Fio dei Fiori – Parte I^
© 2009 – 2024 Michele Camillo
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Capitolo 8 – L’indagine
Sabato mi ero recato al mare; avevo scelto di non mandare i soliti due messaggi ai compari Mul, sentivo il bisogno di stare da solo per riordinare le idee. Sul “nostro” pontile regnava il silenzio, solo io e quel tipo solitario che trascorre le sue giornate a osservare con malinconia le scie degli aerei. Da una vita lo vedo sempre lì; anche se d’estate ci incontriamo quasi ogni sabato, non abbiamo mai scambiato una parola, solo un timido abbozzo di saluto.
In genere, la domenica successiva ad un sabato passato al mare è impensabile che mi alzi presto ma, la necessità di intercettare “casualmente” mia zia Teresina alla messa mattutina, detta “delle vecchie”, imponeva lo sforzo dell’alzataccia. Sarebbe seguita la visita domenicale alla Bepina; in quella sede avrei dovuto affrontare l’argomento viaggio con il parentame.
Il mio fisico cercava in tutti i modi di ribellarsi a quell’ultimo impegno che avevo in agenda, i cervicali iniziarono a mandarmi le prime avvisaglie di un gran mal di testa in arrivo.
Arrivai in chiesa con due minuti di ritardo, cosa non grave se si trattasse di una normalissima parrocchia di città, nella chiesetta del mio paesello invece si rischia grosso. Ogni sforzo per passare inosservato a causa dei sinistri scricchiolii del pesantissimo portone risultò vano. Le pie donne presenti alla cerimonia si girarono tutte assieme verso la porta di ingresso fulminandomi all’istante, con uno sguardo indignato, riservato al peggiore dei peccatori. Oltre che su di me, quelle occhiatacce ricaddero anche sulla zia Teresina a sottolineare che il peccatore era suo nipote. Avevo imparato dalle sacre scritture che un disgraziato come me, deve fermarsi in piedi in fondo alla chiesa e così feci. Don Guerino, nonostante i suoi ottantacinque anni, aveva una vista da falco e riuscì a individuarmi nella penombra; con sorriso paterno e un cenno discreto della mano invitò il figliol prodigo ad accomodarsi più avanti. Era decisamente felice di vedermi, se non altro perché in chiesa c’era un fedele in più rispetto alle solite vecchiette che seguivano messa come degli automi.
Finita la messa, puntai subito zia Teresina; la seguii in sacrestia. Sorella di mio padre nonché unica dei fratelli rimasta in vita, era praticamente l’ombra di don Guerino, la domenica era addetta al “cerimoniale” per cui, almeno che non la colpisse qualche grave malattia, era praticamente impossibile che non fosse presente alle funzioni; sapevo che, se avessi voluto interrogarla sulla faccenda, sarei andato a colpo sicuro.
Abbracciandomi con forza, il vecchio don Guerino, avvolto nei pesanti paramenti sacri che raccontavano storie di liturgie e preghiere, si frappose fra me e la zia, prima che potessi varcare la soglia della sacrestia. Nonostante gli anni, l’intensità dell’abbraccio era rimasta immutata, come ai tempi in cui ero un giovane chierichetto. Il suo abbraccio emanava ancora quel profumo di dopobarba anni ’60, un’essenza intrisa di ricordi e di sacro mistero. Con fatica, cercai di celare la mia commozione, voltando il viso altrove, ma don Guerino, con la saggezza dei suoi anni, aveva già colto la traccia delle mie lacrime.
“Angelo, che piacere, ogni tanto ti ricordi del tuo vecchio prete, pensavo ti fossi sbattezzato. Come mai da queste parti? Sei già in ferie?”. La domanda capitò a fagiolo offrendomi su un piatto d’argento l’occasione per introdurre il discorso, sparai il colpo che avevo in canna. “No, ma tra un po’ vado in America con Adriano e Armando per il 40° anniversario del raduno di Woodstock, roba da hippy. Zia te li ricordi? Quelli che passavano per i campi vicino a casa nostra quando ero bambino”
In realtà, a mia memoria, per i campi vicino a casa non era passata nemmeno l’ombra di uno di quei capelloni; mi serviva solo come provocazione. Attimi di silenzio poi la vecchia “cantò” alla grande inveendo in mille modi contro quei “nati d’un can, selvadeghi e sensa timor de Dio de caveoni”, rei di avere causato scandalo a causa della loro immorale promiscuità ma, elemento più rilevante ai fini dell’indagine, si accanì in modo sospettoso sulle donne che mettevano al mondo figli come se niente fosse per poi, abbandonarli al loro destino.
