No’ me ‘scolta nissuni

Tratto dalla raccolta Piccole storie di piccole Radio

© 2023 Michele Camillo

Parlare è un bisogno. Ascoltare un’arte. Goethe

Mi presentai in prima media, unico fra tutti, con la cartella delle elementari; era praticamente nuova, appena cinque anni di vita. Mio padre, non ne voleva sapere di spendere soldi per inutili dotazioni scolastiche, tanto, altri tre anni e sarei finito in stabiimento a Porto Marghera; a quel tempo, gli ascensori sociali erano rari e, per giunta, malfunzionanti. 

A causa del mio outfit leggermente vintage, mi guardavano tutti come se fossi un marziano. Ero distinguibile soprattutto per i pantaloni acqua alta de gabarden, acquisiti da mio fratello al quale, a sua volta, glieli aveva passati il cugino Gaspare; roba antica, risalente agli inizi dei ‘60.

La cosa era reciproca, perché a me, invece, sembrava di essere atterrato su Marte. Quell’anno partiva il progetto interdisciplinarità; tutto il corpo insegnanti era preso da ‘sta roba, in primis il prof di disegno, tale Giovanni Memola. Parevano tutti matti; un giorno, nell’ora di matematica, trovai quello di applicazioni tecniche che recitava una poesia di Pascoli in francese; che casino, mi veniva da piangere, rivolevo la maestra delle elementari. 

El progetton aveva un lato positivo; consisteva nella creazione di gruppi interclasse dove ficcavano dentro quelli di prima, seconda e terza; un bel bordello che mi gustava parecchio. Per essere più precisi, mi gustava la Consuelo della III^ C, una in gran salute. Rispetto alle mie coetanee, aveva tutte le sue cose ben sviluppate e, sapeva metterle bene in mostra; unico difetto, non frequentava ea ceseta ma, si sa, gnocca e cattolicesimo non sono mai stati affini.

Un giorno venimmo convocati in aula magna, ovvero l’aula di disegno che, il sopracitato illustre cattedratico, aveva abusivamente adibito a tale scopo. Probabilmente la preside aveva notato la scritta con il gessetto, sul muretto a fianco del cancello di ingresso, “l’a Consuello e tetona”

Ritto sull’attenti, a fianco del Memola c’era quello spilungone di Giovanni “Nane” Lanza di 3^ C. Che imbecilli, avevano preso la persona sbagliata; quel secchione paraculo, non poteva essere l’autore della frase; era stato sicuramente uno che non andava molto bene in itagliano come, ad esempio puramente indicativo, il sottoscritto.

Fortunatamente si trattava di una simil conferenza stampa, atta ad esaltare lui e altri fidi discepoli del prof. La cosa sensazionale consisteva nel fatto che erano stati invitati a parlare del progetton, nientepopodimeno che in un programma radiofonico.

Scusa mister, fame capir mejo”. Era assai raro che il vecchio Ginetto Franchin, ripetente di lungo corso, ponesse delle domande, in genere dormiva per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico. In effetti, nel resoconto del saccente c’era qualcosa che non tornava. Dichiarò che la famigerata radio era situata in una specie di bottega al piano terra di un palazzone popolare, situato a sua volta in un quartiere di ben nota fama. Al Franchin, uomo di mondo, non risultava che la RAI avesse sede nel posto descritto dal Lanza. 

Quello di disegno, si affrettò a precisare che la radio dove avevano messo piede lo spilungone e soci era una radio libera.

Ah, aeora so bon anca mi de ‘ndar a parlar par radio”, sentenziò il Ginetto rimettendosi a dormire.

Fu in quel momento che, inspiegabilmente, mi si accese una spia sul cruscotto che avevo in testa; tornai da scuola con un pensiero fisso, riuscire a ricevere quella strana radio.

In casa, il nostro apparecchio principale era una gigantesca radio a valvole. Da quella specie di armadio, non avevo mai sentito partorire nulla di diverso dai programmi istituzionali della RAI; unico outsider, “musica per voi” di Radio Capodistria. Sulla scala luminosa, c’erano nomi strani tipo Monte Ceneri o, nomi di città situate dall’altra parte del globo; di Mestre e, tantomeno Marghera, nessuna traccia.

Erce! Moighea de tochignar!”; mio padre, si spazientì. Era sabato e, aveva il timore che, a causa del mio continuo smanettare, l’indomani non sarebbe riuscito ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto”.

Mi rifugiai in cameretta; dove, tra i due letti, era posizionata una più moderna radio a transistor, fino a quel momento, relegata al ruolo di sorella minore, rispetto a quella installata in soggiorno. 

Notai le minuscole scritte; “UKW – 87,5 … 100 … 108 MHz”; mi accorsi che la piccola radio marron, aveva una marcia in più, rispetto alla sorellona.

Nell’attimo in cui lo premetti il tasto UKW, sentii un tale Olindo, parlare al telefono in dialetto, con un tizio che chiedeva se “te me pui metar su Ramaya par ea Rosana de Vigodarsere”. Stupefacente, mi si aprì un mondo, in quel momento passai il confine delle onde medie e non ci feci più ritorno.

Nei minuti successivi fu un incessante andirivieni tra gli 88 e i 108 Megahertz alla scoperta di quella nuova terra promessa. 

Oltre al fatto che ci voleva quasi un quarto d’ora prima che iniziasse a emettere un suono, il vecchio armaron a valvole e le sue, altrettanto vecchie onde medie, non offrivano una grande varietà di scelta in ambito musicale; li, a dettar legge, c’era Lelio Luttazzi e la sua hit parade. La piccola radio marron al contrario sembrava un jukebox; si rivelò presto uno scrigno contenente nuovi orizzonti musicali e, l’andare su è giù per la banda FM, diventò uno dei miei passatempi preferiti, nonché valvola di sfogo. 

La Michael Zager Band con Let’s all chant, rischiò di farmi diventare mezzo sordo; mentre, Jane Birkin con Je t’aime moi non plus, … mezzo cieco. 

Nessuno dei fioi dea vietta, credeva alla storia della radio sui paeassoni di Marghera. “Cori, cori, va in mona”; Giorgio Bortolozzo, il decano della compagnia, pensava stessi prendendo tutti per il culo. Gli unici interessati alla faccenda erano i miei fidi compagni di merende Tito Carniato e Bicio Busatto; frequentavano la sezione staccata, seppur all’oscuro riguardo l’interdisciplinarietà e cazzate varie, gli era arrivato all’orecchio che uno di terza della sede centrale era stato ospite in una fantomatica trasmissione radio. Dopo averli portati al cospetto dell’illustrissimo Lanza, decisero che era il caso di andare in missione esplorativa. 

Il giorno fissato, i due soci, visto il quartiere nel quale dovevamo recarci, “par no’ saver ne esar e ne scrivar”, come si dice da noi, si presentarono armati. Tito si era procurato un pesante caenasso, che ufficialmente serviva per legare le bici, mentre Bicio aveva con sé la sua fida Oklahoma ad aria compressa e, una scatola zeppa di pallini in gomma; in effetti, il solo pensare di metter piedi, anzi, le ruote delle biciclette, alla CITA, ci faceva tremare il culo non poco.

Grazie alle indicazioni del Lanza, trovammo quasi subito il posto; due vetrine oscurate da tende nere, sembrava una rivendita di casse da morto. Che era la sede della radio, lo capivi solo dall’etichetta appiccicata sul minuscolo campanello; probabilmente, considerato il luogo dove si trovava, era necessario mimetizzarla per bene.

