El Bibo dea Cipressina

Condannato per omicidio con l’aggravante dei futili motivi”; probabilmente, se non mi fossi trattenuto, sarebbe quello che avreste letto sui giornali, ma, vi assicuro che, la voglia di scaraventare fuori dal treno, non appena fossimo entrati nella galleria degli Appennini, quella tipa che mi sedeva davanti, colpevole solo di avere addosso lo stesso profumo di Maria Vittoria Benzoni Savelli; era tanta. 

Prima ora del primo giorno di liceo; una folata di quel maledetto profumo riempì l’aula precedendo l’esordio in scena della nostra professoressa di lettere; tubino verde, scarpe bianco lucido con tacco dodici e, un fastidioso tintinnio provocato dalla ricca dotazione di gioielli. Alla bionda sembrava che gli occhi dovessero uscire, da un momento all’altro, dalle orbite; assomigliava, in tutto per tutto, a un personaggio politico in voga oggi. 

Non ricordo bene la formula matematica ma, il rapporto figa / stronza attribuito dalla commissione di maschietti che, da lì a poco, si sarebbe insediata; era bassissimo, intorno allo zero virgola qualcosa. 

Non mi serviva la sfera di cristallo, tanto immaginavo dove sarebbe andata a parare; dopo una rapida ma estremamente accurata, scansione di tutti i venticinque elementi della classe iniziò con l’appello-interrogatorio, gli interessavano sostanzialmente tre dati; cognome, nome e classe sociale. Si capiva che, avrebbe voluto andare direttamente al sodo chiedendo subito, ad ognuno di noi, informazioni sul lavoro del padre ma, alla codarda mancò il coraggio per cui, indagò prima sul luogo di residenza, altamente indicativo dello stato sociale. 

Quando, la numero uno, tale Andreatta Vania, toccandosi i bellissimi riccioli biondi, con voce sensuale, pronunciò “Rotonda Garibaldi” ovvero, i Parioli di Mestre, si innescò in me una incontrollabile reazione a catena chimico-ormonale; ma questa è un’altra storia. 

Fino a quel giorno, ero abituato ad avere in classe gente che proveniva, dal mio quartiere, in più, non ero particolarmente ferrato nella geografia locale. Il numero due, tale Bibolin Mauro, un ricciolino con la faccia da Bassethound bastonato; a domanda, con un filo di voce e scarsissimo entusiasmo, rispose; “Cipressina”. Mi fu subito simpatico, provai nei suoi confronti, una grande tenerezza mista allo stupore derivato dal non sapere dove cavolo si trovasse quel luogo. 

Io ero al diciassettesimo posto; per cui, visto come buttava, avevo tutto il tempo di prepararmi le risposte; da navigato speaker di una radio libera, ea sbatoea non mi mancava. 

Campalto dove?” 

il sarcasmo della Benz sembrava uscire anche dalle tette, tenute ovviamente bene in vista. 

C puntato, E puntato, P puntato; meglio conosciuto come Lido di Campalto; signora professoressa” 

Realizzai di essere praticamente già stato rimandato a settembre. L’illustre futuro avvocato Campesan, seduto a mio fianco, si mise istantaneamente la mano in tasca, non capivo se per toccarsi le palle o mettere al sicuro il portafoglio. 

Non era finita qui; dopo averci minacciato di incularci se facevamo assenze non causate da gravi malattie invalidanti, ci propinò subito un tema dall’originale titolo “mi presento”; in sostanza aveva bisogno, al solo fine di schedarci, di quante più informazioni possibili. Istintivamente girai lo sguardo in direzione del Bibolin; stava con gli occhi rivolti al soffitto a mo’ di imprecazione. 

Dopo due giorni, riecco la folata; tailleur nero, stivaloni sadomaso dello stesso colore; sbatté sulla cattedra il registro con sotto i nostri temi. Per un attimo mi squadrò, nella mia immaginazione mi vedevo steso per terra davanti la cattedra, mentre lei mi premeva la testa con il tacco dello stivale. 

Iniziò a recensire i lavori mentre, alcuni esimi colleghi, diedero vita a concerti per solo violino e lingua. Il tempo passava e, ancora non arrivava il mio turno né, tantomeno quello del Bibolin; brutto presentimento. Quando giunse alla fine del pacco si mise a sbuffare; con quelle lunghissime unghie laccate in maniera ineccepibile, prese a tamburellare sopra i due fogli protocollo rimasti; stette un attimo in silenzio, cercai conforto nello sguardo del Bibolin che però, prontamente, da sotto il banco, con la mano chiusa a pugno, fece l’inequivocabile gesto, chiaro preludio alle intenzioni della prof. 

– “Bibolin e … come cavolo si chiama questo. non ci siamo”. 

Il sospiro della Benz provocò un’altra tremenda zaffata di quel suo, chiamiamolo, profumo; gli occhi uscirono ancora più fuori dalle orbite; sembrava che un bottone della camicetta, quello posizionato sul davanzale, stesse per saltare da un momento all’altro; si tirò su le maniche per sistemare meglio quel mezzo kilo d’oro che aveva su ogni braccio, come se si preparasse per prenderci a sberle. 

“Fuori tema”, fu il verdetto; la masnada degli sviolinatori si girò verso di noi guardandoci con ghigno diabolico, in attesa di ordini superiori ed eseguire la sentenza ovvero; metterci alla gogna. 

– “A ciccio almeno l’ironia no’ te manca. Mò me devi spiegà ‘sta storia che parlicchi so ‘na fantomatica radio” 

Fui il primo al quale si rivolse in romanesco; l’avrebbe fatto ogni qualvolta intendeva sminuire qualcuno. “Parlicchiare su una fantomatica radio”; come fanno presto due parole sbattute la, dall’alto di una cattedra, a mandare in frantumi l’entusiasmo di un adolescente. Menomale che l’Andreatta mi lanciò un’occhiata complice che, mi tirò su il morale e, anche qualcos’altro. 

“Il Piave mormorò, non passa lo straniero!”; mi risuonò nella testa la famosa canzone; il nemico, ovvero la Benz, stava passando il limite; passai alla riscossa verbale. L’entusiasmo e la passione per la radio furono la mia arma letale; alla fine della mia arringa, in classe non volò una mosca; la campanella salvò la signora da un certo imbarazzo. 

“Ma che casso ti gà scritto?” 

Bibolin mi affiancò in corridoio, non aveva più la faccia da Bassethound bastonato, era alquanto divertito dalla situazione; ci scambiammo i fogli protocollo. 

In piazza Barche, i nostri autobus prendevano direzioni diametralmente opposte; era facile però intuire che, alla fine, ci avrebbero sbarcato sulla stessa identica realtà. Un posto ambito era il sedile dove un tempo stava il bigliettaio, in pelle, comodo, disponeva di un tavolino che, noi studenti sfruttavamo come banco autotrasportato per sistemare gli appunti e altre incombenze scolastiche; quel giorno ci stesi sopra il tema del Bibolin. 

Sono nato e abito alla Cipressina, detta anche Depressina, uno dei tanti quartieri dormitorio di Mestre ..”. Quartiere dormitorio, che strano termine; mi immaginavo palazzoni con camerate piene zeppe di letti a castello, un po’ come nella colonia dove d’estate, fin dalla tenera età di sei anni, mi spedivano i miei. 

Campetto da calcio, due bar, dove le bestemmie erano usate a mo’ di punteggiatura; la chiesa, dove vengono favoriti sempre i soliti seduti in primo banco. Per i giovani non c’era ‘sta grande offerta di attività; potevi giocare a basket sul campetto del patronato a patto che frequentassi l’incontro del venerdì; dove, un pretino sedeva a capotavola con a fianco, i suoi discepoli preferiti; l’insegnamento impartito era sempre quello; non trombare prima del matrimonio, nemmeno con la fantasia; non andare a far vasche in piazza o peggio, in discoteca. 

Fortuna che eravamo distanti di banco altrimenti, la Benz avrebbe montato su un impianto accusatorio non facilmente demolibile; i nostri due temi erano praticamente una fotocopia, stessi luoghi stesse persone ma, soprattutto stessa vena malinconico-ironica usata per descrivere la banalità. 

Tirate su da quel letto, che go da passar ea lucidatrice !!” 

Ormai non riuscivo più a sopportare il tono di voce di mia madre; ogni qualvolta doveva impormi qualcosa, mi fracassava i timpani; altra cosa che non sopportavo era la brusca interruzione di una fantasia erotica; il faro della vecchia Sangiorgio, illuminò a giorno la mia cameretta, mentre stavo per avere il mio primo rapporto sessuale completo con la Andreatta. Chissà se anche Bibo, ormai lo avevo già soprannominato tale, aveva una mamma così disgraziata; nel suo tema non c’era menzione alcuna della famiglia. 

Nel mio, l’argomento era stato volutamente relegato tra gli omissis; in primo luogo, perché non c’era niente di particolare da dire o, di che vantarmi anzi, me ne vergognavo; la gente comune non fa colpo, tanto vale non parlarne. La mia tesi fu avvalorata il giorno della lettura dei temi; era tutto un susseguirsi di padri avvocati o ingegneri. Mi immaginavo madri affettuose alle quali i padri avvocati o ingegneri avevano appena regalato la macchina nuova in quanto, la pelliccia di visone era già stata regalata l’anno prima e, dolcissimi nonni che facevano migliaia di chilometri per scendere giù dalle loro case al mare o in montagna e andare a trovare i nipoti ovviamente, portando con se una busta regalo, ben imbottita di bigliettoni da cinquantamila lire. 

Cosa dovevo dire di mio padre, che all’età di dieci anni fu preso da mio nonno a pedate nel culo e mandato a lavorare in mezzo ai campi; colpevole solo di avergli chiesto una bicicletta. Oh, certo, potevo raccontare che era giunto all’apice della carriera, ora aveva un tornio tutto suo e un “bocia” a cui insegnare, a suon di bestemmie e tangare sulla testa, il mestiere.  

Non credo facesse molta poesia, se raccontavo che se ne stava giorni interi in quel maledetto orto ad annaffiare le colture con l’acqua del putrido fosso ma che, almeno quello, gli faceva dimenticare le ciminiere di Porto Marghera. Che dire poi di mia madre, sfatta nel fisico e assente con la mente, passava tutto il giorno, come un automa a ripetere le stesse faccende domestiche, cantando a squarciagola le solite canzoni; unica distrazione alcuni fotoromanzi sgualciti che gli passava la parrucchiera, le rare volte che ci andava. Lasciamo perdere mio fratello; il vero uomo, tenuto su un piedestallo dai miei in quanto, già da tempo lavorava; unico e valido supporto al magro bilancio familiare; non come me che, magnavo schei a tradimento. Devo dire però che c’era, qualcosa in cui credere, una solida la fede che reggeva la mia famiglia, per noi uomini il Milan, per mia madre la Carrà. 

Non ho mai sopportato quelli che, come Maria Vittoria Benzoni Savelli, ancor prima di sapere come ti chiami, ti chiedono informazioni dettagliate riguardo la tua famiglia; e lei, probabilmente, non sopportava chi volontariamente o meno, ometteva di fornire queste informazioni per cui, qualsiasi altra cosa avessimo scritto era ovviamente, “fuori tema”. 

“No go capio, to pare xè ingegner, professor o avvocato? In cossa el xé laureà?”;  

El Bibo, non perse tempo per, come diciamo noi, tirarme in lengua

– “El xé laureà in tornitura de fin”; 

-“Ah, el mio invesse in saldatura col caneo”; 

-“E dove, l’esercita ea profession?”; 

-“El ga el studio a Marghera, al Breda”; 

-“Orpo, el mio la vissin; Vetrocoke Azotati! E to mare?”; 

-“Casa a batar strassa tutto el giorno”; 

-“Idem con patate”; 

-“Scolta, però, ea to’ radio ea fa un fià da cagar; a casa mia no ea ciapo”; 

-“Par forsa, el posto dove che ti abiti fa da cagar”; 

-“Senti chi parla, queo coi rubinetti de oro in casa” 

Consideravo un preciso impegno istituzionale, fare in modo che, in un quartiere sfigato come il nostro, si potesse ricevere Solaradio. Fracassai i maroni per settimane a sior Sergio, alla fine, il segnale, giunse chiaro e forte alla “Depressina”; al Bibo, comunque ‘sta cosa sembrava non fargli né caldo, né freddo.  

In quel periodo, alla sera io e Paperoga, ci alternavamo a condurre quello che era un classico delle prime radio libere; le dediche in diretta. Un nebbioso lunedì di fine ottobre, arrivò una telefonata indimenticabile: 

– “Pronto xè ea radio?” 

– “Si, chi parla?” 

-“’Sera maestro, so Umberto Cassador detto Berto, un barbier qua de Mestre” 

-“Bene, finalmente una telefonata dal centro città, vuole fare una dedica?” 

-“No, un annuncio, se el me parmette” 

-“Certo, dica pure” 

-“Steme a sentir, insomma, voria dir a tutti che ea mujer de Gino Visentin; … lo fa beco!!” 

-“Scusi ma ..” 

-“No, no ghe xè ma e no ghe xè se; maestro, so sicuro de queo che digo” 

“Come fa ad essere sicuro, ha le prove?” 

La cosa iniziava a divertirmi 

-“Ostia xè go e prove! Xo mi che me ea cia…” 

La telefonata di quel fantomatico Berto Cassador, durò quasi mezz’ora; iniziò a descrivere nei minimi particolari, i focosi incontri con la sua amante; non appena eccedeva con le oscenità o, accennava a frasi volgari; mi divertivo a censurarlo mandando della musica. Da quella sera, Berto Cassador, non mancò di continuare a telefonarci e ad allietarci con le sue storie “de done nue”. Dalle sere successive, fatalmente, iniziammo a ricevere anche le tristi telefonate di Gianni “Nane Sfiga” Berton, il cui motto era “ea vita xè un cesso sporco”, i comizi in diretta del compagno Piero “el Ce” Cecchinato, gli indimenticabili consigli per cuccare di Antonio “Tony Piassa Fero” Lovadina e, i commenti calcistici di Luigino “Ginetto in baeon” Passarin, opinionista ubriaco.  

C’era una cosa che accumunava questi personaggi, un tono di voce stranamente simile. Credo che, ancora oggi, a parte noi della radio, il grande pubblico ignorasse che, dietro a quei personaggi, ormai entrati nell’immaginario mitologico, si nascondeva el Bibo; un segreto che ci porteremo nella tomba. 

A parte questa sorta di collaborazione radiofonica, io e lui condividevamo ea poca voia de far ben a scuola e, ‘ndar in batua.  

A causa dei continui insuccessi nei due ambiti precedentemente menzionati, eravamo dediti al consumo, o meglio, abuso, di tramezzini e birrini, presso un popolare locale di via Mestrina. Non era cosa semplice, dovevamo faticare non poco a racimolare i soldi necessari per permetterci quella sorta di dipendenza. I nostri genitori, a differenza di molti altri, non ci davano la paghetta settimanale in quanto, adottavano il metodo self-service ovvero, ci dicevano “co te serve i schei totei” il che, sembrerebbe semplice ma, in realtà, quella frase sottintendeva che, per ogni biglietto da mille era necessaria una formale domanda in carta bollata nella quale, sotto giuramento, si dovevano elencare i validi e giustificati motivi del prelievo.  

L’evasione e il godereccio non erano contemplati, per cui, era necessario ricorrere a una sorta di elusione fiscale, mascherando le uscite relative a, pizzette, tramezzini, mozzarelle, Giambonetti, birrini, colini, gelatini e altre sostanze classificate alla stregua della droga; come spese per materiale scolastico; non era facile ma, bastava far ricadere la colpa sul quel cagacazzi ed esigente professore di turno che, ci faceva spender un sacco de schei per niente. 

C’era anche un’altra cosa che condividevo col Bibo la sbindolata megagalattica per quella ricciolina bionda che avevamo in classe. 

A differenza degli altri tre soci che avevo in radio, Bibo non faceva mistero delle sue passioni amorose. Con lui, tutto era trasparente: dai dischi che adorava alle emozioni che lo agitavano. Eppure, quando confessò di essersi invaghito della stessa ragazza che abitava i miei pensieri, rimasi spiazzato. Lui, il mio confidente, il mio alleato di battaglie quotidiane, si era infilato nella stessa guerra del cuore. 

Entrambi ci eravamo fatti dei film sulla tipa ma, a differenza dei miei, che erano roba da sale di dubbia moralità, i suoi erano dei lungometraggi romantici, capolavori da serata di gala. Insomma, il ragazzo puntava alto. 

Guardai il suo viso illuminato da una speranza che non avevo mai visto prima. Non potevo competere con tanta nobiltà d’animo. Io, il regista di film mentali al limite del legale, non avevo diritto di stare in quella corsa; per cui, decisi di ritirarmi dalla competizione. 

Ad un certo punto, in radio cominciammo a ricevere telefonate da un altro misterioso personaggio.  Un tale “innamorato fradicio” che usava dedicare ad una altrettanto misteriosa “Shirley Temple”, bellissime canzoni d’amore. Avrete sicuramente già capito chi erano i due. 

Diceva di vederla ormai dappertutto, seduta al suo fianco nella penombra del cinema Excelsior e poi, mentre salivano, mano nella mano, sulle scale mobili di Coin.  

Ho ancora bene impressa l’immagine di quello stronzo e gran rotto in culo del Narozzo che, sfoderando un sorriso da quarantacinque pollici, avanzava verso me e Bibo, stringendo con il braccio la spalla della Andreatta. Quel giorno, quando al Bibo il palco crollò, il tonfo fu veramente forte. Balbettava mentre con un falso sorriso di circostanza salutava la coppia. Seguì un buon quarto d’ora di silenzio durante il quale perdemmo l’orientamento dopodiché, emise un sospiro; 

“Se magnemo ‘na mossarea?” 

Ancora oggi faccio fatica a credere che il vero motivo per cui El Bibo, alla fine di quell’anno scolastico, abbandonò il liceo per approdare all’Istituto Tecnico; per giunta, in una classe popolata esclusivamente da maschi, non fosse il suo rendimento disastroso. No, quella fu solo la scusa ufficiale. La verità, nascosta tra i corridoi di quella scuola, era un’altra: quella fortissima delusione amorosa. 

Forse perché ormai eravamo legati da quel filo invisibile che solo certi amici possono tessere, decisi di seguirlo anch’io. Così, lasciai il liceo e mi unii a lui nel regno del Tecnico. Alla fine, i nostri genitori vinsero la loro battaglia. In fondo, per loro, era scritto nel destino: i figli degli operai, se proprio va bene, possono aspirare al massimo a diventare capi squadra. Inoltre, c’era la questione dei soldi. Il liceo richiedeva tempo, troppo tempo, prima che potessimo iniziare a portare a casa i tanto agognati schei

E così è stato, i schei ora li abbiamo. Il problema è che, ad entrambi, sembra ancora mancare qualcosa di più importante. 

Tralasciamo per il momento i miei vuoti da colmare, riguardo i quali, scriverò un libro a parte e, torniamo al Bibo. In tutti questi anni non si è mai tolto dalla testa, o meglio, dal cuore, Vania Andreatta. 

Nonostante ci tenga ad apparire come un uomo sentimentalmente appagato, a me l’ha detto chiaramente. Credo anche di non essere il solo a saperlo o, perlomeno a sospettare qualcosa. Sicuramente tra questi c’è l’Agenzia delle Entrate che, si starà chiedendo perché un tipo come il Bibo, che non soffre di particolari e documentate patologie, porta in detrazione centinaia di scontrini di una particolare farmacia; quella dove lavora Vania Andreatta. 

È vero, è sempre stato un ipocondriaco cronico, ma io so che gran parte delle medicine, degli integratori e di altre cianfrusaglie acquistate nella farmacia di Vania sono solo un pretesto. Una scusa per incrociare ancora il suo sguardo. 

Mi è facile capire quando riceve un suo messaggio, è per lui un piccolo terremoto emotivo. Sussulta, sorride, e in quegli istanti si trasforma nel ragazzo di quarant’anni fa, ancora innamorato perso di quella ricciolina bionda. Giuro che non ho mai visto uno che sprizza di felicità alla vista di un messaggio che gli notifica la disponibilità dell’unguento per le emorroidi. 

Ancora oggi, dopo decenni, “l’innamorato fradicio”, con la sua voce che arriva come una carezza malinconica, velata di speranza, quella speranza tenace che solo i cuori romantici sanno coltivare. Dedica canzoni d’amore struggenti alla misteriosa “Shirley Temple”. Per El Bibo, quel sentimento nascosto rimarrà sempre lì, sospeso, come un vecchio disco che, ogni volta che lo rimetti su, suona sempre le stesse note: dolci, immutabili, perfette. 

Ho chiesto al Bibo un sacco di volte, di venir a parlare in radio, ma lui ha sempre declinato l’offerta dicendo che preferiva rimanere un semplice ascoltatore. 

Definirlo un semplice ascoltatore è un eufemismo. Non è mai stato un ascoltatore qualunque ma, il più fedele, il più vero, il più umano. L’amico che non ha mai smesso di sintonizzarsi, che mi ha aperto il cuore con la disarmante sincerità di chi non teme più il giudizio. 

È lui che mi parla senza vergogna delle sue paure, delle fragilità che porta con sé come fossero foglietti spiegazzati in tasca, pieni di appunti sparsi di una vita vissuta a metà. Una vita che, mi confessa, non è quella che avrebbe voluto, incanalata da scelte fatte solo per paura. 

È lui che, per mettermi in guardia, mi cita spesso una frase di Pirandello “nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Con me non ha bisogno di maschere, e io lo ascolto come si ascolta una vecchia canzone che conosci a memoria ma che, ogni volta, riesce a emozionarti. 

È lui che mi ha insegnato che per essere un bravo uomo di radio, non basta saper parlare. Bisogna saper ascoltare. Saper interpretare quelle parole fra le righe che ti fanno decifrare quel messaggio che il tuo ascoltatore vuole lanciarti. Ascoltare le sue canzoni scelte con timidezza, i silenzi che raccontano più delle parole, le vite che si intrecciano sulle onde radio. 

Mi ha insegnato che puoi lasciare un segno nella vita degli altri anche come semplice ascoltatore. Perché finché c’è una voce che chiama e un cuore che risponde, anche tra mille interferenze, resta aperto un canale. E finché c’è un canale aperto, c’è speranza per qualcuno che cerca risposte, cerca compagnia. Una voce che gli dica: “ti ho sentito”, e io sono lì per questo.  

È per questo che, ogni notte, da anni, sto con il microfono acceso e il cuore attento ad ascoltare, come una vecchia canzone che non smette mai di commuovere, la storia di qualcuno che, in fin dei conti, è anche la mia.  

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo