San Valentino

Sembrerà strano ma, il giorno di San Valentino, mi viene in mente EnsoPenso e quella stramaledetta “buona domenica” di Antonello Venditti. 

Era l’unica canzone di Venditti che odiavo; ritraeva perfettamente le mie pallose domeniche invernali, tutte uguali, praticamente un copia e incolla. Sempre la stessa scena; mia mamma ipnotizzata dalla tv, si faceva massicce dosi di domenica in; mio padre e mio fratello attaccati alla radio ad ascoltare tutto il calcio minuto per minuto, tiravano giù i santi dal paradiso man mano che si allontanava la possibilità di fare tredici, mentre, mia nonna, se ne stava a letto lamentandosi per i dolori. Nell’aria, una gran puzza di fumo generato dallo smodato consumo di Nazionali senza filtro; un po’ dappertutto c’erano bucce di bagigi; un quadretto del genere, avrebbe mandato in depressione chiunque.  

… Ciao, ciao domenica, passata a piangere sui libri … 
 

Parole tristemente famose e maledettamente reali. Quella domenica 14 febbraio del 1982, diciottesimo San Valentino della mia vita, ancora senza una donna, la stavo passando lottando disperatamente con il testo di matematica. All’indomani, stando al calcolo delle probabilità, c’era il serio pericolo che la Biasiotto mi convocasse per darmi ‘na beapetenada, per dirla in dialetto. Se fosse andata male, avrei dovuto presentarmi al cospetto di sior Mario con l’ennesimo quattro registrato nella mia fedina penal-scolastica; il che, voleva dire perdere almeno quattro denti e, per giunta, quelli non cariati, senza possibilità di reimpianto.  

Ciò nonostante, decisi di farmi due passi fino al civico 69 dei paeassoni per far due chiacchere con EnsoPenso; gli avrò detto mille volte che non volevo sentire quella canzone ma lui, imperterrito, continuava a mandarla in onda ogni santa domenica pomeriggio. Lo trovai più depresso e demotivato di me. 

Ma parché no’ ti ghe ga ancora da un titoeo a ‘sta trasmission?”  

“Parchè, ea dovaria averghene uno?” 

Era inutile far certe domande a uno nelle sue condizioni; la sua anima era stinta come gli abiti che portava. Decisi che la cosa migliore da fare per tutti e due era una seduta di psicoterapia in bar da Nane. 

Credo che la depressione del single a San Valentino avesse preso in pieno anche lui perché, mentre facevamo la strada, attaccò subito. 

– “Ma ti, ti gà ea morosa? “ 

– “No “ 

– “Mai avua una? “ 

– “No, e ti? “ 

– “‘Gnanca mi” 

Entrammo da Nane Sbérega dove, i soliti, alla loro maniera, stavano festeggiando San Valentino. “Par un’ora d’amor no’ so cossa faria; par poderde ciav…”, il testo integrale è meglio non trascriverlo. Denis Sgorlon era, nel quartiere dei paeassoni, l’indiscusso mago delle cover. Quella domenica pomeriggio, con un pieno di bionda doppio malto Ruttolongo nello stomaco, si stava cimentando con il greatest hits dei Matia Bazar. Milio Vianeo riferì che ci eravamo appena persi una magistrale reinterpretazione di “Stasera che sera” dal titolo “Stasera che sega”. C’era poco da fare; il Denis era un genio, un grande poeta; mi diede un’idea per lo stantio programma radiofonico di EnsoPenso.  

Giorni dopo mi inerpicai su per i grigi scalini del civico 69 con alcuni “ferri”; la valigetta dei 45 giri della cuginona Franca, due walkie talkie INNO-HIT, regalo di zio Sergio per la cresima e, l’ancora intonsa antologia di letteratura.  

Altra cosa importante, io non ero più io, bensì un tale Nicola, trentenne scapoeon che, di mestiere faceva il bancario, quindi, professionalmente ben piazzato; con la passione per la barca a vela; nonché, colto e amante della poesia.  