“Basta esagerata!”, don Guerino la zittì con fare brusco. Non era il caso di procedere con ulteriori domande, l’avrebbero certamente insospettita, lo scopo era pienamente raggiunto, le sue parole lasciavano intuire tutto, pure l’intervento di don Guerino era un po’ sospetto. I primi pezzi del puzzle cominciavano a incastrarsi alla perfezione.
Stavo per andarmene quando il vecchio piovan mi prese sottobraccio. “’ndemo a far marenda”, uscimmo dalla porta che dava direttamente sul giardino dell’asilo, mi voltai per vedere se veniva anche zia Teresina ma era già stata risucchiata in chiesa dalle altre comari a risistemare l’altare per la messa successiva. Un caffè e magari qualche biscotto mi ci voleva proprio; uno chiamato Fugassetta non poteva rinunciare a far marenda col vecchio prete. Ci sedemmo sotto la pergola di uva fragola da sempre assunta a ruolo di dependance estiva della sacrestia, don Guerino, con fare da nobiluomo inglese, aveva già avvisato la signora Mary, il cui vero nome è Aissatou, la perpetua originaria del Senegal, che si era aggiunto un gradito ospite
Ci sono luoghi che, d’estate, grazie a una fortunata combinazione di fattori, godono di un microclima particolarmente mite e fresco. La pergola era uno di questi luoghi incantati, adagiata a ridosso del muro della chiesa e circondata da maestose magnolie, sempre stata un piccolo paradiso per chi, come me, nutre un profondo odio per il caldo. I ricordi di questo posto risalgono alla mia infanzia, quando da chierichetto vi venivo a giocare, immaginando di essere in villeggiatura. Poi, durante gli anni delle superiori, quando immancabilmente mi trovavo rimandato in qualche materia, vi trovavo rifugio per studiare. Spesso, in quei pomeriggi, si prolungavano lunghe chiacchierate con don Guerino. Qui, a dispetto di una nota canzone, un prete con cui conversare lo trovavi sempre.
Una leggera folata di vento portava il profumo di caffè, la Mary stava arrivando con il vassoio dove, oltre alle tazze fumanti si intravedeva un piatto coperto con una salvietta; sicuramente occultava una prelibatezza offerta da una pia donna per allietare la colazione del parroco. Tra le cose che abbiamo in comune io e don Guerino, oltre al fatto di non essere sposati e non aver, almeno ufficialmente, mai fatto sesso, c’è la sfrenata golosità, tanto che anni orsono in confidenza mi disse che i digiuni quaresimali per lui sono sempre stati un grossissimo sacrificio. Senza quasi dare il tempo alla Mary di appoggiare il vassoio sul tavolo, il prete tolse con una manovra fulminea la salvietta, ed ecco apparire una torta di ricotta e ciliegie finemente decorata, il suo contegno da attempato uomo di chiesa lo frenò dalla tentazione di avventarsi sopra con le mani, la Mary si allontanò ridendo e scuotendo la testa. “Spiegati meglio su questo viaggio, come vi è venuto in mente?”, la mia bocca però era impegnatissima e non si sarebbe liberata prima di cinque minuti, tanto era grande la fetta che avidamente avevo azzannato, il vecchio prete ne approfittò per fare un certo discorso.
“Vi invidio, pensa che l’America è sempre stata un grande sogno qui in paese, un posto dove fuggire dalla miseria; persino tuo padre la sognava. Ioani, parlava poco, ma questa dell’America è una delle poche cose che mi ha raccontato in una rara giornata in cui era di buon umore. Vedeva, me e tutti gli altri preti, come fumo negli occhi: gente che passava il giorno a predicare e a riempirsi la pancia, mentre loro dovevano lavorare come muli per riuscire a malapena a sopravvivere. Per lui, Dio era un’invenzione della Chiesa per tenere sottomessa la povera gente con la paura dell’inferno. Se fosse veramente esistito, si sarebbe preoccupato dei poveri contadini come lui e non avrebbe permesso che accadessero tante disgrazie, a partire dalle intemperie che vanificavano tutto il lavoro nei campi.
Che uomini erano Ioani e i suoi amici, perennemente arrabbiati con Dio, specialmente quando bevevano, usavano le bestemmie come punteggiatura; mi rendo conto che non è facile voler bene a persone così. Ora, mi raccomando, non perdere mai la pazienza con la Bepina, è comunque tua mamma, la persona che ti ha allevato, sei stato fortunato ad averne una così brava, il mondo è pieno di donne che abbandonano i loro figli”.
“Amen”, mi veniva da dire, alla fine del suo improvvisato sermone di cui ho solo reso il sunto. Quelle parole erano senza dubbio un avvertimento, nascondevano tra le righe l’invito a lasciar perdere certe strane idee che mi ero messo in testa. Il perspicace piovan, probabilmente aveva intuito tutto e mi stava mettendo in guardia dalla tentazione di rinnegare quelli che comunque si erano sobbarcati l’onere di farmi da genitori.
Mi sarebbe piaciuto rimanere per continuare, come diciamo noi, a gratarghe ea pansa al vecchio parroco ma, era ora di andare a far visita alla Bepina; se non mi avesse visto arrivare all’ora canonica avrebbe cominciato a innervosirsi e poi, il caffè era finito.
Quando la casa nova si profilò all’orizzonte, cominciai a sudare freddo al pensiero di dover affrontare l’argomento viaggio; non sapevo proprio come dirgli che andavo in America. Invece di augurarmi, come fanno tutti i cristiani, di divertirmi; mi avrebbero colpevolizzato per i soldi che scialacquavo e per lasciare solo loro due ad accudire quella che era anche mia madre; mentre io, pensavo unicamente a divertirmi. Loro due, poveri miserabili che, in vita loro, non si erano mai potuti permettere nemmeno un giorno di villeggiatura in montagna. Tutto questo, ovviamente, non sarebbe stato detto apertamente, ma attraverso le solite mezze parole. Ci pensò Billi a stemperare la tensione, non appena aprii la portiera, infilò subito il muso dentro mugolando, pronto a darmi un segno tangibile di affetto, almeno lui.
La Bepina e mia sorella stavano sotto la tenda a curare le tegoine, uno dei pochi lavori che, nonostante la malattia, mia mamma riusciva ancora a fare.
L’accoglienza non fu così festosa come quella di Billi che, per darmi il suo sostegno morale, continuava a starmi appiccicato. Dopo un formale saluto di rito a muso duro, Teresa sparì dentro casa lasciandomi solo con la Bepina. A questo punto non sapevo come fare per dirle del viaggio; ne parlai intanto con Billi. Da anni ormai gli affidavo le mie confidenze ma, per tutta risposta, si dileguò pure lui per andarsene probabilmente a scavare qualche buca, vigliacco di un cane!
Le feci vedere il libro e la fascia e, attesi con ansia di vedere l’effetto, “che sofego ancuo, portame dentro”, disse con tono insofferente, scemo io che mi illudevo di ricevere chissà quale risposta. Da quando si era aggravata i nostri dialoghi erano ridotti all’osso, il suo scarno frasario di circostanza era costituito si e no da una ventina di parole in dialetto, per cui, potevo tranquillamente mettermi il cuore in pace tanto dalla Bepina, non avrei cavato un ragno dal buco.
Dopo aver lasciato la stanza, mi affacciai in cucina per salutare l’allegra famiglia. Teresa mi passò davanti sbuffando, le braccia cariche di roba da buttare in lavatrice. Gino era impegnato a rovistare nel frigo, alla ricerca di qualcosa di indefinito, mentre mia nipote Lorena mi rivolse un mezzo saluto con la mano. “Se vedemo,” dissi a bassa voce, e senza voltarmi, mi diressi verso la macchina.
Il discorso sul viaggio era rimandato. Per l’ennesima volta, la strategia della fuga, ovvero l’evitare di affrontare i problemi, aveva preso il sopravvento. Mentre camminavo verso la macchina, un pensiero mi attraversò la mente: se ero veramente figlio di questa fantomatica Kate, allora forse non ero degno di lei.
Ormai l’indagine preliminare poteva considerarsi conclusa. Nel pomeriggio seduto in riva all’argine del canale iniziai a leggere “Sulla strada” di quel tale Jack Kerouac. Sin dalle prime pagine, non ci capii granché, era scritto in un linguaggio troppo astruso per un ignorante boarotto come me. Mi misi a saltare nervosamente da una pagina all’altra, alla ricerca di qualcosa di comprensibile, adatto alla mia bassa levatura. Le pagine mi sfuggivano, un labirinto di parole senza via d’uscita. Poi, quasi per caso, lo sguardo si fermò su una frase che mi colpì con la forza di un fulmine.
“Ero un giovane scrittore e volevo andare lontano. Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla”
Le parole si incastrarono nella mia mente come un mosaico incompleto, ma perfetto. Lì, sotto il sole che accarezzava le acque tranquille del canale, capii che anche io, come Kerouac, cercavo la mia perla in un mare di incertezze e sogni.
Continua …..
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