La rete dell’aeroporto è sempre stata un confine, almeno per chi la vedeva dall’esterno: un limite tra ciò che è accessibile e ciò che è proibito. Per me, invece, quella rete rappresentava molto di più. Era il confine tra fantasia e realtà, tra terra e cielo, tra quotidianità e avventura.
La prima volta che mi aggrappai a quella rete, avrò avuto sì e no cinque anni. Ricordo ancora mio padre, che mi sollevò dal ferro della sua bicicletta e mi piazzò davanti a quelle maglie di metallo.
Al di là di quella la rete, scorsi un mondo fantastico, quasi magico: una distesa infinita di asfalto che sfiorava il cielo, gli aerei che dormivano come giganti tranquilli e poi, all’improvviso, il ruggito di un motore, un aereo che prendeva vita, correva veloce e si staccava da terra
Ero incantato. Ma prima che potessi imprimere quell’immagine nella mia memoria, sentii le mani forti di mio padre che mi staccavano dalla rete, con la stessa decisione con cui strappava le erbacce dai campi. Per lui, il tempo passato lì era inutile. La realtà non era nei cieli, ma nei solchi della terra, nella fatica che ogni giorno lo aspettava. Gli animali da accudire e i campi da coltivare: quello era il suo mondo, il nostro mondo.
Tornai a casa con le lacrime agli occhi. Ma dentro di me, qualcosa era cambiato. Non riuscivo a smettere di pensare a quell’aereo che si perdeva nell’orizzonte infinito. In quel momento, decisi, anche se non ne capivo ancora il significato, che in quel mondo ci volevo entrare.
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“E adesso dove andiamo?”, mi chiese Lea, la mia amichetta del cuore, con quella luce negli occhi che rendeva ogni sua domanda un invito all’avventura. Lo ricordo come se fosse ieri, quel pomeriggio in cui, in sella alle nostre biciclette, passammo il ponticello sul canale; era come oltrepassare una frontiera invisibile. Per la prima volta i nostri genitori ci avevano dato il permesso di andare oltre, liberi e indipendenti come piccoli esploratori del mondo.
“A vedere gli aerei”, risposi con un sorriso pieno di eccitazione. Non ci fu bisogno di convincerla: Lea mi seguì senza esitazione, pedalando al mio fianco con quell’entusiasmo che sembrava illuminare tutto attorno a lei.
Anche a Lea piacevano gli aerei. Le avevo trasmesso la mia passione con i miei racconti, e ora condividevamo quel sogno che sembrava fatto d’aria, di ali e di libertà. Lei sognava di diventare una hostess e portare il suo sorriso in ogni angolo del mondo. Quando me ne parlava, io la ascoltavo incantato con una profonda ammirazione. Già allora, in un angolo nascosto del cuore, presagivo che Lea sarebbe andata lontano da quel posto in mezzo ai campi dove abitavamo. Ma in quel momento, in quell’istante perfetto, era ancora al mio fianco. La mia complice. La mia alleata. Il mio tutto.
L’aeroporto non era proprio a un tiro di schioppo, ma i nostri genitori si fidavano di noi, nonostante avessimo solo dieci anni, pensavano che fossimo ormai grandi. In realtà era Lea a essere grande, e io semplicemente lo diventavo per osmosi, grazie a lei. Possedeva un’intelligenza straordinaria, una simpatia contagiosa e la maturità di una con dieci anni in più.
Quando ero con Lea, mi sentivo felice, sicuro, ma soprattutto considerato. Non rideva mai di me come facevano gli altri; ascoltava ogni mia parola come se fosse importante, come se contenesse qualcosa di prezioso. Accanto a lei, mi sembrava che il mondo si aprisse davanti ai nostri occhi, infinito e pieno di possibilità.
Arrivammo lì, con il cuore che ci batteva forte. Quella volta nessuno si affrettò a staccarmi dalla rete, nessuna voce a richiamarmi indietro. Ero libero, finalmente, di guardare. Rimasi immobile, in equilibrio instabile sulla mia bicicletta, mentre un aereo si staccava dalla pista e si lanciava verso il cielo come un’aquila in cerca di vento. Il rombo del motore era un canto profondo, un richiamo antico che sembrava risuonare non solo fuori, ma anche dentro di me.
In quel momento capii una cosa che non avevo mai osato dire ad alta voce: non volevo rimanere ancorato alla terra. Quella terra che mio padre considerava rifugio e certezza, per me era diventata una gabbia. Una prigione fatta di polvere e sudore, di giorni sempre uguali. Volevo staccare la mia ombra da quella terra che conosceva solo fatica. Volevo spezzare le catene invisibili che mi legavano al suolo. Per farlo, dovevo volare.
Voltai lo sguardo verso Lea, con una decisione che mai prima avevo avuto il coraggio di esprimere. “Diventerò un pilota,” le dissi, la voce tremante e sicura insieme, come una promessa fatta al vento. Lei sorrise, uno di quei sorrisi che contengono tutta la forza del mondo. “Lo diventerai, ne sono sicura”, rispose, e le sue mani si posarono sulle mie, ancora aggrappate alla rete dell’aeroporto, come a sigillare un patto segreto tra il sogno e la realtà. In quel momento, non c’era più confine tra terra e cielo. C’era solo la promessa del volo.
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Non credo ci siano tante persone che come me, si sono iscritte, di nascosto dai genitori, al concorso per allievi ufficiali piloti. Era un richiamo a cui non potevo sottrarmi, quasi una ribellione contro una vita che sembrava già scritta, una vita in cui immaginavo ogni passo prima ancora di compierlo.
Quando arrivò il telegramma di convocazione, che mi comunicava di aver superato la selezione, fu come se avessi ricevuto un passaporto per una vita nuova, una via di fuga verso il cielo. Avevo una settimana di tempo per presentarmi in Accademia a Pozzuoli. A quel punto realizzai che mi trovavo di fronte a una svolta e iniziai a sudare freddo.
Quella scelta significava soprattutto staccarmi da quei due genitori anziani che contavano su di me, che mi avrebbero voluto al loro fianco, per sempre, quasi come un’ombra fedele. La loro aspettativa era chiara: ero destinato a restare lì, come un badante, a prendermi cura di loro e della casa, a vivere la loro stessa vita.
Non ci pensai due volte, il mio sogno non si poteva spegnere e così presi la decisione di partire. Raccolsi le mie cose, e me ne andai, letteralmente scappando di casa. Quello era il mio posto, anche se significava perdere qualcosa, allontanarmi dai miei affetti e dall’unico mondo che conoscevo.
Varcai l’ingresso dell’Accademia Aeronautica senza voltarmi indietro; e, senza mai voltarmi indietro, affrontai i mille ostacoli di quel primo anno, primo fra tutti le angherie dei vecchi.
Ogni giorno era un sacrificio tra adunate all’alba, marce sfinenti, ore sui banchi e continue selezioni. Per vedermi appuntare quell’aquila turrita sulla giacca ed inseguire il cielo dovetti pagare un certo prezzo ma, alla fine, ne valse la pena.
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“EJECT, EJECT, EJETC”
Sento ancora chiaramente quelle terribili parole dal suono metallico che rimbombavano dentro il casco. Era vero quello che avevo sentito raccontare ovvero che, da quell’istante tutto rallenta. I secondi sembravano interminabili minuti.
Avevo da poco superato la recinzione della base e intravisto le persone che guardavano gli aerei come facevo io da bambino, non mi pareva ci fosse niente di anomalo, solo un gran dolore improvviso su tutto il corpo e le mani che non riuscivano a stringere i comandi.
Era una sequenza studiata a memoria nei manuali ma, che nessun pilota di augurava di dover fare; perché tirare quel cordino giallo e nero che ti spara fuori dall’aereo era, oltre che un gesto estremo, una sconfitta.
Dopo, solo quell’immagine del mio corpo che si separava dall’aereo. Più di qualcuno mi ha detto che non era possibile che ricordassi ma io, ancora oggi ce l’ho nitidamente impressa nella mente; perché, quell’istante mi separò da ciò che ero stato fino ad allora: un aviatore, libero e invincibile.
Dal mio letto di ospedale continuavo a ripetere con quel filo di voce che mi era rimasto “overhead motore”. Il capitano medico della base continuava a scuotere il capo, sembrava non sentire le mie parole ma, solo quelle del medico ospedaliero che gli ripeteva “cardiomiopatia” seguita da altri strani paroloni.
Quel giorno, quando il mio corpo fu scaraventato fuori dall’aereo, fu come se un’intera vita mi venisse strappata via. Capii che qualcosa dentro di me si era spezzato per sempre. Da quel momento mi ritrovai un uomo vulnerabile e pieno di paure che non avevo mai avuto; prima fra tutte quella della morte.
Improvvisamente mi trovai di fronte a un futuro incerto, privo di fondamenta solide, senza alcuna motivazione che mi spingesse avanti.
Anche la mia fede, quella che fino a quel momento credevo di avere, cominciò a sgretolarsi. Dio, che avevo sempre considerato un faro nella tempesta, ora appariva come una creazione umana, un’illusione nata dal bisogno disperato di credere nell’eternità. Ma quell’eternità, per me, si era infranta al suolo, proprio come il mio aereo.
Ogni mattina era una battaglia per trovare un motivo, anche piccolo, che mi desse la forza di andare avanti.
Mi scoprivo diverso, quasi uno sconosciuto a me stesso. Sentivo avanzare l’ombra della solitudine, pesante come un fardello invisibile, ma presente in ogni respiro.
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Il sole del tardo pomeriggio stava calando all’orizzonte, tingendo di arancio il cielo e gli aerei che, da dietro la rete metallica, che separava il mondo dei sogni dal resto della realtà, decollavano e atterravano sulla pista dell’aeroporto.
«Ti ricordi quando ci venivamo con la bici?» disse Lea, con tono leggero.
«Certo che mi ricordo» risposi. «Ti ostinavi a chiamarmi comandante anche se non sapevo nemmeno pedalare senza mani.»
Sorridemmo entrambi, ma il mio sorriso si spense più in fretta. I miei occhi erano fissi quell’Airbus che si preparava al decollo, ma il mio sguardo non aveva più la scintilla di una volta. Era lo sguardo di un uomo che, pur avendo raggiunto le stelle, era caduto giù troppo in fretta.
Avevo realizzato il mio sogno: ero diventato un pilota. Avevo vissuto quegli anni come in un turbinio di adrenalina e libertà, con il cielo come ufficio e le nuvole come compagne. Ma un incidente mi aveva rimesso a terra per sempre, rendendo fragili non solo il mio corpo, ma anche la mia anima. Ora guardavo gli aerei come un bambino con il naso schiacciato contro la vetrina di un negozio di giocattoli, consapevole che non avrei mai più potuto averli.
Lea, invece, aveva scelto una strada diversa, una strada che ai miei occhi è sempre apparsa una sequela di compromessi e rinunce. Non era riuscita a diventare una hostess, un sogno che aveva finito per lasciar svanire con il tempo. Non era riuscita nemmeno a completare gli studi e a laurearsi. Eppure, mentre io solcavo i cieli inseguendo la mia libertà, lei costruiva comunque una vita piena, concreta. Si era anche lei allontanata da quel posto in mezzo ai campi, si era sposata, aveva avuto figli. Aveva imparato a vivere, a trovare stabilità accanto a un uomo stimato e ammirato. Lea non temeva il domani; sembrava avere il coraggio che io, una volta a terra, avevo perso.
Era sempre stata la mia migliore amica, forse qualcosa di più, anche se non avevamo mai trovato il coraggio di dircelo. Forse per paura di rovinare ciò che già avevamo, o forse perché io ero troppo occupato a inseguire il cielo per accorgermi di chi camminava al mio fianco.
Come se la vita avesse voluto restituirmela proprio nel momento in cui ne avevo più bisogno, Lea era riapparsa, quasi miracolosamente, dopo tanti anni. Ero fragile, un uomo a metà. E lei, come sempre, sapeva esattamente cosa fare. Mi invitò a mangiare una pizza nello stesso locale dove, quel settembre del 1983, tutto orgoglioso, le avevo mostrato il telegramma di convocazione in accademia. Sembrava che il tempo non fosse mai passato, eppure tutto era diverso. Ora ero io a piangere, mentre lei mi guardava con dolcezza, come quella sera lontana in cui le lacrime erano le sue, e io, troppo euforico e ingenuo, non riuscivo a capire il perché.
Lea aprì la sua borsa e tirò fuori una serie di foto. Me le mostrò a una a una, raccontandomi la storia della sua vita. Erano immagini di momenti felici: lei con i suoi figli, lei con suo marito, lei in mezzo a una vita che io non avevo mai conosciuto. Ma c’era qualcosa che mi colpì. In ogni foto, anche nei sorrisi più belli, c’era uno sguardo velato di malinconia.
Sembrava quasi che le mancasse qualcosa. E non potei fare a meno di chiedermi se, in mezzo a quella vita piena e semplice, ci fosse ancora uno spazio vuoto, un vuoto che forse avevo lasciato io.
Non mi ero reso conto che la voglia di volare, di rincorrere i miei sogni e staccare la mia ombra dalla terra, mi aveva portato lontano. Lontano da ciò che contava davvero, lontano dalle persone; e, tra tutte quelle persone, ce n’era una che brillava più degli altri. Qualcuna che, con dolcezza e infinita pazienza, non smise mai di aspettarmi.
Ormai stava facendo freddo, ma io, come quando ero bambino, facevo fatica a staccare le mie mani da quella rete.
«Sai» gli dissi, rompendo il silenzio. «Quando ero là sopra, tutto sembrava così piccolo. La vita, i problemi… persino i sogni. Ma ora...» Feci un gesto vago verso la pista. «Ora ho paura anche di salire su un aereo come passeggero. Non sono più lo stesso.»
Lea mi guardò, cercando le parole giuste. «Forse non sei più quello di prima, ma sei ancora qui. E questo conta. Siamo ancora qui. Come allora. Guarda: non è cambiato niente.»; mentre mi parlava, mi prese delicatamente le mani.
Sollevai lo sguardo e per un attimo, mi rividi ragazzino, con gli occhi pieni di speranza, accanto alla mia migliore amica o, in realtà qualcosa di più che non avevo colto. Lea aveva ragione. Nonostante tutto, eravamo ancora due bambini a guardare gli aerei attraverso quella rete.
«Sai cosa penso?» disse Lea. «Che non importa se abbiamo volato davvero o solo con la testa. L’importante è che non smettiamo mai di stare insieme, parlarci e guardare verso il cielo.»
Sorridendo annuii, e con la mano gli sfiorai i capelli. Forse il tempo ci aveva cambiati, ma non aveva separato le nostre anime. E lì, davanti alla rete, con il vento che portava l’odore di libertà, capii che non serviva volare per sentirmi vivo.
Perché il sogno, in fondo, non era mai stato dietro quella rete. Era sempre stato dentro di noi.
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Trova qualcuno che ti faccia dimenticare il tuo passato, la tristezza. Trova qualcuno che ti cambi la vita, che la renda migliore, che sostituisca e riempia il vuoto. Trova qualcuno per cui valga la pena sorridere. Marilyn Monroe
Luce … ascolta il podcast
Racconto tratto dalla raccolta CAMPARE IN ARIA – © 2025 Michele Camillo