Ragazzi, desiderate …”; improvvisamente si materializzò uno smilzo riccioluto. Fortunatamente, d’istinto mi uscirono le parole Memola e interdisciplinarità e, in una frazione di secondo, fummo fuori dalla situazione di imbarazzo in cui ci eravamo cacciati, guadagnando istantaneamente l’accredito per un tour guidato, nella bottega che nascondeva una radio libera.

Se, come ho detto, l’arrivo alle medie, poteva paragonarsi a un atterraggio su Marte, quella radio, era l’astronave che mi ci aveva trasportato. L’insieme di aggeggi che servivano a “fare radio”, pieni di luci e levette, faceva sembrare quella stanzetta semibuia, la plancia di un’astronave. Quello che la rendeva ancora più affascinante era che, ai comandi, c’era una persona sola; un solitario cosmonauta identico a Angelo Branduardi.

Una volta, in televisione, mostrarono lo studio dal quale andava in onda “alto gradimento”; la regia sembrava la sala di controllo di Cape Canaveral, si vedeva uno stuolo di camici bianchi intendi a spingere bottoni e menar leve. Renzo Arbore citava sempre “quelli dietro il vetro”, riferendosi ai tecnici in regia; sarà che era la radio dei paeassoni de Marghera ma li, dietro il vetro, non c’era nessuno; anzi, non c’era nemmeno il vetro. Era tutto racchiuso in un’unica, buffa stanza, ricoperta da quelli che sembravano cartoni per le uova. 

Il cugino di Branduardi ci invitò a dire qualcosa; noi, facce rosse e scena muta. Ci chiese se volevamo fare delle dediche; noi, facce rosse, scena muta e tre teste che, in perfetta sincronia, facevano no. Parlò lui per noi, ci presentò come tre giovani sognatori desiderosi di cimentarsi nella meravigliosa avventura di fare radio. Ci guardammo con l’espressione della serie, “se lo dice lui”.

Alla fine di quella che, ancora non sapevamo, essere la nostra prima esperienza radiofonica, tornammo a casa con le tasche piene di adesivi e, … di sogni; il tipo, in effetti, ci aveva azzeccato; da quel giorno, prese forma la passione di una vita.

Non appena arrivai a casa tirai fuori il pacco di adesivi; ne appiccicai subito uno a fianco della spilla gialla “nucleare no grazie”; l’insieme rendeva ancora più figa la tracolla verde militare che, grazie alla generosità del cugino Roberto, aveva sostituito la cartella delle elementari; poi, con mano tremolante, feci il numero della radio; 

  • volevo dedicare m’innamorai del Giardino dei Semplici”;
  • “a chi?”
  • “ah si, a Consuelo”
  • “da parte di chi?”
  • “ah giusto, … mmm … da parte … del sognatore mascherato

Visto che ci sono, ne approfitto per dire, alle varie Consuelo, Valeria, Paola, Eleonora, Roberta, Manuela, Silvia, ecc. che, se non l’avevano già capito, il “sognatore mascherato”, ero io.

Io e i miei coetanei, eravamo assai precoci e, già a quel tempo, coltivavamo interessi tipici degli adulti. Mentre la maggior parte, non faccio nomi, erano dediti alla lettura di “le ore”; alcuni, si erano abbonati a ben altre tipologie di riviste. Nel numero di dicembre 1977 di Elettronica Pratica, campeggiava la scritta “nuovo e potente trasmettitore FM”. Si accese la miccia, nei primi giorni del 1978, l’aggeggio era ben che costruito e inscatolato dentro un portasapone giallo.

Il giorno della “prima”, l’adrenalina era a mille; venni incaricato del “controllo di qualità” ovvero, capire se, l’aggeggio funzionava ma, soprattutto, che distanza riusciva a coprire. Per adempiere alla missione, fissai con del fil di ferro al manubrio della mia fida Atala color verde evidenziatore, la mitica radio marron, dotata per l’occasione di sei Superpila nuove di zecca.

Sa, sa, sa … prove tecniche di trasmissione”; indimenticabile quel momento, sembrò un miracolo sentire la voce tremolante di Bicio, uscire dalla mia piccola radio marron, quella stessa radio dalla quale, poche ore prima, era uscita la voce di Renzo Arbore. Tito uscì fuori tutto eccitato, si divertiva a scuotere l’antenna fissata su una canna di bambù. L’avevo visto far tiri del genere, due mesi prima, quando la Betty della 1^ F gli fece intendere che, ea ghe stava.

Meti su qualcossa che parto” gli gridai mentre salii in sella; iniziai a pedalare con le prime note di don’t go breaking my heart. Purtroppo, dopo poche centinaia di metri Elton John & Kiki Dee, si fecero flebili fino a svanire definitivamente. Non era importante; ora avevamo la nostra radio libera, la meravigliosa avventura era iniziata. 

Gasatissimo; spinsi a tutta forza la fida Atala in direzione di casa; i miei, dovevano assolutamente sapere che avevano il figlio minore mezzo Guglielmo Marconi e mezzo Renzo Arbore.

Ah si ciò, e chi vusto che te ‘scolta”; sentenziò quello col master in psicologia dell’età evolutiva, ovvero mio padre.

Quella sera non cenai; passai tre buone ore, disteso a letto con le mani dietro la nuca, prima di addormentarmi. Mio padre aveva ragione; non bastavano un trasmettitore, un’antenna e un microfono; dovevi avere anche qualcosa da dire; una qualche idea su come condurre un programma. Persino quel boarotto di Olindo che trasmetteva sui 94Mhz aveva un buon numero di ascoltatori seppure, si esprimesse, con un linguaggio, per usare un eufemismo, un po’ country.

Quel comunista mangia bambini di mio zio Bruno, diceva che a differenza della dittatura, dove non puoi parlare, in uno stato democratico come l’Italia, puoi parlare ma, non ti ascoltano. In effetti quello dell’ascolto in genere, è sempre stato, per me, specie in famiglia, un grosso problema. 

Non mi rassegnavo a credere che l’entusiasmo del pomeriggio precedente fosse solamente un fuoco di paglia; decisi di chiedere una consulenza, proprio allo zio Bruno. 

Rispetto a mio padre, il feedback fu completamente diverso; a parte il fatto che la cosa venne festeggiata con un bicchierino di alcol e tossicissimo E123, commercialmente noto come Rosso Antico. Il compagno zio Bruno mi riferì che i romagnoli della sezione “Karl Marx”, tra parentesi, i più cattivi e convinti compagni esistenti sul territorio italiano, avevano fondato già da tempo una radio libera. Era fiero di avere un nipote, che avrebbe osato contrastare il potere della radio di stato, assoggettata ai bigotti democristiani. 

A dire il vero, il mio scopo era di usare le onde radio, per assoggettare le mie coetanee e, contrastare il potere di Mauro Baldan & company, il gruppo dei “grandi”, che polarizzava l’attenzione delle squinzie; ma, non potevo tradire le aspettative di un autentico comunista; gli sarebbe caduto il palco e, anche qualcos’altro.

Zio Bruno per caricarmi di entusiasmo; citò nientepopodimeno che Ghandi; “pensare con la propria testa senza lasciarsi condizionare è indice di coraggio”. Intendeva dire che, invece di seguire come un pecorone la massa e, mandare in onda le canzonette di Alan Sorrenti & c., avrei dovuto darci dentro con Bandiera Rossa e Guccini.

Per non far torto a nessuno, quello stesso pomeriggio, chiesi udienza all’antagonista per eccellenza del compagno Bruno Semenzato ovvero, don Gianni “el falso”. In preda all’euforia galoppante, mi era balenata l’idea di chiedere all’influente prelato, un locale del patronato per la sede della radio. 

Quel giovane cappellano che nella mia parrocchia, era designato alla formazione morale dei giovani, mi sottopose ad un vero e proprio interrogatorio stile inquisizione; dovetti confessargli, in ordine e senza obbligo del sigillo sacramentale, come mai ci era venuta in mente ‘sta cosa, chi aveva costruito le correlate apparecchiature demoniache e che tipo di robe volevamo trasmettere.

Probabilmente, a causa dell’alito che ancora emanava Rosso Antico, il prete mi trattò da indemoniato, cacciandomi in malo modo dal suo studio e, asserendo che da certe robe, un bravo ragazzino cattolico come me, doveva starne alla larga. Inoltre, io e gli altri due posseduti dal demonio ci saremo dovuti presentare l’indomani pomeriggio, dopo scuola, per tinteggiare la ringhiera del campetto, assieme al gruppo dell’ACR; sana attività che ci avrebbe tenuto lontani da certe idee progressiste.

Capii solo in seguito, che, certi preti accentratori e maniaci di protagonismo come lui, erano soliti soffocare qualsivoglia iniziativa che non partisse da loro o dalla loro cerchia di fedelissimi. Lo dimostrò il fatto che, nemmeno tre mesi dopo, promosse l’iniziativa, di istituire una radio parrocchiale, puntualmente naufragata ancor prima di nascere.

Fu così che, con la famiglia e i preti contro ma, i comunisti a favore, smisi anzitempo di giocare con i soldatini Atlantic per dedicarmi alle mie passioni emergenti; la radio e le squinzie. Ancor oggi, se me lo chiedete, non so quale delle due sia predominante.

“Tanto no’ te ‘scolta nissuni”; mio padre non c’è più ma, continuo a sentire la sua incoraggiante voce. “Xe inutie che ti te daghi tanto da far, no’ ti rivarà mai a essar come jorillà”.

Sior Ottorino, ha sempre diviso l’umanità in due sole caste; gli jorillà, ovvero i rotti in culo e i noialtriqua, gli sfigati. Per lui, qualsiasi azione intraprendessi, finalizzata al salto del muro che separava le due caste, era solo energia sprecata.

Anche mio zio Bruno se ne è andato e con lui tutti i comunisti, anzi no, è rimasto il papa, ironia della sorte, unico comunista sulla faccia della terra. 

Don Gianni è sparito, ma non i sensi di colpa. Continuo a sentirlo ripetermi che devo smetterla di abusare del microfono; l’esibizionismo, tranne quello dei preti, è peccato. Ora di preti ce ne sono sempre meno e non trovo nessuno di fidato a cui confessare che non riesco proprio ad ottemperare a quei comandamenti che iniziano per “non desiderare”.

Quel comunista da bar dello zio Bruno, nel senso che frequentava più il bar che la sezione; invece, non si fa più sentire. Spero non sia vero quel che si dice, ovvero che per quei miscredenti di compagni, una volta passati di la, finisce a schifio; che peccato, era l’unico supporter che avevo. 

Su di un’altra cosa aveva ragione mio padre; la cartella delle elementari sarebbe durata in eterno; in effetti, ce l’ho ancora. Dentro sono custoditi alcuni cimeli, tra cui il famoso pacco di adesivi e una cassetta PHILIPS C-60 nella quale è registrata una delle mie prime trasmissioni; quando la ascolto, ho l’impressione che, la mia voce e le canzoni che mandavo in onda, sprigionino un odore di naftalina.

La vecchia cartella è piena zeppa anche di, “se fossi” e, “se avessi”; una miriade di rimpianti e sguardi all’indietro che, quando la apro, ne esce una pesante zaffata di insoddisfazione; a tutto questo, si aggiunge l’angoscia del boomer.

Bisogna ammetterlo, la mia generazione non ha vissuto grandi drammi come la guerra e la povertà diffusa; per la maggior parte di noi, la vita è stata un gigantesco luna park. Il problema è che adesso, per citare san Paolo, “il tempo si è fatto breve” e, qualcuno o qualcosa, ti fa intendere che, da un momento all’altro, potresti dover scendere dalla giostra, per far posto a chi è più giovane di te. Tu non ci stai, non vuoi accettarlo; la prima cosa che fai è far finta di niente; giochi a nascondino con i problemi che ti si presentano poi, come un bambino capriccioso, punti i piedi e inizi a frignare. Ti prende la rabbia, perché ci sono ancora un sacco di cose che non hai potuto fare o avere. 

Nonostante tutto, grazie a quello spilungone del Lanza e ai miei amici bisognosi di applausi, rimango qui, solo davanti ad un microfono con l’angoscia che non ci sia nessuno in ascolto ma convinto che, di tutto ciò che trasmetto nell’etere, forse, ne rimarrà traccia per l’eternità. Qui, a smanettare ancora con la manopola di sintonia della radio, fino a quando non trovo la canzone che, riesce a dare una svolta alla mia giornata. Qui, ad imparare ad ascoltare più che a parlare. Qui, a raccontare piccole storie di piccole radio.

Firmato

Il sognatore mascherato

Liberi .. Liberi

Ci fosse stato
Un motivo per stare qui
Ti giuro, sai
Sarei rimasto, sì
Son convinto che se
Fosse stato per me
Adesso, forse, sarei laureato
E magari se lei
Fosse stata con me
Adesso sarei sposato

Se fossi stato
Ma non sono mai stato così
Insomma, dai
Adesso sono qui
Vuoi che dica anche se
Soddisfatto di me
In fondo, in fondo non sono mai stato
Soddisfatto di che
Ma va bene anche se
Qualche volta mi sono sbagliato

Eh
Liberi, liberi siamo noi
Però liberi da che cosa
Chissà cos’è?
Chissà cos’è?
Finché eravamo giovani
Era tutta un’altra cosa
Chissà perché?
Chissà perché?
Forse eravamo stupidi
Però adesso siamo cosa
Che cosa che
Che cosa se
Quella voglia, la voglia di vivere
Quella voglia che c’era allora
Chissà dov’è?
Chissà dov’è?

Che cos’è stato?
Cos’è stato a cambiare così
Mi son svegliato ed era tutto qui
Vuoi sapere anche se
Soddisfatto di me
In fondo, in fondo non sono mai stato
Soddisfatto di che
Ma va bene, anche se
Se alla fine il passato è passato

Eh
Liberi, liberi siamo poi
Però liberi da che cosa
Chissà cos’è?
Chissà cos’è?
E la voglia, la voglia di ridere
Quella voglia che c’era allora
Chissà dov’è?
Chissà dov’è?

E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che non c’è più

Cosa diventò, cosa diventò
Che cos’è che ora non c’è più

E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che avevi in più

Eh
E cosa diventò, cosa diventò
E come mai non ricordi più, eh

©1989 – Vasco Rossi, Tullio Ferro

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Nato sotto il segno dei pesci

Ho camminato tanto, camminato per dimenticare, camminato per piangere senza farmi vedere, camminato perché ero talmente felice e eccitato da non riuscire a dormire; camminato semplicemente perché ero solo e non avevo altro da fare o, non potevo fare altro. Ho camminato più di notte che di giorno; la notte è passione, malinconia e romanticismo; fonte di ispirazione, l’ambiente ideale dove si muovono fantasmi, vampiri e solitari introversi come me.

All’ora in cui arrivo, se ne stanno ormai andando via tutti; rimango solo nello studio, spengo le luci principali e mi godo, con in bocca il gusto dell’ultimo caffè della giornata, la magica penombra creata da una costellazione di lucette colorate e monitor vari; sono pronto anche stanotte, solitario comandante di un’astronave che, alla velocità delle onde radio, attraversa l’universo dell’etere.