Quella domenica, ‘sto tale Nicola, pensò bene di telefonare in radio e, EnsoPenso, pensò altrettanto bene di mandare la telefonata in diretta, cosa che non aveva mai fatto fino a quel momento; primo perché, fino a quel momento, non c’era mai stata neanche l’ombra di una telefonata da mandare in diretta; secondo, perché senza i mitici INNO-HIT; il trucco non sarebbe riuscito.  

Ancora ridiamo pensando a quel giorno; incredibile, quaranta e passa anni fa avevo creato la mia prima identità fake uso social, che ‘vanti che gero!  

“Cinzia, non so se sei in ascolto. Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine. Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. Almeno, lascia che ti dedichi questa bellissima canzone” 

Ero sicuro che nella valigetta della cugina Franca c’era “Per un’ora d’amore” dei Matia Bazar, diedi poi istruzioni a EnsoPenso di mandarla in onda al mio segnale.  

Era la prima volta che usavo el maton, così chiamavo la pesantissima antologia di italiano, per scopi non propriamente scolastici. Fu una magistrale interpretazione la lettura di quel brano di Italo Calvino, nei panni di quel fantomatico Nicola.  

Il socio sollevò delicatamente la puntina, un attimo prima che, a fine corsa, deragliasse per finire sopra l’etichetta; poi, con una voce calda “da letto” disse: “carissimi amiche e amici; ma voi, cosa fareste per un’ora d’amore? Sotto con le telefonate”. La mia geniale idea di dare un po’ di verve a quella trasmissione prese forma.  

EnsoPenso frugò nella valigetta come se avesse trovato un tesoro; tirò fuori ”comprami” di Viola Valentino; a quel punto temevo seriamente che chiamasse Denis Sgorlon o qualche suo amico di bevute, per spiegarci nei minimi dettagli, cosa avrebbe fatto per un’ora d’amore o meglio, durante l’ora d’amore.  

Con “Su di noi” di Pupo, arrivò la prima telefonata, una certa Vania, che non volle essere messa in diretta. “Ghe xè ‘na cocca che vol saver de tì, de Nicola intendo …” EnsoPenso, preso dall’emozione, ne mollò una di potentissima; il tanfo era una via di mezzo tra i miasmi di porto Marghera e il puzzo della brodaglia domenicale, della mia vicina di casa, siora Antonia Masiero. Meno male che aveva avuto la prontezza di stringere forte la cornetta del telefono con due mani; io invece, viola in volto, finii disteso sotto il bancone del mixer con i crampi allo stomaco dal ridere; “mona, cossa ghe digo ‘desso?”. 

Mi resi conto di aver creato un mostro, praticamente, un antesignano di un troll sul web; imperativo, mantenere l’alone di mistero, per cui, diedi al socio istruzioni di rimanere sul vago. Dovette darsi parecchio da fare in merito in quanto, fu uno stillicidio di telefonate de fie che, chiedevano informazioni su quel tale Nicola e, per dedicargli canzoni; devo riconoscere che a raccontar balle era un maestro. 

Purtroppo, la valigetta di cugina Franca non riusciva a soddisfare le richieste. Dopo quasi due ore volate in un attimo, sfiniti, mandammo in onda l’evergreen, “if you live me now” dei Chicago, che, fece da sigillo alla puntata numero zero di quella trasmissione; battezzata ufficialmente con il titolo di “per un’ora d’amore”; un vero e proprio new deal, per quella radio sfigata e per quello sfigato di EnsoPenso.  

Quando uscimmo, el caigo aveva ormai avvolto l’intero quartiere; secondo EnsoPenso, quella fitta nebbia, che ti faceva perdere i contorni della realtà, era causata da tutte le balle che avevamo appena raccontato. Il chiassoso vociare, che proveniva dal bar di Nane Sberega, come un faro, ci indicò la rotta verso un buon tramezzino con birrino.  

Un tonno e cipolline, un tonno e olive e un prosciutto e funghi, erano gli unici superstiti che giacevano, chissà da quanti giorni, sotto quel bisunto canovaccio. Non aveva importanza, bastavano per festeggiare quella nuova geniale trovata. 

Nonostante fossero passati dei giorni, non doveva aver ancora superato il trauma del San Valentino senza una donna. Ad un certo punto, con una cipollina tra i denti, tornò a fissarmi:  

“Ghe xè qualcuna che te piase?”  

Sin dai tempi della scuola elementare, era la domanda più imbarazzante che mi si poteva fare; tentai inutilmente di rigirarla al mittente; niente, il socio insisteva. Era chiaro che, con la scusa di quella domanda, intendeva, gratarme ea pansa, ovvero farmi parlare di “quella cosa lì”, magari con dovizia di particolari.  

Sviai il discorso dicendo che faceva tanto ridere che i due autori, nonché conduttori, della trasmissione radio dal titolo “per un’ora d’amore”, avessero come uniche fonti sull’argomento, un testo scolastico, una valigetta con alcuni 45 giri di canzonette e i discorsi captati, de fora via, agli “esperti” che frequentavano il bar “da Nane Sberega”. 

Non me la sentivo di sbottonarmi con il socio e dirgli che invece, una che mi piaceva c’era eccome. 

Non condivido il pensiero di Macchiavelli ma, per certi fondamentali scopi della vita, il fine giustifica i mezzi. Così un giorno, decisi di farmi amico quel cagaalto di Nicola Berardo, un fio de papà che organizzava festini danzanti nel mega palazzo di famiglia a Venezia. Avevo assoluto bisogno di entrare nel suo giro, volevo approfondire la conoscenza di quella biondina dai lunghi capelli ricci che frequentava la sua compagnia.  

L’avevo notata per la prima volta, mentre se ne stava sdraiata sui gradini dei Tolentini; era bastato un attimo perché i nostri sguardi si incrociassero e, dalle nostre bocche uscisse simultaneamente un “ciao” a bassissima voce, quasi soffocato; poi lei, voltandosi verso una sua amica, si mise a ridere.  

Non ebbi però il coraggio di tornare indietro per attaccar bottone; in preda all’euforia cominciai quasi a correre; in autobus poi, mi prese un morsegon de stomego.  

Quel pomeriggio, dovetti accompagnare nonna Angela dal dottor Scarpa, el dotor dea mutua, da tempo dedito a curare anima e corpo degli abitanti dei paeassoni e dintorni. Approfittai per riferirgli dello strano mal di stomaco. “Cossa gà me nevodo; me par de aver capio, farfae dentro el stomego? Xé ea prima che sento”; nonna Angela era parecchio sorda, per cui, el dotor, dovette quasi gridare; “Angea, to nevodo xè gà vantà na bea incocaìa par ‘na cocca!”  

Con la diagnosi del luminare in tasca; vista la mia inguaribile timidezza, non mi restava che pensare a come fare per incontrarla “casualmente”, nel senso che non doveva sembrare fatto apposta; per questo mi venne in mente cercare in qualche maniera di imbucarmi ai festini buei di quel rotto in cueo di Berardo.  

Non fu necessario perché, alla fine, il destino o fortuna che fossero, mi diedero una mano. Galeotti furono “I giardini segreti di Venezia”.  

Misteriosamente, sentivo che dovevo assistere a quella conferenza; non era solo la mia innata passione per i giardini ad attirarmi; rimasi un bel po’ a fissare quella vecchia panchina di legno sotto un maestoso albero secolare, ritratta nella foto della locandina; volevo assolutamente scoprire dove si trovava; in qualche maniera, intuivo, che in quel posto sarebbe successo qualcosa.  

La sala era stracolma; stavo per rinunciare, possibile che a così tante persone interessassero i giardini segreti di Venezia?  

Riesci a capire se c’è posto?”; stetti immobile trattenendo il respiro, non avevo il coraggio di voltarmi; anche se non ci avevo mai parlato assieme, avevo memorizzato per bene il tono della sua voce. Dal cuore partì una raffica di mitra; la biondina dai lunghi capelli ricci, caramella in bocca, stava parlando proprio a me.  

Ne vuoi una?”; l’offerta di quella Galatina, per giunta la mia caramella preferita, scatenò una tempesta di una potenza inaudita, altro che farfalle, nel mio stomaco iniziarono a volare missili intercontinentali. A quel punto sarei entrato anche a costo di aggrapparmi a uno dei lampadari; come un falco mi fiondai su due posti liberi affiancati, non prima di aver pestato non so quanti piedi e mollato gomitate a destra e a manca.  

Piacere Agnese”; che vergogna, avevo la mano sudatissima; nonostante lì dentro facesse un caldo insopportabile, ero ancora con il piumino addosso, irrigidito come un baccalà, grondavo di sudore da tutti i pori. Lei invece si era già messa a suo agio; dalla borsa tirò fuori una bustina di velluto rosso piena di matite colorate.  

Però, i Faber; sei ricca! Io uso ancora i Giotto delle elementari”. 

 “Che mona!”; rispose, dandomi un leggero pugnetto sulla spalla. “Porca miseria, qua sta ingranando alla grande”, pensai.  

Agnese pareva ascoltare con attenzione; io pure cercavo di dare l’impressione di fare lo stesso, in realtà i miei pensieri erano altrove; la scanociavo con discrezione, non volevo far la figura del maniaco sessuale; poi, mi venne spontaneo chiederle dove, secondo lei, si trovasse il posto raffigurato nella locandina.  

Cosa fai domenica? Potremo andare a cercarlo”; di fronte a quella proposta, non sapevo se filare dritto in ambulatorio da Scarpa per farmi prescrivere qualche decina di scatole di calmanti oppure, al ponte de le maravegie da Fenz e, ordinare la più cara bottiglia di prosecco.  

Cosa faccio domenica? Da quasi vent’anni, ogni domenica, aspetto una come te”, volevo rispondere.  

Subito dopo pranzo; ebbe inizio quella che, rimarrà nei miei ricordi, come la domenica perfetta. Per primo, mi sciroppai un tot di gocce di Valium sottratto alla dotazione ansiolitica di mia madre; poi, doccia fuori ordinanza con abbondante uso di HugoBoss; infine, passai a concentrarmi attentamente sull’outfit da indossare. Decisi per i pantaloni grigi, lupetto nero e il cappotto nero lungo, quest’ultimo, era un po’ consunto a causa dell’intenso uso in discoteca, ma, l’insieme mi dava decisamente un’aria da intellettuale creativo; per completare l’opera, in tasca ci infilai pure un taccuino della Moleskine, comprato per l’occasione il giorno prima.  

L’appuntamento era alle 15.00 ai giardini Papadopoli. Vi giunsi con mezz’ora di anticipo; dovetti andare a prendere un caffè; il Valium mi aveva rincoglionito per bene.  

Avrei voluto la vedesse EnsoPenso; era vestita secondo il suo standard; cappotto beige a trequarti, minigonne e stivali con il tacco; uno schianto. La prima cosa che fece dopo avermi salutato mi lasciò inebetito; con la mano, mi sistemò dolcemente il bavero del cappotto; lo colsi come un gesto intimo, molto più forte di un bacio.  

Fu lei a condurre la ricerca del giardino segreto; e menomale, perché io, perso nel suo sguardo e nel suono della sua voce, ero talmente assorto da non rendermi conto di dove stessimo andando. Il mondo attorno a noi si dissolveva, le calli si intrecciavano come sogni, e la gente, i loro sguardi, i loro passi, erano solo un’eco lontana. Come accadde alla conferenza qualche giorno prima, continuavo a mollare gomitate e a pestare piedi, tanto che mi presi più di qualche “maedia de morti“. 

Decine di ponti, chilometri di calli, e giardini che non erano quelli che cercavamo, fecero da scenografia al racconto delle nostre giovani storie. Freneticamente, senza mai fermarci, ci descrivevamo a vicenda i luoghi ideali dove avremmo voluto vivere, dipingendo con le parole un futuro che forse, in fondo, ci apparteneva già. Credo che nessuno dei due avesse mai parlato così tanto in vita sua: eravamo come due fiumi in piena, incontenibili, travolgenti. 

Agnese, di tanto in tanto, si fermava a sistemarmi il cappotto con quella dolcezza che mi faceva vibrare il cuore. Era un gesto piccolo, quasi impercettibile, ma carico di un’intimità silenziosa che mi faceva desiderare di abbracciarla, di stringerla forte a me. Ma il tempo, il momento, sembravano ancora sospesi tra il sogno e la realtà. Troppo presto, o forse, me ne mancava semplicemente il coraggio. 

A son di parlare attraversammo per lungo tutta Venezia, fino ad arrivare ai giardini napoleonici di Castello. Il viso di Agnese, di colpo si illuminò. Pensai avesse finalmente trovato la panchina sotto l’albero secolare; invece, si ricordò che, nella calle a fianco dell’istituto nautico, c’era un bacarèto che faceva degli straordinari panzerotti; mi prese per mano e mi trascinò dentro. Si sedette sfinita, credo si fosse pentita di essersi messa stivaloni e minigonne: in effetti, non era l’abbigliamento adatto per quella scameada a Venezia.  

Approfittai di quel momento per attuare una mossa strategica; con la scusa di andare in bagno, feci sintonizzare la radio del bar su un emittente “seria” e poi telefonai in studio. Sapevo di trovare Riccardino, lo pregai di mandare in onda Let me in di Mike Francis, con una mia dedica ad Agnese; tornai a sedermi e aspettai con ansia il momento; “che mona!”, si fece una risata e non disse altro.  

Sul finire di quella “domenica perfetta”, ci sedemmo ad ammirare il tramonto su una panchina vicina all’imbarcadero di S. Elena. Il cielo si tingeva di sfumature dorate e rosate, riflettendosi sulla laguna come un quadro dipinto con pennellate d’emozione e il vento, portava con sé l’odore salmastro. 

Agnese fissava l’isola di San Servolo, i suoi occhi persi oltre l’orizzonte, come se lì, in quel punto esatto dove la laguna si fondeva col cielo, si celasse un pensiero segreto, un’ombra che le turbava il cuore. 

La osservavo ansioso, con il cuore che batteva come un tamburo impazzito, sentivo crescere dentro di me l’attesa di qualcosa di indefinito, ma potente. 

Poi, improvvisamente, come in un gesto naturale e inevitabile, la sua testa si posò sulla mia spalla. Mi irrigidii, quasi trattenendo il respiro, ma il calore del suo corpo e il profumo dei suoi capelli mi avvolsero come una dolce melodia. Feci scivolare la mano tra quei soffici boccoli dorati, lasciandomi cullare da quella vicinanza così intensa eppure fragile. 

Lei sospirò profondamente. Poi, con voce quasi tremante, mi chiese: 

Ma tu, riusciresti ad essere solo il mio migliore amico?” 

Il cuore mi si strinse. Ogni fibra del mio essere gridava la risposta che avrei voluto darle, ma alla fine le parole uscirono da sole, sincere e nude: 

Farei fatica, ma ci posso provare; non garantisco nulla.” 

Lei rise, quella risata dolce e leggera che amavo più di qualsiasi melodia. Fu in quel momento che, mentre affettuosamente, giocavo a stiracchiare i suoi ricci, condivise una cosa che, era a metà via tra un peso e un segreto. Con gran fatica, mi parlò delle sue inclinazioni sessuali; di un amore che non poteva essere quello che io speravo. 

Sulle prime sentii il mondo sgretolarsi sotto i miei piedi. Fu come un tradimento, un abbandono ancor prima di iniziare. Pensai; proprio a me doveva capitare. 

Ma poi, con occhi limpidi e sinceri, mi disse: 

Sei una persona speciale. Lo sento dentro e a te posso dire certe cose.” 

Fu allora che compresi. In un attimo passai dall’adolescenza alla maturità, come se quelle parole avessero spalancato una porta su una nuova consapevolezza. Mi resi conto che la mia responsabilità non era quella di conquistarla, ma di esserci per lei, di proteggerla, di custodire la sua fiducia come il tesoro più prezioso. E giurai a me stesso che sarei stato il suo migliore amico, per sempre. Che l’avrei difesa da tutto e da tutti. 

Ovviamente, non ci mettemmo insieme quel giorno, né mai. Eppure, io resterò per sempre innamorato di Agnese. Come ha detto qualcuno: “Ci sono amori che ci piombano addosso come una stella cadente; durano tutta la vita e la cambiano per sempre”. È per questo che ancora oggi il battito del mio cuore accelera ogni volta che arriva un suo messaggio, spesso è un invito a continuare a cercare insieme un certo posto. 

Camminiamo ancora per ore attraversando tutta Venezia, alla ricerca di quella vecchia panchina in legno sotto un maestoso albero secolare, ritratta nella foto della locandina di “I giardini segreti di Venezia”. Per quanto la cerchiamo, non l’abbiamo ancora trovata ma, in compenso, abbiamo scoperto, in fondamenta della Misericordia, una incantevole tea room con annessa libreria. Ed è lì che ci rifugiamo a parlare d’amore. Con lei posso sciogliere i nodi che mi affliggono, senza il timore di essere giudicato.  

Posso abbracciarla senza paura, passare la mano tra i suoi boccoli dorati e dirle che è bellissima, che è una gran figa, senza che pensi che ci sia un secondo fine. E mentre lei, con affetto, continua a sistemarmi i colletti delle camicie e dei cappotti, io mi sento libero. Libero di essere me stesso. Libero di piangere, senza vergogna, mentre lei sorride e, con quella dolcezza tutta sua, mi sussurra ancora: “che mona!” 

A ripensarci bene, il giorno di San Valentino, mi vengono in mente EnsoPenso, Agnese e … ancora Venditti 

Tutti gli amori che vivrò 
Avranno dentro un po’ di te 
Perché lo so dovunque andrai 
In ogni istante resterai … indimenticabileAntonello Venditti 

Indimenticabile … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

Ea Compagnia

C’era poco da fare, a noi quattro sfigati mancava il più importante degli ingredienti necessario per vivere appieno gli anni Ottanta: far parte di una compagnia. Ce ne stavamo lì, in una scassatissima radio, con un microfono ancora più scassato, a comunicare la nostra voglia di emergere… ma a chi, poi? Insomma, mentre gli altri vivevano la magia di quegli anni tra abbracci, risate e canzoni urlate a squarciagola, noi eravamo fuori onda. 

Quello degli anni ’80, era un vento di spensieratezza che soffiava leggero e coinvolgeva tutti. Erano un’epoca unica, quasi magica, che ha lasciato un’impronta indelebile nei ricordi di chi li ha vissuti. Per chi ha avuto la fortuna di esserci, erano anche gli anni delle “compagnie”: quei gruppi veri, tangibili, fatti di amici in carne e ossa, altro che i gruppi sui social. Erano tutte persone reali, palpabili… calma, non fraintendetemi. 

Nella nostra città, le più gettonate erano quelle de piassa Fero, veri e propri miti in cui molti sognavano di entrare, per il semplice motivo che erano ben fornite di “materia prima” di prima scelta. Riuscire a farne parte era come far tredici al Totocalcio. 

Per quelli di bocca buona, poi c’erano le più sboldre, come quea dea Cita di Marghera; roba per amanti del rutto libero per intenderci.  

Nel nostro quartiere imperava quella capitanata da Riccardo Beltrame; uno stronzo megagalattico, nelle grazie del nostro parroco don Gianni che, durante gli incontri del venerdì sera in patronato, si riempiva la bocca parlando di eguaglianza, fraternità e inclusione; mentre, entrare a far parte della sua compagnia era ben altra cosa. 

Il tipo era molto selettivo tanto che, per noi quattro e, per le ragazze che lui giudicava troppo “cattoliche” e timorate di Dio, sarebbe stato più facile ottenere la cittadinanza americana senza sapere una parola d’inglese. Ovviamente, per la gnocca, la porta era sempre aperta, comprese alcune compagne militanti in Lotta Continua che però erano munite di certe curve pericolose. 

Per noi, far parte di una compagnia era più che mai necessario, un bisogno primario come mangiare e dormire. Sì, perché negli anni Ottanta, senza una compagnia, eri praticamente un satellite alla deriva nello spazio dell’adolescenza. Ma, purtroppo, sembrava che, da quando avevamo acceso il trasmettitore, su noi di SolaRadio fosse scesa una sorta di maledizione sociale, quella del “voi no!” 

Eravamo “quelli fuori”, facevamo parte della casta degli esclusi: esclusi dalle compagnie, esclusi dalle feste, esclusi dalla camerata di quelli che contavano al campo scuola e persino dal banco dei tramezzini più buoni alla festa dei giovani in parrocchia.  

Allo scopo di trovare una spiegazione logica a tutto questo, continuavamo ad aggirarci come anime in pena nello sgangherato studio di SolaRadio, uno stanzino minuscolo foderato con i cartoni delle uova, nel quale ristagnava un odore di muffa che nemmeno un vento di bora a duecento chilometri all’ora riusciva a scacciare. 

Per trovare una risposta, comunque, bastava semplicemente guardarci. Sembravamo fatti con lo stampo: pantaloni “acqua alta” di un colore che non lo vedevi nemmeno addosso agli anziani in casa di riposo, idem per quei maglioni larghi che indossavamo. Capelli sui quali sembrava avesse nevicato da quanta forfora c’era, viso stravolto dall’acne che se avessimo fatto scoppiare tutti i brufoli ci avresti potuto condire una pasta. Non serviva aver letto i trattati di Freud e Jung per capire che eravamo, e ancora siamo, degli introversi senza alcuna speranza di reversibilità; era sufficiente osservare la nostra postura. La verità era che non sarebbe bastato neanche un abbonamento per dieci pellegrinaggi a Lourdes per renderci cool.  

Ohi fioi, versimo ‘na compagnia?” Paperoga buttò lì la proposta. Forse, nella nostra solitudine sociale, c’era un filo di speranza. 

Pochi giorni dopo, sotto mentite spoglie di un certo Rudy, decise di lanciare un annuncio epocale: 

Ciao gente! Se siete interessati a formare una nuova compagnia, ci troviamo domani pomeriggio alle sette davanti alla pasticceria della Cesarina!” 

Come a tutti noi, non gli interessava tanto fondare una compagnia per la gloria, la fratellanza o lo spirito di gruppo. No, il vero obiettivo era attirare qualche bella squinzia che potesse portare un po’ di “primavera” nel suo gelido deserto sentimentale. 

Al giorno e ora prefissata, munito di occhiali da sole anche se c’era un cielo grigio, il volpone fece finta di passare di lì per caso allo scopo di verificare se all’annuncio avesse risposto qualche bella squinzia. Noi tre, suoi compari di sventura, eravamo appostati a distanza, nascosti dietro un cespuglio come agenti segreti, ma senza la minima dignità. 

Faceva ridere osservare il nostro socio mentre si guardava intorno con aria speranzosa, scrutando ogni angolo della strada. Forse, pensava, sarebbe arrivata qualche Venere in jeans e maglietta, una musa che avrebbe trasformato la sua vita in una commedia romantica. Invece, come da copione, comparvero solo Berto Perdon detto “ipnotisaeo” per via dei suoi occhiali a fondo di bottiglia e Nicola Martin detto “manovea”, il perché ve lo lascio intuire. Due solitari moltoni in perenne batua.  

A quel punto, Paperoga fece quello che ogni grande leader farebbe: un cenno di pollice verso rivolto verso di noi, un gesto chiaro e inequivocabile. Noi, dal nostro nascondiglio, scoppiammo a ridere così forte che si sentiva su tutto il piazzale della chiesa. Era il suo modo per dire: Missione fallita, qui c’è da scappare. E mentre si dileguava con la nonchalance di un ladro beccato con le mani nella marmellata, capimmo una cosa: l’amico non sarebbe mai stato il leader di una compagnia, ma cavolo, sapeva come farci morire dal ridere. 

Per consolarci dal tentativo naufragato, ci rifugiammo in bar da Nane; alla fine comunque, una sorta di compagnia ce l’avevamo. Certo, i fioi del bar, non erano proprio coetanei ma, maestri di vita. A loro modo, dispensatori di perle di saggezza e aneddoti indelebili. Ce n’erano certi che, ogni volta che aprivano bocca, era un po’ come ascoltare un oracolo. 

“’Ste ‘tenti che ea fame fa brutti schersi”. A proposito di compagnie, Gianni Passarella, meglio conosciuto come Nane Passarea, con il tono solenne di chi stava rivelando un segreto universale, più di una volta ci aveva messo in guardia.  

All’inizio pensammo si riferisse alla necessità di mangiare, ma presto capimmo che parlava di un’altra fame. Quella che ti spinge a buttarti sulla prima donna che incontri solo per non restare solo. Se gli chiedevi di spiegarsi meglio, si limitava a indicare sé stesso con un gesto teatrale e un mezzo sospiro.  

Il tutto per confessare che era il classico morto de figa; un uomo che, aveva agito in preda a questa “fame” e ora ne pagava il prezzo, intrappolato in una vita di coppia non appagante. Di questa cosa, avrebbe dovuto farne tesoro EnsoPenso. 

Chi invece ascoltava certi “insegnanti” fin troppo era Paperoga. 

Un pomeriggio, entrammo proprio nel mentre Massimo Zoccarato stava deliziando i presenti con l’ultima delle sue avventure erotiche. I popcorn, come al cinema, non c’erano ma, andava bene lo stesso un bel tonno e cipolline accompagnato da una spuma. 

Ma ti, … ti fumi?” Il Maci stava facendo uno strano gesto con le dita della mano portata a fianco del suo naso. 

Memo Bottacin ci spiegò che l’illustre docente, stava erudendo i presenti su come chiedere a una donna se fosse disposta a fare un certo “lavoretto”. 

Notai che Paperoga seguiva attento come se stesse prendendo mentalmente degli appunti. 

Purtroppo, il giorno seguente avvenne quello che temevo. Durante l’ora di matematica, il troglodita, facendo lo stesso gesto con la mano, si rivolse all’avvenente Veroni; “Professoressa, … lei fuma?” 

Probabilmente quel gesto convenzionale e quella domanda erano di dominio pubblico; in classe scoppiò una risata fragorosa e il deficiente si beccò una nota sul registro. 

Alla fine, anche incidenti di percorso come questi, facevano parte del fascino di essere dei “follower” di certi personaggi. I “vecchi” del bar ci avevano adottati a modo loro, e noi li guardavamo con ammirazione (e un pizzico di paura). Era una compagnia strampalata, ma l’unica che ci aveva accolto. Cominciavamo a capire che il bar da Nane Sbérega era molto più di un locale: era un teatro, una scuola, e forse anche un piccolo circo. 

Inoltre, noi con la nostra piccolissima radio, avevamo qualcosa di unico, qualcosa che nessuna compagnia, nessun grande gruppo organizzato avrebbe mai potuto offrirci: la libertà di esprimerci liberamente nell’universo meraviglioso dell’etere. Esclusi, imperfetti, forse anche sfigati agli occhi del mondo, ma incredibilmente orgogliosi di ciò che eravamo. Quella radio era il nostro rifugio e il nostro megafono, un luogo dove potevamo sparare tutte le cazzate che volevamo e, non era cosa da poco. 

E poi, col tempo, quella compagnia che tanto ci mancava, proprio come voleva fare Paperoga, l’abbiamo costruita con le nostre mani. Sì, perché quella scassatissima emittente che avevamo fondato è diventata molto più di un semplice esperimento: si è trasformata in un rifugio, un punto di incontro per altri esclusi come noi. Anime erranti in cerca di un posto nel mondo, desiderose di far sentire la propria voce, di esistere agli occhi degli altri, proprio come lo eravamo noi. La nostra radio non era soltanto un progetto: era un simbolo di riscatto, una casa per chi si sentiva fuori posto, costruita con le onde dell’etere e il battito dei cuori.  

Non ci importa tanto di non arrivare da nessuna parte quanto di non avere compagnia durante il tragitto. Anna Frank 

Gli anni più belli … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo