Fio dei Fiori – Parte I^
© 2009 – 2024 Michele Camillo
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Capitolo 4 – L’ultima fila
La vecchia scuola elementare “De Amicis”, insieme alla chiesa, alla canonica, all’asilo delle suore, al municipio e alla trattoria “Alla Pergola”, costituiva l’anima pulsante del mio paese. I vecchi raccontano che, oltre a questi edifici e a qualche dimora padronale, non c’era altro: tutt’intorno si stendeva solo un’immensa e piatta distesa di campi. Questa vastità, così sconfinata, permetteva di scorgere il viale alberato che conduceva alla chiesa da chilometri di distanza, come un nastro verde che si dipanava nell’orizzonte, unendo terra e cielo in un abbraccio senza tempo.
L’edificio era imponente e austero, circondato da un grande giardino dove, con qualsiasi tempo, centinaia di chiassosi bambini scorrazzavano felici. Progettato con cura, seguendo i canoni di un’architettura d’altri tempi, offriva ampi spazi e solidità. Non fu l’esplosione di una bomba a sconquassarlo, nonostante durante le due guerre qui piovessero come grandine. Fu, piuttosto, un’esplosione demografica a metterlo alla prova, un improvviso aumento di bambini per i quali servivano altrettante aule.
Fu così che una parte terminale del corridoio venne chiusa con una porta, e dentro ci ficcarono ben ventiquattro banchi, disposti in otto file da tre ciascuna. Il primo ottobre del ’72, tutto spaesato e timoroso, indossando per la prima volta, il grembiulino nero, il colletto bianco e il fiocco azzurro, varcai la soglia di quell’aula. Dentro, un silenzio che mi metteva ancora più a disagio: sembrava che tutti fossero lì a squadrarmi. Con lo sguardo abbassato, mi fiondai sugli unici banchi liberi, quelli in ultima fila. In quegli attimi di sconforto, senza alcun compagno di banco, mi sentivo un reietto. Poi, quasi contemporaneamente, sui due banchi vuoti presero posto Armando Zago, un ragazzino cicciottello dai capelli rossi, e Adriano Boer, mingherlino e già con gli occhiali, meglio conosciuto come “el fio dea bidea”.
Il ricordo più bello di quel giorno fu la visione della maestra, la dolcissima Laura Pasquon. Entrò in classe accompagnata dal direttore, il quale ci disse che anche per lei era il primo giorno di scuola. Io, lì per lì, non capii, perché fui immediatamente folgorato dai suoi occhi azzurri e dai lunghi capelli biondi; credo non arrivasse ai vent’anni. Avrei voluto prenderla per mano e portarmela subito a casa per sostituire la vecchia Bepina come mamma. Col senno di poi, dopo tante riflessioni, devo dire che lei è stata la prima donna di cui mi sono innamorato.
Inutile dire che quei due continuano a essere ancora miei compagni di banco, anzi, di bancone del bar; dopo più di quarant’anni, sono ancora qui, sempre pronti ad aiutarmi e a suggerirmi quale tipo di birra bere.
Se nel frattempo non vi siete annoiati (e vi capisco se lo avete fatto), comincerei a parlarvi di Armando e suo fratello.
Dovete sapere che, qui in campagna, abbiamo una lunga tradizione di affibbiare soprannomi. Un’abitudine nata forse a causa dei troppi cognomi uguali. I fratelli Armando e Giorgio Zago non fanno eccezione. Il loro soprannome, “i Bitol”, viene dalla loro sfrenata passione per la musica degli anni ’60, in particolare per i Beatles. Nello slang locale, Beatles diventa Bitol, con una pronuncia tutta nostra.
Il vero problema, però, è che i nostri Bitol non si limitavano ad ascoltare la musica: la suonavano anche! Armando era alla chitarra e Giorgio al basso. Con altri tre sfigati suonatori della domenica formavano un gruppo di cui, dalla disperazione, ho rimosso il nome. Sorvoliamo sul loro curriculum artistico: le loro tournée coprivano al massimo un raggio di cinque chilometri dal paese. Hanno calcato il palco di ben sei edizioni della sagra parrocchiale e tre della concorrente Festa dell’Unità.
