La mia lunga storia d’amore

No capisso, ea ghe casca a tutti fora che a mi; me par impossibie, bojaissamorti! E ti, cossa ti disi?”. Rimasi in silenzio, non avevo il coraggio di rispondere al compagno Marino Scantamburlo che, non si doveva preoccupare; eravamo almeno in due, io e lui.  

In sezione era arrivato il momento di tirare le somme della Festa dell’Unità. A Marino, però, dei margini di guadagno sulla poenta e coste non fregava un accidente, quei calcoli era meglio lasciarli a certi saccenti compagni che si credevano esperti economisti. Lui aveva ben altri grattacapi, quelli classici della maggior parte degli uomini; il campionato di calcio ma, soprattutto, ea mona

Che l’Inter fosse arrivata quarta, vabbè, passasse. Ma proprio non gli andava giù che la compagna Sara Celeghin si fosse messa con quel tizio di cui non ricordava il nome ma, conosceva tutto il resto. 

Si trattava di un rotto in culo impiegato di banca, con l’hobby di “parlare in radio” e, per giunta, non dei nostri. Un borghesuccio fighetto, traditore della classe operaia con il microfono in mano e il portafoglio rigonfio. 

Marino, per la campagna elettorale di Sara s’era speso anima e fegato. Per lei aveva fatto più ore di militanza di Che Guevara, mangiandosi una bella fetta dei suoi permessi lavorativi. Volantinaggi sotto la pioggia, comizi davanti a tre pensionati e un cane, persino il martirio di mangiare certe porcherie vegetariane. Si considerava il principale artefice della sua elezione al consiglio di quartiere.  

Mentre li guardava, lì sulla pista della Festa dell’Unità a ballare cic to cic come due calamari innamorati i mielosi lenti iperglicemici che dal palco l’orchestra di Vittorino Spolaor e i Romantici, sparava come una sequenza di colpi letali, sentiva crescere dentro di sé una bile capace di alimentare il motore di quella nave da crociera che stavano costruendo al Breda, il suo posto di lavoro. Le palle invece, giravano forte come le eliche della già citata nave. 

Alla fine, la sintesi del pensiero politico-sentimentale su Sara, gli venne chiara e lapidaria: non era affatto una gran compagna ma, una gran puttana. 

Da quel giorno, inoltre, tutti quei fighetti che parlavano alla radio iniziarono a stargli pesantemente sulle palle; compresi quei saccenti e spocchiosi compagni emiliani, che avevano fondato la prima radio del popolo. Rei di essersi convertiti a quelle stupide canzonette commerciali, mandando in onda a ripetizione “Ti amo” di Tozzi anziché “Bandiera Rossa” 

Anch’io ero nelle stesse condizioni di Marino. Nemmeno a me del campionato non me fregava niente; non mi interessava sapere che giocatori avrebbe dovuto comprare l’Inter per vincere lo scudetto e non finire al misero quarto posto; la mia preoccupazione principale era per la seconda cosa, non si vedeva niente all’orizzonte o, per dirla alla Marino; “no’ me rivagnanca un refoeo de mona”.   

Eh, sì che mi ero messo a frequentare contemporaneamente la parrocchia e la sezione del PCI, convintissimo che allargando il territorio di caccia, avrei aumentato le probabilità di riuscita. E invece, niente da fare. 

Quella di tenere un piede nel PCI e l’altro in chiesa non era stata una scelta dettata solo dai miei ormoni. Certo, quelli c’entravano, ma mi ero soprattutto lasciato influenzare dalle teorie del compagno Severino Manente. 

Severino era quasi convinto che l’esistenza di Dio e tutta la baracca della religione non fosse altro che un grumo di balle abilmente messo in piedi per sfruttare la paura della morte e far leva sul naturale desiderio di eternità dell’essere umano. Una trovata geniale per tenere il popolo al guinzaglio controllando soprattutto cosa facesse sotto le lenzuola. La logica era semplice: vuoi il paradiso dopo morto? Allora comportati bene da vivo. “Bene” significava: testa bassa, bocca chiusa, niente domande, niente desideri strani, nessuna pretesa di diventare qualcuno, mani a posto e soprattutto… non rompere le palle a chi comanda. 

Dico “quasi convinto” perché, tra una bestemmia e l’altra, ammetteva che, se per puro caso, fosse stato tutto vero, una volta lasciato questo mondo sarebbero stati gran cazzi. Specialmente per gente come lui che, oltre a essere comunista, cosa che forse gli sarebbe stata perdonata, dato che in fondo anche Gesù, a ben guardare, aveva idee piuttosto di sinistra; non era esattamente un modello di virtù coniugale. Con la fedeltà matrimoniale era messo peggio di un cane randagio in calore. 

Il compagno, si concedeva piaceri “de fora via” con la regolarità di una tassa comunale: era uno dei clienti più affezionati della vecchia Wanda (praticava tariffa sindacale per i compagni) e in più al lavoro era parecchio impegnato a fare certi “controlli di qualità” alle compagne della mensa. 

Per questo Severino, a differenza di certi mangiapreti radicali, un occhio al cielo lo buttava sempre. Non per pregare, ma per controllare se, per caso, dall’alto stessero già preparando la lista dei cattivi. 

Tornando a me, quell’estate poi, dovevo mettere a bilancio un anno scolastico di merda. Su consiglio di Manuel Agnoletto, mi ero iscritto al triennio con indirizzo informatica; perché, a detta di quel gran genio, una volta diplomato, avrei trovato subito un bel lavoro e, avrei preso bene. A fine anno, in effetti, in anticipo con i tempi, avevo già preso bene: qualcosa in un determinato posto; rimediando tre materie, tra cui proprio informatica.  

Sbirighe in sima, coco”; il compagno Milio Vianeo, era solerte farsi i cazzi altrui. Pensavo avesse intuito la mia preoccupazione per essere ancora sensa ‘na cocca; invece, non so come, era venuto a conoscenza delle mie disgrazie scolastiche; per consolarmi, attaccò per la centocinquantaseiesima volta a raccontarmi la storia della sua vita.  

Milio Vianeo sensa un scheo e curto de oseo; i compagni della sezione lo definivano così per il fatto di essere povero e non aver mai avuto una donna. Era il classico scappato di casa, un mezzo vagabondo che, armato di una vecchia chitarra, campava scimmiottando i cantanti folk americani.  

Misteriosamente quel giorno lo ascoltai con più attenzione. Come sempre, iniziò a citarmi l’infinità di posti dove era stato. Per i più, si trattava di balle; a me invece, sembrava attendibile, anche quando parlava di posti lontanissimi come l’India e il Vietnam. L’unica cosa sulla quale facevo fatica a credergli riguardava la miriade di figlie dei fiori che, a suo dire, si era trombato durante il mitico raduno del ‘69 a Woodstock, al quale aveva partecipato. “Comunque vecio, ricordate cheea strada xe ea vita”; la frase non era sua ma, di tale Jack Kerouac, celeberrimo scrittore, nonché mentore dei vagabondi di mezzo mondo.  

I compagni sapevano che stavo seduto su due sedie e che la domenica andavo prima in sezione e poi a messa. Ma non sapevano che in tasca, ben accartocciate, avevo centotrenta carte. Era la quota di iscrizione al camposcuola di Azione Cattolica che dovevo consegnare a don Gino. Se ne fossero venuti a conoscenza, me le avrebbero sequestrate per versarle nelle casse del partito. 

Comunque, saranno state le parole del vecchio hippie; fatto sta che, mentre le tenevo strette in mano, come per magia, decisi di cambiarne la destinazione d’uso; non sarebbero finite nelle mani del prete ma, servite a finanziare la ricerca della mia vera strada e, anche di quell’altra cosa, della quale, cominciavo a sentire un prioritario bisogno.  

Lunedì 6 luglio 1981, invece di sedermi sul torpedone, direzione Cadore; mi accomodai da primo passeggero, in uno scompartimento dell’espresso Venezia-Bari. Nessuno al mondo sapeva dove stavo andando; nessuno, tranne il compagno Piero Berton ex capo scout pentito, al quale avevo chiesto in prestito tenda canadese e sacco a pelo, residuati della sua precedente esistenza.  

Pianificai tutto nei minimi dettagli. Nei giorni precedenti la partenza; nascosi tenda e sacco a pelo in garage dentro una vecchia valigia, così pure i costumi da bagno, una bandana, i sandali, bermuda e magliette. Quando arrivò il gran giorno, travasai il contenuto della valigia nello zaino, riempendo quest’ultima con gli scarponi da montagna e la roba pesante che mia madre, aveva preparato per il camposcuola.  

Salii sul treno eccitatissimo, mi sentivo un agente segreto nel pieno di una missione, ovviamente segreta. Il controspionaggio, mi avrebbe sgamato subito, per l’emozione sarò andato a pisciare una ventina di volte in tre ore. Con me avevo due libri, “Avere o essere” di Erich Fromm e “Sulla strada” di Jack Kerouac; me li aveva consigliati Milio. Non avevo nessuna intenzione di leggerli; volevo semplicemente fare il figo e imitare Carlo Dezzi. 

Il Dezzi era un mio compagno di classe nonché, un compagno comunista falso. Grasso e brutto come la fame, nonostante questo, grazie alla sua aria da intellettuale e alle citazioni di Prévert, riusciva ad attirare gnocca a gogo.  

Con la speranza che lo scompartimento si riempisse di figa, misi i libri in bella vista sul tavolinetto. Purtroppo, ironia della sorte, andò a finire che, quattro di quei cinque posti vuoti, furono occupati da altrettante suore.  

Mo sii, sediamoci qua che facciamo compagnia a questo baldo giovine; sorbole, che letture interessanti!”.  

Non ero riuscito a far sparire per tempo i due libri; avrei probabilmente dovuto sopportare un’imbarazzante conversazione cultural-letteraria alla quale non ero preparato.  

Mo sentiamo dove sta andando ‘sto bravo ragasso?” 

Altro argomento sul quale non ero preparato. La mia intenzione era quella di scendere a Rimini e cercare un posto dove accamparmi; la scelta era dettata esclusivamente dalla statistica; ovvero, alte probabilità di cuccare. Vallo a spiegare a delle suore, anche se, a prima vista, mi parevano di un modello piuttosto advanced.  

