, il giardino diventava un orto che sembrava uscito da un film post-apocalittico: ortaggi ovunque e, immancabile, la vecchia vasca da bagno arrugginita a far da cisterna per l’acqua piovana. Ah, perché non si poteva mica sprecare soldi con la bolletta! 

Dall’altra parte c’erano i siori, e loro non si facevano mancare nulla: due piani, magari con taverna e mansarda, e intorno un giardino che sembrava disegnato dal mitico Capability Brown, il più famoso architetto paesaggista inglese. La loro casa era dipinta con i colori più brillanti. I poareti, invece, lasciavano spesso le pareti in grigio intonaco, al massimo trovavi qualche spruzzata di verde muffa sul lato a nord. 

Io abitavo in una di quelle casette a un piano, figlio di Marietto, tornitore alla Montedison. Vera invece, abitava in una di quelle villette a due piani più mansarda, figlia di Franco caporeparto alla stessa fabbrica. 

Mi innamorai di Vera quando avevo appena nove anni. È stata un’emozione che mi ha colto all’improvviso, non riuscivo quasi a spiegarmela.  

I catechisti ci avevano praticamente obbligato a partecipare a una rappresentazione natalizia in parrocchia. Vera doveva interpretare Maria, il ruolo principale. Io, invece, ero solo un pastorello, un ruolo secondario, come quelli che, alla fine, ho sempre avuto anche nella vita. 

Non capivo cosa mi stesse accadendo, durante le prove non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Vera aveva quegli occhietti vivaci, pieni di una luce che mi faceva perdere la testa. Era come se ogni suo sguardo contenesse qualcosa di speciale che mi attirava irresistibilmente. E così, cercavo in tutti i modi di farmi notare, di strapparle un sorriso, facevo lo scemo, sperando che la mia goffaggine potesse catturare la sua attenzione. 

Ci riuscii. Ricordo ancora quel primo sorriso, quasi timido, che lei mi regalò. Ricordo pure che mi volevano sbattere fuori dalla recita a causa del mio comportamento oltraggioso nei confronti della sacra rappresentazione.  

Da quel momento nacque tra di noi qualcosa di straordinario, un sentimento semplice e puro, senza malizia, come solo i bambini sanno provare. Non ci furono mai parole o grandi gesti. Il nostro amore si nutriva di sguardi rubati, di occhiate che si incrociavano per un attimo prima di scivolare via, di un continuo gioco di rincorse silenziose. C’era tutta la purezza e la bellezza del primo amore, quello che resta impresso per sempre nel cuore. 

Io ero un introverso incallito, talmente chiuso in me stesso che l’idea di fare il primo passo mi paralizzava. Non avrei mai potuto sopportare un suo rifiuto, era una possibilità che mi terrorizzava più di qualunque altra cosa. E così restavo in silenzio, bloccato dalla mia insicurezza, mentre Vera era sempre lì, a pochi passi, aspettava con infinita pazienza che io mi decidessi. La sua tattica era semplice, quasi invisibile: mi seguiva ovunque andassi. Non importava dove fossi, a scuola, in patronato o al campetto di pallacanestro, sapevo che da qualche parte ci sarebbero stati i suoi occhi attenti, presenti, pieni di speranza. Ma anche la sua pazienza, infinita com’era, aveva un limite. 

Quella mattina di agosto del 1977, mentre mi stavo recando nel piazzale della chiesa a prendere il pullman per il campo estivo, me la trovai davanti all’improvviso. Era ferma sulla sua bici, i capelli spettinati dal vento, e gli occhi lucidi. Mi fissava in silenzio, e in quello sguardo c’era qualcosa che non riuscivo a capire. Io, impacciato e col cuore che mi batteva troppo forte, non seppi dire altro che un goffo: “Che c’è?”. 

“Niente! Stupido!!” fu la sua risposta, una frase apparentemente semplice, ma che mi lasciò impietrito.  

Rimasi lì, un attimo immobile, incapace di reagire e poi, come se nulla fosse, proseguii per la mia strada. Don Gianni e gli altri ragazzi mi stavano aspettando.  

Solo una volta che il pullman si mise in marcia mi resi conto che quelle parole e quello sguardo, portavano con sé un mondo intero ed io ero stato incapace di interpretarne la profondità. 

Capii solo in quel momento che dietro quel “niente” c’era tutto, c’era il peso di un amore che aspettava solo di essere riconosciuto, dichiarato apertamente. Era il suo modo, forse disperato, di farmi capire che il tempo dell’attesa era finito, i suoi occhi rossi erano la prova di quanto avesse sperato che facessi quel maledetto passo. 

Ti xé casso, ti xé mona, ti xé cojon …” mentre don Gianni, in piedi accanto all’autista, faceva recitare le preghiere affinché il viaggio andasse bene, io mentalmente stavo recitando le mie personali litanie. 

A quei tempi non c’era nessuna possibilità di comunicazione in più, nella malga dove eravamo diretti, non c’era nemmeno il telefono. Per tutte le due settimane del campo riuscii a pensare solo che mi ero comportato da grande stronzo e all’enorme cazzata che avevo fatto. Avrei voluto sbattermi la testa su di una roccia; invece, optai per il materasso di crine della branda, era meno duro. Il solito che non fa mai le cose come dovrebbero esser fatte. 

Ironia della sorte, il tema conduttore del camposcuola era “la decisione”. Il prete ci mise in mano un foglio ciclostilato e ci invitò ad andare nel bosco da soli a riflettere. In quel foglio, c’erano una serie di precise indicazioni sul modo per trovare la strada giusta e non finire in quella sbagliata che, avrebbe portato alla perdizione. 

A parte che, tanto per cominciare, in mezzo a quella fitta boscaglia, la strada stavo per perderla seriamente. Fortunatamente, grazie ai particolari rumori che stavano facendo Riccardo Beltrame e quella tale Lara, una delle figlie della coppia di milanesi che avevano affittato la casetta di fronte alla nostra malga, riuscii ad orientarmi. Non fu facile trovare un posto dove isolarmi, poco più in là della coppietta intravidi Enzo Penzo che, dietro un cespuglio, stava facendo tutto da solo; che imbarazzo. 

Non saprei dire quante migliaia di fogli il don abbia ciclostilato nel corso degli anni. Fatica sprecata e qualche albero in meno nelle foreste. Tanto, alla fine, ognuno faceva come gli pareva. A parte me, che mi aggrappavo a quella fede più per timore della punizione divina che per reale convinzione. Così, oltre all’amore terreno per Vera, smarrii il vero senso dell’amore divino, quello che avrebbe potuto dare speranza e senso alla vita, nascosto dietro una montagna di “non fare” e “non desiderare”. 

Seduto sopra un masso, promisi al buon Dio che, dopo aver sistemato le cose con Vera, avrei pensato a tutto il resto, tipo lasciare i miei averi ai poveri, occuparmi dei bambini africani e non mandare più affanculo i miei genitori e mio fratello. Giusto per la cronaca; ancora oggi, chiedo al buon Dio di avere pazienza se continuo a procrastinare le buone azioni, in quanto la priorità è sempre quella di sistemare definitivamente le cose con una donna. 

Quelle due settimane non passavano mai. Finalmente tornammo a casa e, dopo aver trangugiato, per farmi coraggio, una decina di ciliege sotto spirito, mi fiondai a suonare il campanello di quella villetta a due piani più mansarda. Purtroppo, ahimè sul campanello non c’era più l’etichetta e la casa aveva tutte le tapparelle abbassate. In preda al panico, tornai a casa per chiedere informazioni a mio padre, il quale mi riferì che sior Franco aveva fatto carriera ed era andato a fare il vicedirettore di un non ben precisato stabilimento nel sud Italia. 

Oggi, per risolvere una faccenda del genere sarebbe sufficiente qualche indagine sui social. A quei tempi non avevo altra soluzione che buttarmi giù dal ponte della circonvallazione. Visto che me ne mancava il coraggio optai per un’overdose di pane con Nutella, con il risultato di peggiorare la mia acne. Presi anche l’abitudine che ho tutt’ora; girare tutto solo per le viette in attesa che il cielo mi fornisca una qualche soluzione per continuare a campare.  