Nel 1978, don Guerino gli affidò l’appalto per l’animazione della messa delle dieci. La gente del posto ribattezzò subito l’evento “ea messa bit” (per chi frequenta Oxford, si traduce “la messa beat”). Purtroppo, la loro avventura durò poco: un comitato inquisitorio composto da un gruppo di vecchie vedove bigotte e generose con la questua, riuscì a farli mettere al bando.
Indimenticabili erano i loro sound-check: duravano quattro volte tanto le esibizioni. I fischi che uscivano dalle casse acustiche stordivano noi poveri amici presenti alle prove fino al giorno dopo.
I Bitol riescono maldestramente a sopravvivere facendo i meccanici, gestiscono una specie di officina sperduta in mezzo al nulla, ricavata da una vecchia stalla, chiamata la “Testarossa”. Il nome ha un doppio significato: non solo richiama la leggendaria Ferrari, ma anche i loro capelli rossi fiammanti.
Qui dalle nostre parti, terra di capannoni abusivi e coltivazioni OGM, si è arricchita, più o meno legalmente, una sfilza enorme di generazioni; gente che non temeva Dio ma, la Guardia di Finanza sicuramente sì. Per la stirpe degli Zago, soprannominati i Semensa, niente da fare. Per secoli, hanno cercato invano di uscire da una condizione di arretratezza economica e sociale senza risultati. Non vi starò a citare tutte le loro innumerevoli imprese fallimentari nel tentativo di “far schei”; per ragioni di spazio ma, soprattutto per compassione verso i loro antenati; pensate solo che, quando furono inventati gli ascensori sociali, sul loro c’era sempre un cartello con scritto “Guasto”.
La loro “azienda” rispecchiava perfettamente tutto questo, una continua lotta contro la sfortuna e la mancanza di risorse. Guardando quell’officina, appariva chiaro a chiunque che i due stentavano a campare.
Lo spazio esterno è un mix tra l’interessante e il desolante. In bella vista c’è una Fiat 127, prima serie del ’76, verde pisello e un furgone Fiat 238 del ’74, ex “mezzo aziendale” dei Bitol, nostalgici dei bei tempi andati. Entrambi i veicoli sono diventati magazzini su ruote, pieni di vecchi pezzi d’auto ammassati alla rinfusa. Seguendo la filosofia contadina per cui “del porseo no’ se butta via niente” i Bitol conservano tutto, convinti che un giorno potrebbe servire.
Attorno ai veicoli, il caos regna sovrano: fusti, marmitte, portiere sparsi ovunque, spesso nascosti sotto un manto di erbacce che la giungla amazzonica, a confronto, ti sembra un giardino inglese. Mi vergogno a dirlo, ma finisco per gettare nella spazzatura i prodotti dell’orto che mi offrono con insistenza. Prendiamo l’acqua piovana per esempio: la raccolgono in fusti che chissà cosa contenevano prima.
Ah, e non dimentichiamoci dell’antifurto. Dopo la chiusura, attivano il sistema di sicurezza: Dik, un cane lupo con un pedigree incerto e un aspetto ancor più incerto, legato alla classica catena che scorre su un filo di ferro. Dik è un po’ come mio cognato Gino: sempre di cattivo umore, ringhia a chiunque e mangia tutto quello che trova, polpacci degli amici inclusi.
L’unico lato positivo è che l’officina funge anche da sala prove per i fantastici Bitol & soci. Situata in mezzo ai campi, le loro dolci note non disturbano nessuno. Forse solo porsei e gaine, ma a loro non importa.
Che dire poi del Sega? Lo chiamavamo così per due motivi: il suo aspetto fisico, magrolino e di bassa statura, e la sua abilità nel costruire di tutto, specialmente con il legno. A lui, come potete immaginare, quel nomignolo non è mai piaciuto. Sinistro come un gioco di parole che lo faceva sembrare uno che se lo mena tutto il giorno.
Di noi tre, è l’unico ad avere dei genitori di stampo moderno e non dei trogloditi campagnoli come quelli miei e del Bitol. Il papà Sergio faceva il custode alla SICE, una grossa fabbrica di mobili, dove ora lavora il Sega come responsabile della manutenzione macchinari. Fu lui a regalargli, quand’era piccolo, la scatola del traforo che scatenò la sua abilità. La mamma Marisa era bidella nella scuola elementare nonché ottima cuoca. Io e il Bitol continuiamo a darle scherzosamente la colpa di averci fatto crescere la pancia a forza di inviti a cena e pranzo.
Con una famiglia così, non sorprende che il Sega abbia sviluppato la sua passione e competenza nella lavorazione del legno e affini. La sua cameretta era un laboratorio in miniatura, pieno di utensili e materiali, dove passava ore a costruire modellini e oggetti vari.
Mio padre, non aveva una grande opinione dei genitori di Sega, li definiva spregiatamente dei “basabanchi democristiani” a causa della loro assidua frequentazione della chiesa. Non c’era da stupirsi lui, in genere, non aveva una grande opinione di nessuno, me compreso.
Sior Sergio, quarant’anni fa, era uno dei pochi in paese a possedere un’auto. Grazie a lui, abbiamo cominciato a scoprire un po’ di mondo, quello che si stendeva appena oltre i confini del nostro piccolo borgo. Ci portava in giro con la sua mitica 600 azzurrina, una scintilla di libertà che illuminava le nostre domeniche, altrimenti piatte e senza colore.
Anche Sega ha, come dico io, la musica nel cuore. All’età di sette anni ricevette in regalo dai suoi genitori un mangiadischi, che ancora oggi mi confida essere uno dei più bei regali ricevuti. Immediatamente condivise quella meraviglia con noi: il miracoloso strumento che faceva uscire suoni ingoiando un piccolo disco di vinile ebbe il potere di colorare tante giornate grigie, di metterci di buon umore quando eravamo giù di corda ma, soprattutto, di farci sognare. Lo portavamo con noi dappertutto e, all’ombra del figher accanto casa mia, iniziammo ad ascoltare le prime canzoni “da grandi”, ovvero i 45 giri che Sega si faceva prestare da sua cugina Franca. Così, in quell’angolo sperduto di campagna del basso Piave, risuonavano le note dei più famosi artisti in voga al momento. Quei momenti magici erano spesso interrotti bruscamente da un imbestialito Joani Nosea che, urlandoci contro, ci cacciava via in quanto gli davamo fastidio.
Sega si appassionò a tutto ciò che riproduceva un suono e, in seguito, iniziò a costruirsi personalmente casse acustiche e amplificatori per ottenere sempre più la perfezione nell’ascolto. La sua stanza, già un laboratorio di lavorazione del legno, divenne anche un tempio della musica. Ogni volta che entravamo lì, ci sembrava di entrare in un mondo nuovo, fatto di suoni cristallini e melodie affascinanti. Sega non si accontentava mai, sempre alla ricerca del suono perfetto, sperimentando e migliorando ogni dettaglio. Unico difetto è il suo fatalismo cronico, ogni volta che incappiamo nella malasorte è sempre pronto a dire “eo savevo mi”.
Un mistero rimane ancora il motivo per cui non abbia proseguito gli studi nonostante gli ottimi risultati alle superiori e l’incoraggiamento dei genitori.
Quello che sembra accumunarci davvero è una gran voglia di emergere e di riscatto. Nonostante gli anni siano passati, noi tre continuiamo a star seduti nell’ultima fila della vita, proprio come ai tempi della scuola. Ma forse, proprio come ai tempi della scuola, è in quest’ultima fila che troviamo la nostra vera forza, la nostra amicizia e il nostro spirito indomabile. E mentre ci sediamo al bancone del bar, scherziamo e sogniamo insieme, ci rendiamo conto che, nonostante tutto, abbiamo già vinto la nostra battaglia più importante: quella di rimanere uniti, sempre pronti a sostenerci l’un l’altro, qualsiasi cosa accada e, quel 18 giugno 2009, qualcosa stava per accadere.
Continua …..
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