La mia lunga storia d’amore

No capisso, ea ghe casca a tutti fora che a mi; me par impossibie, bojaissamorti! E ti, cossa ti disi?”. Rimasi in silenzio, non avevo il coraggio di rispondere al compagno Marino Scantamburlo che, non si doveva preoccupare; eravamo almeno in due, io e lui.  

In sezione era arrivato il momento di tirare le somme della Festa dell’Unità. A Marino, però, dei margini di guadagno sulla poenta e coste non fregava un accidente, quei calcoli era meglio lasciarli a certi saccenti compagni che si credevano esperti economisti. Lui aveva ben altri grattacapi, quelli classici della maggior parte degli uomini; il campionato di calcio ma, soprattutto, ea mona

Che l’Inter fosse arrivata quarta, vabbè, passasse. Ma proprio non gli andava giù che la compagna Sara Celeghin si fosse messa con quel tizio di cui non ricordava il nome ma, conosceva tutto il resto. 

Si trattava di un rotto in culo impiegato di banca, con l’hobby di “parlare in radio” e, per giunta, non dei nostri. Un borghesuccio fighetto, traditore della classe operaia con il microfono in mano e il portafoglio rigonfio. 

Marino, per la campagna elettorale di Sara s’era speso anima e fegato. Per lei aveva fatto più ore di militanza di Che Guevara, mangiandosi una bella fetta dei suoi permessi lavorativi. Volantinaggi sotto la pioggia, comizi davanti a tre pensionati e un cane, persino il martirio di mangiare certe porcherie vegetariane. Si considerava il principale artefice della sua elezione al consiglio di quartiere.  

Mentre li guardava, lì sulla pista della Festa dell’Unità a ballare cic to cic come due calamari innamorati i mielosi lenti iperglicemici che dal palco l’orchestra di Vittorino Spolaor e i Romantici, sparava come una sequenza di colpi letali, sentiva crescere dentro di sé una bile capace di alimentare il motore di quella nave da crociera che stavano costruendo al Breda, il suo posto di lavoro. Le palle invece, giravano forte come le eliche della già citata nave. 

Alla fine, la sintesi del pensiero politico-sentimentale su Sara, gli venne chiara e lapidaria: non era affatto una gran compagna ma, una gran puttana. 

Da quel giorno, inoltre, tutti quei fighetti che parlavano alla radio iniziarono a stargli pesantemente sulle palle; compresi quei saccenti e spocchiosi compagni emiliani, che avevano fondato la prima radio del popolo. Rei di essersi convertiti a quelle stupide canzonette commerciali, mandando in onda a ripetizione “Ti amo” di Tozzi anziché “Bandiera Rossa” 

Anch’io ero nelle stesse condizioni di Marino. Nemmeno a me del campionato non me fregava niente; non mi interessava sapere che giocatori avrebbe dovuto comprare l’Inter per vincere lo scudetto e non finire al misero quarto posto; la mia preoccupazione principale era per la seconda cosa, non si vedeva niente all’orizzonte o, per dirla alla Marino; “no’ me rivagnanca un refoeo de mona”.   

Eh, sì che mi ero messo a frequentare contemporaneamente la parrocchia e la sezione del PCI, convintissimo che allargando il territorio di caccia, avrei aumentato le probabilità di riuscita. E invece, niente da fare. 

Quella di tenere un piede nel PCI e l’altro in chiesa non era stata una scelta dettata solo dai miei ormoni. Certo, quelli c’entravano, ma mi ero soprattutto lasciato influenzare dalle teorie del compagno Severino Manente. 

Severino era quasi convinto che l’esistenza di Dio e tutta la baracca della religione non fosse altro che un grumo di balle abilmente messo in piedi per sfruttare la paura della morte e far leva sul naturale desiderio di eternità dell’essere umano. Una trovata geniale per tenere il popolo al guinzaglio controllando soprattutto cosa facesse sotto le lenzuola. La logica era semplice: vuoi il paradiso dopo morto? Allora comportati bene da vivo. “Bene” significava: testa bassa, bocca chiusa, niente domande, niente desideri strani, nessuna pretesa di diventare qualcuno, mani a posto e soprattutto… non rompere le palle a chi comanda. 

Dico “quasi convinto” perché, tra una bestemmia e l’altra, ammetteva che, se per puro caso, fosse stato tutto vero, una volta lasciato questo mondo sarebbero stati gran cazzi. Specialmente per gente come lui che, oltre a essere comunista, cosa che forse gli sarebbe stata perdonata, dato che in fondo anche Gesù, a ben guardare, aveva idee piuttosto di sinistra; non era esattamente un modello di virtù coniugale. Con la fedeltà matrimoniale era messo peggio di un cane randagio in calore. 

Il compagno, si concedeva piaceri “de fora via” con la regolarità di una tassa comunale: era uno dei clienti più affezionati della vecchia Wanda (praticava tariffa sindacale per i compagni) e in più al lavoro era parecchio impegnato a fare certi “controlli di qualità” alle compagne della mensa. 

Per questo Severino, a differenza di certi mangiapreti radicali, un occhio al cielo lo buttava sempre. Non per pregare, ma per controllare se, per caso, dall’alto stessero già preparando la lista dei cattivi. 