Il giorno ha occhi, la notte ha orecchie, recita un vecchio proverbio persiano; momento ideale per fare radio. Mi piace usare questo termine; fare, è molto più poetico di lavorare, anche perché, un lavoro non lo è mai stato, nel senso di quello che mi serve per portare a casa la pagnotta o, come lo definiscono i maghi dell’economia, il core business ma, piuttosto, giusto per storpiare le parole, un cuore business perché, la radio va fatta con il cuore.

Quand’ero bambino, odiavo la radio, o meglio, certi suoi ascoltatori, tipo mio fratello che, la teneva accesa tutta la notte, posizionata in modo precario nell’unico comodino che avevamo in comune; ma, molto di più odiavo quelli che, nelle grigie e tristi domeniche invernali, passeggiavano con la radio all’orecchio ascoltando “tutto il calcio minuto per minuto”. Ora, rimane solo l’antipatia verso certi tipi che ci lavoravano; quelli che urlano frasi in inglese maccheronico e straparlano sopra le canzoni; credo perché, a noi introversi, danno fastidio le persone che vogliono mettersi in mostra. La verità, difficile da ammettere è che, allo stesso tempo, vorremmo essere al loro posto; perché, intimamente la maggior parte di noi, cova il segreto desiderio di essere scoperto.

E’ per questo che, attratto come l’orso dal miele, sono finito dentro una radio, a fare radio. Il posto giusto per uno come me; nascosto dietro un microfono, nessuno mi avrebbe visto e quindi, potevo far credere di essere chissà chi, libero di fingere come non mai; un social network ante litteram che mi avrebbe dato la possibilità di, far el figo, per dirla in volgo locale. Mi sarei fatto conoscere da un sacco di persone senza espormi più di tanto; il massimo del risultato con il minimo sforzo eh si, perché, oltre a essere introverso sono anche un pigro patentato. E’ successo che, citando Ligabue, le canzoni sanno chi sei molto meglio di te e, a forza di metterle su, come diciamo noi; non ci hanno messo molto a sgamarmi per cui, e solo dentro questa specie di cubo fonoassorbente, dal quale parlo quasi ogni notte che, ironia della sorte, riesco a essere veramente me stesso.

Resta il fatto che nessuno mi vede, chi mi ascolta può solo immaginarmi, basandosi solo su ciò che racconto. Già, raccontare, oggi, prima di venire qui, ho acquistato dai cinesi per pochi euro un taccuino, imitazione del famoso Moleskine. Senza fatica, le pagine si riempiono velocemente; dalla penna esce la mia storia e quelle di tanti altri amici che hanno vissuto la magica esperienza di fare radio ma, soprattutto, risuonano le canzoni legate a quelle storie perché, come dice non so chi, ci sono canzoni che quando le ascolti diventano persone, luoghi, pioggia, sole, caldo, freddo, gioia e tristezza.

Sono nato sotto il segno dei pesci, sia nella vita che in radio. Marzo 1978, in quel mese, compivo gli anni, usciva “sotto il segno dei pesci” di Antonello Venditti e, in una giornata maledettamente piovosa, rintanato nella mansarda di un palazzone popolare, con la mano tremolante, feci scivolare, per la prima volta, il cursore del mixer, dove, a matita, stava scritto MIC, balbettando qualcosa che non ricordo più, mentre, in sottofondo, il buon Venditti, mi dava la forza per vincere la mia proverbiale timidezza. Risale a quel periodo anche il mio nome d’arte, con il quale, tutt’ora sono universalmente conosciuto; questo mi permette di fare la doppia vita, come un super eroe che, nel mio caso, assomiglia più a SuperPippo che a SuperMan.

Quasi una vita passata a metter su canzoni; sembra ieri quando, con un certo affanno, le mie dita scorrevano velocemente tra gli scaffali stracolmi di dischi per cercarle mentre ora, è sufficiente digitarne il titolo. Alla fine, però da quel marzo 1978, nulla è cambiato; sono sempre più convinto che la gente, me compreso … tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore.

Sotto il segno dei Pesci … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO – © 2018 Michele Camillo