El dotor Scarpa

Chi xè l’ultimo?” Nonostante la tecnologia avesse subito un’esponenziale evoluzione, prima del COVID, il collaudato sistema di accesso dei pazienti all’ambulatorio, dell’ormai vecchio dottor Scarpa, era rimasto invariato, sin dai tempi quando, novello dottoretto, aveva aperto bottega. Questo nonostante esistano applicazioni che permettono di prenotarti per anticipo visita medica e anche il tuo funerale, nell’eventualità che, quest’ultima, avesse un esito funesto.  

Memorabili le volte quando “l’ultimo”, ti faceva motto con lo sguardo, che sottintendeva, “cassi tui”, indicando dei personaggi ben vestiti dotati di valigetta. I tipi in questione erano gli odiatissimi, rappresentanti de medesine, almeno così li definiva il popolo.  

Quella volta che venne affisso il cartello “I signori informatori scientifici, si ricevono ogni tre pazienti”, tutti si chiesero chi cavolo fossero; si pensò a degli studiosi. Qualcuno ventilò l’ipotesi che si sarebbe girato un documentario in ambulatorio.  

I rappresentanti de medesine, una volta solo uomini ma che, ora, annoverano tra le loro file anche delle gran gnoccolone, se pur con fare gentile, come diciamo noi, i teo cassava a bottega, nel senso che la tua attesa si sarebbe prolungata inevitabilmente di un tot; questo per permettergli di infinocchiare per benino il doc. Sull’argomento, la fantasia dei frequentatori dell’ambulatorio galoppava; se el rappresentante era uomo, questi avrebbe sicuramente promesso allo Scarpa un giro di troie, se invece era donna, avrebbe provveduto direttamente lei a elargire la prestazione; era uno dei tanti argomenti per ingannare l’attesa.  

Non c’era comunque verso di ottimizzare i tempi. Una volta ebbi la malsana idea di chiedere, in veste di penultimo, all’ultima di tenermi il posto; avevo fatto un rapido calcolo e, sarei riuscito a passare da Vittorio per farmi lo scalpo. “Giovane! Cossa ti credi che sia ea to serva! Anca mi go da ‘ndar al marcà, ti speti qua come tutti ‘staltri!” La vecchia grima, assidua frequentatrice del posto, mi apostrofò in modo pesante innanzi ai presenti.  

Spesso, il problema non era il tempo di attesa, ma con chi condividevi quei pochi metri quadri dell’anticamera. La sopracitata grima generalmente non era mai da sola ma, usava accompagnarsi con altrettanti esemplari della sua specie.  

Faceva parte della categoria che, mio cugino Bobo, definiva “vedove allegre”; donne che avevano provveduto a sotterrare il marito qualche mese dopo che il tapino era riuscito ad arrivare alla tanto agognata pensione. La causa del decesso era sempre la stessa ovvero, “el ga avuo un croeo”; sulla cosa sarebbe stato interessante indagare. Le “vedove allegre”, con il cadavere del marito ancora caldo, non perdevano tempo per darsi alla pazza gioia scialacquando la pensione di reversibilità in cene sociali e gite parrocchiali.  

Quando te le trovavi in ambulatorio, aspettavano che ci fosse un attimo di silenzio e poi una di loro sparava; “savè chi che xè morto?” mentre una delle comari, una volta conosciuto il nome del novello “poro”, prontamente ribatteva “ma no! l’altro giorno el gera sentà proprio la”; il “proprio la”, era fatalità il posto dove stavo seduto. In un millisecondo, “vedove allegre” a parte, tutti gli altri, procedevano con il rito di toccarsi i genitali, donne comprese.  

Ovviamente non mancai di riferire al doc circa il disagio psichico nel quale ero sprofondato a causa delle vecchie; lo Scarpa se ne uscì con la storica frase “quee ‘e va al funeral de tutti tranne che al suo. Issamorti, no’ e xé proprio bone de farse i funerai sui”.  

Anche le lunghe attese riservavano i loro vantaggi; trovavi sempre tra gli astanti un tajatabarri professionista patentato che ti forniva notizie fresche in fatto di gossip locale. Non serviva leggere quelle quattro rivistine sgualcite, che giacevano da anni sopra il tavolino, era molto più divertente ascoltare, quello che la tipa o il tipo avevano da dire, specie se riguardavano gente che conoscevi bene.  

Se ti andava, potevi condividere sulla pubblica piazza, i tuoi problemi di salute; molto spesso, in sala d’attesa trovavi dei veri luminari della medicina e, in men che non si dica, ancor prima di varcare la soglia dell’ambulatorio, saltavano fuori diagnosi e cura. 

Mitico quel giorno che andai a farmi vedere un rusioeo, scientificamente detto orzaiolo, che mi era venuto nell’occhio destro.  

Fame vedar ‘sta roba”, non ebbi nemmeno il tempo di avvicinarmi alla scrivania. “Mostrime e man”, non capivo cosa c’entrasse ma obbedii. “Miseria! Quante ti te ne ga fatte?”, stavo già facendo mentalmente il conto quando mi interruppe “mona, so drio schersar”; tirai un sospiro di sollievo. 

A cossa xé dovuo?”, gli chiesi mentre compilava la ricetta. “A ‘na mancansa”, rispose sorridendomi. “De qualche vitamina?”, ribadii. “Ciamemoea cussì”, replicò con un ghigno ironico. Questo era il doc, sapeva vedere in profondità senza bisogno di avanzatissimi nonché costosissimi strumenti diagnostici. 

A proposito, ve go ‘scoltà”. Avevamo da poco messo su antenna, ma mai mi sarei aspettato che l’esimio e impegnatissimo medico di quartiere, trovasse del tempo per ascoltare un manipolo di deficienti che sparavano nell’etere cazzate a gogo. 

Ti me par un fià massa ebete ma, ti xé drio far ‘na bea roba”. Poi fu un fiume in piena nel lodare quello che stavo facendo e a parlare di musica, non gliene fregava niente che fuori in sala di attesa, le vecchie stavano scalpitando facendo il diavolo a quattro; a quei tempi, non c’erano le rigide imposizioni dell’Azienda Sanitaria sulla durata della visita. 

In quel momento, mi tornarono in mente le parole di mia mamma, che dello Scarpa aveva la fidelity card, quando diceva “guarisse più ‘na paroea che ‘na medesina” 

Samorti, cossa te gao trovà, el coera?” Ciano Manente mi fece notare che ero stato dentro più di mezz’ora. “Asseo star fantoin, varda che ocio, cossa te gao da?” mi chiese premurosa siora Onorina Cecchinato. 

’na pomata”, tagliai corto perché dovevo cercare di non dimenticare i nomi di certi farmaci salvavita che mi aveva prescritto a voce e che nessun rappresentante de medesine aveva in catalogo. Molti li conoscevo già ma altri come Franco Battiato, Sergio Endrigo, e Joan Baez me li dovevo assolutamente procurare. 

Era la settimana prima di Pasqua e, per non rischiare scomuniche lampo, avevo deciso di mettermi in regola con i dettami della Santa Romana Chiesa. Così, il giorno precedente, mi ero confessato. Del resto, viste le condizioni del mio occhio – secondo le convinzioni di mia nonna avevo guardato qualcosa che non dovevo guardare – non si poteva mai sapere, era meglio arrivare preparati al giudizio divino. D’altronde, le scritture parlavano chiaro: “se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”. 

Eppure, devo ammetterlo: se tra confessionale e ambulatorio ci fosse stato un campionato del benessere interiore, il dottor Scarpa avrebbe vinto a mani basse. Quando uscii dal suo studio, una leggerezza nuova mi pervase, più intensa persino di quella provata dopo l’assoluzione di don Gianni. 

Fuori, il venticello primaverile mi sfiorava il viso con una carezza lieve, e il tepore della stagione mi invitava a sperare in qualcosa, quel qualcosa che mi mancava da sempre. Ero profondamente felice di avere il dottor Scarpa tra gli amici di SolaRadio. Lui ci capiva, ci sosteneva, mentre il nostro prete ci guardava con sospetto, semplicemente perché la nostra piccola radio non era nata in seno alla parrocchia, una cosa demoniaca che ci avrebbe portato alla perdizione. 

Ma el dotor, inoltre, cosa molto importante, mi aveva fatto intravedere quello che mi sarebbe piaciuto, almeno in teoria, fare nella vita. 

Ho sempre sospettato che il suo stetoscopio fosse tarato non solo per sentire i battiti del cuore, ma anche i sospiri dell’anima. È stato il primo che mi ha diagnosticato quella che, alla fine, era la mia più grave malattia. Senza troppi giri di parole, mi ha messo davanti alla realtà: sono pieno di paure, ne ho una collezione più vasta di un mercatino dell’usato, e queste hanno condizionato ogni scelta o peggio, non scelta, della mia vita. Ma mi ha anche insegnato ad accettarle, a conviverci, e soprattutto ad accettare me stesso per lo scemo che sono. 

Anche se mi è simpatico e mi fa un sacco di tenerezza quel ragazzo di origine indiana che ha preso il suo posto, ultimamente, riduco allo stretto necessario le capatine dal medico della mutua. La mia ipocondria è aumentata esponenzialmente, il solo passare davanti all’ambulatorio, mi induce i sintomi delle più svariate malattie. Inoltre, da quando ho passato una certa età, sono bersaglio di non so quante campagne di prevenzione, ricevo periodicamente lettere dal tono minaccioso. Per uno come me, la lettura di certi opuscoli genera un attacco di panico, c’è poco da fare, il messaggio subliminale che comunicano è chiaro, “ti xé vecio ti ga da morir!”  

Quando passo davanti all’ambulatorio, un’ondata di ricordi mi avvolge, riportandomi a quella visita di tanti anni fa. Ricordo l’energia che il dottor Scarpa seppe infondermi, quell’entusiasmo che mi aveva caricato a molla, facendomi sentire, per un istante, capace di qualsiasi cosa. 

Eppure, il tempo ha seguito il suo corso, e le cose non sono andate come forse avevo sognato. SolaRadio non è mai cresciuta ed è sempre rimasta una piccola emittente di quartiere; e io, non sono diventato chissà chi, né fatto un granché ma, più di tutto, non sono mai riuscito a trovare davvero quella cosa che, secondo lui, mi mancava. 

Eppure, se chiudo gli occhi, posso ancora sentire la sua voce mentre mi parlava di musica e di Martin Luther King. 

Nel nostro quartiere, nessuno si sarebbe sognato di tradire il dottor Scarpa per un presunto luminare dalla parcella esorbitante. Lui non era solo un “Medico Generico”, come recitava la targa. No, avrebbe meritato un titolo più onesto e prestigioso: “Medico Specialista dell’Ascolto di anime e … SolaRadio” 

Se non puoi essere un pino sul monte, 

sii una saggina nella valle, 

ma sii la migliore piccola saggina 

sulla sponda del ruscello. 

Se non puoi essere un albero, 

sii un cespuglio. 

Se non puoi essere un’autostrada 

sii un sentiero. 

Se non puoi essere il sole, 

sii una stella. 

Sii sempre il meglio 

di ciò che sei. 

Cerca di scoprire il disegno 

che sei chiamato ad essere, 

poi mettiti a realizzarlo nella vita.

Douglas Malloch 

Poesia citata da Martin Luther King nel discorso “The other America” del 1967  

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Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

Dediche & Richieste

E ‘desso cossa femo? fu la frase che inaugurò, in modo decisamente non ufficiale, la nostra avventura radiofonica. Era passata solo una manciata di secondi da quando sior Sergio, con un’aria solenne degna di un lancio spaziale, aveva acceso il trasmettitore ma, quando realizzammo che Solaradio dai 107,8 FM, viaggiava liberamente nell’etere, ci colse il panico. 

L’entusiasmo che fino a quel momento ci aveva fatti sentire come i nuovi protagonisti dei paeassoni si era improvvisamente dissolto. In un attimo, quel microfono, che fino a cinque minuti prima ci sembrava un entusiasmante trampolino di lancio per farse vedar, come diciamo in dialetto, si era trasformato in una creatura aliena. Ci fissava – sì, ci fissava – con un’aria minacciosa, come se sapesse già che eravamo lì senza uno straccio di idea su cosa dire. 

In fondo, eravamo solo dei fioi, con più ambizioni che competenze e, una fifa folle di sputtanarci a vita.  Avevamo la convinzione che sarebbe bastato prendere il microfono e sparare quattro troiate, per dire addio agli sfigati anonimi. Invece, eccoci lì, bloccati, impantanati in un silenzio imbarazzante. 

Ci guardammo l’un l’altro, cercando disperatamente una soluzione. Tanto per cambiare dall’agitazione EnsoPenso ne mollò una delle sue. 

Va ‘vanti ti, scomissia ti”, alla fine toccò a me aprire le danze e, questo ve l’ho già raccontato. Quello che non vi ho detto è che ci rendemmo subito conto che ‘sta roba della radio non era un giocattolo ma, una cosa seria. Mentre noi, eravamo solo dei ragazzini con il sogno di fare i fighi ma senza un piano concreto. Nemmeno un foglio di appunti. Manco una scaletta; solo tanto entusiasmo.  

Non ci restava che adeguarci. Come tutte le altre radio, decidemmo di iniziare con un programma di “dediche e richieste”, il grande classico dei palinsesti delle prime radio libere. Avevamo visto che era una cosa che, almeno nelle altre radio, funzionava alla grande, chi eravamo noi per metterla in discussione?  

A questo punto, è doveroso rendere omaggio al nostro mentore involontario: il leggendario programma “Musica per voi” di Radio Capodistria, il progenitore delle dediche radiofoniche di mezzo mondo. 

Ancora oggi mi viene da ridere quando ripenso a quegli annunci, scolpiti nella memoria come le poesie di scuola: “Un trenino carico di auguri per la cara zia, nonna e mamma, Elvira Scattolin di Scorzé Venezia”. Il tono era solenne, quasi liturgico, come se un trenino carico di auguri fosse una cosa reale, che bisognava annunciare con la stessa gravità di un bollettino di guerra. E poi c’era la pronuncia: gli accenti non esistevano. In questo caso Scorzé diventava “Scorze”, come le bucce di mela. Le doppie non esistevano, ogni parola veniva storpiata con una sicurezza che lasciava senza fiato. 

Ma il meglio era il procedimento per fare una dedica. Bisognava organizzarsi mesi prima. La procedura era un misto tra una pratica burocratica e un rituale sacro. Si scriveva il messaggio con una cura maniacale, cercando di evitare errori, lo si infilava in una busta con un’offerta che sembrava più un’oblazione – mancava solo il cero votivo – e si spediva il tutto per posta. La pazienza era obbligatoria: se fosse andato tutto bene, la dedica sarebbe stata letta tre settimane dopo altrimenti, c’era il rischio che a nonna Elvira gli auguri arrivassero quando, già da tempo, si trovava in compagnia di san Pietro. Lo speaker di allora, il mitico Branko, mandò in onda la dedica per gli ultimi cento giorni di naja del contingente di mio fratello, dopo circa sei mesi che si era congedato. 

E poi c’erano le canzoni, sembrava che i compagni Jugoslavi avessero solo due dischi. Per anni – decenni forse – sembrava che l’unica musica dedicabile fosse composta da due titoli: “Mamma” di Beniamino Gigli e “Bandiera rossa”. Qualcuno ogni tanto azzardava un “Romagna mia” per variare, ma il rischio era alto. Il risultato era che il palinsesto di “Musica per voi” assomigliava al repertorio musicale di una festa dell’Unità. 

A dire il vero anche noi abbiamo iniziato con le dediche scritte su bigliettini di carta visto che non avevamo il telefono. A dire ancora più il vero le prime ce le inventavamo di sana pianta.  

