Sono convinto che la vera scintilla che ha dato vita alle radio private non sia stata tanto la passione per l’informazione o la musica d’avanguardia, ma il bisogno primordiale de butar el sardon, come lo definiamo noi in dialetto, ovvero quello di lanciare un’esca sottile per accendere un’attrazione, un incontro. Altro che informazione locale o musica innovativa: il vero obiettivo delle radio libere era far battere i cuori e accorciare le distanze. Far sì che chi si osservava da lontano trovasse finalmente il coraggio di avvicinarsi.
Ci ho pensato l’altro giorno mentre, con il cuore colmo di ricordi e attese, passeggiavo solitario e malinconico per le viette. Mi sembrava quasi di vederla apparire all’improvviso, come un miraggio tra la nebbia autunnale, pronta a ridare una direzione alla mia vita.
Le viette non sono altro che un reticolato di stradine asfaltate alla meno peggio dove, fin dai primordi dell’esistenza umana, vennero edificate, sempre alla meno peggio, delle casette.
Visto che gli abitanti delle casette erano, per la maggior parte, operai di Porto Marghera, venne costruita quasi subito, la sezione del P.C.I. e, solo dopo, quando il clero si accorse che era necessario contrastare l’avanzata comunista, furono costruiti chiesa e patronato.
Alla fine degli anni Sessanta, come ciliegina sulla torta, arrivò la vera opera d’arte urbanistica: il quartiere dei paeassoni. Doveva servire a dare alloggio ai “migliori” disadattati della città, una specie di riserva naturale per le personalità più bizzarre e meno adattabili della popolazione.
Visto che i comunisti e i preti con relativi democristiani al seguito, c’erano già ma non un luogo dove potevano insultarsi a vicenda e sputarsi negli occhi, i progettisti dei paeassoni inserirono nel masterplan un bar. Praticamente, fu prima costruito il bar di Nane Sbérega e poi tutt’attorno i paeassoni. E non avevano torto: nel corso degli anni, in quel bar è volato di tutto. Sedie, boccali di birra, bottiglie, perfino la tavoletta del water — e tutto per le più nobili ragioni, ovviamente. Ma sorprendentemente, non per questioni politiche o religiose. No, no! In un mondo dove comunisti e democristiani avrebbero potuto scatenare guerre intestine, le vere scintille si accendevano per due cose: sport e donne. Ho vissuto in prima persona una sorta di “compromesso storico” molto particolare, dove comunisti e democristiani riuscivano a mettere da parte ogni ostilità, uniti da una fede che superava ogni ideologia politica: quella per il Milan. Era quasi poetico vedere questi acerrimi nemici che, invece di scannarsi su riforme e ideali, si ritrovavano fianco a fianco per mandare in cueodesamare altri democristiani e comunisti, uniti però dalla fede per l’Inter.
Per quelli dei paeassoni, noi abitanti delle viette eravamo una specie di aristocrazia locale. Loro non capivano, però, che anche tra noi c’erano delle distinzioni. In pratica, nelle viette esistevano due caste: i poareti, che vivevano in casette di un solo piano, e i siori, padroni di villette a due piani.
Le case dei poareti erano costruite senza fondamenta, giusto appoggiate lì, come un mazzo di carte dopo una partita. E nel tentativo di risparmiare anche sull’aria che respiravano, il giardino diventava un orto che sembrava uscito da un film post-apocalittico: ortaggi ovunque e, immancabile, la vecchia vasca da bagno arrugginita a far da cisterna per l’acqua piovana. Ah, perché non si poteva mica sprecare soldi con la bolletta!
Dall’altra parte c’erano i siori, e loro non si facevano mancare nulla: due piani, magari con taverna e mansarda, e intorno un giardino che sembrava disegnato dal mitico Capability Brown, il più famoso architetto paesaggista inglese. La loro casa era dipinta con i colori più brillanti. I poareti, invece, lasciavano spesso le pareti in grigio intonaco, al massimo trovavi qualche spruzzata di verde muffa sul lato a nord.