È da quei tempi, che sogno di veder apparire Vera all’improvviso da dietro l’angolo. L’unica roba che in passato spuntava era qualche gatto randagio o qualche pantegana che inseguiva il medesimo gatto randagio terrorizzato. Ora si è aggiunto qualche cretino in monopattino che tenta di tirarmi sotto. 

Tornando a quei momenti, una nebbiosa domenica pomeriggio d’autunno, c’era un tale caigo che faceva ristagnare nell’aria un tanfo di brodaglia; in più, dalle casette usciva l’audio dei televisori sintonizzati su “Domenica In”. Quell’atmosfera rendeva ancora più malinconica la mia solitaria passeggiata per le viette. Ad amplificare quel senso di solitudine angosciante, ci pensò un tale con la radiolina attaccata all’orecchio intento ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto”. Le mie palle iniziarono ad appesantirsi e strisciare sull’asfalto. 

Stavo per darmi una martellata sugli appena citati attributi e farla finita quando, passai accanto ad un ragazzo che stava trafficando con la sua auto. L’autoradio era accesa e sintonizzata su una di quelle nuove radio libere che stavano spuntando come funghi. “Per Ale da parte di Max che sta facendo il militare a Casarsa. Amore mi manchi tanto, pensami mentre ascolti la nostra canzone”, subito dopo partì “nell’aria” di Tozzi. 

Nell’aria c’è polline di te...” Una folata di eccitazione e buon umore mi attraversò il corpo, come se avesse colto il mio cuore di sorpresa. All’improvviso, l’idea mi folgorò: l’unica, seppur piccola, possibilità che avevo di ricongiungermi con Vera era quella di creare un canale, un ponte invisibile tra di noi, un mezzo per far risuonare la mia voce nella sua vita. Bastava mettere in piedi una di quelle radio. 

Il mio passo aumentava, così come il battito del mio cuore. Avevo già in mente il nome, “Radio Vera” – semplice, diretto, il suo nome che vibrava nell’etere. Ma poi pensai che “VeraRadio” suonasse ancora meglio, come se il suo stesso nome racchiudesse un messaggio di verità, di autenticità. Ero elettrizzato dall’idea, come se ogni passo mi avvicinasse un po’ di più a lei, anche solo idealmente. 

Ma mentre camminavo tra la nebbia, il suono dei miei passi mi portava a riflettere. Pensai a quanto la solitudine, quel dramma silenzioso che ci avvolge quando meno ce lo aspettiamo, possa essere lenita dalla radio. Quel suono caldo che arriva nelle case, nelle vite, e che riesce a farci sentire meno soli, anche solo per un attimo. Vera, la mia Vera, era ormai lontana, ma forse avrei potuto riempire quel vuoto, il mio e quello degli altri, con qualcosa di più grande. 

Fu allora che il nome cambiò. Non più “Veraradio”, ma “SolaRadio”. Per chi, come me, aveva sentito il freddo della solitudine, e per chi cercava una compagnia, anche solo di una voce nell’aria. “SolaRadio. Solo radio e basta!”, inventai lì su due piedi, quel motto semplice, sincero, come il mio desiderio di riempire il silenzio con qualcosa che facesse sentire le persone meno sole. Come un abbraccio invisibile fatto di onde radio, sperando che, tra quelle persone ci fosse anche Vera ad ascoltarmi. 

L’indomani pomeriggio, in una lurida mansarda al civico 69 dei paeassoni che, assomigliava al covo del mitico gruppo TNT, vennero da me convocati tre sfigati, amici d’infanzia. Tali Tiziano Scarpa detto Tito o anche Titomorti, Fabio Ballarin detto Paperoga ed Enzo Penzo detto EnsoPenso. Quello fu il primo “comitato di redazione” di SolaRadio e quello fu anche il giorno in cui nacque l’altro mio primo grande amore, quello per la radio. 

E io, da quel giorno … vivo radiofonicamente per lei. 

Mai ti è dato un desiderio senza che ti sia dato anche il potere di realizzarlo. Richard Bach 

Chiamami ancora amore … ascolta il podcast

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO

© 2024 Michele Camillo