Tornando a me, quell’estate poi, dovevo mettere a bilancio un anno scolastico di merda. Su consiglio di Manuel Agnoletto, mi ero iscritto al triennio con indirizzo informatica; perché, a detta di quel gran genio, una volta diplomato, avrei trovato subito un bel lavoro e, avrei preso bene. A fine anno, in effetti, in anticipo con i tempi, avevo già preso bene: qualcosa in un determinato posto; rimediando tre materie, tra cui proprio informatica.  

Sbirighe in sima, coco”; il compagno Milio Vianeo, era solerte farsi i cazzi altrui. Pensavo avesse intuito la mia preoccupazione per essere ancora sensa ‘na cocca; invece, non so come, era venuto a conoscenza delle mie disgrazie scolastiche; per consolarmi, attaccò per la centocinquantaseiesima volta a raccontarmi la storia della sua vita.  

Milio Vianeo sensa un scheo e curto de oseo; i compagni della sezione lo definivano così per il fatto di essere povero e non aver mai avuto una donna. Era il classico scappato di casa, un mezzo vagabondo che, armato di una vecchia chitarra, campava scimmiottando i cantanti folk americani.  

Misteriosamente quel giorno lo ascoltai con più attenzione. Come sempre, iniziò a citarmi l’infinità di posti dove era stato. Per i più, si trattava di balle; a me invece, sembrava attendibile, anche quando parlava di posti lontanissimi come l’India e il Vietnam. L’unica cosa sulla quale facevo fatica a credergli riguardava la miriade di figlie dei fiori che, a suo dire, si era trombato durante il mitico raduno del ‘69 a Woodstock, al quale aveva partecipato. “Comunque vecio, ricordate cheea strada xe ea vita”; la frase non era sua ma, di tale Jack Kerouac, celeberrimo scrittore, nonché mentore dei vagabondi di mezzo mondo.  

I compagni sapevano che stavo seduto su due sedie e che la domenica andavo prima in sezione e poi a messa. Ma non sapevano che in tasca, ben accartocciate, avevo centotrenta carte. Era la quota di iscrizione al camposcuola di Azione Cattolica che dovevo consegnare a don Gino. Se ne fossero venuti a conoscenza, me le avrebbero sequestrate per versarle nelle casse del partito. 

Comunque, saranno state le parole del vecchio hippie; fatto sta che, mentre le tenevo strette in mano, come per magia, decisi di cambiarne la destinazione d’uso; non sarebbero finite nelle mani del prete ma, servite a finanziare la ricerca della mia vera strada e, anche di quell’altra cosa, della quale, cominciavo a sentire un prioritario bisogno.  

Lunedì 6 luglio 1981, invece di sedermi sul torpedone, direzione Cadore; mi accomodai da primo passeggero, in uno scompartimento dell’espresso Venezia-Bari. Nessuno al mondo sapeva dove stavo andando; nessuno, tranne il compagno Piero Berton ex capo scout pentito, al quale avevo chiesto in prestito tenda canadese e sacco a pelo, residuati della sua precedente esistenza.  

Pianificai tutto nei minimi dettagli. Nei giorni precedenti la partenza; nascosi tenda e sacco a pelo in garage dentro una vecchia valigia, così pure i costumi da bagno, una bandana, i sandali, bermuda e magliette. Quando arrivò il gran giorno, travasai il contenuto della valigia nello zaino, riempendo quest’ultima con gli scarponi da montagna e la roba pesante che mia madre, aveva preparato per il camposcuola.  

Salii sul treno eccitatissimo, mi sentivo un agente segreto nel pieno di una missione, ovviamente segreta. Il controspionaggio, mi avrebbe sgamato subito, per l’emozione sarò andato a pisciare una ventina di volte in tre ore. Con me avevo due libri, “Avere o essere” di Erich Fromm e “Sulla strada” di Jack Kerouac; me li aveva consigliati Milio. Non avevo nessuna intenzione di leggerli; volevo semplicemente fare il figo e imitare Carlo Dezzi. 

Il Dezzi era un mio compagno di classe nonché, un compagno comunista falso. Grasso e brutto come la fame, nonostante questo, grazie alla sua aria da intellettuale e alle citazioni di Prévert, riusciva ad attirare gnocca a gogo.  

Con la speranza che lo scompartimento si riempisse di figa, misi i libri in bella vista sul tavolinetto. Purtroppo, ironia della sorte, andò a finire che, quattro di quei cinque posti vuoti, furono occupati da altrettante suore.  

Mo sii, sediamoci qua che facciamo compagnia a questo baldo giovine; sorbole, che letture interessanti!”.  

Non ero riuscito a far sparire per tempo i due libri; avrei probabilmente dovuto sopportare un’imbarazzante conversazione cultural-letteraria alla quale non ero preparato.  

Mo sentiamo dove sta andando ‘sto bravo ragasso?” 

Altro argomento sul quale non ero preparato. La mia intenzione era quella di scendere a Rimini e cercare un posto dove accamparmi; la scelta era dettata esclusivamente dalla statistica; ovvero, alte probabilità di cuccare. Vallo a spiegare a delle suore, anche se, a prima vista, mi parevano di un modello piuttosto advanced.  

Sto andando dai nonni in vacanza a Rimini”; mi venne fuori bella e pronta.  

Mo guarda che nonni sconsiderati che deve avere; hanno il coraggio di far dormire il nipotino in tenda; se fossi in te, gli farei un bel dispetto e, tirerei dritto fino a Gatteo Mare, c’è un bel campeggio e soprattutto tante belle ragasse piene di salute” 

La più vecchia del quartetto aveva mangiato la foglia.  

Sarò per sempre grato a suor Marisa, la madre superiora, per quella dritta; non potevo aspettarmi di meglio da una romagnola o meglio, una da una nativa rivierasca doc.  

Mo venga signorina che ce posto, si sieda qui vicino al finestrino, di fronte a questo bel giovanotto, garantiamo noi che tiene le mani a posto, se ci prova, nostro Signore lo fulmina”. Suor Marisa mi diede una gomitata.  

Ora, la superiora, mi faceva anche da complice; che ganza! 

In effetti, la tipa, anche se, ad occhio, aveva qualche anno più di me, con quella minigonna di jeans, induceva in tentazione. Se, citando la frase storica, “Parigi val bene una messa”, quella tale Roberta valeva bene una fulminata.  

Furono quasi quattro ore di viaggio esilaranti; bastava l’accento romagnolo dei quattro pinguini per farmi piegare in due dalle risate. Non ho idea della quantità industriale di balle che raccontai, per fare il figo con Roberta; solo il loro capo supremo probabilmente, riuscì a quantificarle.  

Se non fosse stato per il mio vicino di piazzola, il teutonico signor Otto Kruntz, nome di fantasia ricavato da un personaggio dei fumetti del Corriere dei Ragazzi, sarei ancora alle prese con il montaggio della canadese. Fortunatamente la pluriennale esperienza, dell’ex Giovane Marmotta germanica mi permise di infilarmi nel sacco a pelo prima che sorgesse il sole.  

Gianni Togni continuava a martellarmi i timpani con Semplice, infilai la testa completamente dentro il sacco a pelo ma, niente da fare; un incubo, mi pareva di stare abbracciato a una cassa acustica usata nei concerti, tremava anche la terra.  

Mi ci volle parecchio per capire che non stavo sognando. “Tutto quanto mi sembra giusto, quando fuori è mattina presto …”; col ca**o! Chi ca**o, era ‘sto imbecille che lo stava sparando a manetta; gli avrei piantato volentieri tutti i picchetti in pancia, anche se si fosse trattato dell’amico Otto Kruntz. Passai un bel po’ di tempo per realizzare che non era l’alba ma, le dieci e mezza del mattino.  

Le urla del Togni uscivano da un casotto in legno, a due braccia di distanza dalla mia tenda, sul quale campeggiava la scritta, “Radio Base Mare International, estiamo insieme!”; scoprii perché la piazzola costava così poco.  

Mi accorsi che ero uscito in mutande; non che in quel posto fosse richiesto un dress code particolare ma, le Fruit Of The Loom bianche, o quasi, non erano di certo adeguate; per cui, corsi dentro in tenda a rifarmi il look.  

Ne uscii, da perfetto beach boy o, almeno pensavo. Bermuda neri “Fioruccio”, maglietta bianca con scritta “Didas”, bandana rossa e occhiali da sole “Raibat”; tutta roba comprata al mercato nel banco di tale Ciro, un napoletano specializzato in capi “firmati”. Gli occhiali invece, li avevo comprati, dopo estenuanti trattative, da un marocchino per settemila lire, un affarone.  

Hola zingaro, dai che fra un po’ inizia la diretta; da dove vieni?”  

Probabilmente avevo esagerato con la roba che mi ero messo, il capellone biondo che stava dentro il casotto mi puntò subito.  

Sin da piccolo, ho lavorato molto di fantasia e immaginazione, sono sempre state le mie più grandi risorse, alle quali ho attinto in svariati momenti della mia vita, specie quelli dove stavo per toccare il fondo.  

È grazie a tutto questo che, martedì 7 luglio 1981, nacque El xingano. Un personaggio sfornato interamente dalla mia immaginazione, un goffo ragazzo della campagna veneta, che si esprimeva con uno strano slang, un misto tra dialetto e linguaggio cifrato da film di spionaggio.  

Un goffo eroe, con più entusiasmo che tecnica, ma con la convinzione che, almeno dietro al mixer, nessuno poteva vedermi arrossire. 

Le credenziali di DJ, le fabbricai sul momento, rubando praticamente l’identità a tale Olindo di Radio Gamma5, un personaggio popolare dalle mie parti. Un boaro che faceva il DJ boaro in una radio boara. Un concept molto local, per così dire. 
L’attrezzatura la sapevo in qualche modo usare. Ai festini buei che organizzavano i miei compagni di classe, finivo sempre relegato alla postazione mixer. Così mentre gli altri si davano da fare in attività di alta socializzazione, chiamiamola così; io passavo il tempo in angolo a metter su dischi e prendermi parole se non mettevo la musica giusta. 

El xingano, ebbe l’onore di entrare nel casotto e, già nel pomeriggio, divenne l’aiuto Dj del biondo capellone.  

Al mio debutto, c’erano solo mamme tedesche che tenevano al guinzaglio dei kinder rompicoglioni. Non capivo una mazza di quello che dicevano ma era certo che quegli antesignani delle baby gang mi stavano prendendo per il culo.  

Ad un certo punto però, in mezzo a quella folla di piccoli bratwurst umani, intravidi una moretta interessante che stava tenendo stretta una ciotola di albicocche.  

Come un fulmine presi il 45 Ma quale idea di Pino D’Angiò. 

Prima di appoggiare la puntina sparai, anzi quasi sputai dal microfono: 

Cocca, ‘scolta ‘sta canson e sbirighe in sima; che fa anca rima”  

Mi fai ridere” 

La moretta con i capelli a caschetto, dopo più di dieci minuti passati a fissarmi, sparò quelle tre parole dirompenti, una scossa di terremoto che mi fece perdere equilibrio e orientamento. Sparii dal suo orizzonte finendo sotto il bancone trascinando con me cuffia e microfono.  

Quando riemersi lei era ancora piegata in due dalle risate; la incalzai: 

Vediamo se riesci a dirmi come ti chiami” 

Ci volle un po’; trattenne per un attimo il respiro e la risata 

Deborah … smettila scemo mi stai facendo morire” 

Debora con la acca, avevo il fiato corto, fu un vero e proprio esercizio di respirazione pronunciare quel nome; era la prima volta nella mia vita che una ragazza mi dedicava la sua attenzione.  

Miracolo! El xingano era nato solo da poche ore e aveva già colpito.  

Prendi queste”  

Innamorarsi per un gesto semplice, quasi banale: vedere quella ragazza scegliere da una ciotola le tre albicocche più belle, accarezzarle con lo sguardo e porgermele con un sorriso. 
Può sembrare un’assurdità, un dettaglio senza importanza, eppure fu proprio così che accadde. 
Quel gesto di attenzione, quella cura silenziosa, mi disarmò completamente e fu capace di illuminare l’intera giornata. 

Capii che era un segno. 

Persi immediatamente la testa per lei; per Deborah, con la sua “acca” che la rendeva unica anche nel nome. 

E io, innamorato e un po’ goffo, cercai di ricambiare come potevo, scegliendo per lei, in cambio di quelle albicocche, le più belle canzoni di quell’estate.  

Brani che parlavano di mare, di vento caldo e di sorrisi rubati al tramonto. 

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Usai sostanzialmente due versioni per raccontare quei giorni, una per Milio Vianeo e l’altra per tutto il resto del mondo, genitori compresi. A questi ultimi, fu solo complicato giustificare l’abbronzatura; me la cavai dicendo che avevamo fatto un’escursione su di un ghiacciaio e, il riflesso della neve mi aveva letteralmente ustionato.  

Ti xé goldon vecio; ti xé proprio un gran goldon” 

Milio si riferiva al fatto che non mi ero trombato Deborah.  

Ci rimasi male, fu l’unico suo commento, dopo quasi un’ora persa a raccontargli del mio viaggio segreto; francamente mi aspettavo qualcosa di più.  

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Il 25 luglio 1983, circa tre ore dopo aver sostenuto l’esame orale della maturità, ero di nuovo sull’espresso Venezia-Bari, destinazione Rimini. Quella volta lo scompartimento si riempì di ragazzi che andavano a Taranto per la naja; avrei preferito di gran lunga, le mie amiche suore.  

Mentre dal finestrino scorreva il monotono paesaggio della pianura padana, pensai che, metaforicamente parlando, sarebbe stato un viaggio di sola andata, nel senso che la mia vita aveva ormai preso una direzione ben precisa e, non sarei mai più tornato indietro sui miei passi.   

Il biondo capellone, con il quale nel frattempo avevo avuto un proficuo rapporto epistolare e telefonico, mi stava aspettando con un bel contrattino in mano; all’indomani avrei iniziato a lavorare a quella che si chiamava Radio Base Mare International; non posso dirvi come si chiama ora, altrimenti verrei facilmente smascherato. El xingano, aveva di nuovo fatto centro.  

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Per tutto quello che mi è piacevolmente accaduto durante questi decenni di radio-attività, non posso fare a meno di ringraziare il compagno Marino Scantamburlo che mi ha incoraggiato a prendere quel treno e a trasferirmi in Romagna.  

Era contento; “sono quasi tutti comunisti”, diceva sorridendo, “insomma… sono dei nostri” 
Io sorridevo con lui, ma nel cuore sapevo che quella scoperta andava ben oltre la politica: riguardava le persone, le emozioni condivise, il sentirsi parte di qualcosa di vivo e leggero, dove la musica univa più di qualsiasi ideologia. 

Grazie a Olindo di Radio Gamma5 che, a sua insaputa, contribuì a far nascere in me la passione di “fare radio” e a tracciare la mia vera strada che, non era certo quella dell’informatico, suggeritami da Manuel Agnoletto.  

Ringrazio anche il biondo che, ebbe la fortuna di diventare famoso quasi come me. La differenza è che lui, vive alla luce del sole, mentre io, trovo rifugio in uno pseudonimo che, mi consente di avere una comoda doppia vita e, cosa non da poco di questi tempi, un doppio stipendio.  

Ma, più di tutti, ringrazio Milio Vianeo; se non ci fosse stato lui, quel giorno, avrei consegnato le centotrenta carte a don Gino. Dal camposcuola sarebbe tornato a casa un bravo e cattolicissimo ragazzo ma, un infelice bravo ragazzo.  

Fu grazie a quel cambio di rotta improvviso che scoprii un mondo nuovo, inatteso: la gente di Romagna e la leggerezza che solo la loro musica da ballo sapeva regalare. 
Scoprii il liscio, e con esso un modo diverso di stare insieme. Non avrei mai immaginato: io, che fino a poco prima inseguivo solo l’UNZ-UNZ-UNZ della musica da discoteca, sarei rimasto incantato da quel ZUMPAPPA fatto da fisarmoniche, sorrisi e gonne che giravano leggere sulle piste da ballo. 

Scoprii il valore sociale, e persino terapeutico, del ballo. Corpi che si sfioravano, che si sentivano, che comunicavano più con un passo o un abbraccio che con mille frasi. 

Fare radio sul mare della riviera, con le sue albe chiare e la sua voce infinita, diventò per me qualcosa di più di una semplice passione: era un modo di sentirmi utile, di regalare qualcosa di vero agli altri, e allo stesso tempo di sentirmi completo. Ogni dedica musicale, ogni risata scambiata con gli ascoltatori, mi faceva stare bene. Sentivo che l’affetto che ricevevo non era finto: era concreto, sincero. 

È da allora che, “El Xingano” continua a vivere dentro di me.  

Sono sostanzialmente uno zingaro nell’anima che, per citare Battiato, non ha mai avuto “un centro di gravità permanente”. 

Navigo a vista; mai una reale convinzione, mai un vero e proprio ideale da perseguire; solo una fame insaziabile di libertà e la costante, sottile paura che qualcuno possa sottrarmela. 

Ogni volta che mi fermo troppo, sento la ruggine salirmi nelle vene. 
E allora riparto, senza meta precisa, inseguendo un orizzonte che so già cambierà forma appena mi avvicino. Non è mancanza di coraggio restare, è che per me restare è morire un po’. Meglio perdersi mille volte che inchiodarsi una volta sola. 

Non porto valigie, solo passioni: la musica che mi vibra nel petto, il ballo che mi accende il corpo, il volo che mi stacca da terra, la radio che mi dà voce. Sono la mia coperta di Linus, la carezza che mi riscalda quando intorno c’è solo gelo. 

C’è però un faro che mi conduce in un porto sicuro: Deborah. La mia prima, più bella e più lunga storia d’amore. 

Una storia che, forse, non è mai esistita davvero esattamente come la racconto, ma che io continuo a vivere ogni volta che la penso. 

Il destino volle separarci, proprio come persi quel foglietto con il suo indirizzo, nascosto tra le pagine di “Avere o essere”. Ma lei è rimasta sospesa nel tempo, una fotografia incastonata nella mia anima, immune all’ingiallire degli anni. 

Dentro di me coltivo ancora la follia, o la fede, che, fra gli infiniti segnali radio dispersi nell’etere, uno possa raggiungerla e udire la mia voce, le canzoni che ancora continuo a dedicargli, i miei silenzi. 
E che un giorno, chissà, possa giungermi un suo segnale. Anche solo un soffio. Un accenno di presenza che riaccenda la segreta speranza di poterle ancora parlare. 

Mentre passeggio al mare d’inverno, mi illudo di vederla apparire sul pontile dove ascoltavamo “Zingaro” di Tozzi. 

Ma il pontile rimane deserto, solo io, il mare e tanto vento. Dalla spiaggia alle mie spalle, ho l’illusione di sentir riecheggiare “Ciao mare” di Raul Casadei.  

Il vento cancella dalla sabbia i ricordi, ma dal cuore, no il vento non può”  

Vedo Debora con la acca, la moretta con i capelli a caschetto, che mi ha offerto quelle tre dolcissime albicocche, camminare al mio fianco, tenendomi la mano, come quell’estate di tanti anni fa, che il tempo non è riuscito a distruggere.  

Non ci siamo mai messi insieme e non ci siamo mai lasciati. 

 
E forse è proprio questo il segreto: ci sono amori che non hanno bisogno di essere vissuti per essere veri. Sentimenti che non chiedono il permesso di entrare e non se ne vanno nemmeno se provi a chiudere la porta. 

L’ho amata davvero, o forse ho amato l’idea di lei? 
 

Ma in fondo, che differenza fa? 
 

Le storie d’amore che abitano l’anima sono le uniche che non finiscono mai: 
non invecchiano, non si logorano, non ti tradiscono. 
 

Restano. Silenziose. Eterne. 

Restano lì, perfette, come una canzone che non smette di suonare. 

Una lunga storia d’amore … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta

PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO

© 2025 Michele Camillo

La ragazza dell’ultimo banco

Da sempre ho un certo feeling con gli ultimi posti. 
Fin da piccolo, quando mia zia preparava pane, burro e zucchero per tutta la masnada dei cugini, io ero immancabilmente l’ultimo della fila e spesso rimanevo a bocca asciutta, un vero e proprio trauma infantile. Una costante nella mia vita. 

In chiesa, quando da ragazzo ci andavo, mi sedevo sempre all’estremo dell’ultima panca in una delle file laterali. 

Sceglievo quel posto, non perché mi sentissi un peccatore come il pubblicano della parabola, non avevo ancora quel tipo di consapevolezza spirituale, ma piuttosto per tenere le distanze da un certo mondo che, francamente, non mi piaceva. 

Dopo la Cresima, mentre la maggior parte dei miei coetanei evaporava come neve al sole, io invece continuai a frequentare la parrocchia. Non per slancio mistico, ma per una più umana, e disperata, necessità: trovare un luogo dove sentirmi visto, considerato, magari perfino valorizzato. In famiglia non venivo considerato, fuori venivo bullizzato. Speravo, ingenuamente, che lì dentro, almeno lì, avrei trovato amici veri. 

E invece no. Peggio che “fuori”, come i preti chiamavano con disprezzo tutto ciò che non ruotava attorno alla parrocchia. Sembrava un’azienda: se rientravi nelle grazie del parroco, magari perché eri figlio di o eri una bella gnocca di ragazza, valevi qualcosa. Altrimenti, specie se eri uno pieno di dubbi che faceva domande imbarazzanti, ti consideravano una presenza scomoda, una sorta di pezza da piedi liturgica. 

Eppure, nonostante questo, continuavo ad andare a messa. Non tanto per fede, quanto per puro e semplice terrore. Mia nonna paterna e i catechisti mi avevano instillato una paura viscerale dell’inferno: un girone eterno di fuoco e rimorsi riservato a chi sgarrava anche solo un po’. Così, per non sapere né leggere né scrivere, e per evitare eventuali eterni barbecue, pensavo che fosse meglio adempiere malvolentieri a certi obblighi al fine di evitare che finisse a schifio. 

In pratica, la messa e i suoi annessi e connessi, era la mia polizza assicurativa ultraterrena. Non sapevo bene cosa coprisse, ma non volevo correre rischi. 

Ero convinto che la pensasse allo stesso modo anche quella ragazzina che, come me, si sedeva sempre nei banchi in fondo. Aveva un’aria un po’ dimessa, appartata, e proprio quel suo modo discreto di esistere mi attirava. Non la conoscevo, la vedevo solo da poche settimane, o forse, c’era sempre stata, ma io non l’avevo mai davvero notata. 

Una cosa era certa: era timida quanto me. Quando arrivava il momento del segno della pace, ci sfioravamo appena la mano, come se avessimo paura di disturbare. Eppure, in uno di quegli istanti sfuggenti, riuscii a incrociare i suoi occhi. Verdi. Bellissimi. 

Notai che arrivava in chiesa con un certo anticipo. Così iniziai anch’io ad arrivare un po’ prima della messa, con la speranza, nemmeno tanto sottile, di avere qualche minuto in più per osservarla. Lei restava assorta, forse pregava. Iniziai a pregare anch’io… che capitasse finalmente un’occasione per parlarle. E il miracolo arrivò. 

Una domenica dimenticò il pullover sul banco. Avrei potuto correrle dietro e restituirglielo, ma preferii adottare una strategia più raffinata: usarlo come pretesto per saperne di più. 

Mi fiondai da suor Teresa, madre superiora e archivio vivente della parrocchia. Un’impicciona di alto livello, aggiornata in tempo reale su chi entrava, usciva e pure su chi avrebbe dovuto entrare ma poi aveva cambiato idea. 

Dopo un quarto d’ora, uscii dalla sagrestia con un dossier completo di profilo psicologico, più dettagliato di un rapporto dei servizi segreti. Si chiamava Carolina S., figlia di Giovanni S., il nuovo custode dell’impianto di depurazione. Ultima di quattro figli, gli altri tre maschi. 

Ma suor Teresa mi mise anche in guardia: “È una tipa strana,” disse. Gemma, figlia di siora Tersilla gli aveva riferito che a scuola Carolina si sedeva sempre all’ultimo banco, non parlava con nessuno e prendeva voti piuttosto bassi. 

A me, però, quel profilo da creatura silenziosa e incompresa non faceva paura. Anzi, mi sembrava familiare. Forse perché, sotto sotto, io ero esattamente come lei. 

Prima di congedarmi, suor Teresa mi posò una mano sulla spalla e mi disse, con un sorriso che sapeva di complicità: “Vedi un po’ di tirarla in qua, quella ragazza.” 
Fu come se per un attimo il mondo mi riconoscesse. Mi sentii felice, davvero felice, era una delle rare volte in cui qualcuno mi mostrava fiducia, come se potessi davvero fare qualcosa di bello. Come se valessi. 

Tra le tante informazioni che mi aveva passato, ce n’era una che mi colpì più delle altre: quella “strana” ragazza aveva l’altrettanto strana abitudine di salire sulla sommità della “collinetta”, un’anonima montagnola di terra di riporto, avanzata dagli scavi per il canale del depuratore, e starsene lì, ad ascoltare la radio a tutto volume. 

Io lo sapevo cosa voleva dire essere considerato “strano”. Lo ero anch’io, e sapevo che noi strani abbiamo i nostri piccoli riti, i nostri luoghi sacri, le nostre abitudini silenziose. Se Carolina, sì, ormai sapevo il suo nome, era davvero come me, allora l’avrei trovata lassù. 

Dopo pranzo presi il pullover, montai in sella alla bici e iniziai a pedalare verso la zona del canale scolmatore. Più mi avvicinavo, più il cuore accelerava, come se volesse anticipare l’incontro. 

E poi successe. Prima, lontano, un suono: una musica che si perdeva nell’aria, portata dal vento. Un buon segno. Un presagio. E subito dopo, eccola. 

Era lì, in cima a quella collina di niente, con lo sguardo perso verso l’orizzonte, come se cercasse qualcosa che non sapeva nemmeno lei. Il vento le agitava la coda di cavallo, e ogni tanto una ciocca le attraversava il viso. Vederla fu come ricevere un’impronta indelebile: qualcosa mi colpì dritto al cuore e si incise nell’anima, senza chiedere il permesso. 

In quel momento, prima ancora di dirle una parola, capii che non era solo curiosità quella che mi spingeva verso di lei. Era qualcosa di più profondo. Forse tenerezza. Forse qualcosa che assomigliava già a una forma primitiva d’amore. 

Stranamente non era sorpresa nel vedermi, sembrava mi stesse aspettando ed ebbi l’impressione che quel pullover se lo fosse dimenticato apposta. 

Te lo sei dimenticato”; dissi quasi balbettando. 

Grazie”; rispose con un filo di voce. 

Menomale che c’era la radio accesa perché non sapevo proprio come proseguire la conversazione; quell’imbarazzante silenzio tra noi due mi parve eterno. 

Ma tu, come facevi a sapere che ero qui?” 

E adesso che gli dico?”, pensai. Mi prese una sorta di panico. Non potevo di certo raccontargli della mia piccola indagine su di lei. 

Cosa stai ascoltando?” Nella vita, sono da sempre stato un esperto nello sviare discorsi e domande imbarazzanti. 

“Il rumore del treno; quello va verso il mare, vero?” Indicò con lo sguardo malinconico il treno che stava sfrecciando li vicino. 

Certo che era veramente strana. Vabbè, visto che voleva parlare di treni e di mare la accontentai. Gli raccontai della miriade di parenti che avevo nella direzione nella quale andava il treno. L’avevo preso tante di quelle volte che conoscevo tutte le fermate a memoria. Le spiegai che non portava direttamente al mare ma che bisognava scendere a una particolare stazione e poi proseguire in autobus. L’avrei fatto da li a qualche settimana. Finita la scuola sarei andato a passare l’estate al mare da zio Bruno e zia Stella.  

“Mi piacerebbe venire con te” 

Era lì, con il viso rivolto al cielo, come se la sua frase fosse una verità già detta al vento. 

Il tempo, lassù su quella montagnola di terra, si fermò di colpo. Il treno ormai era lontano, un rumore sempre più fioco fino al silenzio. E proprio in quell’istante, come orchestrato da un regista invisibile, dalla radiolina di Carolina partì Run to Me dei Bee Gees. Sembrava che lo speaker ci stesse leggendo dentro. 

Le sue parole mi colpirono al petto con la forza quieta delle cose semplici e vere. 
 

Non sapevo cosa dire. Ero turbato, spiazzato, felice e impacciato tutto insieme. 
Mi girai appena verso di lei, senza osare troppo. 
 

Ancora una volta cambiai discorso. Gli parlai del mio sogno di mettere in piedi una piccola radio libera, come quella che stava ascoltando. Andai avanti non so quanto con il mio monologo.  

Ci vediamo; ciao” Ad un certo punto prese radio e pullover e, senza nemmeno guardarmi in faccia sparì. 

Rimasi come un ebete per più di un’ora sopra la montagnola. Sapevo di aver fatto qualcosa di sbagliato ma, non riuscivo a capire cosa. 

Per tutta la notte mi rigirai nel letto senza riuscire a dormire. Era quasi l’alba quando pronunciai ad alta voce “andiamo!”. I miei si spaventarono a causa di quella specie di urlo che avevo cacciato. 

La giornata a scuola non passava mai. Quando suonò la campanella dell’ultima ora ero già praticamente in sella alla bici. A casa mangiai in fretta e furia, avevo la sensazione che dovevo fare presto. 

Il mio piano era perfetto. Domenica l’avrei fatta salire con me su quel treno che porta al mare e saremo andati a trovare i miei zii. Zia Stella e zio Bruno, due cuori semplici, caldi, pronti ad accoglierla come una di famiglia.  

Avevo studiato tutto nei minimi particolari; bisognava saltare messa ma, chi se ne fregava; il buon Dio, se esisteva, mi avrebbe perdonato; in fin dei conti era per un buon fine e, cosa da non poco, avevo l’approvazione di una religiosa. 

Pedalavo più forte che potevo. Ma poi il passaggio a livello… 
La sbarra era giù. Una fila di auto immobili, facce imprecanti e clacson impazienti. Il treno era lì, fermo, la gente si sporgeva dai finestrini cercando aria e novità. 

Imboccai la stradina sterrata che correva lungo la ferrovia, quella che portava su, alla montagnola. 
Quando alzai gli occhi, vidi in lontananza qualcosa che mi fece gelare il sangue: lampeggianti blu, un camion dei pompieri, un’ambulanza, volanti della polizia. Una piccola folla si era già formata, come accade sempre quando la tragedia diventa spettacolo. 

Il cuore mi cadde. 
Non volli avvicinarmi. 
Non volli sapere. 
Preferii salire sulla montagnola con le gambe tremanti. 

E lì, in mezzo al silenzio tagliente, trovai la sua piccola radio. Ancora accesa. 

Dall’altoparlante usciva solo il fruscio che si sente quando non c’è nessun segnale radio. Mi avvicinai. 
 

Con mani tremanti, abbassai il volume. Poi chiusi lentamente l’antenna, come si chiude la palpebra di qualcuno che dorme per sempre. 
Ogni gesto era una carezza, un addio. Era come se, nel sistemare quella radio, stessi ricomponendo il suo corpo che, lo sapevo, era lì poco distante, nascosto sotto un lenzuolo bianco. 

Me la misi sottobraccio. 
Poi, senza sapere dove andare, iniziai a pedalare. Forte. Fortissimo. Singhiozzando. Con il cuore in gola e le lacrime che mi annebbiavano la strada. 

Volevo prendere insieme a lei quel treno per il mare. 

Ma, ero arrivato tardi, troppo tardi, e lei, si era fatta prendere dal treno per il mare che, l’ha portata via per sempre. 

Il giorno del funerale non c’era molta gente in chiesa. A dire il vero, la maggior parte dei presenti non erano neppure parrocchiani. Sembravano più che altro curiosi, di quelli attratti non dal dolore, ma dal dramma. Il suicidio, si sa, attira sempre un certo tipo di attenzione storta, morbosa. 
I “veri” frequentatori della parrocchia forse si vergognavano di partecipare al funerale di una sfigata, come qualche mio “fratello” o “sorella” l’aveva definita.  
D’altronde Carolina non conosceva quasi nessuno. E quasi nessuno la conosceva. Tranne me. 

Il suo posto, all’ultimo banco della fila laterale, era vuoto. Mi sedetti lì, come fosse l’unico gesto sensato da fare. Una piccola fedeltà. Poi, a un certo punto, sentii un abbraccio stringermi forte. Era suor Teresa. 
 

Mio padre mi aveva sempre ripetuto che un uomo vero non deve piangere. Ma in quell’istante, con quell’abbraccio improvviso e materno, crollai. Le parole uscirono rotte, quasi senza voce: 
 

Non ho fatto in tempo…” 

Suor Teresa si sedette accanto a me, mi prese la mano con dolcezza. “Coraggio,” sussurrò. “Ora lei è dappertutto. Non cercarla al cimitero. Troverai Carolina in tutti i luoghi in cui sceglierai di ricordarla. Il tuo amore per lei è vivo, e lo sarà per sempre. E sai una cosa? Puoi ancora far qualcosa per lei. Puoi costruire qualcosa in suo nome.” 

È inutile dire che quello che è successo a Carolina ha segnato la mia vita. Ha scardinato tutte le poche certezze che avevo. Ha mandato in crisi la mia fede, o almeno quella che credevo fosse fede. 
Mi ha lasciato addosso la sua fragilità. Ma col tempo ho imparato che anche la fragilità può essere un dono: ti costringe a guardare più a fondo, con più umanità, con più verità. 
 

Mi ha trasmesso la paura di lasciare. Lasciare qualcuno che forse non ho mai amato veramente, per paura che possa fare lo stesso suo gesto estremo. È una paura ingombrante. Ma è reale. E, purtroppo, non è mai passata. 

Eppure, non mi ha lasciato solo con la paura. Mi ha lasciato anche una missione. Una possibilità. 
Suor Teresa mi aveva detto: “Puoi costruire qualcosa in suo nome.” E io l’ho presa in parola. 

Anzi, ho fatto di più. 
Ho costruito qualcosa che porta il suo nome. 

Non ho mai dimenticato quel breve momento in cima alla montagnola di terra, quel frammento di eternità che ci è stato concesso. 

In uno dei tanti pomeriggi silenziosi che passavo lassù, seduto accanto alla radiolina che era stata sua, girando le manopole per sentirla ancora un po’ vicina, inciampai in una trasmissione curiosa. Un tizio stava raccontando la storia di una fantomatica Radio Caroline

Quel nome mi colpì al petto come un sussurro. 
Ascoltai. 

La voce narrava di una radio pirata che, negli anni Sessanta, trasmetteva da una nave ancorata in acque internazionali, al largo delle coste inglesi. 
Quel racconto mi affascinò, aveva un’aura romantica.  Che figata quella radio pirata, mandava in onda la musica che le emittenti ufficiali censuravano, abbattendo muri, ignorando confini, accendendo sogni. Aveva dato voce a chi non ne aveva, aveva fatto volare in alto i Beatles, i Rolling Stones e tanti altri. 

Mi vennero i brividi. Era come se quel racconto parlasse direttamente a me. A noi. 
 

Fu in quel momento che capii una cosa semplice e immensa: 
su quella collina di terra apparentemente inutile erano nate due forme d’amore indistruttibili. 
Una per Carolina
E una per la radio

E così, con il tempo, nonostante le paure, nonostante le ferite, nonostante il non credere più in molte cose che prima mi sembravano certezze, ho realizzato un sogno. 
Un sogno che ha il suono della sua voce, l’eco delle sue mani timide, il profumo del vento tra i suoi capelli. 

Ho realizzato il mio grande sogno di “fare radio”. Ho creato una piccola emittente. Una radio semplice, senza pretese. Ma vera. 

L’ho chiamata Radio Carolina
 

If ever you got rain in your heart, 
Someone has hurt you, and torn you apart, 
Run to me whenever you’re lonely 
Run to me if you need a shoulder 
Now and then, you need someone older, 
So darling, you run to me. 

And when you’re out in the cold, 
No one beside you, and no one to hold 

And when you’re out in the cold, 
No one beside you, and no one to hold 

So darling, you run to me. 

Se mai avessi la pioggia nel cuore, 

Qualcuno ti ha ferito e fatto a pezzi, 

Corri da me ogni volta che ti senti sola 

Corri da me se hai bisogno di una spalla 

Ogni tanto, hai bisogno di qualcuno più grande, 

Tesoro, corri da me. 

E quando sei fuori al freddo, 

Nessuno accanto a te, e nessuno da abbracciare, 

Tesoro, corri da me. 

Da “Run to me” – Bee Gees 

Anima sbiadita … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO – © 2025 Michele Camillo