Io abitavo in una di quelle casette a un piano, figlio di Marietto, tornitore alla Montedison. Vera invece, abitava in una di quelle villette a due piani più mansarda, figlia di Franco caporeparto alla stessa fabbrica.
Mi innamorai di Vera quando avevo appena nove anni. È stata un’emozione che mi ha colto all’improvviso, non riuscivo quasi a spiegarmela.
I catechisti ci avevano praticamente obbligato a partecipare a una rappresentazione natalizia in parrocchia. Vera doveva interpretare Maria, il ruolo principale. Io, invece, ero solo un pastorello, un ruolo secondario, come quelli che, alla fine, ho sempre avuto anche nella vita.
Non capivo cosa mi stesse accadendo, durante le prove non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Vera aveva quegli occhietti vivaci, pieni di una luce che mi faceva perdere la testa. Era come se ogni suo sguardo contenesse qualcosa di speciale che mi attirava irresistibilmente. E così, cercavo in tutti i modi di farmi notare, di strapparle un sorriso, facevo lo scemo, sperando che la mia goffaggine potesse catturare la sua attenzione.
Ci riuscii. Ricordo ancora quel primo sorriso, quasi timido, che lei mi regalò. Ricordo pure che mi volevano sbattere fuori dalla recita a causa del mio comportamento oltraggioso nei confronti della sacra rappresentazione.
Da quel momento nacque tra di noi qualcosa di straordinario, un sentimento semplice e puro, senza malizia, come solo i bambini sanno provare. Non ci furono mai parole o grandi gesti. Il nostro amore si nutriva di sguardi rubati, di occhiate che si incrociavano per un attimo prima di scivolare via, di un continuo gioco di rincorse silenziose. C’era tutta la purezza e la bellezza del primo amore, quello che resta impresso per sempre nel cuore.
Io ero un introverso incallito, talmente chiuso in me stesso che l’idea di fare il primo passo mi paralizzava. Non avrei mai potuto sopportare un suo rifiuto, era una possibilità che mi terrorizzava più di qualunque altra cosa. E così restavo in silenzio, bloccato dalla mia insicurezza, mentre Vera era sempre lì, a pochi passi, aspettava con infinita pazienza che io mi decidessi. La sua tattica era semplice, quasi invisibile: mi seguiva ovunque andassi. Non importava dove fossi, a scuola, in patronato o al campetto di pallacanestro, sapevo che da qualche parte ci sarebbero stati i suoi occhi attenti, presenti, pieni di speranza. Ma anche la sua pazienza, infinita com’era, aveva un limite.
Quella mattina di agosto del 1977, mentre mi stavo recando nel piazzale della chiesa a prendere il pullman per il campo estivo, me la trovai davanti all’improvviso. Era ferma sulla sua bici, i capelli spettinati dal vento, e gli occhi lucidi. Mi fissava in silenzio, e in quello sguardo c’era qualcosa che non riuscivo a capire. Io, impacciato e col cuore che mi batteva troppo forte, non seppi dire altro che un goffo: “Che c’è?”.
“Niente! Stupido!!” fu la sua risposta, una frase apparentemente semplice, ma che mi lasciò impietrito.
Rimasi lì, un attimo immobile, incapace di reagire e poi, come se nulla fosse, proseguii per la mia strada. Don Gianni e gli altri ragazzi mi stavano aspettando.
Solo una volta che il pullman si mise in marcia mi resi conto che quelle parole e quello sguardo, portavano con sé un mondo intero ed io ero stato incapace di interpretarne la profondità.
Capii solo in quel momento che dietro quel “niente” c’era tutto, c’era il peso di un amore che aspettava solo di essere riconosciuto, dichiarato apertamente. Era il suo modo, forse disperato, di farmi capire che il tempo dell’attesa era finito, i suoi occhi rossi erano la prova di quanto avesse sperato che facessi quel maledetto passo.