Parlando poi di dischi, c’era poco da prendere in giro gli amici che stavano dall’altra parte dell’Adriatico. All’inizio potevamo contare solo sulla donazione di mia cugina Franca, ovvero un pacco di quarantacinque giri ammuffiti degli anni Sessanta. Mi ricordo che avevamo “Prendi questa mano zingara” di Iva Zanicchi e “Senza fine” di Gino Paoli e Ornella Vanoni che, EnsoPenso storpiava in “Prendi questo in mano Zingara” e “Senza fighe”. 

Al fine di implementare il nostro parco canzoni e riuscire a far fronte alle richieste dei nostri quattro ascoltatori adottammo un metodo rigoroso ovvero, richiedere le canzoni più in voga alle radio concorrenti e, tramite il fido radioregistratore Grundig di Tito, riversarle su audiocassetta. Il tutto, con la speranza che quel becanoto di speaker non ci parlasse sopra; altrimenti, toccava rifare tutto daccapo.  

Approfitto di queste righe per scusarmi con gli illustri colleghi di un tempo, inconsapevoli fornitori di Solaradio. 

Alla fine, avevamo accumulato parecchie decine di audiocassette. Il problema era che per mandare in onda il brano che ci avevano richiesto, bisognava aprire una ex rubrica telefonica dove c’erano le canzoni in ordine alfabetico e, già questo era un dramma. Ancora oggi ho il dubbio se erano Le Freak che cantavano Le Chic o Le Chic che cantavano Le Freak; mi ricordo che nella rubrica, per non sbagliare, questa canzone la trovavi sia sotto la lettera C che, sotto la lettera F. A fianco del titolo era annotato il numero della cassetta e la relativa posizione nel nastro. La ricerca della cassetta era un altro dramma in quanto spesso era finita chissà dove o peggio, se l’era portata a casa qualcuno. Morale, se tutto filava liscio, ci volevano quasi due ore tra la richiesta e la messa in onda del brano, sempre ammesso che quest’ultimo si trovasse in una di quelle mitiche cassette altrimenti, bisognava aspettare un po’ di giorni affinché uno di noi richiedesse il brano a un emittente concorrente, pregando il DJ di non parlarci sopra perché, la fantomatica Giulia alla quale era dedicata voleva ascoltarla senza interruzioni.  

Il nostro più grande handicap però, rimaneva la mancanza del telefono. Un giorno, preso dalla frustrazione per l’assenza del prezioso strumento, quel gran mona di Paperoga, decise di sparare dai 107,8 FM il numero di casa sua che, era due piani più sotto della mansarda; fu una tragedia. Quella che segue è la trascrizione integrale della prima storica telefonata a SolaRadio, effettuata da Memo Bottacin, schiacciato insieme a Gino Furlan e Tony Sabbadin nella cabina adiacente il bar da Nane. 

Memo; “Pronto xe ea radio?” 

Sior Ottorino Ballarin, papà di Paperoga; “No, questa xe fameja Baearin” 

Memo; “Ma no xe quei dea radio? Xeo sicuro?” 

Sior Ottorino; “Sicurissimo ghe digo 

Memo; “El me scusa maestro, ma questo no xe el ******?” 

Sior Ottorino; “Si che el xe el ******. Ma no xè ea radio ghe digo” 

Memo; “Mah, no’ capisso, Paperoga, uno de quei dea radio ga da ‘sto numero” 

Sior Ottorino; “Issamorti, ‘desso go capio xe quell’insemenio de me fio e ‘staltri fioi de sora in mansarda” 

Memo; “Aeora sior el xé toga nota se el pol” 

Sior Ottorino; “come che el vol paron” 

Memo; “aeora el scriva se i pol gentilmente ‘ndar tutti quanti ben, ben in cueo de so mare” 

Sior Ottorino; “Co piasser paron” 

Sior Ottorino salì a portarci il foglietto con la “dedica” di Memo e compari. Poi, ci tenne a precisare che quella era casa Ballarin e non Solaradio e che se avesse ricevuto altre telefonate avrebbe lui stesso provveduto a spezzare con le sue mani il palo dell’antenna e ficcarcelo in un certo posto. Il tipo era un omone alto un metro e novanta che di professione faceva il battilamiere al Breda, per cui, dovevamo veramente preoccuparci del fatto che potesse mettere in atto le sue minacce. Per non so quanto tempo, continuammo con i bigliettini. 

E, per non so quanto tempo, continuammo senza dare un titolo a quel mitico programma che finì per diventare il cuore pulsante della nostra emittente, quasi l’anima stessa della radio. 

Dopo alcuni mesi, constatai con piacere che condurre “dediche e richieste”, mi stava dando la meravigliosa opportunità di conoscere molte persone. Mi resi conto che, non era un semplice programma radiofonico ma, un momento di connessione, un ponte tra me che stavo dietro un microfono e chi mi ascoltava. Ogni brano che trasmettevo era più di una melodia: era un abbraccio, una mano tesa nel buio, una promessa di non essere soli. Fu così che mi balenò l’idea di battezzarlo “non più soli con SolaRadio”.  

“Non più soli con SolaRadio”, divenne anche un palco tutto nostro; uno spazio etereo in cui sfogare la nostra creatività, le nostre illusioni romantiche e, soprattutto, la nostra abilità nello sparare puttanate. 

Ci inventavamo dei personaggi che intervenivano con false telefonate in diretta. Io facevo la parte di un certo Gino Bulighin, el sindaco de Badojon. Divenne un mito, merito soprattutto delle mie origini contadine dalle quali ho ereditato una cadenza vocale diciamo … tipicamente country. 

Ognuno di noi quattro poi, usando uno pseudonimo, si trasformava in un “dedicatore”;  

Paperoga, da sempre maestro negli scherzi, si divertiva con i falsi appuntamenti. Tra le dediche che leggeva, c’era sempre una fantomatica donna in cerca di un uomo. Seguivano luogo, giorno e ora dell’incontro. L’unica cosa reale? Il luogo e il malcapitato destinatario, che di solito era qualcuno che ci stava cordialmente sulle palle. Se non avevamo impegni, ci appostavamo nei paraggi per osservare la scena, per vedere, come diceva Enzo Jannacci, “di nascosto l’effetto che fa” 

EnsoPenso, da assatanato di sesso come è sempre stato, leggeva dediche di improbabili ninfomani. Le sue “vittime” erano spesso gli habitué del bar da Nane, affetti come lui dal maldemona. I messaggi erano inenarrabili, ma immancabilmente accompagnati da Could It Be Magic di Donna Summer. Per chi se la ricorda era la classica colonna sonora di certi film mentali che noi maschietti ci proiettavamo mentre ce ne stavamo chiusi in bagno con il catalogo Postal Market. 

A proposito di canzoni piccanti, quasi ogni sera un tale “filosofo pazzo” dedicava Je t’aime moi non plus a Francesca S. pregandola di lasciare quello stronzo con cui stava insieme, visto che il già menzionato, se la faceva con tale Cristina S. Dettaglio non trascurabile, quel tale “filosofo pazzo” era il Tito mentre lo stronzo di turno era lo stronzissimo Riccardo Beltrame.  

Quanto a me, nei panni di Enea, dedicavo infinite canzoni d’amore alla mia Didone, che altri non era che Vera. Attraverso quelle melodie, speravo potesse riaffiorare il nostro amore. 

Conducendo questo programma, ho imparato lezioni che nessun libro e nessun intellettuale con la puzza sotto il naso potrebbe mai insegnare. È vero, molti nobili saccenti, culturalmente elevati, lo snobbano. Ma a me ha svelato un segreto semplice e prezioso: una radio, anche piccola e modesta come la nostra, non è soltanto un mezzo per trasmettere canzoni. È molto di più. 

La radio è una cura. Non per il corpo, ma per l’anima. Attraverso la musica, sa trovare un varco nelle crepe lasciate dal tempo e dalla vita. Ogni nota è un balsamo, ogni melodia una carezza, capace di lenire quelle ferite invisibili che ognuno di noi si porta dentro. È un abbraccio sonoro che non giudica, non chiede nulla in cambio, ma offre conforto e speranza. 

Ogni dedica è una finestra che si apre sull’anima di chi ascolta, un segreto sussurrato che trova la sua voce nella musica. È come se, per un istante, la distanza tra due persone – che sia fisica o emotiva – si annullasse, lasciando spazio a un’armonia condivisa. C’è qualcosa di profondamente magico in questi messaggi, li vedo come una sorta di preghiera laica, un filo invisibile che collega vite e cuori attraverso le note. 

Penso alle migliaia di canzoni che ho mandato in onda per i miei ascoltatori; non sono solo brani ma, pezzi di vita, frammenti di memoria che hanno lasciato segni profondi. Raccontavano una storia, un momento in cui la vita ha preso una svolta inaspettata. Brani che trasportavano sogni, altri che portavano il sapore di un addio, altri ancora che, nel loro ritornello semplice, hanno saputo custodire una felicità irripetibile. 

Ogni canzone non è solo un regalo per chi ascolta, ma un viaggio anche per me. In ogni melodia, ritrovo emozioni che credevo dimenticate, tracciando una mappa invisibile che attraversa il tempo e il cuore. 

Dediche e Richieste è stato il programma con cui ho mosso i primi passi nel mondo della radio e da allora non ho più smesso. È stato il mio battito iniziale, la scintilla che ha acceso una passione destinata a durare per sempre. 

Radiofonicamente parlando, ho provato a fare altro, a intraprendere strade diverse, ma non possiedo le qualità artistiche per lasciare un’impronta altrove. E poi, ogni volta che penso di abbandonare quel programma, mi sento come se stessi voltando le spalle a un vecchio amico. Un amico che mi ha accompagnato nei momenti più belli e mi ha sostenuto nei più difficili, che ha dato voce ai miei sogni e reso indimenticabili tanti piccoli frammenti di vita. Rinunciare a lui sarebbe come rinunciare a una parte di me, a quella magia che solo la radio riesce a creare. 

Anche io, lo confesso, ho lasciato scivolare, tra le pieghe della notte, un messaggio subliminale diretto a qualcuno che ha un posto speciale nel mio cuore. È strano come una semplice canzone possa dire tutto quello che non abbiamo il coraggio di pronunciare a voce. E quando quella canzone risuona, è come se l’universo intero sapesse, anche senza parole, cosa intendo dire. 

Se sarai vento, canterai 
Se sarai acqua, brillerai 
Se sarai ciò che sarò 
E se sarai tempo, ti aspetterò 
Per sempre 

Se sarai luce, scalderai 
Se sarai luna, ti vedrò 
E se sarai qui non lo saprò 
Ma se sei tu, lo sentirò 

Ovunque sarai, ovunque sarò 
In ogni gesto io ti cercherò 
Se non ci sarai, io lo capirò 
E nel silenzio io ti ascolterò 

Se sarò in terra, mi alzerai 
Se farà freddo, brucerai 
E lo so che mi puoi sentire 

Dove ogni anima ha un colore 
Ogni lacrima ha il tuo nome 
Se tornerai qui, se mai, lo sai 
Che io ti aspetterò 

Ovunque sarai, ovunque sarò 
In ogni gesto io ti cercherò 
Se non ci sarai, io lo capirò 
E nel silenzio io ti ascolterò 
Io ti ascolterò … 

© 2022 – F.M. Fanti “Irama” / G. Colonnelli / P.M. Lombroni Capalbo “Shalbo” / V.L. Faraone 

Ovunque sarai … ascolta il podcast

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2025 Michele Camillo

Il mio piccolo Natale

Credo che per ognuno ci sia un momento preciso in cui crolla definitivamente il mito di Babbo Natale. Per me fu quando Paperoga piombò nello studio in modo teatrale, con sottobraccio Christmas Jollies della Salsoul Orchestra. Preso usato a solo cinquemila lire, l’affare del ventesimo secolo.  

La faccia di EnsoPenso, mentre ammirava la tipa in copertina vestita da Babbo Natale – o meglio, svestita – con mezzo lato B in libera esposizione, diceva tutto. Non parliamo poi dei commenti sulle “qualità artistiche” della ragazza. Una sequela di volgarità che non posso ripetere senza rischiare di essere censurato. Poi, prese il disco del Piccolo Coro dell’Antoniano e mimò il gesto di buttarlo dalla finestra. Ormai, quelle canzoncine di Natale che avevano allietato la nostra infanzia erano roba vecchia. La Salsoul Orchestra prese il posto di quel coretto. 

Stavamo crescendo e ormai a Babbo Natale non ci credevamo più, ma continuavamo ad aspettarlo lo stesso; parlo di quello con le sembianze della ragazza in copertina.  

Qua no’ xé drio cagarne nissun”. Tito, aveva il morale sottoterra. Erano giorni che sparavamo a ripetizione quel maledetto tormentone di Christmas Jollies, roba che se avessimo avuto uno spiritello del Natale in studio si sarebbe licenziato per esaurimento nervoso. Eppure, niente: risultati zero. 

Preciso che, per risultati o target come si usa dire per sciacquarsi la bocca con un termine in voga, non intendevamo la quantità di ascoltatori ma … la qualità. 

Per capirci, non ci interessava se chiamava siora Antonia, la nonna del Tito per chiederci se potevamo mandare in onda Bianco Natale che, tra parentesi, pur essendo il singolo discografico più venduto della storia, non avevamo. Ad ognuno di noi interessava che chiamasse una ben precisa persona. Il bello era che nessuno di noi quattro trovava il coraggio di chiamarla per nome. Era come se fosse un segreto di stato, custodito con la serietà di una spia sotto copertura.  

L’unico che osava rompere il silenzio era EnsoPenso, ma a modo suo. Il nostro amico, si prodigava in descrizioni millimetriche su come avrebbe dovuto essere vestita la misteriosa chiamante. Il tipo era molto attento al risparmio sulla stoffa; bastava una finissima magliettina luccicante, una minigonna “lunga” dieci centimetri e stivaloni con tacco venti. Quando ne parlava, vedevamo chiaramente la bava che gli usciva dalla bocca. 

Il mio segreto, la mia grande aspettativa natalizia, era un dono che non potevo mettere sotto l’albero ma che speravo di trovare comunque, avvolto in un sorriso. Speravo che Babbo Natale, con la sua magia goffa e onnipotente, mi concedesse un miracolo: incontrarla di nuovo. Speravo che le onde radio della nostra piccola emittente, fragili e incerte come un aquilone che sfida il vento, potessero arrivare fino a lei dovunque si trovasse. 

Era il primo Natale da quando, qualche anno prima SolaRadio, aveva acceso il trasmettitore, che decidemmo di passarlo in studio a trasmettere in diretta ma – con sommo sconforto – devo ammettere che né io né gli altri tre mandoloni conserviamo un ricordo particolarmente entusiasmante di quel debutto natalizio. Diciamo pure che, come battesimo, fu più simile a un gavettone gelido in piena faccia. 

Dopo il pranzo di Natale, il giorno di Santo Stefano, ci facemmo una colossale scorpacciata… di fegato, quando scoprimmo che la leader dei basabanchi di Azione Cattolica Giovani, tale Caterina Crevatin, aveva organizzato un’interessante festaio (festin con troiaio n.d.r.), nella taverna della sua villetta al quale aveva invitato tutti, tranne qualcuno. I tranne qualcuno eravamo noi quattro più Lele Zanon e Fabio De Bellis. 

Ora, per dovere statistico, va detto che Lele e Fabio erano da sempre fuori dai giochi sociali: li avevano esclusi già al momento dell’iscrizione all’anagrafe, con un timbro “non invitabile” sul certificato di nascita. Ma noi? Noi quattro speravamo ancora in un miracolo natalizio, sentivamo di meritarcelo in quanto ci illudevamo, in qualità di fioi dea radio, di essere dei gran fighi. 

Personalmente, ciò che mi devastò fu che all’uscita della messa di mezzanotte, proprio dalla Crevatin, mi beccai il primo bacio sulla guancia della mia vita, condito da calorosi auguri. Un bacio che, mi fece sentire una persona speciale. Ma quando scoprii del festone il giorno dopo, mi resi conto che quel bacio non era un gesto dolce. Era il bacio di Giuda in versione femminile. Altro che il cattolico spirito di fratellanza Natalizia! 

E come se non bastasse, la batosta finale arrivò a Capodanno. Alle feste di San Silvestro non ci invitò nessuno. Zero totale. Nessuno, tranne la solita siora Antonia, che ebbe il coraggio di chiedere se potevamo animare la festa del gruppo anziani della parrocchia.  

Fu così che le nostre prime festività natalizie da speaker di SolaRadio si trasformarono in una perfetta parabola esistenziale: da “La voce della comunità” a “Gli esclusi di professione”. Una lezione di vita, certo. Ma, almeno per quello che mi riguarda, il mio fegato, da allora, ne sta ancora soffrendo. 

Fu l’inizio di un periodo di amare consapevolezze. Le feste di Natale smisero l’abito fatto di lucine e magie per diventare il teatro di aspettative deluse. 

Cominciava a essere dolorosamente chiaro che non bastava fare i fighi perché parlavamo in una fantomatica radio. Pensavamo che il microfono fosse un’arma segreta, capace di darci fascino e autorevolezza, ma scoprimmo presto che non funzionava così. 

Tito e Paperoga si posero dei seri quesiti di carattere teologico sul significato del santo Natale: ma Gesù Bambino, esiste davvero? Perché, se esiste, come mai non ci manda una squinzia, o almeno un invito al festino dell’ultimo? Ma, soprattutto perché tutte le squinzie della parrocchia se le cuccavano certi stronzissimi miscredenti che non avevano nel curriculum nemmeno un’ora di frequenza al gruppo giovani del venerdì sera? Da quel Natale, smisero di andare a messa alla domenica.  

EnsoPenso, invece, non ebbe il coraggio di voltare le spalle alla sacra romana chiesa. Aveva una fifa blu – no, anzi, rosso fuoco – di finire dritto all’inferno, “là dove sarà pianto e stridore di denti”. Non che fosse un grande frequentatore delle scritture, ma quella frase gli ronzava in testa come una minaccia permanente, sparata a ripetizione da certi preti campioni di terrorismo psicologico. 

Così, per evitare ogni rischio di combustione eterna, decise di unirsi al coro parrocchiale. Oltre alla salvezza dell’anima, aveva anche un altro nobile obiettivo: butar sardon e attirare l’attenzione di una certa ragazza di cui preferiva non fare il nome, ma che noi tutti conoscevano. 

Fu, manco a dirlo, l’inizio delle sue disgrazie. Ma questa, cari lettori, è un’altra storia, è una tragedia che merita un capitolo a parte. 

Io invece, tanto per cambiare, non presi nessuna decisione, rimasi con il culo su due sedie, il mio classico modo di affrontare la vita. 

Anche quest’anno, nonostante tutto, il Natale continua inesorabilmente a presentarsi il 25 dicembre, che palle! Visto che non è legato al giorno preciso del compleanno di quello strano bambino di cui tutti ormai si stanno dimenticando; sono tentato di scrivere al Papa per far cambiare la data, festeggiandolo magari in estate; con buona pace per l’economia globale. 

Davanti alla friggitoria ambulante dove, da qualche anno ci ritroviamo per il rito della mossarea dea vigilia, Paperoga si è presentato, come quella volta, con un disco sottobraccio.  Anche se è quasi Natale era felice come una Pasqua per aver trovato in una bancarella di roba usata il vinile di Last Christmas degli Wham a soli tre euro, l’affare del ventunesimo secolo. 

Già eravamo felici per il puntuale arrivo di quella roulotte dall’aspetto vintage piena de roba onta da magnar; la vista di quella copertina poi, è stata la ciliegina sulla torta o, per dirla in termini natalizi, lo zucchero a velo sul pandoro. 

Vedere George Michael vestito da Babbo Natale, non ci attizzò come la tipa di Christmas Jollies, ma mise in moto una sorta di macchina del tempo ormonale iniziando a scatenare in noi quattro fioi dea radio, una vera e propria tempesta di particolari ricordi.  

Dal dicembre ‘84, anno di uscita di quel disco, per noi quattro, le cose iniziarono ad andare per il verso giusto; mi riferisco all’attività principale che più ci interessava allora (e forse anche adesso) ovvero, ‘ndar in batua, come si dice da noi. In effetti, da quel punto di vista, il Natale del 1984, forse grazie soprattutto a Last Christmas, fu memorabile. 

Tito mi ricordò quella volta che la ballai avvinghiato a ben tre ragazze contemporaneamente; le mitiche fie dea Cita, noto quartiere “bene” (si fa per dire) della nostra città. Al pensiero, sento ancora il “profumo” della bionda con i capelli alla Tina Turner, un misto tra sudore e deodorante da supermercato. La cosa più sconcertante fu quando tirò fuori dalla borsetta, che allora si teneva per terra sulla pista da ballo, un enorme flacone di lacca per capelli che puntualmente si spruzzò in testa. La densa nuvola ricadde anche sui miei, che già avevano addosso quattro chili di gel, irrigidendoli come se fossero di marmo.  

Paperoga alzò il bicchiere di vin brulè per ricordare che a breve sarebbero stati i quarant’anni del famoso 31 dicembre. Quell’ultimo dell’anno lo passammo nella mitica pizzeria “all’inferno” con ben nove fie tutte per noi. Il problema fu il trasporto ma, alla fine, grazie all’Alfasud di mio fratello, alla 127 Special del fratello di Paperoga e alla mitica NSU Prinz detta “vasca da bagno” del papà del Tito, riuscimmo nell’impresa; roba da guinness dei primati.  

Ma il vero record – e qui serve un po’ di suspence – lo battemmo nel nulla cosmico che successe dopo. C’erano nove fie. Nove! E noi quattro. Matematicamente imbattibile. E invece? Niente. Nada. Neanche un appuntamento il giorno dopo. Quelle, com’erano arrivate, si volatilizzarono. Puf! Ancora oggi non sappiamo come sia successo; forse erano delle extraterrestri. Certe cose potevano capitare solo a noi quattro. 

Visto che comunque, grazie a quello straordinario evento, mi ero fatto certi film; da bravo fio de cesa, dopo le feste andai a confessarmi da don Fabio, un pretino appena arrivato nella nostra parrocchia. Vuotai il sacco riguardo il mancato rispetto del sesto comandamento indotto dalla quantità industriale di scanociae che avevo dato a tutte quelle cocche. Mi assolse con un sorriso, dicendomi che forse nemmeno Lui avrebbe creduto a quello che gli avevo raccontato. 

Fu anche l’anno che fregammo il tratto allo stronzissimo Riccardo Beltrame dirottando quasi tutte le squinzie della sua compagnia nella gita che organizzammo sulla neve; una delle primissime iniziative sociali di SolaRadio. Quella volta fu EnsoPenso, adottando il classicissimo metodo della caduta accidentale, ad avvinghiarsi a ben quattro cocche. Quando glielo rammentai, il socio fece un gran sospiro dicendo che quelli erano stati i suoi unici anni felici e pieni di speranze. Vista la sua attuale situazione sentimentale non ho potuto far altro che allargare le braccia. 

Nella penombra le luci della console audio fanno tanto atmosfera natalizia. Mi piace starmene da solo in radio, la nostra fabbrica dei sogni. Rintanato nel minuscolo studio, circondato da pareti che sembrano assorbire i miei sospiri. 

Desidero che tornino certi Natali, ma mi ostino a ignorare una verità che brucia: quei Natali non torneranno. Sono diventati un’eco, un frammento incastonato nella memoria, intoccabile e distante. Un ricordo che mi abbraccia e mi trafigge al tempo stesso. 

Oggi mi trovo immerso in un vortice di aspettative, una corsa frenetica per fare mille cose che non voglio fare, mostrare una felicità che spesso non sento e, non da ultimo, essere costretto a fare gli auguri a chi mi sta sulle palle.  

Davanti a questo microfono continuo a mascherare la realtà, fatta di una vita che probabilmente non avrei mai scelto, di bilanci che non tornano. C’è la tristezza di un mondo che si muove troppo veloce, che sembra aver dimenticato il calore e l’autenticità, rimpiazzandoli con la corsa incessante verso qualcosa che non so neppure definire. 

Intorno a me, il mondo porta il peso delle sue difficoltà: le notizie che rattristano, le disuguaglianze che sembrano insormontabili, le ferite che si fanno sentire più forti nei giorni di festa. L’avvicinarsi del Natale è foriero di ansie e sensi di colpa che non riesco a scrollarmi di dosso; insomma, un incubo. 

A proposito di incubo, alcune notti fa, ho sognato che stavo correndo affannosamente a piedi scalzi sotto un cielo plumbeo, assieme ad un sacco di gente, in prevalenza donne e bambini. Dietro di noi c’era qualcosa di enorme che ci inseguiva e ci spaventava. 

E quando mi sono svegliato, sudato e confuso, ho capito che quel sogno era un riflesso, un’immagine rovesciata del mondo che vedo ogni giorno. Il peso delle sue difficoltà, delle sue ferite, non è solo nei titoli dei giornali o nei racconti lontani. È qui, nel mio cuore, nella mia mente, in quella corsa disperata verso una luce che forse non so più dove trovare. 

Nonostante questo, sono uscito di casa frettolosamente perché nel negozio dove dovevo andare era l’ultimo giorno che facevano il trenta. 

L’aroma di abete mi riporta a quando, bambino, aspettavo sotto l’albero che papà decorava in salotto; restavo lì, in una magica attesa. 

Eh già, l’attesa: ho capito che è proprio lei il cuore nascosto del Natale. 

Anche se ora non è più il fremito di un bambino che sognava di scartare un trenino Lima – perché il Rivarossi, purtroppo, era un lusso troppo grande per le tasche di mio padre ma, un’attesa diversa, più intima e sottile. 

Scopro che mi basta un piccolo Natale, fatto di emozioni minute ma preziose: la meraviglia di un incontro inaspettato, un gesto capace di sorprendermi, uno sguardo che accende, come una piccola fiamma, che sa riscaldare anche il gelo di un cuore distratto. 

Quel piccolo Natale non solo il solo ad aspettarlo. Natale è attesa e, per qualcuno che aspetta un segnale, anche piccolo: una bella canzone che risuona in un momento di solitudine, una frase gentile che esce da questo microfono e arriva a scaldare il cuore; quell’attesa sono proprio io. 

Fai anche tu un buon piccolo Natale 
Spingi il cuore su 
D’ora in poi stai fuori dai tuoi guai 
Se puoi, se vuoi, puoi 
 
Fai anche tu buon piccolo Natale 
Tieni il male giù 
Dopo un po’ finisce anche un momento no 
 
Siamo qui come tempo fa 
In quei giorni di allegria 
In compagnia di chi c’era già 
E non vorremo mai andasse via 
 
Tutto va, ma stiamo ancora insieme 
E se Dio vorrà 
Quella stella che ci guida da lassù 
Ci porterà un piccolo Natale in più 
 
Se è così che la vita va 
E il futuro è nostalgia 
Una bugia detta in verità 
E domani sia quel che sia 
 
Fatto sta che siamo ancora insieme 
Quanto poi, chissà 
Finché il cielo sopra questa notte blu 
Ci lascerà un piccolo Natale in più 

© 2012 Claudio Baglioni. Adattamento di “Have Yourself a Merry Little Christmas”, © 1943 Ralph Blane e Hugh Martin 

Un piccolo Natale in più … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

El Nadal da Nane

Silvano, xe ora che tiri fora ea roba”, l’ordine della Mari è perentorio; inizia l’operassion parecio. La cosa curiosa è che, col passare degli anni, il giorno fatidico in cui Silvano Visentin, general manager del bar “Nane Sbérega” è costretto a tirar fuori gli addobbi natalizi, arriva sempre prima. Probabilmente, tra un po’, sarà a ridosso di Ferragosto.

In realtà, per fare la sopracitata operazione, non ci vuole molto. Le luminarie sono perennemente montate, praticamente le stesse che usa d’estate per el redentor, tranne la stella cometa sopra l’insegna; anche se, quest’ultima, in certe afose notti d’estate, forse a causa di un contatto elettrico, mi è parso di vederla accesa. Anche le altre decorazioni, è possibile comunque ammirarle tutto l’anno; è sufficiente, mentre sei in cesso, alzare lo sguardo. Sulla mensola puoi notare un’albero spelacchiato con cinque palle di numero, uno scanchènico babbo natale e un cartello ingiallito con scritto “buone feste”. Alla fine, sono le uniche cose che Silvano deve tirar fora; ci pensa poi la Mari a portare qualche altra troiata comprata dai cinesi in fondo alla strada.

Ghe semo sà; el taca”; i “fioi”, si divertono a prendere per il culo il povero Silvano, pur consapevoli che, a breve, sarebbe toccato anche a loro. A differenza di Silvano, per loro il calvario è più lungo, si dovranno massacrare la schiena a son di far rampe di scale con pesantissimi e lerci scatoloni. L’anno scorso, Bruno Mestriner, ha rischiato l’invalidità permanente in quanto, per errore, ha portato su alla Lori, lo scatolone che, si trovava accanto a quello del presepio, dove conserva gelosamente alcuni numeri di “Le Ore”.

Memo Bottacin mi squadra minaccioso; “ti e ‘staltri to compari dea radio, vede de no’ tacar xà a svangarme i cojoni”; alludeva al fatto che, l’anno scorso, già da fine novembre, osai mandare in onda, Last Christmas degli Wham a gogo; per lui, un vero e proprio affronto.

Correva l’anno 1984, el Memo, aveva preso ‘na sbindoada per una tale Chiara Bertoldo; alta, bionda con gli occhi verdi; insomma, ‘na bea cocca. A dire il vero, l’intera popolazione di sesso maschile sopra i 14 anni frequentante ea ceseta, sbavava per Chiara; compreso, lasciatemelo dire che ne ho le prove, il prete. Nonostante tutta questa assatanata concorrenza, Memo era convinto di essere il suo preferito e, come cento altri, si considerava in dirittura d’arrivo. Il 24 dicembre, a metà mattina, accadde l’imprevedibile o, secondo me, il prevedibilissimo. Il Memo, da sempre un gran sognatore; quel giorno, sostava davanti a un paio di Rossignol color rosso Ferrari, esposti nel reparto sport dei grandi magazzini Coin. Oltre a trovarse na bea cocca, scopo principale della sua vita; desiderava passare in montagna le vacanze di Natale; proprio come facevano i siori o meglio, i siori fighi. Oltre che per radio, credo non ci fosse posto, almeno nel mondo occidentale, dove non venisse diffusa a nastro Last Christmas e, quel maledetto giorno, i grandi magazzini Coin, non erano certo di meno. Immagino anche che, mentre la ascoltava, il tipo, si stesse mentalmente proiettando un film in cui lui e Chiara rotolavano nudi nella soffice e bianca neve. Quell’attimo di serenità, indotto dalla canzone, venne interrotto, proprio dall’apparire della cocca, a manina con tale Marco Pacini; ho ragione di credere che, nella sua vita, ancora non gli sia capitata una disgrazia peggiore. In effetti fu un duro colpo per tutti noi spasimanti, essere messi di fronte al fatto che la pura e casta, almeno in apparenza, regina dea ceseta, si fosse messa con quel lurido miscredente nonché stronzo del Pacini detto, “el banca”; per il fatto che, praticamente il giorno dopo essersi diplomato ragioniere, mediante un abile operazione di paraculamento patrocinata da un noto politico del P.S.I. locale, finì a lavorare dietro uno sportello della Cassa Di Risparmio. Certe cose, non devono succedere il 24 dicembre; poi va a finire che odierai per sempre il Natale e Last Christmas degli Wham.

Noialtri fioi dea radio, abbiamo anche il potere di salvare vite umane; fortunatamente, almeno quella volta, bastò dedicargli prontamente la canzone antagonista, che uscì quasi contemporaneamente a Last Christmas, par tirarlo in qua. I Queen con Thank God it’s Christmas, ‘na mossarea co ‘e acciughe e un birin, lo fecero desistere dal butarse dentro l’osein.

Soe private i ga xa tacà, co’ i filmeti de nadal”. Un’altra cosa, che sta pesantemente sulle palle alla congrega degli habitué, sono i filmetti di natale americani; dove, come dice Denis Sgorlon, “ti vedi gran cocche che e va in giro coe tette fora e cotoe curte, so strade co’ tre metri de neve parte par parte”; un insulto alla miseria per quelli che, come molti frequentatori di Nane, vivono nella fame cronica di una certa cosa. Gli fa eco Dario Spampinato; “mi vago via de testa, par quee che de inverno va in giro coe cotoe curte e i stivaoni; Mari, ‘more, semo stufi de vedarte sempre in braghe, ti podaressi, almanco par el bianco Natale, darghe un fià de sodisfasion ai to veci amighi”.

E ti, ti podaressi ‘ndar ben, ben in cueo de to mare; fame un piasser, moighea de sparar bueae; prova ti a ‘ndar in giro co’ ea mona al vento, co’ ‘sto aguasso che xè de fora, vedemo se no’ ti te bechi ea cistite. Ve dago mi el Bianco natale, sugheve par ben el caigo e ea spussa de Marghera, che ve sbiro!”.

Non so se si è capito ma, nel microcosmo di Nane Sbérega, non aleggia lo spirito del Natale; l’unico spirito visibile è dentro un vaso, nel quale, ormai da decenni credo, è immersa dell’uvetta. Si tratta di un vero e proprio cimelio; gli storici riferiscono che fu donato, a metà anni settanta, da tale Vittorio Gavagnin, un ex mastro saldatore del Breda, in occasione del suo pensionamento. Purtroppo, il poro Vittorio defunse il giorno dopo; nessuno da allora, per paura che portasse sfiga, ha il coraggio di aprirlo.

Cossa ti ghe tol?”. Altro grossissimo tema, i regali. Allo scopo, vengono puntualmente istituiti degli appositi gruppi di lavoro; cito solo i più numerosi, “profumi e robe da dona”, “xoghi e cassae par i bocia”, “troiae che costa poco ma che fa bea figura”. Recentemente poi, se ne è aggiunto uno di singolare e curioso, “regai par e badanti dei veci”; per ovvie ragioni di pudore, non vi dico qual è il fine ultimo, non dichiarato, di questa particolare tipologia di regali.

Il problema più grosso però sono gli auguri; o meglio, come evitare di farli a chi ti sta sulle palle, ovvero la maggioranza di quelli che incontri involontariamente per strada o al lavoro; quelli che, circa tre mesi prima, ti dicono; “ohi, se no’ se vedemo, auguri”; ai quali vorresti rispondere “tranquio ‘more, che farò de tutto par no’ vedarte de novo

Vincenzino Quinterno, ex teron, ora con regolare cittadinanza veneta ed ex sergente maggiore dell’esercito, conosceva bene le tattiche per evitare il nemico ovvero, i suoi superiori di grado, quando gli era necessario imboscarsi. Ora, mette a disposizione le fini strategie acquisite in campo militare per gli amici avventori de Nane Sbérega, dispensando preziosi consigli su come evitare di incontrare certi musi da mona, per non essere costretti a fargli gli auguri.

A complicare ulteriormente questo già complicatissimo periodo, ci si mettono pure i sensi di colpa. A Natale, si sa, bisogna fare i buoni. “So xa bastansa intrigà a pensar dei cassi mii; figurarse se go tempo par quei de ‘staltri”. Questo è il pensiero comune, la filosofia di vita dei Nanesbéreghesi e, oserei dire, della maggior parte degli abitanti dell’universo; fa sì che, il dover fare i buoni, venga visto come un’altra grossa rogna da affrontare, un ostacolo insormontabile.

Se non si sta attenti, c’è il pericolo che, durante questi eterni e dolorosi giorni, ansia e depressione prendano il sopravvento. Ogni volta che l’illustre dottor Scarpa, l’ormai ex e, aggiungo, non ancora rimpiazzato, medico della mutua di quartiere, fa capolino nel bar, trova sempre qualcuno che gli chiede, “dotor, no capisso par cossa ‘sto periodo stago cussì mal”; arriva prontamente la diagnosi; “par forsa, ti sta mal parché semo sotto e feste de nadal; e fa anca rima

Noialtri dea radio, comunque, ci siamo. Sempre in prima linea contro tristezza e solitudine; sguardo puntato sull’Osein, per far in modo che a nessuno venga voglia di buttarcisi dentro; anche perché, rispetto al 1984 è ancora più sporco e pieno di melma. Coraggio; questo travagliato periodo passerà velocemente; torneremo finalmente alla serena routine quotidiana, dove non ci saranno più persone che si rattristano ascoltando Last Christmas degli Wham e, dove non ci si dovrà più preoccupare di fare gli addobbi, i regali, gli auguri e … i falsi buoni.

Aea fine i xe desmentega sempre de quel poro fantoin; bastaria ricordarse cossa che el ga dito e che fine che el ga fatto

Milio Vianeo, 20 dicembre ’23. 

Frase pronunciata, alle ore 17.45 circa, dopo la quarta ombra de bianco, indicando il minuscolo presepe sul bancone, semi nascosto dal famoso vaso di uvetta sotto spirito.

Thank God it’s Christmas … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2023 Michele Camillo

El Mauri

Mai avremmo immaginato che il primo sarebbe stato lui. Fermò me e EnsoPenso  sotto i portici del palazzo dove abitava; “Ve go scoltà”, disse secco. “E aeora?”, rispondemmo all’unisono noi due. Il tipo era più che mai determinato a far parte dei nostri, a “fare radio” con noi. Conoscendo il personaggio ci guardammo alquanto perplessi e preoccupati. 

Non posso fare a meno di parlarvi del Mauri, senza prima raccontarvi del suo garage. Oggi si fa un gran parlare di startup e via discorrendo. Quarant’anni fa, nulla di tutto questo, c’erano però i garage. 

Servivano a tutto tranne che a tenerci la macchina, anche perché, non tutti ce l’avevano. Il garage era fondamentalmente un punto di ritrovo, deposito di sogni, laboratorio, discoteca, ludoteca, palestra, rifugio anti-genitore che ti voleva pestare a sangue dopo un brutto voto a scuola, sala prove, officina, deposito alimentare per far fronte all’imminente avvento della terza guerra mondiale, luogo in cui stare fuori dalle sgrinfie della moglie per cazzeggiare in assoluta libertà. Mi fermo qui, l’elenco sarebbe lunghissimo. 

Il portone di quello del Mauri, al secolo Maurizio Furlanetto, non era color grigio topo come gli altri ma, dipinto in rosso vivo, alla faccia del regolamento condominiale. Per essere un garage, l’arredamento era un po’ particolare: luci colorate, divanetto e, appesi alle pareti, dei poster che vi lascio immaginare. 

Quei dieci metri quadrati scarsi erano la sua confort zone. Il rifugio dalla sua scalcagnata famiglia, di cui Mauri non aveva mai fatto parola con nessuno.  In realtà il triste quadretto facevi presto a farlo, padre lavoratore saltuario a Porto Marghera, alcolizzato e sempre pronto ad alzare le mani. La madre, come se non bastasse, era una alla quale mancava un boio ovvero, non era molto a posto con la testa, Ermanno, il fratello maggiore, praticamente volatilizzato. 

Non appena chiudeva il basculante, ti ritrovavi immerso in un’atmosfera peccaminosa, pareva di essere al night. Mauri iniziava col tirare fuori dai calzini il pacchetto di sigarette; nulla di illegale, solo puzzolentissime Camel. Poi, con aria da sfida lanciava addosso a noi sbarbai gli ultimi arrivi in fatto di riviste porno. Lo faceva principalmente perché riteneva non sufficienti le nozioni di educazione sessuale che ci venivano impartite a scuola; in più, aveva a cuore che noi fioi de cesa, venissimo a conoscenza di certe cose di cui i preti non ci parlavano ma che, secondo lui, praticavano ugualmente. 

La domenica pomeriggio, per il piazzale dei paeassoni, transitava uno strano autobus che, al posto del numero aveva un cartello con disegnati due piedi neri e la scritta “Ranch”. Mi ricordo che chiesi a mia madre se potessi salirci assieme a Tito. “Porseo!”, seguito da una cinquina ben piazzata sulla guancia, fu la pronta risposta. 

Mauri era più grande di noi ed era anche l’unica persona di nostra conoscenza che la domenica pomeriggio saliva su quell’autobus. A noi, non restava altro che affidarci ai suoi racconti che, il tizio non esitava a propinarci con dovizia di particolari. 

Restavamo incantati mentre narrava delle sue performances di alto livello con quea o ‘staltra. Quea e ‘staltra erano fie dei paeassoni alle quali il Mauri, aveva appioppato una certa reputazione e che, per me, finirono per essere le interpreti principali di certi film che mi proiettavo. 

Qualcuno di noi, in piena tempesta ormonale, nonostante fosse facilmente intuibile che, el Mauri, le contava che e pareva vere, pensò bene di chiedere udienza a quea e ‘staltra chiedendogli esplicitamente de caearghea. Le ruspanti ragazze ripagarono le sue richieste sull’unghia, nel senso che, il malcapitato ne uscì con cinque sfregi su entrambi i lati del volto; in più, come se non fosse bastato, venne colpito con un calcio ben assestato la, dove non batte mai il sole. 

Quell’episodio, se non fosse stato evidente, rese chiaro a tutti che el Mauri raccontava solo delle favole, assai piccanti ma sempre favole; e questo, gli valse l’appellativo di Andersen. 

Ripensando alla proposta di collaborazione di Mauri… Va bene, eravamo i pionieri delle radio libere, ma uno con quel curriculum ci faceva sudare freddo. Non è che potevamo proprio mandar su un porno show in radio! Anche se, a pensarci bene, a cominciare dai frequentatori del bar da Nane Sbérega, potevamo contare su una cospicua platea di potenziali ascoltatori bavosi; il successo sarebbe stato assicurato. Forse, però, era un po’ troppo audace. E poi, diciamocelo, all’epoca c’era già Cicciolina a monopolizzare l’attenzione. 

Dovetti tenermi aggrappato a una colonna, cercando di non rotolarmi per terra mentre EnsoPenso, in dialetto stretto, mi snocciolava i titoli possibili per il programma. Ero piegato dalle risate. 

Uno così però non ce lo potevamo lasciar scappare; intuimmo che comunque avrebbe portato ascoltatori. Così sin dal giorno dopo, fu il quinto a parlare davanti a quel microfono dentro quella mansarda al civico 69 dei paeassoni. L’unico favore che gli chiedemmo fu quello di evitare di fumare in studio; rispose che lo avrebbe fatto se EnsoPenso avesse smesso di scoreggiare. Andò a finire che nessuno dei due cedette e io, Paperoga e il Tito ne pagammo le conseguenze. 

DJ Andersen, così decise di farsi chiamare; come da previsioni, si rivelò una sorpresa pazzesca. Le sue storie? Altro che quello che immaginavamo noi! Erano racconti fantastici, tutti frutto della sua mente galoppante. Esordiva sempre con frasi tipo “ho sentito dire che…” o “mi hanno raccontato che…”, e poi via, era un fiume di parole in piena, riusciva ad incantare anche noi quattro che lo conoscevamo da anni. 

Era un genio creativo: non avevamo mezzi per ricevere telefonate in diretta, che allora erano il top dell’interazione, ma lui che faceva? Fingeva! Cambiava voce, faceva accenti improbabili, usava audiocassette—e noi eravamo lì a ridere e scuotere la testa. E tra una storia inventata e l’altra, infilava pure della buona musica. Si badi bene, roba piratata che gli procurava il suo spacciatore di fiducia un tale Ciro Ammendola, frequentatore abituale del bar da Nane, nonché figlio di Vincenzino, appuntato della Finanza. 

Memorabile quella volta che raccontò del bottino di guerra, sepolto da un gruppo di soldati tedeschi in fuga, accanto a un albero solitario nei pressi del cimitero; alcuni giorni dopo, tutti gli alberi dell’intera gronda lagunare, avevano delle strane buche attorno. 

Una sera, mentre eravamo soli io e lui in radio, gli chiesi da dove nascesse la sua passione per il raccontare storie. Mi rispose che era qualcosa che aveva sempre avuto dentro, come se fosse innato. Mi spiegò che raccontare era anche un modo per far prendere, almeno nella fantasia, alla sua vita, la piega che avrebbe voluto. Nei suoi racconti, poteva scegliere di essere chiunque e, soprattutto, di smettere di essere uno qualunque. A quel punto, fu facile, per me, intuire che i suoi personaggi celavano di volta in volta, una singola parte nascosta di sé, una verità che rivelava solo attraverso le sue storie. 

DJ Andersen, fu il primo a unirsi al nostro viaggio, e anche il primo a lasciarci. Fin dall’inizio compresi che Solaradio era una realtà troppo stretta per un’anima vasta come la sua. Misi in preventivo che un giorno, inevitabilmente, avrebbe raccolto tutte le sue storie in una valigia, per partire alla ricerca dell’infinito, seguendo il richiamo di orizzonti senza confini. 

Lo fece come solo le anime libere sanno fare: con il coraggio di chi è disposto a buttarsi, a rinunciare a certezze e abitudini per cercare qualcosa di più. Era così, Mauri: una persona che non aveva paura di mettere in discussione la strada conosciuta, pronta a scommettere su sé stesso, a differenza di me, legato alle mie sicurezze, alle mie piccole certezze che, col tempo, ho riconosciuto come illusioni confortanti. 

Non avrei mai voluto che quel giorno arrivasse ma ero contento per lui. Prima di partire, volle salutarmi con un ultimo spritz da Nane. Gli chiesi, con una punta di nostalgia e curiosità, se nella grande radio dove era diretto avrebbe continuato a raccontare storie, quelle sue magiche “balle” che sapevano incantare chiunque ascoltasse. Mi guardò e rispose: “Par forsa, no’ so bon de far altro”. 

Spesso mi capita di voltarmi indietro, di indugiare nel rimpianto, convinto di, non aver mai fatto nulla di buono e non aver lasciato un segno. Poi mi torna in mente ciò che mi ha insegnato il Mauri: il valore delle relazioni, l’arte di seminare una piccola, luminosa traccia di sé negli altri. Un frammento della propria anima, condiviso con sincerità, può vivere per sempre nei ricordi di chi lo ha accolto. E in quel pensiero, trovo conforto: non si è mai davvero invisibili quando lasci, anche per un minuscolo attimo, un pezzetto del tuo cuore lungo il cammino di un’altra persona. 

Vi è al mondo una strada, un’unica strada che nessun altro può percorrere salvo te: dove conduce? Non chiedertelo, cammina. Friedrich Nietzsche 

Sogna ragazzo sogna … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

E tu come stai

Sono ormai anni che la domenica non vado più a messa, il motivo preciso non so spiegarmelo. Probabilmente sarà perché la chiesa non è più frequentata da belle squinzie come una volta ma, solo da vecchiette intente a sgranare il rosario, al fine di ottenere, solo per loro, la priority line per il paradiso. Mentre, per un’infinità di altre persone, chiedono a Dio di riservargli un posto all’inferno tipo, ad esempio, l’immigrato che, secondo loro, gli è ingiustamente passato davanti al pronto soccorso. 

Comunque, penso che se anche compio un rito più laico, ovvero quello di andare in radio quasi ogni santa domenica mattina, faccio qualcosa di buono per una piccola fetta di umanità. Non sarà una grande cosa ma, far sorridere quelle quattro anime che mi ascoltano, mi fa sentire almeno un po’ a posto con la coscienza. 

L’unica cosa che son sicuro non faccio di buono è quella di fermarmi prima in pasticceria dalla Cesarina, quella di fianco alla chiesa; per questo so di certo che finirò all’inferno nel girone dei golosi. 

Ad un sacco di gente piace l’estate, a me no! Caldo e zanzare mi fanno andar via di testa, non vedo l’ora che arrivi il freddo. Forse c’entra mio padre, che mi diceva sempre che ero “un salame e tale sarei rimasto”: e si sa, i salami stanno bene al fresco. Sarà anche per questo che adoro ficcarmi a letto con il piumino, che mi avvolge come il budello di un salame. 

Altro che agosto, preferisco novembre con i suoi colori caldi e avvolgenti, che dipingono il paesaggio come una tavolozza d’artista. Adoro persino la nebbia, che avvolge tutto in un abbraccio soffice e sfumato, rendendo ogni cosa più dolce e misteriosa. 

Questa mattina la nebbia è una figata pazzesca; il cupo suono delle sirene delle navi, che arriva da porto Marghera, rende l’atmosfera perfetta. Da un momento all’altro mi aspetto di veder sbucare dal portico di uno dei caseggiati, Diabolik e Kriminal assieme. Da appassionato di fumetti, non ho idea di quante storie, ambientate nel quartiere, mi sono inventato finora.  

Una sagoma in lontananza; dalla stazza sembra proprio Patsy, il fido assistente di Nick Carter, invece è lui, Icio el Ciccio. Eccolo, puntuale come un orologio svizzero, solo ed esclusivamente la domenica mattina, dalle otto alle nove, fa la sua sana passeggiata, fumandosi un intero pacchetto di sigarette. Il fumo della sigaretta sommato alla nebbia rende la sua sagoma ancora più fosca, lo riconosco solo dal lercio impermeabile grigio topo e dalla voce roca da nicotin-dipendente.  

“Ohi maestro, titamorti, ti el to’ amigo Bajoni gavè rotto i cojoni … e fa anca rima”.  

Dovevo aspettarmelo. In effetti, ultimamente con il “mio amico”, sto esagerando. Sarà che sto attraversando un periodo particolare, in cui i ricordi legati alle sue canzoni sembrano riemergere con prepotenza, come se ogni strofa aprisse un vecchio cassetto della memoria. Mi rendo conto che questa mania di rimanere ancorato al passato, di rifugiarmi nelle sue melodie, sta lentamente risucchiando il mio presente, rischiando di rovinarmi anche il futuro. 

Dovrei smetterla di cercare risposte in pezzi di vita già vissuti e lasciare andare quei versi che mi trattengono. Sento che, per andare avanti, dovrò trovare una nuova colonna sonora, una che mi accompagni verso il domani senza farmi guardare troppo indietro. Sento anche che è più facile far smettere di fumare Icio el Ciccio

Nei mitici ’80, dire che ti piacevano le canzoni di Baglioni, era quasi una bestemmia. Per non giocarmi la reputazione, in radio, non mettevo mai i suoi dischi. Quando mi chiedevano se lo conoscevo, lo rinnegavo come fece Pietro nel cortile del sommo sacerdote. A quei tempi, specie qui in quartiere, eri qualcuno se ti riempivi la bocca con De André o Guccini, a malapena ti tolleravano se parlavi di Venditti. Quando però uscì Strada facendo, inno autobiografico ufficiale di noi moltoni dagli occhi scuri, non resistetti dal mandarlo in onda a ciclo continuo; in conseguenza di ciò, cadde brutalmente la mia facciata di DJ impegnato e, il Baglioni divenne, “el me amigo”. 

La nebbia la domenica mattina è una figata pazzesca se poi, come colonna sonora, ci metti la malinconica e poetica Poster del mio amico Claudio, è la morte sua. Mentre la fischietto, mi prende una felice nostalgia, accelero per arrivare in radio quanto prima, secondo me è ancora lì, ne sono sicuro, “del porseo no xé butta via mai ‘gnente”, come dicono i nostri contadini. 

Qualcuno si è divertito a mescolarli ma, dovrebbero essere all’incirca in ordine per autore; lettera B, mi prendono le palpitazioni, eccolo! Lo annuso, odore di muffa, le macchioline gialle sì, è proprio lui, quello di casa mia, l’originale del 1972. 

Nel 1972, avevo otto anni ed ero in terza elementare, mi ricordo benissimo la sua posizione nella libreria, era tra Close to the Edge degli Yes e Tick as a Brick dei Jethro Tull. Fino all’arrivo de, Il mio canto libero di Battisti, era l’unico disco in lingua italiana posseduto da mio fratello e, ovviamente, l’unico del quale riuscivo a comprenderne le parole. L’interno era scritto tutto in corsivo e aveva un sacco di figure, cosa che, è universalmente noto, lo rendeva particolarmente attraente per un bambino.  

Mio fratello, dieci anni più vecchio di me, aveva il monopolio nell’uso del giradischi. Lo sfigato però, cacciato a suo tempo a calci in culo dalle medie, era al lavoro tutto il santo giorno, per cui, durante il pomeriggio, l’aggeggio infernale era completamente a mia disposizione. Anche se potevo ascoltare tutti i suoi dischi, nell’autunno del 1972, le uniche note che facevo uscire dal mitico WILSON ALLEGRO erano quelle di, Questo piccolo grande amore

Su ricordi ed emozioni che questo disco evoca, si sono spesi fiumi di parole. Credo però, che nessuno finora, lo abbia mai associato alle scatole di montaggio degli aerei AIRFIX. Lo so che molti sentimentaloni mi condannerebbero al rogo sulla pubblica piazza ma, non ci posso fare nulla. Quando ancora oggi sento Porta Portese o Piazza del Popolo, mi rivedo nella mia cameretta, curvo sulla scrivania, con le mani impiastricciate di colla BRITFIX e macchiate di colori HUMBROL, intento nella maldestra costruzione di un caccia VIGGEN o di un bombardiere BOSTON. Non me ne vogliano i soprannominati sentimentaloni ma, confesso, che ho usato la copertina come base per non rovinare la scrivania; sacrilegio! 

“La favola più bella che ti hanno raccontato”, all’incirca, era questo il titolo del temino da svolgere che Lauretta ci appioppò un piovoso lunedì. Piero Longato, il mio compagno di banco, iniziò a sbuffare e a scaccolarsi il naso. Io invece ero talmente incocaio, come diciamo noi, da quella giovanissima maestra che, qualsiasi cosa ci ordinava di fare, mi rendeva felice. 

La dolcissima Laura, una ragazza dai lunghi capelli biondi; da qualche mese sostituiva la signora Visentin, rimasta a casa perché, “doveva comprar un puteo”, così si diceva quando una era incinta. Credo non avesse nemmeno vent’anni. Non aveva nemmeno il moroso; questo era un dato certo visto che Lucia Manente, glielo chiese esattamente dopo circa trenta secondi dalla sua apparizione in classe. Questa notizia, per me, era, in qualche maniera, confortante. 

Quando mi ripresi dallo stato di trance, in cui cadevo ogni volta che la sua voce dettava qualcosa; realizzai che la faccenda era impegnativa. Finora, nessuno mi aveva raccontato una favola. I miei genitori lo avrebbero fatto solo qualche anno più tardi, titolo: “co’ ti gavarà finio ‘e medie te compremo el motorin”. 

Non potevo assolutamente deludere la bella Laura, dovevo lavorare di fantasia, cosa che, fin dai primordi della mia esistenza, mi è sempre riuscita bene. La osservavo mentre, con aria malinconica, seduta alla cattedra con le mani tra i capelli, era intenta a leggere un libro. La ragazza raffigurata nella copertina del disco le assomigliava tremendamente, stessi capelli, stesso sguardo dolce, forse era proprio lei; mi venne l’ispirazione del secolo. 

Con la mano sudata e, come sempre, sporca di inchiostro, iniziai a riversare sulle paginette del PIGNA a righe, quella che finora era la favola più bella che avevo sentito: “la maglietta fina”. 

Scrissi velocemente tanto quanto correva quel Claudio inseguito dalla Polizia che, per fortuna, riuscì a rifugiarsi in un bar fuori mano dove incontrò quella ragazza, bella come la maestra. Che lui si chiamasse Claudio era ovvio, perché aveva scritto il disco, mentre lei, boh, forse Maria, quella signora che aveva passato la trentina, (vallo a dire adesso), con cui passava la notte; così recitava una delle canzoni. 

Oltre alle pozzanghere di inchiostro, non ricordo con precisione quello che uscì dalla mia stilografica. Di certo affrontai un argomento un tantino spinto o, quantomeno inconsueto, per un bambino della mia età. A otto anni non avevo assolutamente idea di cosa significasse “andare a letto insieme” però, non mi sembrava una cosa brutta da scrivere; ricordo pure di aver scritto che erano nudi. Questo era vero; riguardando i disegni del mitico 33 giri, si vedono loro due nudi ai piedi del letto. Ora, non oso immaginare se, al posto della maestra Laura, ci fosse stata quella pia donna della signora Visentin, detta da mio padre “ea democristiana”, la mia faccia, come fosse la Walk of Fame di Hollywood, avrebbe ancora l’impronta della sua mano con, a fianco, quelle dei miei genitori. 

Man mano che la mitica PELIKAN riportava senza sosta e continuando a macchiare all’impazzata, quella storia incisa nel disco; iniziai a sognare che, un giorno anch’io, avrei fatto l’amore giù al faro, anche se, non sapevo ancora cosa volesse dire. 

E con lei, con lei ..”, la canzone mi risuonava nella testa; nei miei pensieri, la maestra Laura, in quel momento, prese il posto dell’aereo da montare di turno. Mi sarebbe piaciuto camminare con lei, mano nella mano, lungo il Tevere che scorreva lento, lento. 

Il martedì, leggemmo il tema di Enrichetto, quello di Francesca, di Marco, di Stefania, di Cristina; addirittura, quello di quel troglodita di Piero Longato. Suonò la campanella, il mio PIGNA era ancora lì, solo soletto sulla cattedra, quei vigliacchi dei miei compagni si erano già dileguati in un battibaleno. Avevo la netta sensazione di averla combinata grossa. Mi ero profondamente pentito di aver scritto quelle robe, confidavo nella mia calligrafia da gallina e speravo che Lauretta con avesse capito una mazza di quello che avevo scritto. Prevedendo la reazione di mio padre, sentivo già il culo bruciare. 

E’ una bella storia sai; tieni, mettilo via”; i suoi occhi divennero lucidi; mi abbracciò forte e mi diede un bacio sulla fronte poi, tenendomi ancora stretto a lei, mi accompagnò fuori dalla scuola. Non dissi una parola, ricordo solo un buon profumo come di talco. Anche lei, quel giorno, indossava una maglietta fina. Immaginavo tutto, soprattutto immaginavo, e speravo, che potesse essere quella mamma che non era mai presente. 

Cara maestra Laura, ti scrivo per dirti che il ricordo di quel tuo abbraccio ancora mi conforta nei momenti in cui le mie tante paure e fragilità prendono il sopravvento. Se mi permetti, come cinquant’anni fa, prendo ancora spunto da Baglioni e uso le sue parole. 

Cara maestra Laura, tu come vivi ? 

Tu cosa pensi, dove cammini ? 
Come ti trovi ? 
Chi viene a prenderti ? 
Chi segue ogni tuo passo ? 
Chi ti telefona, e ti domanda adesso; tu come stai? 

Io, sai, sto così, così; solo che adesso … 

Adesso che; non saprei ancora cosa dire; 

Adesso che; non saprei ancora cosa fare. 

E tu come stai … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE – © 2024 Michele Camillo

Quei dea radio

Dopo più di quarant’anni il culo ancora mi trema, ormai è un riflesso condizionato che si attiva quando attraverso lo stradone. Dovete capire che, una volta, passare il confine, ovvero lo stradone che delimita il quartiere dei palazzoni popolari, comportava un certo rischio, specie per chi, come me, abitava nelle viette; che, per ea banda dei paeassoni, era considerato un territorio nemico. 

Necessitavo di vista da falco al fine di individuare con anticipo la presenza minacciosa del terribile Maci Sabbadin e della sua gang. Dal punto di vista puramente statistico il 97% delle volte filava tutto liscio, riguardo il rimanente 3% preferisco sorvolare.  Purtroppo per me, anche se ero dotato di un fratello maggiore un po’ sbandato, questi non aveva una ammirevole fedina penale, tale da incutere timore e, nemmeno l’hobby di spaccare culi a gogo per difendere il fratellino. Che fare, non avevo alternative, visto che, all’ultimo piano del civico 69, c’era la mansarda di Paperoga, sede di SolaRadio. 

Amo ricordare; ad una certa età, diventa un gesto quasi naturale, un rito segreto che si compie con il cuore.  

Oggi, seduto su una panchina del vialone centrale, tra i colori e i profumi che mi avvolgono, celebro, in silenzio e con un sorriso tra me e me, i quarantacinque anni della prima trasmissione. È come se il tempo fosse qui accanto, un vecchio amico, e mi sussurrasse ricordi di un passato che, a pensarci bene, sembra ancora così vicino. 

I mesi che precedettero quel mitico giorno, li passammo a fare le cosiddette prove tecniche di trasmissione.  

L’unico posto rimasto disponibile sulla banda FM era in fondo alla scala, ai margini; per cui, sior Sergio tarò il trasmettitore sui 107,8 MHz.  Ormai ad essere ai margini ci eravamo da tempo abituati, se anche la frequenza di SolaRadio, rispecchiava questo status, non c’era da stupirsi. Il problema era che poco più in là iniziava la banda aeronautica. Ancora oggi quando sono in finale vista pista e in cuffia ho i 118,255 MHz, ovvero la frequenza di avvicinamento di Tessera, mi par di sentire voci familiari provenienti dal passato. 

Frequenza a parte, quello che a noi quattro interessava maggiormente era il “tiraggio” ovvero, la portata del trasmettitore. Anche se mai dichiarato, ognuno di noi aveva uno specifico obiettivo. Badate bene, non si trattava di raggiungere una certa fetta di popolazione ma, una determinata potenziale singola ascoltatrice. Così, ognuno, all’insaputa degli altri, fracassava i maroni a sior Sergio affinché orientasse l’antenna in una direzione piuttosto che in un’altra. Al sant’uomo stava per venire l’esaurimento nervoso. 

Pochi giorni prima dell’esordio mettemmo in atto un’intensa campagna pubblicitaria. Iniziammo con una conferenza stampa in bar da Nane; ottenemmo una serie di osservazioni del tipo: 

  • Voialtri se fora come un balcon 
  • Ma cossa casso faressi? 
  • Tanto no’ ve ‘scolta nissuni 
  • Gavè ea gente? Gavè i schei? 
  • Pensè a studiar e ‘ndar a eavorar che xe mejo 
  • Eo sa el prete che fe ‘ste robe? Eo sa vostro pare? Eo sa vostra mare? 
  • Se eo fè par ciavar, fe prima ‘ndar a puttane, ve costa anca manco 
  • Ste ‘tenti che i ve incuea  

Quest’ultima osservazione, fu senz’altro la più azzeccata. Con i soldi delle multe che ci hanno, nel tempo, appioppato avremo potuto costruire un palazzo tale e quale la sede RAI di viale Mazzini. 

Nonostante gli “incoraggiamenti” dei fioi del bar, ci mettemmo in sella alle nostre bici per un ecosostenibile volantinaggio. Spargemmo in giro un’infinita serie di minuscoli bigliettini con su scritto “Ascolta SolaRadio FM 107,8”. Guarda caso, alcune migliaia di queste striscioline di carta, finì nel giardino dei Bonesso; la loro secondogenita Silvia era la squinzia per cui si era preso ‘na incocaia el Paperoga. 

Di quel giorno, ricordo persino l’odore. Quel sabato pomeriggio alle quattro, in quartiere ristagnava un olezzo di fritto persistente; qualcuno, probabilmente, stava friggendo sardee usando l’olio esausto dell’auto. Non parlo delle bianche che, per l’emozione, EnsoPenso, mollò nel nostro minuscolo studio. La quantità di gas emesso dal retrobottega del socio era tale che se ci fosse stato un cortocircuito saremo saltati in aria, dando addio ai nostri sogni di gloria ancora prima di cominciare. 

Ricordo nitidamente le nostre facce rosse paonazze mentre eravamo pronti ad andare in onda. Il momento era solenne, i tre soci guardarono me; ero il predestinato per cominciare. 

Batte forte il cuore ogni volta che ci ripenso. Un respiro profondo, l’indice che sfiora il cursore del mixer, quello con l’etichetta “MIC”; in quell’istante, la mia voce ha iniziato magicamente a viaggiare nell’aria, leggera e vibrante, come sospinta da un’energia sconosciuta. 

Siamo sempre noi di Solaradio” Furono le prime parole che mi vennero in mente. Strano, quel “sempre”, come se trasmettessi da una vita. Forse, in fondo, era proprio così: come se una parte di me fosse sempre stata destinata a quella frequenza, a quel microfono, a quel momento. 

Poi, l’altra magia; appoggiai con la mano tremolante la testina sopra il disco, prima un leggero gracchio e poi … 

Music was my first love 
And it will be my last 
Music of the future 
And music of the past 
To live without my music 
Would be impossible to do 
In this world of troubles 
My music pulls me through (*) 
 

La musica è stata il mio primo amore 
e sarà l’ultimo. 
Musica del futuro 
musica del passato. 
Vivere senza la mia musica 
sarebbe impossibile. 
In questo mondo di guai, 
la mia musica mi tirò fuori. (*) 

L’emozione di quel giorno è anche legata indissolubilmente a Music di John Miles, il brano che scegliemmo per la prima volta, sapendo che avrebbe segnato un momento speciale. Quelle note scivolarono nelle nostre anime come raggi di sole attraverso finestre chiuse, e lì sono rimaste, ancorate nel profondo, pronte a risuonare nei momenti di silenzio e a farci sollevare lo sguardo oltre i muri delle difficoltà. 

Music è diventata il nostro talismano, una presenza sottile ma costante, una melodia che ci accompagna, ci sostiene, e non ci ha mai abbandonato. Da allora, è come se portassimo con noi un rifugio segreto, un’armonia che ci ricorda che la bellezza può trovare il suo spazio anche nei giorni più complessi, pronta a trasportarci altrove ogni volta che ne abbiamo bisogno. 

l giorno dopo fu ancora più memorabile. La gente ci fermava per strada, gli occhi brillanti di entusiasmo, e diceva: “Ve go scoltà!”. Erano i nostri “like” ante litteram, l’approvazione sincera e spontanea che solo le persone reali sanno dare. 

Da quel momento, ogni richiesta di collaborazione iniziava con quella stessa frase. Era come una password segreta, un segnale di appartenenza, un filo invisibile che ci univa a chi ci ascoltava. Non era più solo una radio: era una piccola comunità che cresceva, che credeva in noi e che ci spronava a fare sempre di più. 

Da quella prima trasmissione, “te go scoltà; ti ho ascoltato”, sono parole magiche che, per noi fioi dea radio, hanno il potere di trasformare una giornata, se non addirittura cambiare la vita intera. Parole che spesso hanno segnato l’inizio di una speranza, un incontro o un ritrovarsi. Parole che hanno fatto germogliare un’amicizia o addirittura qualcosa di più profondo. 

Sior Sergio, quel giorno, non si limitò ad accendere il trasmettitore. No, accese una scintilla molto più grande: la possibilità di uscire dall’ombra dell’isolamento e della noia, che qui nel nostro quartiere, più che in altri luoghi, pesavano come zavorre. Non era solo un tecnico con in tasca un diploma della mitica Scuola Radio Elettra, ma un sociologo a tutti gli effetti, sebbene senza laurea ufficiale. Aveva intuito che quella radio, per noi ragazzi, non era un capriccio, ma un bisogno vitale. La voce che potevamo far sentire attraverso le onde, ci permetteva di esistere davvero, di raccontare al mondo che eravamo qui. In fondo, non è solo una radio. È stata ed è ancora, la nostra via d’uscita, la nostra casa, il nostro sogno collettivo. 

E di questo gliene sarò grato per sempre, insieme anche a quella moltitudine di personaggi stravaganti che si sono succeduti ai nostri microfoni, ognuno portando la propria storia, il proprio sogno. Alcuni, dopo aver condiviso questa meravigliosa avventura hanno trovato la loro strada. Altri sono rimasti, ancora qui, a combattere in una giungla di frequenze, dove i segnali più forti cercano sempre di sovrastare i più deboli. Eppure, nonostante tutto, siamo felici. Felici di parlare ai microfoni di una minuscola radio e di appartenere a questo piccolo universo fatto di parole e suoni, felici di essere, per tutti, “quei dea radio”. 

 (*) © 1976 – John Miles 

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

Io ed i miei occhi scuri

Per capire chi fossimo noi quattro fondatori di SolaRadio, vi basta immaginare che quando c’era da formare due squadre per una partitella, noi eravamo quelli che usualmente venivano scelti per ultimi, o spesso non venivamo scelti affatto. 

Eravamo anche quelli che quando veniva organizzato un festino, a noi non veniva detto niente. E se al festino per miracolo qualcuno accidentalmente ci invitava, eravamo quelli appoggiati al muro con il bicchiere di Coca Cola in mano, che guardavano il pavimento con la speranza che qualcuna venisse a parlare con loro. E quella qualcuna, ovviamente, non arrivava mai. 

Eravamo anche quelli perennemente squattrinati. El progetton non avrebbe mai preso forma se sior Sergio, il papà di Tito, e i suoi amici radioamatori, non avessero creduto, con cuore e portafoglio, nel nostro sogno. 

A vederli lavorare sembravano dei ragazzini come noi. Costruirono trasmettitore e antenna come se stessero allestendo una stazione spaziale. 

Il nostro sogno non si sarebbe potuto realizzare nemmeno senza quella mansarda al civico 69 dei paeassoni. Era il magazzino dei ricordi della famiglia di Paperoga e noi, l’abbiamo occupata abusivamente pian piano facendo sparire un po’ alla volta i cimeli di famiglia. Ancora oggi i suoi, si chiedono dove sia finito quel divano anni ’50 appartenuto alla nonna Elvira. Pensare che assomiglia tanto a quello che abbiamo adesso ma, di un colore diverso. 

Il trasmettitore, l’antenna e il microfono sono indispensabili per fare una radio, ma senza qualcosa di autentico da comunicare, restano oggetti vuoti. Fortunatamente per noi, grazie a certi personaggi, clienti fissi del bar da Nane Sbérega, l’ispirazione non è mai mancata. 

Devo ammettere che senza il bar dei paeassoni, non avremo mai saputo cosa dire a quel microfono. È sempre stato il vero centro nevralgico della nostra esistenza, la nostra cattedrale laica nonché il crocevia di personalità incredibili con le loro storie esagerate. Lì, tra un birin e un tramesin onto, sono nate tutte le nostre idee strampalate. 

Il bar è la nostra vera redazione e la nostra scuola di vita (educazione sessuale compresa). Un’università a cielo aperto dove ogni giorno passano esami di sopravvivenza sociale, e i professori sono i personaggi più improbabili che possiate immaginare. Gente che non si è mai spostata di più di qualche centinaio di metri dai paeassoni, eppure sa come va il mondo meglio di tanti altri che si vantano di avere “girato”. I nostri amici non hanno bisogno di viaggiare, perché il mondo l’hanno già visto passare davanti agli occhi, seduti al tavolino co ‘na ombra de vin in mano. È una saggezza antica e concreta, quella di questi personaggi, fatta di aneddoti raccontati mille volte e di opinioni spicce, ma che in qualche modo centrano sempre il bersaglio. 

I tipi che vi farò conoscere su queste pagine sono quelli che, all’apparenza, sembrano vivere in una dimensione parallela, scollegati dal mondo moderno. Eppure, a sentirli parlare, scopri che hanno un’opinione su tutto, sport e sesso in primis e che potrebbero tenere testa a chiunque nel dibattito sull’andamento globale. 

Si narra che tra gli avventori ci sia stato il maestro Tinto Brass. La leggenda vuole che frequentasse il bar in incognito al fine di trarre ispirazione per i suoi capolavori. I cinefili che sono andati a vedere tutti i suoi film (io no, mai visto uno, giuro) dicono che le trame sono del tutto simili ai racconti di Denis Sgorlon, Gianni Bottacin, Toni Lovadina ed Elio Prendin. 

Si dice che anche i grandi manager del calcio frequentino questo luogo, anche loro in incognito, per captare le opinioni dei presenti e ottenere preziosi suggerimenti sugli acquisti dei giocatori, oltre ad apprendere nuove tattiche di gioco. 

Senza il popolo del bar, probabilmente, non avremmo mai trovato la nostra voce. Per loro eravamo, siamo e, per sempre, saremo “quei dea radio”. Sempre pronti a sparare cazzate nell’etere, anche grazie a tutti quegli stronzi che, non paghi di ignorarci ai festini, hanno sempre cercato di metterci i bastoni tra le ruote… il che, a onore del vero, ci ha motivato di più. 

Alla fine, penso che non ci sarebbe mai balenata l’idea di fare una radio se non fossimo stati un concentrato di sfiga e insicurezze, specialmente con le ragazze. Sì, perché tutto nasce da lì, da quel nostro disperato bisogno di essere notati, di sentirci importanti, de farse vedar, come si dice in dialetto.  

Un bisogno di approvazione che personalmente mi ha sempre ronzato forte in testa come una certa canzone che sparo a manetta nei momenti di tristezza. 

È una canzone che racconta chi sono davvero. Racconta che io e i miei occhi scuri siamo cresciuti insieme, compagni di un eterno viaggio alla ricerca incessante di un altrove ideale che continuo a inseguire. L’anima, smaniosa, si nutre del desiderio di una terra lontana fatta di sogni e promesse non ancora mantenute. Sento ancora quella fame profonda, quella sete insaziabile di sorrisi sinceri, di braccia che si aprono intorno a me, pronte a darmi rifugio.  

Racconta delle mie passeggiate malinconiche e solitarie, dove ogni passo sembra portare con sé un senso di inutilità e un’ombra di paura per il futuro incerto. 

Quando però la mando in onda, una forza invisibile mi spinge a stare di fronte al microfono, anche quando sembra che dall’altra parte non ci sia nessuno in ascolto ma, solo il silenzio. Eppure, in quel silenzio, io continuo a sperare, a immaginare che almeno una persona, quella persona, stia ascoltando. 

Io ed i miei occhi scuri siamo diventati grandi insieme 
Con l’anima smaniosa a chiedere di un posto che non c’è 
Tra mille mattini freschi di biciclette 
Mille più tramonti dietro i fili del tram 
Ed una fame di sorrisi e braccia intorno a me 

Io e i miei cassetti di ricordi e di indirizzi che ho perduto 
Ho visto visi e voci di chi ho amato prima o poi andar via 
E ho respirato un mare sconosciuto nelle ore 
Larghe e vuote di un’estate di città 
Accanto alla mia ombra nuda di malinconia 

Io e le mie tante sere chiuse come chiudere un ombrello 
Col viso sopra il petto a leggermi i dolori ed i miei guai 
Ho camminato quelle vie che curvano seguendo il vento 
E dentro a un senso di inutilità 
E fragile e violento mi son detto tu vedrai, vedrai, vedrai 

Strada facendo, vedrai 
Che non sei più da solo 
Strada facendo troverai 
Un gancio in mezzo al cielo 
E sentirai la strada far battere il tuo cuore 
Vedrai più amore, vedrai 

Io troppo piccolo fra tutta questa gente che c’è al mondo 
Io che ho sognato sopra un treno che non è partito mai 
E ho corso in mezzo a prati bianchi di luna 
Per strappare ancora un giorno alla mia ingenuità 
E giovane e invecchiato mi son detto tu vedrai vedrai, vedrai 

Strada facendo vedrai 
Che non sei più da solo 
Strada facendo troverai 
Anche tu un gancio in mezzo al cielo 
E sentirai la strada far battere il tuo cuore 
Vedrai più amore, vedrai 

E una canzone neanche questa potrà mai cambiar la vita 
Ma che cos’è che ci fa andare avanti e dire che non è finita 
Cos’è che mi spezza il cuore tra canzoni e amore 
Che mi fa cantare e amare sempre più 
Perché domani sia migliore, perché domani tu 

Strada facendo vedrai … 

© 1981 – Claudio Baglioni

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Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO – © 2024 Michele Camillo

Il mio primo amore

Sono convinto che la vera scintilla che ha dato vita alle radio private non sia stata tanto la passione per l’informazione o la musica d’avanguardia, ma il bisogno primordiale de butar el sardon, come lo definiamo noi in dialetto, ovvero quello di lanciare un’esca sottile per accendere un’attrazione, un incontro. Altro che informazione locale o musica innovativa: il vero obiettivo delle radio libere era far battere i cuori e accorciare le distanze. Far sì che chi si osservava da lontano trovasse finalmente il coraggio di avvicinarsi. 

Ci ho pensato l’altro giorno mentre, con il cuore colmo di ricordi e attese, passeggiavo solitario e malinconico per le  viette. Mi sembrava quasi di vederla apparire all’improvviso, come un miraggio tra la nebbia autunnale, pronta a ridare una direzione alla mia vita. 

Le viette non sono altro che un reticolato di stradine asfaltate alla meno peggio dove, fin dai primordi dell’esistenza umana, vennero edificate, sempre alla meno peggio, delle casette. 

Visto che gli abitanti delle casette erano, per la maggior parte, operai di Porto Marghera, venne costruita quasi subito, la sezione del P.C.I. e, solo dopo, quando il clero si accorse che era necessario contrastare l’avanzata comunista, furono costruiti chiesa e patronato. 

Alla fine degli anni Sessanta, come ciliegina sulla torta, arrivò la vera opera d’arte urbanistica: il quartiere dei paeassoni. Doveva servire a dare alloggio ai “migliori” disadattati della città, una specie di riserva naturale per le personalità più bizzarre e meno adattabili della popolazione. 

Visto che i comunisti e i preti con relativi democristiani al seguito, c’erano già ma non un luogo dove potevano insultarsi a vicenda e sputarsi negli occhi, i progettisti dei paeassoni inserirono nel masterplan un bar. Praticamente, fu prima costruito il bar di Nane Sbérega e poi tutt’attorno i paeassoni. E non avevano torto: nel corso degli anni, in quel bar è volato di tutto. Sedie, boccali di birra, bottiglie, perfino la tavoletta del water — e tutto per le più nobili ragioni, ovviamente. Ma sorprendentemente, non per questioni politiche o religiose. No, no! In un mondo dove comunisti e democristiani avrebbero potuto scatenare guerre intestine, le vere scintille si accendevano per due cose: sport e donne. Ho vissuto in prima persona una sorta di “compromesso storico” molto particolare, dove comunisti e democristiani riuscivano a mettere da parte ogni ostilità, uniti da una fede che superava ogni ideologia politica: quella per il Milan. Era quasi poetico vedere questi acerrimi nemici che, invece di scannarsi su riforme e ideali, si ritrovavano fianco a fianco per mandare in cueodesamare altri democristiani e comunisti, uniti però dalla fede per l’Inter. 

Per quelli dei paeassoni, noi abitanti delle viette eravamo una specie di aristocrazia locale. Loro non capivano, però, che anche tra noi c’erano delle distinzioni. In pratica, nelle viette esistevano due caste: i poareti, che vivevano in casette di un solo piano, e i siori, padroni di villette a due piani.  

Le case dei poareti erano costruite senza fondamenta, giusto appoggiate lì, come un mazzo di carte dopo una partita. E nel tentativo di risparmiare anche sull’aria che respiravano, il giardino diventava un orto che sembrava uscito da un film post-apocalittico: ortaggi ovunque e, immancabile, la vecchia vasca da bagno arrugginita a far da cisterna per l’acqua piovana. Ah, perché non si poteva mica sprecare soldi con la bolletta! 

Dall’altra parte c’erano i siori, e loro non si facevano mancare nulla: due piani, magari con taverna e mansarda, e intorno un giardino che sembrava disegnato dal mitico Capability Brown, il più famoso architetto paesaggista inglese. La loro casa era dipinta con i colori più brillanti. I poareti, invece, lasciavano spesso le pareti in grigio intonaco, al massimo trovavi qualche spruzzata di verde muffa sul lato a nord. 

Io abitavo in una di quelle casette a un piano, figlio di Marietto, tornitore alla Montedison. Vera invece, abitava in una di quelle villette a due piani più mansarda, figlia di Franco caporeparto alla stessa fabbrica. 

Mi innamorai di Vera quando avevo appena nove anni. È stata un’emozione che mi ha colto all’improvviso, non riuscivo quasi a spiegarmela.  

I catechisti ci avevano praticamente obbligato a partecipare a una rappresentazione natalizia in parrocchia. Vera doveva interpretare Maria, il ruolo principale. Io, invece, ero solo un pastorello, un ruolo secondario, come quelli che, alla fine, ho sempre avuto anche nella vita. 

Non capivo cosa mi stesse accadendo, durante le prove non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Vera aveva quegli occhietti vivaci, pieni di una luce che mi faceva perdere la testa. Era come se ogni suo sguardo contenesse qualcosa di speciale che mi attirava irresistibilmente. E così, cercavo in tutti i modi di farmi notare, di strapparle un sorriso, facevo lo scemo, sperando che la mia goffaggine potesse catturare la sua attenzione. 

Ci riuscii. Ricordo ancora quel primo sorriso, quasi timido, che lei mi regalò. Ricordo pure che mi volevano sbattere fuori dalla recita a causa del mio comportamento oltraggioso nei confronti della sacra rappresentazione.  

Da quel momento nacque tra di noi qualcosa di straordinario, un sentimento semplice e puro, senza malizia, come solo i bambini sanno provare. Non ci furono mai parole o grandi gesti. Il nostro amore si nutriva di sguardi rubati, di occhiate che si incrociavano per un attimo prima di scivolare via, di un continuo gioco di rincorse silenziose. C’era tutta la purezza e la bellezza del primo amore, quello che resta impresso per sempre nel cuore. 

Io ero un introverso incallito, talmente chiuso in me stesso che l’idea di fare il primo passo mi paralizzava. Non avrei mai potuto sopportare un suo rifiuto, era una possibilità che mi terrorizzava più di qualunque altra cosa. E così restavo in silenzio, bloccato dalla mia insicurezza, mentre Vera era sempre lì, a pochi passi, aspettava con infinita pazienza che io mi decidessi. La sua tattica era semplice, quasi invisibile: mi seguiva ovunque andassi. Non importava dove fossi, a scuola, in patronato o al campetto di pallacanestro, sapevo che da qualche parte ci sarebbero stati i suoi occhi attenti, presenti, pieni di speranza. Ma anche la sua pazienza, infinita com’era, aveva un limite. 

Quella mattina di agosto del 1977, mentre mi stavo recando nel piazzale della chiesa a prendere il pullman per il campo estivo, me la trovai davanti all’improvviso. Era ferma sulla sua bici, i capelli spettinati dal vento, e gli occhi lucidi. Mi fissava in silenzio, e in quello sguardo c’era qualcosa che non riuscivo a capire. Io, impacciato e col cuore che mi batteva troppo forte, non seppi dire altro che un goffo: “Che c’è?”. 

“Niente! Stupido!!” fu la sua risposta, una frase apparentemente semplice, ma che mi lasciò impietrito.  

Rimasi lì, un attimo immobile, incapace di reagire e poi, come se nulla fosse, proseguii per la mia strada. Don Gianni e gli altri ragazzi mi stavano aspettando.  

Solo una volta che il pullman si mise in marcia mi resi conto che quelle parole e quello sguardo, portavano con sé un mondo intero ed io ero stato incapace di interpretarne la profondità. 

Capii solo in quel momento che dietro quel “niente” c’era tutto, c’era il peso di un amore che aspettava solo di essere riconosciuto, dichiarato apertamente. Era il suo modo, forse disperato, di farmi capire che il tempo dell’attesa era finito, i suoi occhi rossi erano la prova di quanto avesse sperato che facessi quel maledetto passo. 

Ti xé casso, ti xé mona, ti xé cojon …” mentre don Gianni, in piedi accanto all’autista, faceva recitare le preghiere affinché il viaggio andasse bene, io mentalmente stavo recitando le mie personali litanie. 

A quei tempi non c’era nessuna possibilità di comunicazione in più, nella malga dove eravamo diretti, non c’era nemmeno il telefono. Per tutte le due settimane del campo riuscii a pensare solo che mi ero comportato da grande stronzo e all’enorme cazzata che avevo fatto. Avrei voluto sbattermi la testa su di una roccia; invece, optai per il materasso di crine della branda, era meno duro. Il solito che non fa mai le cose come dovrebbero esser fatte. 

Ironia della sorte, il tema conduttore del camposcuola era “la decisione”. Il prete ci mise in mano un foglio ciclostilato e ci invitò ad andare nel bosco da soli a riflettere. In quel foglio, c’erano una serie di precise indicazioni sul modo per trovare la strada giusta e non finire in quella sbagliata che, avrebbe portato alla perdizione. 

A parte che, tanto per cominciare, in mezzo a quella fitta boscaglia, la strada stavo per perderla seriamente. Fortunatamente, grazie ai particolari rumori che stavano facendo Riccardo Beltrame e quella tale Lara, una delle figlie della coppia di milanesi che avevano affittato la casetta di fronte alla nostra malga, riuscii ad orientarmi. Non fu facile trovare un posto dove isolarmi, poco più in là della coppietta intravidi Enzo Penzo che, dietro un cespuglio, stava facendo tutto da solo; che imbarazzo. 

Non saprei dire quante migliaia di fogli il don abbia ciclostilato nel corso degli anni. Fatica sprecata e qualche albero in meno nelle foreste. Tanto, alla fine, ognuno faceva come gli pareva. A parte me, che mi aggrappavo a quella fede più per timore della punizione divina che per reale convinzione. Così, oltre all’amore terreno per Vera, smarrii il vero senso dell’amore divino, quello che avrebbe potuto dare speranza e senso alla vita, nascosto dietro una montagna di “non fare” e “non desiderare”. 

Seduto sopra un masso, promisi al buon Dio che, dopo aver sistemato le cose con Vera, avrei pensato a tutto il resto, tipo lasciare i miei averi ai poveri, occuparmi dei bambini africani e non mandare più affanculo i miei genitori e mio fratello. Giusto per la cronaca; ancora oggi, chiedo al buon Dio di avere pazienza se continuo a procrastinare le buone azioni, in quanto la priorità è sempre quella di sistemare definitivamente le cose con una donna. 

Quelle due settimane non passavano mai. Finalmente tornammo a casa e, dopo aver trangugiato, per farmi coraggio, una decina di ciliege sotto spirito, mi fiondai a suonare il campanello di quella villetta a due piani più mansarda. Purtroppo, ahimè sul campanello non c’era più l’etichetta e la casa aveva tutte le tapparelle abbassate. In preda al panico, tornai a casa per chiedere informazioni a mio padre, il quale mi riferì che sior Franco aveva fatto carriera ed era andato a fare il vicedirettore di un non ben precisato stabilimento nel sud Italia. 

Oggi, per risolvere una faccenda del genere sarebbe sufficiente qualche indagine sui social. A quei tempi non avevo altra soluzione che buttarmi giù dal ponte della circonvallazione. Visto che me ne mancava il coraggio optai per un’overdose di pane con Nutella, con il risultato di peggiorare la mia acne. Presi anche l’abitudine che ho tutt’ora; girare tutto solo per le viette in attesa che il cielo mi fornisca una qualche soluzione per continuare a campare.  

È da quei tempi, che sogno di veder apparire Vera all’improvviso da dietro l’angolo. L’unica roba che in passato spuntava era qualche gatto randagio o qualche pantegana che inseguiva il medesimo gatto randagio terrorizzato. Ora si è aggiunto qualche cretino in monopattino che tenta di tirarmi sotto. 

Tornando a quei momenti, una nebbiosa domenica pomeriggio d’autunno, c’era un tale caigo che faceva ristagnare nell’aria un tanfo di brodaglia; in più, dalle casette usciva l’audio dei televisori sintonizzati su “Domenica In”. Quell’atmosfera rendeva ancora più malinconica la mia solitaria passeggiata per le viette. Ad amplificare quel senso di solitudine angosciante, ci pensò un tale con la radiolina attaccata all’orecchio intento ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto”. Le mie palle iniziarono ad appesantirsi e strisciare sull’asfalto. 

Stavo per darmi una martellata sugli appena citati attributi e farla finita quando, passai accanto ad un ragazzo che stava trafficando con la sua auto. L’autoradio era accesa e sintonizzata su una di quelle nuove radio libere che stavano spuntando come funghi. “Per Ale da parte di Max che sta facendo il militare a Casarsa. Amore mi manchi tanto, pensami mentre ascolti la nostra canzone”, subito dopo partì “nell’aria” di Tozzi. 

Nell’aria c’è polline di te...” Una folata di eccitazione e buon umore mi attraversò il corpo, come se avesse colto il mio cuore di sorpresa. All’improvviso, l’idea mi folgorò: l’unica, seppur piccola, possibilità che avevo di ricongiungermi con Vera era quella di creare un canale, un ponte invisibile tra di noi, un mezzo per far risuonare la mia voce nella sua vita. Bastava mettere in piedi una di quelle radio. 

Il mio passo aumentava, così come il battito del mio cuore. Avevo già in mente il nome, “Radio Vera” – semplice, diretto, il suo nome che vibrava nell’etere. Ma poi pensai che “VeraRadio” suonasse ancora meglio, come se il suo stesso nome racchiudesse un messaggio di verità, di autenticità. Ero elettrizzato dall’idea, come se ogni passo mi avvicinasse un po’ di più a lei, anche solo idealmente. 

Ma mentre camminavo tra la nebbia, il suono dei miei passi mi portava a riflettere. Pensai a quanto la solitudine, quel dramma silenzioso che ci avvolge quando meno ce lo aspettiamo, possa essere lenita dalla radio. Quel suono caldo che arriva nelle case, nelle vite, e che riesce a farci sentire meno soli, anche solo per un attimo. Vera, la mia Vera, era ormai lontana, ma forse avrei potuto riempire quel vuoto, il mio e quello degli altri, con qualcosa di più grande. 

Fu allora che il nome cambiò. Non più “Veraradio”, ma “SolaRadio”. Per chi, come me, aveva sentito il freddo della solitudine, e per chi cercava una compagnia, anche solo di una voce nell’aria. “SolaRadio. Solo radio e basta!”, inventai lì su due piedi, quel motto semplice, sincero, come il mio desiderio di riempire il silenzio con qualcosa che facesse sentire le persone meno sole. Come un abbraccio invisibile fatto di onde radio, sperando che, tra quelle persone ci fosse anche Vera ad ascoltarmi. 

L’indomani pomeriggio, in una lurida mansarda al civico 69 dei paeassoni che, assomigliava al covo del mitico gruppo TNT, vennero da me convocati tre sfigati, amici d’infanzia. Tali Tiziano Scarpa detto Tito o anche Titomorti, Fabio Ballarin detto Paperoga ed Enzo Penzo detto EnsoPenso. Quello fu il primo “comitato di redazione” di SolaRadio e quello fu anche il giorno in cui nacque l’altro mio primo grande amore, quello per la radio. 

E io, da quel giorno … vivo radiofonicamente per lei. 

Mai ti è dato un desiderio senza che ti sia dato anche il potere di realizzarlo. Richard Bach 

Chiamami ancora amore … ascolta il podcast

Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati! 

Racconto tratto dalla raccolta SOLARADIO

© 2024 Michele Camillo

Samorti l’istà!

Ai bei tempi andati, il panorama sociopolitico era molto più semplice e spartano rispetto a oggi. Nel nostro quartiere, la battaglia per assoggettare il popolino, si riduceva al duello tra preti e comunisti. 

Fin da quando ci hanno visto piazzare il palo dell’antenna sul tetto del paeasson come fosse l’albero della cuccagna, le due fazioni di cui sopra, hanno sempre tentato di trascinare la nostra piccola radio dalla loro parte. 

I preti, con la loro diplomazia divina, sapendo che, in fin dei conti avevano a che fare con dei fioi de cesa, cercavano di convincerci a trasmettere la messa in diretta, brandendo l’arma del ricatto spirituale: “Santificazione e paradiso garantiti, oppure un biglietto di sola andata per l’inferno!” Ma noi, pur sapendo che, probabilmente, al termine della nostra vita terrena saremo finiti per ardere nel girone dei radiofonici eretici e traditori, non cedemmo e continuammo a mandare in onda “Figli delle stelle” anziché “Io non sono degno”. 

I compagni della locale sezione, invece, giocarono una partita ancora più subdola, almeno con me. Per far passare le loro richieste, non esitarono a mandare in campo la loro arma segreta: Cate, la splendida attivista della FIGC. Lei, con quegli occhioni da cercatrice di anime e un sorriso che avrebbe fatto cantare “Bandiera Rossa” anche a un democristiano della prima ora, mi stese in un secondo. Non ebbi scampo. Solo a guardarla, già immaginai di trasformare la nostra programmazione in un h24 di inni rivoluzionari intervallati da “Bandiera Rossa”. Mi presi una tal incocaia per la giovane compagna comunista che non riuscivo a pensare ad altro.  

Insomma, ci mancava poco che appendessi il poster di Marx in studio! 

Tito, Paperoga e EnsoPenso dovettero quasi prendermi a testate per farmi rinsavire e, alla fine, “Bandiera rossa” non venne mai mandata in onda. Mi furono concesse solo le canzoni dei “compagni” Guccini e Venditti.  

Non appesi il poster di Marx, ma quello di Whitney Houston, perché, dannazione, aveva lo stesso sguardo di Cate nel momento in cui le nostre anime si sono intrecciate. 

Sentivo che anche lei provava qualcosa per me, e il nostro era un gioco delicato tra due introversi, che celavano i propri sentimenti dietro una maschera di apparente sicurezza. 

Per lanciarle i miei messaggi radiofonici d’amore subliminali usavo mascherarmi dietro i personaggi dei fumetti Disney o della mitologia classica. Una sera d’estate mandai in onda “Ti amo” di Tozzi, dedicata a una certa Minnie da parte di un certo Topolino.  

Dopo qualche minuto, ricevetti una sua telefonata. Il cuore cominciò a battere come se lo stesse suonando il mitico Tullio De Piscopo. 

“Di a quella scema di Minnie che si svegli! Perché un uomo che la vuole abbracciare mentre stira cantando non è altro che uno stronzo maschilista di merda! Fanculo Topolino!” 

“Ti amo Cate! Non ti preoccupare, stiro io” avrei voluto dirle ma non ne avevo il coraggio. Così, me ne stetti in silenzio ad ascoltare la sua filippica femminista. Purtroppo, le nostre paure e insicurezze si frapposero tra noi, opponendosi a un destino che sembrava volerci unire. 

L’episodio più eclatante di questo mio strano modo di volerle bene fu quando scoprii che era nelle liste per le elezioni comunali. La domenica del voto, preso dalla foga di riuscire a votarla, finii talmente lungo sulla pista con il mio 104 che dovettero alzare la barriera di protezione. Quella domenica, per una serie di circostanze, fu anche l’ultima della mia vita precedente da pilota dell’Aeronautica. Ma questa è un’altra storia che, potete trovare in altri racconti meno radiofonici e più aviatori. 

Da quella domenica, persi anche le tracce della stupenda Cate, ma non quel pezzo della sua anima che dimora ancora in me. 

E comunque nemmeno lei, riuscì a scalfire l’indipendenza di SolaRadio; almeno fino a questa estate. 

Tutto ebbe inizio in un piovoso pomeriggio di maggio, quando ea siora Franca, altrimenti conosciuta come ea Parona, stufa di farsi le canoniche due settimane nel solito campeggio al Cavain, impose al marito Silvano Visentin general manager del bar “Nane Sbèrega” di passare le ferie in Grecia. 

La si sentiva urlare fin sul piazzale della chiesa. “Basta, Silvano!” tuonò con una determinazione che avrebbe fatto tremare anche quel cricco di Maci Busetto. “So stufa de ‘ndar al Cavain a far da serva a to’ fie e a to’ mare, intanto che ti, co ea scusa che ti vol tegnir verto, ti stà qua a gratarte i cojoni insieme a quei quattro sbaeoni dei nostri clienti! Ghesbiro, xe tutti che va Mico, Santonini, Schiato e quei posti là. Possibie che noialtri ghemo da essar de manco. E no’ stame dir che ghe vol massa schei; va remengo ti e quei gransi pori che ti ga in scarsea!” 

Il povero Silvano, si trovò dunque a dover affrontare la più grande sfida della sua vita: chiudere il bar per ben tre settimane in agosto, un’azione che fu vissuta come un colpo di stato. Quando il Visentin, tutto grondante di sudore, appese il cartello di chiusura, l’atmosfera si fece così pesante che sembrava avesse appeso l’epigrafe di un caro amico. 

E fu così che la tragedia si abbatté sul popolo dei paeassoni. La gente fu colta da un’angoscia collettiva degna delle migliori tragedie greche. Un’aria di smarrimento aleggiava nelle strade: Vedevi i volti di gente come Denis Sgorlon e Gigio Spolaor scavati dalla disperazione. Mentre, qualcuno come Marietto Castellan, seduto sul muretto davanti il plateatico di Nane, inveiva contro Silvano, l’estate e tutti i suoi annessi e connessi. 

Pensate che nacquero chat dedicate alla ricerca disperata di un’alternativa che potesse soddisfare i rigidi standard del bar. Ma niente, nemmeno il più sboldro dei cinesi riusciva a essere così onto e rutto free come il Nane Sbérega.  

Nel viale centrale dei paeassoni regnava un inquietante silenzio. Le serate si trascinavano senza senso, sembrava di essere piombati nuovamente ai tempi del lockdown; nessun segnale di vitalità. 

Nessuno, tranne noi  fioi dea radio; che, ligi al nostro dovere di radiofonici da prima linea, nonostante in piena notte ci fossero trentadue gradi in studio, continuavamo imperterriti a diffondere nell’etere tutta una serie di puttanate estive per alleviare i nostri accaldati ascoltatori.  

I nostri tre ventilatori grandi come le eliche del Titanic erano praticamente inutili. In più, ci si metteva anche EnsoPenso. È sempre stato colorito nelle sue espressioni e, con quel caldo infernale dava il massimo. “So tutto petaisso come un spuaccio petà sol muro. Go e caldane come e done in menopausa; me par de essar ‘na stua; quasi, quasi, me fasso far ea detrassion par el sentodiese. Go el suor che spussa da ajo, se me passo ‘na fetta de pan sotto e scage vien fora ‘na bruschetta eccessionae. Go el fià talmente caldo che riesso a cusinarte ‘na luganega co’ un rutto”. Oltre alle suddette litanie, dovevamo sopportare anche le emissioni dal suo retrobottega. In quel silenzio surreale, il sonoro si udiva per tutto il quartiere mentre, il tanfo era riservato a una ristretta cerchia di fortunati che gli stavano vicino. Queste erano le condizioni in cui ci toccava trasmettere. 

Una sera sentii del brusio dabbasso, mi affacciai e vidi che erano Denis Sgorlon e Milio Vianeo  

  • Che ghe sia qualcun?  
  • Mongoeo se i trasmette vol dir che i ghe xé; dai sona! 

Prima che suonassero li anticipai invitandoli a salire 

Oi fioi, no’ savevimo dove casso ‘ndar”  

Non era la prima volta che qualcuno sale su in studio da noi con questa motivazione; a prima vista, potrebbe sembrare una frase comune, quasi banale. Eppure, ogni volta che la sento, mi riempie di orgoglio. Perché in quelle poche, semplici parole, si nasconde un significato profondo, il riconoscimento del valore sociale della nostra piccola radio. 

Perché la nostra radio non è solo un mezzo di comunicazione. È un faro nella notte di questo quartiere degradato, una presenza costante che accompagna, sostiene, e dà voce a chi altrimenti potrebbe sentirsi solo ed emarginato.  

Quando qualcuno dice “non sapevamo dove andare” e poi trova la risposta sintonizzandosi sulla nostra stazione, significa che abbiamo fatto qualcosa di giusto, che il nostro impegno non è stato vano. Abbiamo offerto uno spazio sicuro, un rifugio, un luogo dove sentirsi accolti e compresi. Ogni volta che qualcuno ci racconta di aver trovato conforto nelle nostre trasmissioni, mi sento profondamente felice. Perché so che la nostra piccola radio ha fatto la differenza, ha avuto un impatto reale nelle vite delle persone. E questo, in fondo, è il motivo per cui esistiamo. 

Samorti l’istà”  

Milio, con la camicia sbottonata e i rivoli di sudore che, cadendo dalla pancia, bagnavano il pavimento, si stravaccò sul divanetto facendosi fresco con un vecchio vinile usato a mo’ di ventaglio. 

Quelle parole decretarono per sempre la fine dell’indipendenza politica della nostra emittente. 

Buonasera a tutti! Oggi abbiamo l’onore—o forse la fortuna sfacciata—di avere qui con noi in studio i fondatori del movimento ‘Samorti l’istà,’ che SolaRadio è fiera di appoggiare con tutto il nostro cuore e il loro portafoglio!” 

Non appena mi sentirono, i due ospiti cercarono la via di fuga come topi in una dispensa all’improvviso illuminata. Ma non avevano fatto i conti con il mio fido socio Paperoga, che con la prontezza di un buttafuori da discoteca, li bloccò al volo e li spintonò senza tanti complimenti verso la postazione microfonica. “Dai fioi, che xè divertimo!” esclamò con un sorriso che mescolava sadismo e ospitalità. 

L’intervista fu un vero e proprio spettacolo, un’epopea radiofonica che resterà negli annali. Alla mia domanda su cosa avessero contro l’estate, i due si trasformarono in un fiume in piena, come se stessero cercando di vincere il premio per il maggior numero di lamentele espresse in un minuto. 

Venne fuori che, l’estate non si aspetta più con trepidazione ma con angoscia. Non è più la bella stagione ma, un problema da affrontare. Non è più sinonimo di libertà ma di obblighi e prigionia, il primo fra tutti quello che ti costringe a stare tappato in casa, se sei fortunato con il condizionatore altrimenti, con un semplice ventilatore che muove aria calda. 

Così, come analogamente avvenne ai tempi del lockdown, emanammo un “decreto radiofonico” che obbligava tutti quei dei paeassoni e zone limitrofe a rimanere in casa fintantoché persisteva el sofego causato da quel cancaro bueo marso di anticiclone africano. Era comunque permesso uscire per: 

  • Andare a lavorare; anche se i medici dicono che gli anziani non devono uscire mentre tu a sessantasette anni, alle due del pomeriggio, sei ancora che ti arrampichi su un’impalcatura perché non puoi andare in pensione. 
  • Andare dal medico; anche se troverai il sostituto del sostituto del sostituto; spesso un ragazzino che riesce a sbagliare la prescrizione con il rischio di farti finire all’altro mondo. 
  • Andare al supermercato; anche se all’interno c’è la stessa temperatura del nord Islanda e ti tocca andare dal medico di cui sopra che invece di prescriverti lo sciroppo per la bronchite ti fa la ricetta per un lassativo. 
  • Andare al pronto soccorso; anche se troverai lo stesso ragazzino di cui sopra che ci lavora a gettone per una cooperativa che, dirà ai tuoi congiunti mentre ti stanno portando in rianimazione, che te la sei voluta; non te l’ha ordinato il dottore, e lui è dottore, di salire su un’impalcatura alle due del pomeriggio e per giunta a sessantasette anni. 
  • Andare giù in garage; anche se prima ti devi infilare una pesante tuta in fibra di titanio per non farti pungere dalle zanzare 
  • Andare in ferie; anche se preferisci startene a casa in mutande a guardare la TV. Ma il mainstream ha deciso che devi andare da qualche parte, e non solo in un posto qualsiasi, ma in uno più costoso e lontano di quello dell’anno scorso. È un complotto mondiale, orchestrato dal deep state del turismo! Ti fanno il lavaggio del cervello con frasi tipo “viaggiare ti apre la mente”. Ma l’unica cosa che apri davvero è il portafoglio, per svuotarlo e arricchire così big tourism. 
  • Andare in spiaggia; anche se devi sciropparti quattro ore di coda per farti quattro chilometri e poi, quando finalmente arrivi, non puoi nemmeno fare una passeggiata in santa pace senza rischiare l’esaurimento nervoso. Le donne sono tutte con il culo fuori e se non vuoi andare fuori di testa, ti tocca rimanere legato al lettino sotto l’ombrellone, come un tacchino al forno. 
  • Andare a un funerale; anche se quel giorno dovevi andare in spiaggia e non sai quale dei due sia il male minore. 
  • Andare ovviamente affanculo; mandato da qualcuno che reso irascibile dall’opprimente calura, non ha affatto apprezzato il fatto che solo il giorno prima gli avevi garantito l’arrivo della pioggia.  

L’intervista si trasformò così in una seduta di terapia collettiva, un grido di battaglia contro l’estate e il terrorismo psicologico degli esperti meteo, con il nostro studio radiofonico come centro nevralgico della resistenza. E alla fine, mentre i due fondatori del movimento si riprendevano dallo sfogo, un pensiero si fece largo nella mia mente: forse, ma solo forse, l’estate aveva finalmente trovato i suoi peggiori nemici! 

La linea telefonica esplose come il centralino dei pompieri. Gente da ogni buco dei paeassoni chiamava per unirsi al coro delle proteste e per chiedere informazioni su come iscriversi al movimento. 

Quel giorno, oltre al movimento “Samorti l’istà”, nacque anche l’omonimo programma radiofonico. 

Fu un’idea nata dal desiderio di riportare in vita quei ricordi delle belle estati di una volta che, col tempo, si erano sbiaditi come vecchie fotografie, conservate in cassetti polverosi. In studio si respirava un’atmosfera dolce e nostalgica, un po’ come quando si ritrova un vecchio amico dopo tanti anni. Gli ospiti, sia presenti che al telefono, si abbandonavano ai racconti delle loro estati passate, quegli anni in cui il tempo sembrava allungarsi all’infinito e le giornate si fondevano in un’unica e lunga avventura. 

Le sere, raccontavano, erano il momento più magico. Allora non c’era l’aria condizionata a chiuderti tra quattro mura; ci si ritrovava all’aperto. Ognuno portava da casa la propria sedia, piccole reliquie di legno e vimini, che cigolavano leggermente quando ci si sedeva sopra, e ci si sistemava in cerchio, come per disegnare uno spazio di intimità condivisa. Al centro, immancabile, una grande anguria, il cui rosso succoso e dolce simboleggiava il cuore dell’estate stessa.  

E noi mandavamo in in onda quelle melodie che, al primo accordo, risvegliavano in ciascuno immagini di estati lontane. Quei brani che riecheggiavano dalle finestre aperte, dai juke-box dei bar, dalle radio portatili appoggiate sulla sabbia calda delle spiagge. Erano colonne sonore di un tempo in cui la felicità aveva un ritmo semplice e sincero.  

E poi, inevitabilmente, si arrivava a parlare degli amori estivi, quegli amori che nascevano e crescevano in un battito di ciglia, ma che avevano la forza di lasciare un segno indelebile. Storie di lunghe passeggiate mano nella mano sulla spiaggia. Storie di sguardi intensi e di promesse fatte a notte fonda, promesse che forse non sarebbero state mantenute, ma che in quel momento sembravano più reali di qualsiasi altra cosa. 

“Samorti l’istà”, fu un inaspettato Successo per la radio, non era solo un programma radiofonico; era un viaggio nel tempo, un ritorno a quelle estati perdute in cui tutto sembrava possibile, e nelle quali, samorti, faceva meno caldo. 

“L’estate sta finendo e un anno se ne va” Recita la famosa canzone. Una volta, quando la sentivo provavo malinconia; ora invece, una gioia immensa.  

L’estate sta finendo, finalmente è arrivato settembre, e con lui, la quiete che tanto aspettavo. È in questo periodo che inizio a frequentare il mare, lontano dal caos estivo, sulla mia spiaggia preferita. Un luogo che sembra uscito da un’altra epoca, una gemma nascosta che ha conservato intatta la sua bellezza senza tempo. Vi si accede percorrendo una stradina in mezzo ai campi di granturco, quasi un tunnel segreto che ti porta indietro agli anni ’60.  

C’è anche un chiosco incantevole, uno di quelli con un fascino retrò, dove il tempo sembra scorrere più lentamente. Seduto a uno dei suoi tavolini, senza ombrelloni che ostacolino la vista, puoi assaporare la poesia del mare in tutta la sua purezza. Il panorama è un dipinto vivente, con le onde che si infrangono dolcemente sulla riva e il sole che si tuffa pigramente all’orizzonte, colorando il cielo di sfumature dorate. 

Oggi, il mio primo giorno di mare coincide con l’ultimo giorno di apertura del chiosco, come se ci fosse una connessione segreta tra me e questo luogo. Mi piace l’idea di andare controcorrente, di vivere l’estate quando gli altri la stanno salutando. E così, mentre il sole inizia a calare dietro le dune e la brezza salmastra che mi accarezza il viso, sorseggio il mio primo spritz al mare. 

Buonasera, signor Topolino, o Enea, o come cavolo ti piaceva chiamarti.” 

Non ho il coraggio di voltarmi, perché, nonostante il tempo sia passato, conosco quella voce, e l’idea che possa essere davvero lei mi fa tremare. 

E poi, eccola lì, Cate, materializzatasi come un fantasma del passato, con in mano un bicchiere ormai vuoto e gli stessi occhioni pieni di gioia che mi avevano fatto impazzire quarant’anni prima. Il tempo non sembrava averle tolto nulla, anzi, sembrava aver aggiunto un fascino malinconico che mi colpì al cuore. 

Che ci fai qui?” balbetto, parole che escono a fatica dalle labbra. 

Senti chi parla. Che ci fai tu qui? Io ci vengo ormai quasi ogni sabato da inizio giugno. Ma perché non ti ho mai visto?” Mi risponde, con un sorriso che non riesce a nascondere la sorpresa.

Prima che potessi dire altro, un uomo spuntato non so da dove, le cinge il fianco per portarla via. Lei si smarca e torna verso di me con uno sguardo che mescola intensità e rabbia, come se tutti quegli anni fossero esplosi in un solo istante. 

Posa il bicchiere vuoto sul mio tavolo. “Figlio di puttana. Si può sapere perché hai deciso di saltar fuori solo ora?” Abbasso un attimo lo sguardo, tempo di rialzarlo ed è già sparita, probabilmente per sempre. 

Il mare, che fino a poco prima sembrava un rifugio di pace, si trasforma nel testimone muto di un rimpianto per un passato che non avevo mai dimenticato. 

Samorti l’ista! 

P.s.  Questa massacrante estate sta finendo e l’angoscia è ormai passata. Ma se volete far parte del movimento contattate la redazione. Torneremo l’anno prossimo più forti e cattivi che mai!  

Tratto dalla raccolta SOLARADIO

© 2024 Michele Camillo