“Ti xé casso, ti xé mona, ti xé cojon …” mentre don Gianni, in piedi accanto all’autista, faceva recitare le preghiere affinché il viaggio andasse bene, io mentalmente stavo recitando le mie personali litanie.
A quei tempi non c’era nessuna possibilità di comunicazione in più, nella malga dove eravamo diretti, non c’era nemmeno il telefono. Per tutte le due settimane del campo riuscii a pensare solo che mi ero comportato da grande stronzo e all’enorme cazzata che avevo fatto. Avrei voluto sbattermi la testa su di una roccia; invece, optai per il materasso di crine della branda, era meno duro. Il solito che non fa mai le cose come dovrebbero esser fatte.
Ironia della sorte, il tema conduttore del camposcuola era “la decisione”. Il prete ci mise in mano un foglio ciclostilato e ci invitò ad andare nel bosco da soli a riflettere. In quel foglio, c’erano una serie di precise indicazioni sul modo per trovare la strada giusta e non finire in quella sbagliata che, avrebbe portato alla perdizione.
A parte che, tanto per cominciare, in mezzo a quella fitta boscaglia, la strada stavo per perderla seriamente. Fortunatamente, grazie ai particolari rumori che stavano facendo Riccardo Beltrame e quella tale Lara, una delle figlie della coppia di milanesi che avevano affittato la casetta di fronte alla nostra malga, riuscii ad orientarmi. Non fu facile trovare un posto dove isolarmi, poco più in là della coppietta intravidi Enzo Penzo che, dietro un cespuglio, stava facendo tutto da solo; che imbarazzo.
Non saprei dire quante migliaia di fogli il don abbia ciclostilato nel corso degli anni. Fatica sprecata e qualche albero in meno nelle foreste. Tanto, alla fine, ognuno faceva come gli pareva. A parte me, che mi aggrappavo a quella fede più per timore della punizione divina che per reale convinzione. Così, oltre all’amore terreno per Vera, smarrii il vero senso dell’amore divino, quello che avrebbe potuto dare speranza e senso alla vita, nascosto dietro una montagna di “non fare” e “non desiderare”.
Seduto sopra un masso, promisi al buon Dio che, dopo aver sistemato le cose con Vera, avrei pensato a tutto il resto, tipo lasciare i miei averi ai poveri, occuparmi dei bambini africani e non mandare più affanculo i miei genitori e mio fratello. Giusto per la cronaca; ancora oggi, chiedo al buon Dio di avere pazienza se continuo a procrastinare le buone azioni, in quanto la priorità è sempre quella di sistemare definitivamente le cose con una donna.
Quelle due settimane non passavano mai. Finalmente tornammo a casa e, dopo aver trangugiato, per farmi coraggio, una decina di ciliege sotto spirito, mi fiondai a suonare il campanello di quella villetta a due piani più mansarda. Purtroppo, ahimè sul campanello non c’era più l’etichetta e la casa aveva tutte le tapparelle abbassate. In preda al panico, tornai a casa per chiedere informazioni a mio padre, il quale mi riferì che sior Franco aveva fatto carriera ed era andato a fare il vicedirettore di un non ben precisato stabilimento nel sud Italia.
Oggi, per risolvere una faccenda del genere sarebbe sufficiente qualche indagine sui social. A quei tempi non avevo altra soluzione che buttarmi giù dal ponte della circonvallazione. Visto che me ne mancava il coraggio optai per un’overdose di pane con Nutella, con il risultato di peggiorare la mia acne. Presi anche l’abitudine che ho tutt’ora; girare tutto solo per le viette in attesa che il cielo mi fornisca una qualche soluzione per continuare a campare.
È da quei tempi, che sogno di veder apparire Vera all’improvviso da dietro l’angolo. L’unica roba che in passato spuntava era qualche gatto randagio o qualche pantegana che inseguiva il medesimo gatto randagio terrorizzato. Ora si è aggiunto qualche cretino in monopattino che tenta di tirarmi sotto.
Tornando a quei momenti, una nebbiosa domenica pomeriggio d’autunno, c’era un tale caigo che faceva ristagnare nell’aria un tanfo di brodaglia; in più, dalle casette usciva l’audio dei televisori sintonizzati su “Domenica In”. Quell’atmosfera rendeva ancora più malinconica la mia solitaria passeggiata per le viette. Ad amplificare quel senso di solitudine angosciante, ci pensò un tale con la radiolina attaccata all’orecchio intento ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto”. Le mie palle iniziarono ad appesantirsi e strisciare sull’asfalto.
Stavo per darmi una martellata sugli appena citati attributi e farla finita quando, passai accanto ad un ragazzo che stava trafficando con la sua auto. L’autoradio era accesa e sintonizzata su una di quelle nuove radio libere che stavano spuntando come funghi. “Per Ale da parte di Max che sta facendo il militare a Casarsa. Amore mi manchi tanto, pensami mentre ascolti la nostra canzone”, subito dopo partì “nell’aria” di Tozzi.
“Nell’aria c’è polline di te...” Una folata di eccitazione e buon umore mi attraversò il corpo, come se avesse colto il mio cuore di sorpresa. All’improvviso, l’idea mi folgorò: l’unica, seppur piccola, possibilità che avevo di ricongiungermi con Vera era quella di creare un canale, un ponte invisibile tra di noi, un mezzo per far risuonare la mia voce nella sua vita. Bastava mettere in piedi una di quelle radio.
Il mio passo aumentava, così come il battito del mio cuore. Avevo già in mente il nome, “Radio Vera” – semplice, diretto, il suo nome che vibrava nell’etere. Ma poi pensai che “VeraRadio” suonasse ancora meglio, come se il suo stesso nome racchiudesse un messaggio di verità, di autenticità. Ero elettrizzato dall’idea, come se ogni passo mi avvicinasse un po’ di più a lei, anche solo idealmente.
Ma mentre camminavo tra la nebbia, il suono dei miei passi mi portava a riflettere. Pensai a quanto la solitudine, quel dramma silenzioso che ci avvolge quando meno ce lo aspettiamo, possa essere lenita dalla radio. Quel suono caldo che arriva nelle case, nelle vite, e che riesce a farci sentire meno soli, anche solo per un attimo. Vera, la mia Vera, era ormai lontana, ma forse avrei potuto riempire quel vuoto, il mio e quello degli altri, con qualcosa di più grande.
Fu allora che il nome cambiò. Non più “Veraradio”, ma “SolaRadio”. Per chi, come me, aveva sentito il freddo della solitudine, e per chi cercava una compagnia, anche solo di una voce nell’aria. “SolaRadio. Solo radio e basta!”, inventai lì su due piedi, quel motto semplice, sincero, come il mio desiderio di riempire il silenzio con qualcosa che facesse sentire le persone meno sole. Come un abbraccio invisibile fatto di onde radio, sperando che, tra quelle persone ci fosse anche Vera ad ascoltarmi.
L’indomani pomeriggio, in una lurida mansarda al civico 69 dei paeassoni che, assomigliava al covo del mitico gruppo TNT, vennero da me convocati tre sfigati, amici d’infanzia. Tali Tiziano Scarpa detto Tito o anche Titomorti, Fabio Ballarin detto Paperoga ed Enzo Penzo detto EnsoPenso. Quello fu il primo “comitato di redazione” di SolaRadio e quello fu anche il giorno in cui nacque l’altro mio primo grande amore, quello per la radio.
E io, da quel giorno … vivo radiofonicamente per lei.
Mai ti è dato un desiderio senza che ti sia dato anche il potere di realizzarlo. Richard Bach
Chiamami ancora amore … ascolta il podcast
Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati!
Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO
© 2024 Michele Camillo