Sto andando dai nonni in vacanza a Rimini”; mi venne fuori bella e pronta.  

Mo guarda che nonni sconsiderati che deve avere; hanno il coraggio di far dormire il nipotino in tenda; se fossi in te, gli farei un bel dispetto e, tirerei dritto fino a Gatteo Mare, c’è un bel campeggio e soprattutto tante belle ragasse piene di salute” 

La più vecchia del quartetto aveva mangiato la foglia.  

Sarò per sempre grato a suor Marisa, la madre superiora, per quella dritta; non potevo aspettarmi di meglio da una romagnola o meglio, una da una nativa rivierasca doc.  

Mo venga signorina che ce posto, si sieda qui vicino al finestrino, di fronte a questo bel giovanotto, garantiamo noi che tiene le mani a posto, se ci prova, nostro Signore lo fulmina”. Suor Marisa mi diede una gomitata.  

Ora, la superiora, mi faceva anche da complice; che ganza! 

In effetti, la tipa, anche se, ad occhio, aveva qualche anno più di me, con quella minigonna di jeans, induceva in tentazione. Se, citando la frase storica, “Parigi val bene una messa”, quella tale Roberta valeva bene una fulminata.  

Furono quasi quattro ore di viaggio esilaranti; bastava l’accento romagnolo dei quattro pinguini per farmi piegare in due dalle risate. Non ho idea della quantità industriale di balle che raccontai, per fare il figo con Roberta; solo il loro capo supremo probabilmente, riuscì a quantificarle.  

Se non fosse stato per il mio vicino di piazzola, il teutonico signor Otto Kruntz, nome di fantasia ricavato da un personaggio dei fumetti del Corriere dei Ragazzi, sarei ancora alle prese con il montaggio della canadese. Fortunatamente la pluriennale esperienza, dell’ex Giovane Marmotta germanica mi permise di infilarmi nel sacco a pelo prima che sorgesse il sole.  

Gianni Togni continuava a martellarmi i timpani con Semplice, infilai la testa completamente dentro il sacco a pelo ma, niente da fare; un incubo, mi pareva di stare abbracciato a una cassa acustica usata nei concerti, tremava anche la terra.  

Mi ci volle parecchio per capire che non stavo sognando. “Tutto quanto mi sembra giusto, quando fuori è mattina presto …”; col ca**o! Chi ca**o, era ‘sto imbecille che lo stava sparando a manetta; gli avrei piantato volentieri tutti i picchetti in pancia, anche se si fosse trattato dell’amico Otto Kruntz. Passai un bel po’ di tempo per realizzare che non era l’alba ma, le dieci e mezza del mattino.  

Le urla del Togni uscivano da un casotto in legno, a due braccia di distanza dalla mia tenda, sul quale campeggiava la scritta, “Radio Base Mare International, estiamo insieme!”; scoprii perché la piazzola costava così poco.  

Mi accorsi che ero uscito in mutande; non che in quel posto fosse richiesto un dress code particolare ma, le Fruit Of The Loom bianche, o quasi, non erano di certo adeguate; per cui, corsi dentro in tenda a rifarmi il look.  

Ne uscii, da perfetto beach boy o, almeno pensavo. Bermuda neri “Fioruccio”, maglietta bianca con scritta “Didas”, bandana rossa e occhiali da sole “Raibat”; tutta roba comprata al mercato nel banco di tale Ciro, un napoletano specializzato in capi “firmati”. Gli occhiali invece, li avevo comprati, dopo estenuanti trattative, da un marocchino per settemila lire, un affarone.  

Hola zingaro, dai che fra un po’ inizia la diretta; da dove vieni?”  

Probabilmente avevo esagerato con la roba che mi ero messo, il capellone biondo che stava dentro il casotto mi puntò subito.  

Sin da piccolo, ho lavorato molto di fantasia e immaginazione, sono sempre state le mie più grandi risorse, alle quali ho attinto in svariati momenti della mia vita, specie quelli dove stavo per toccare il fondo.  

È grazie a tutto questo che, martedì 7 luglio 1981, nacque El xingano. Un personaggio sfornato interamente dalla mia immaginazione, un goffo ragazzo della campagna veneta, che si esprimeva con uno strano slang, un misto tra dialetto e linguaggio cifrato da film di spionaggio.  

Un goffo eroe, con più entusiasmo che tecnica, ma con la convinzione che, almeno dietro al mixer, nessuno poteva vedermi arrossire. 

Le credenziali di DJ, le fabbricai sul momento, rubando praticamente l’identità a tale Olindo di Radio Gamma5, un personaggio popolare dalle mie parti. Un boaro che faceva il DJ boaro in una radio boara. Un concept molto local, per così dire. 
L’attrezzatura la sapevo in qualche modo usare. Ai festini buei che organizzavano i miei compagni di classe, finivo sempre relegato alla postazione mixer. Così mentre gli altri si davano da fare in attività di alta socializzazione, chiamiamola così; io passavo il tempo in angolo a metter su dischi e prendermi parole se non mettevo la musica giusta. 

El xingano, ebbe l’onore di entrare nel casotto e, già nel pomeriggio, divenne l’aiuto Dj del biondo capellone.  

Al mio debutto, c’erano solo mamme tedesche che tenevano al guinzaglio dei kinder rompicoglioni. Non capivo una mazza di quello che dicevano ma era certo che quegli antesignani delle baby gang mi stavano prendendo per il culo.  

Ad un certo punto però, in mezzo a quella folla di piccoli bratwurst umani, intravidi una moretta interessante che stava tenendo stretta una ciotola di albicocche.  

Come un fulmine presi il 45 Ma quale idea di Pino D’Angiò. 

Prima di appoggiare la puntina sparai, anzi quasi sputai dal microfono: 

Cocca, ‘scolta ‘sta canson e sbirighe in sima; che fa anca rima”  

Mi fai ridere” 

La moretta con i capelli a caschetto, dopo più di dieci minuti passati a fissarmi, sparò quelle tre parole dirompenti, una scossa di terremoto che mi fece perdere equilibrio e orientamento. Sparii dal suo orizzonte finendo sotto il bancone trascinando con me cuffia e microfono.  

Quando riemersi lei era ancora piegata in due dalle risate; la incalzai: 

Vediamo se riesci a dirmi come ti chiami” 

Ci volle un po’; trattenne per un attimo il respiro e la risata 

Deborah … smettila scemo mi stai facendo morire” 

Debora con la acca, avevo il fiato corto, fu un vero e proprio esercizio di respirazione pronunciare quel nome; era la prima volta nella mia vita che una ragazza mi dedicava la sua attenzione.  

Miracolo! El xingano era nato solo da poche ore e aveva già colpito.  

Prendi queste”  

Innamorarsi per un gesto semplice, quasi banale: vedere quella ragazza scegliere da una ciotola le tre albicocche più belle, accarezzarle con lo sguardo e porgermele con un sorriso. 
Può sembrare un’assurdità, un dettaglio senza importanza, eppure fu proprio così che accadde. 
Quel gesto di attenzione, quella cura silenziosa, mi disarmò completamente e fu capace di illuminare l’intera giornata. 

Capii che era un segno. 

Persi immediatamente la testa per lei; per Deborah, con la sua “acca” che la rendeva unica anche nel nome. 

E io, innamorato e un po’ goffo, cercai di ricambiare come potevo, scegliendo per lei, in cambio di quelle albicocche, le più belle canzoni di quell’estate.  

Brani che parlavano di mare, di vento caldo e di sorrisi rubati al tramonto. 

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Usai sostanzialmente due versioni per raccontare quei giorni, una per Milio Vianeo e l’altra per tutto il resto del mondo, genitori compresi. A questi ultimi, fu solo complicato giustificare l’abbronzatura; me la cavai dicendo che avevamo fatto un’escursione su di un ghiacciaio e, il riflesso della neve mi aveva letteralmente ustionato.  

Ti xé goldon vecio; ti xé proprio un gran goldon” 

Milio si riferiva al fatto che non mi ero trombato Deborah.  

Ci rimasi male, fu l’unico suo commento, dopo quasi un’ora persa a raccontargli del mio viaggio segreto; francamente mi aspettavo qualcosa di più.  

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Il 25 luglio 1983, circa tre ore dopo aver sostenuto l’esame orale della maturità, ero di nuovo sull’espresso Venezia-Bari, destinazione Rimini. Quella volta lo scompartimento si riempì di ragazzi che andavano a Taranto per la naja; avrei preferito di gran lunga, le mie amiche suore.  

Mentre dal finestrino scorreva il monotono paesaggio della pianura padana, pensai che, metaforicamente parlando, sarebbe stato un viaggio di sola andata, nel senso che la mia vita aveva ormai preso una direzione ben precisa e, non sarei mai più tornato indietro sui miei passi.   

Il biondo capellone, con il quale nel frattempo avevo avuto un proficuo rapporto epistolare e telefonico, mi stava aspettando con un bel contrattino in mano; all’indomani avrei iniziato a lavorare a quella che si chiamava Radio Base Mare International; non posso dirvi come si chiama ora, altrimenti verrei facilmente smascherato. El xingano, aveva di nuovo fatto centro.  

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Per tutto quello che mi è piacevolmente accaduto durante questi decenni di radio-attività, non posso fare a meno di ringraziare il compagno Marino Scantamburlo che mi ha incoraggiato a prendere quel treno e a trasferirmi in Romagna.  

Era contento; “sono quasi tutti comunisti”, diceva sorridendo, “insomma… sono dei nostri” 
Io sorridevo con lui, ma nel cuore sapevo che quella scoperta andava ben oltre la politica: riguardava le persone, le emozioni condivise, il sentirsi parte di qualcosa di vivo e leggero, dove la musica univa più di qualsiasi ideologia. 

Grazie a Olindo di Radio Gamma5 che, a sua insaputa, contribuì a far nascere in me la passione di “fare radio” e a tracciare la mia vera strada che, non era certo quella dell’informatico, suggeritami da Manuel Agnoletto.  

Ringrazio anche il biondo che, ebbe la fortuna di diventare famoso quasi come me. La differenza è che lui, vive alla luce del sole, mentre io, trovo rifugio in uno pseudonimo che, mi consente di avere una comoda doppia vita e, cosa non da poco di questi tempi, un doppio stipendio.  

Ma, più di tutti, ringrazio Milio Vianeo; se non ci fosse stato lui, quel giorno, avrei consegnato le centotrenta carte a don Gino. Dal camposcuola sarebbe tornato a casa un bravo e cattolicissimo ragazzo ma, un infelice bravo ragazzo.  

Fu grazie a quel cambio di rotta improvviso che scoprii un mondo nuovo, inatteso: la gente di Romagna e la leggerezza che solo la loro musica da ballo sapeva regalare. 
Scoprii il liscio, e con esso un modo diverso di stare insieme. Non avrei mai immaginato: io, che fino a poco prima inseguivo solo l’UNZ-UNZ-UNZ della musica da discoteca, sarei rimasto incantato da quel ZUMPAPPA fatto da fisarmoniche, sorrisi e gonne che giravano leggere sulle piste da ballo. 

Scoprii il valore sociale, e persino terapeutico, del ballo. Corpi che si sfioravano, che si sentivano, che comunicavano più con un passo o un abbraccio che con mille frasi. 

Fare radio sul mare della riviera, con le sue albe chiare e la sua voce infinita, diventò per me qualcosa di più di una semplice passione: era un modo di sentirmi utile, di regalare qualcosa di vero agli altri, e allo stesso tempo di sentirmi completo. Ogni dedica musicale, ogni risata scambiata con gli ascoltatori, mi faceva stare bene. Sentivo che l’affetto che ricevevo non era finto: era concreto, sincero. 

È da allora che, “El Xingano” continua a vivere dentro di me.  

Sono sostanzialmente uno zingaro nell’anima che, per citare Battiato, non ha mai avuto “un centro di gravità permanente”. 

Navigo a vista; mai una reale convinzione, mai un vero e proprio ideale da perseguire; solo una fame insaziabile di libertà e la costante, sottile paura che qualcuno possa sottrarmela. 

Ogni volta che mi fermo troppo, sento la ruggine salirmi nelle vene. 
E allora riparto, senza meta precisa, inseguendo un orizzonte che so già cambierà forma appena mi avvicino. Non è mancanza di coraggio restare, è che per me restare è morire un po’. Meglio perdersi mille volte che inchiodarsi una volta sola. 

Non porto valigie, solo passioni: la musica che mi vibra nel petto, il ballo che mi accende il corpo, il volo che mi stacca da terra, la radio che mi dà voce. Sono la mia coperta di Linus, la carezza che mi riscalda quando intorno c’è solo gelo. 

C’è però un faro che mi conduce in un porto sicuro: Deborah. La mia prima, più bella e più lunga storia d’amore. 

Una storia che, forse, non è mai esistita davvero esattamente come la racconto, ma che io continuo a vivere ogni volta che la penso. 

Il destino volle separarci, proprio come persi quel foglietto con il suo indirizzo, nascosto tra le pagine di “Avere o essere”. Ma lei è rimasta sospesa nel tempo, una fotografia incastonata nella mia anima, immune all’ingiallire degli anni. 

Dentro di me coltivo ancora la follia, o la fede, che, fra gli infiniti segnali radio dispersi nell’etere, uno possa raggiungerla e udire la mia voce, le canzoni che ancora continuo a dedicargli, i miei silenzi. 
E che un giorno, chissà, possa giungermi un suo segnale. Anche solo un soffio. Un accenno di presenza che riaccenda la segreta speranza di poterle ancora parlare. 

Mentre passeggio al mare d’inverno, mi illudo di vederla apparire sul pontile dove ascoltavamo “Zingaro” di Tozzi. 

Ma il pontile rimane deserto, solo io, il mare e tanto vento. Dalla spiaggia alle mie spalle, ho l’illusione di sentir riecheggiare “Ciao mare” di Raul Casadei.  

Il vento cancella dalla sabbia i ricordi, ma dal cuore, no il vento non può”  

Vedo Debora con la acca, la moretta con i capelli a caschetto, che mi ha offerto quelle tre dolcissime albicocche, camminare al mio fianco, tenendomi la mano, come quell’estate di tanti anni fa, che il tempo non è riuscito a distruggere.  

Non ci siamo mai messi insieme e non ci siamo mai lasciati. 

 
E forse è proprio questo il segreto: ci sono amori che non hanno bisogno di essere vissuti per essere veri. Sentimenti che non chiedono il permesso di entrare e non se ne vanno nemmeno se provi a chiudere la porta. 

L’ho amata davvero, o forse ho amato l’idea di lei? 
 

Ma in fondo, che differenza fa? 
 

Le storie d’amore che abitano l’anima sono le uniche che non finiscono mai: 
non invecchiano, non si logorano, non ti tradiscono. 
 

Restano. Silenziose. Eterne. 

Restano lì, perfette, come una canzone che non smette di suonare. 

Una lunga storia d’amore … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta

PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO

© 2025 Michele Camillo

La ragazza dell’ultimo banco

Da sempre ho un certo feeling con gli ultimi posti. 
Fin da piccolo, quando mia zia preparava pane, burro e zucchero per tutta la masnada dei cugini, io ero immancabilmente l’ultimo della fila e spesso rimanevo a bocca asciutta, un vero e proprio trauma infantile. Una costante nella mia vita. 

In chiesa, quando da ragazzo ci andavo, mi sedevo sempre all’estremo dell’ultima panca in una delle file laterali. 

Sceglievo quel posto, non perché mi sentissi un peccatore come il pubblicano della parabola, non avevo ancora quel tipo di consapevolezza spirituale, ma piuttosto per tenere le distanze da un certo mondo che, francamente, non mi piaceva. 

Dopo la Cresima, mentre la maggior parte dei miei coetanei evaporava come neve al sole, io invece continuai a frequentare la parrocchia. Non per slancio mistico, ma per una più umana, e disperata, necessità: trovare un luogo dove sentirmi visto, considerato, magari perfino valorizzato. In famiglia non venivo considerato, fuori venivo bullizzato. Speravo, ingenuamente, che lì dentro, almeno lì, avrei trovato amici veri. 

E invece no. Peggio che “fuori”, come i preti chiamavano con disprezzo tutto ciò che non ruotava attorno alla parrocchia. Sembrava un’azienda: se rientravi nelle grazie del parroco, magari perché eri figlio di o eri una bella gnocca di ragazza, valevi qualcosa. Altrimenti, specie se eri uno pieno di dubbi che faceva domande imbarazzanti, ti consideravano una presenza scomoda, una sorta di pezza da piedi liturgica. 

Eppure, nonostante questo, continuavo ad andare a messa. Non tanto per fede, quanto per puro e semplice terrore. Mia nonna paterna e i catechisti mi avevano instillato una paura viscerale dell’inferno: un girone eterno di fuoco e rimorsi riservato a chi sgarrava anche solo un po’. Così, per non sapere né leggere né scrivere, e per evitare eventuali eterni barbecue, pensavo che fosse meglio adempiere malvolentieri a certi obblighi al fine di evitare che finisse a schifio. 

In pratica, la messa e i suoi annessi e connessi, era la mia polizza assicurativa ultraterrena. Non sapevo bene cosa coprisse, ma non volevo correre rischi. 

Ero convinto che la pensasse allo stesso modo anche quella ragazzina che, come me, si sedeva sempre nei banchi in fondo. Aveva un’aria un po’ dimessa, appartata, e proprio quel suo modo discreto di esistere mi attirava. Non la conoscevo, la vedevo solo da poche settimane, o forse, c’era sempre stata, ma io non l’avevo mai davvero notata. 

Una cosa era certa: era timida quanto me. Quando arrivava il momento del segno della pace, ci sfioravamo appena la mano, come se avessimo paura di disturbare. Eppure, in uno di quegli istanti sfuggenti, riuscii a incrociare i suoi occhi. Verdi. Bellissimi. 

Notai che arrivava in chiesa con un certo anticipo. Così iniziai anch’io ad arrivare un po’ prima della messa, con la speranza, nemmeno tanto sottile, di avere qualche minuto in più per osservarla. Lei restava assorta, forse pregava. Iniziai a pregare anch’io… che capitasse finalmente un’occasione per parlarle. E il miracolo arrivò. 

Una domenica dimenticò il pullover sul banco. Avrei potuto correrle dietro e restituirglielo, ma preferii adottare una strategia più raffinata: usarlo come pretesto per saperne di più. 

Mi fiondai da suor Teresa, madre superiora e archivio vivente della parrocchia. Un’impicciona di alto livello, aggiornata in tempo reale su chi entrava, usciva e pure su chi avrebbe dovuto entrare ma poi aveva cambiato idea. 

Dopo un quarto d’ora, uscii dalla sagrestia con un dossier completo di profilo psicologico, più dettagliato di un rapporto dei servizi segreti. Si chiamava Carolina S., figlia di Giovanni S., il nuovo custode dell’impianto di depurazione. Ultima di quattro figli, gli altri tre maschi. 

Ma suor Teresa mi mise anche in guardia: “È una tipa strana,” disse. Gemma, figlia di siora Tersilla gli aveva riferito che a scuola Carolina si sedeva sempre all’ultimo banco, non parlava con nessuno e prendeva voti piuttosto bassi. 

A me, però, quel profilo da creatura silenziosa e incompresa non faceva paura. Anzi, mi sembrava familiare. Forse perché, sotto sotto, io ero esattamente come lei. 

Prima di congedarmi, suor Teresa mi posò una mano sulla spalla e mi disse, con un sorriso che sapeva di complicità: “Vedi un po’ di tirarla in qua, quella ragazza.” 
Fu come se per un attimo il mondo mi riconoscesse. Mi sentii felice, davvero felice, era una delle rare volte in cui qualcuno mi mostrava fiducia, come se potessi davvero fare qualcosa di bello. Come se valessi. 

Tra le tante informazioni che mi aveva passato, ce n’era una che mi colpì più delle altre: quella “strana” ragazza aveva l’altrettanto strana abitudine di salire sulla sommità della “collinetta”, un’anonima montagnola di terra di riporto, avanzata dagli scavi per il canale del depuratore, e starsene lì, ad ascoltare la radio a tutto volume. 

Io lo sapevo cosa voleva dire essere considerato “strano”. Lo ero anch’io, e sapevo che noi strani abbiamo i nostri piccoli riti, i nostri luoghi sacri, le nostre abitudini silenziose. Se Carolina, sì, ormai sapevo il suo nome, era davvero come me, allora l’avrei trovata lassù. 

Dopo pranzo presi il pullover, montai in sella alla bici e iniziai a pedalare verso la zona del canale scolmatore. Più mi avvicinavo, più il cuore accelerava, come se volesse anticipare l’incontro. 

E poi successe. Prima, lontano, un suono: una musica che si perdeva nell’aria, portata dal vento. Un buon segno. Un presagio. E subito dopo, eccola. 

Era lì, in cima a quella collina di niente, con lo sguardo perso verso l’orizzonte, come se cercasse qualcosa che non sapeva nemmeno lei. Il vento le agitava la coda di cavallo, e ogni tanto una ciocca le attraversava il viso. Vederla fu come ricevere un’impronta indelebile: qualcosa mi colpì dritto al cuore e si incise nell’anima, senza chiedere il permesso. 

In quel momento, prima ancora di dirle una parola, capii che non era solo curiosità quella che mi spingeva verso di lei. Era qualcosa di più profondo. Forse tenerezza. Forse qualcosa che assomigliava già a una forma primitiva d’amore. 

Stranamente non era sorpresa nel vedermi, sembrava mi stesse aspettando ed ebbi l’impressione che quel pullover se lo fosse dimenticato apposta. 

Te lo sei dimenticato”; dissi quasi balbettando. 

Grazie”; rispose con un filo di voce. 

Menomale che c’era la radio accesa perché non sapevo proprio come proseguire la conversazione; quell’imbarazzante silenzio tra noi due mi parve eterno. 

Ma tu, come facevi a sapere che ero qui?” 

E adesso che gli dico?”, pensai. Mi prese una sorta di panico. Non potevo di certo raccontargli della mia piccola indagine su di lei. 

Cosa stai ascoltando?” Nella vita, sono da sempre stato un esperto nello sviare discorsi e domande imbarazzanti. 

“Il rumore del treno; quello va verso il mare, vero?” Indicò con lo sguardo malinconico il treno che stava sfrecciando li vicino. 

Certo che era veramente strana. Vabbè, visto che voleva parlare di treni e di mare la accontentai. Gli raccontai della miriade di parenti che avevo nella direzione nella quale andava il treno. L’avevo preso tante di quelle volte che conoscevo tutte le fermate a memoria. Le spiegai che non portava direttamente al mare ma che bisognava scendere a una particolare stazione e poi proseguire in autobus. L’avrei fatto da li a qualche settimana. Finita la scuola sarei andato a passare l’estate al mare da zio Bruno e zia Stella.  

“Mi piacerebbe venire con te” 

Era lì, con il viso rivolto al cielo, come se la sua frase fosse una verità già detta al vento. 

Il tempo, lassù su quella montagnola di terra, si fermò di colpo. Il treno ormai era lontano, un rumore sempre più fioco fino al silenzio. E proprio in quell’istante, come orchestrato da un regista invisibile, dalla radiolina di Carolina partì Run to Me dei Bee Gees. Sembrava che lo speaker ci stesse leggendo dentro. 

Le sue parole mi colpirono al petto con la forza quieta delle cose semplici e vere. 
 

Non sapevo cosa dire. Ero turbato, spiazzato, felice e impacciato tutto insieme. 
Mi girai appena verso di lei, senza osare troppo. 
 

Ancora una volta cambiai discorso. Gli parlai del mio sogno di mettere in piedi una piccola radio libera, come quella che stava ascoltando. Andai avanti non so quanto con il mio monologo.  

Ci vediamo; ciao” Ad un certo punto prese radio e pullover e, senza nemmeno guardarmi in faccia sparì. 

Rimasi come un ebete per più di un’ora sopra la montagnola. Sapevo di aver fatto qualcosa di sbagliato ma, non riuscivo a capire cosa. 

Per tutta la notte mi rigirai nel letto senza riuscire a dormire. Era quasi l’alba quando pronunciai ad alta voce “andiamo!”. I miei si spaventarono a causa di quella specie di urlo che avevo cacciato. 

La giornata a scuola non passava mai. Quando suonò la campanella dell’ultima ora ero già praticamente in sella alla bici. A casa mangiai in fretta e furia, avevo la sensazione che dovevo fare presto. 

Il mio piano era perfetto. Domenica l’avrei fatta salire con me su quel treno che porta al mare e saremo andati a trovare i miei zii. Zia Stella e zio Bruno, due cuori semplici, caldi, pronti ad accoglierla come una di famiglia.  

Avevo studiato tutto nei minimi particolari; bisognava saltare messa ma, chi se ne fregava; il buon Dio, se esisteva, mi avrebbe perdonato; in fin dei conti era per un buon fine e, cosa da non poco, avevo l’approvazione di una religiosa. 

Pedalavo più forte che potevo. Ma poi il passaggio a livello… 
La sbarra era giù. Una fila di auto immobili, facce imprecanti e clacson impazienti. Il treno era lì, fermo, la gente si sporgeva dai finestrini cercando aria e novità. 

Imboccai la stradina sterrata che correva lungo la ferrovia, quella che portava su, alla montagnola. 
Quando alzai gli occhi, vidi in lontananza qualcosa che mi fece gelare il sangue: lampeggianti blu, un camion dei pompieri, un’ambulanza, volanti della polizia. Una piccola folla si era già formata, come accade sempre quando la tragedia diventa spettacolo. 

Il cuore mi cadde. 
Non volli avvicinarmi. 
Non volli sapere. 
Preferii salire sulla montagnola con le gambe tremanti. 

E lì, in mezzo al silenzio tagliente, trovai la sua piccola radio. Ancora accesa. 

Dall’altoparlante usciva solo il fruscio che si sente quando non c’è nessun segnale radio. Mi avvicinai. 
 

Con mani tremanti, abbassai il volume. Poi chiusi lentamente l’antenna, come si chiude la palpebra di qualcuno che dorme per sempre. 
Ogni gesto era una carezza, un addio. Era come se, nel sistemare quella radio, stessi ricomponendo il suo corpo che, lo sapevo, era lì poco distante, nascosto sotto un lenzuolo bianco. 

Me la misi sottobraccio. 
Poi, senza sapere dove andare, iniziai a pedalare. Forte. Fortissimo. Singhiozzando. Con il cuore in gola e le lacrime che mi annebbiavano la strada. 

Volevo prendere insieme a lei quel treno per il mare. 

Ma, ero arrivato tardi, troppo tardi, e lei, si era fatta prendere dal treno per il mare che, l’ha portata via per sempre. 

Il giorno del funerale non c’era molta gente in chiesa. A dire il vero, la maggior parte dei presenti non erano neppure parrocchiani. Sembravano più che altro curiosi, di quelli attratti non dal dolore, ma dal dramma. Il suicidio, si sa, attira sempre un certo tipo di attenzione storta, morbosa. 
I “veri” frequentatori della parrocchia forse si vergognavano di partecipare al funerale di una sfigata, come qualche mio “fratello” o “sorella” l’aveva definita.  
D’altronde Carolina non conosceva quasi nessuno. E quasi nessuno la conosceva. Tranne me. 

Il suo posto, all’ultimo banco della fila laterale, era vuoto. Mi sedetti lì, come fosse l’unico gesto sensato da fare. Una piccola fedeltà. Poi, a un certo punto, sentii un abbraccio stringermi forte. Era suor Teresa. 
 

Mio padre mi aveva sempre ripetuto che un uomo vero non deve piangere. Ma in quell’istante, con quell’abbraccio improvviso e materno, crollai. Le parole uscirono rotte, quasi senza voce: 
 

Non ho fatto in tempo…” 

Suor Teresa si sedette accanto a me, mi prese la mano con dolcezza. “Coraggio,” sussurrò. “Ora lei è dappertutto. Non cercarla al cimitero. Troverai Carolina in tutti i luoghi in cui sceglierai di ricordarla. Il tuo amore per lei è vivo, e lo sarà per sempre. E sai una cosa? Puoi ancora far qualcosa per lei. Puoi costruire qualcosa in suo nome.” 

È inutile dire che quello che è successo a Carolina ha segnato la mia vita. Ha scardinato tutte le poche certezze che avevo. Ha mandato in crisi la mia fede, o almeno quella che credevo fosse fede. 
Mi ha lasciato addosso la sua fragilità. Ma col tempo ho imparato che anche la fragilità può essere un dono: ti costringe a guardare più a fondo, con più umanità, con più verità. 
 

Mi ha trasmesso la paura di lasciare. Lasciare qualcuno che forse non ho mai amato veramente, per paura che possa fare lo stesso suo gesto estremo. È una paura ingombrante. Ma è reale. E, purtroppo, non è mai passata. 

Eppure, non mi ha lasciato solo con la paura. Mi ha lasciato anche una missione. Una possibilità. 
Suor Teresa mi aveva detto: “Puoi costruire qualcosa in suo nome.” E io l’ho presa in parola. 

Anzi, ho fatto di più. 
Ho costruito qualcosa che porta il suo nome. 

Non ho mai dimenticato quel breve momento in cima alla montagnola di terra, quel frammento di eternità che ci è stato concesso. 

In uno dei tanti pomeriggi silenziosi che passavo lassù, seduto accanto alla radiolina che era stata sua, girando le manopole per sentirla ancora un po’ vicina, inciampai in una trasmissione curiosa. Un tizio stava raccontando la storia di una fantomatica Radio Caroline

Quel nome mi colpì al petto come un sussurro. 
Ascoltai. 

La voce narrava di una radio pirata che, negli anni Sessanta, trasmetteva da una nave ancorata in acque internazionali, al largo delle coste inglesi. 
Quel racconto mi affascinò, aveva un’aura romantica.  Che figata quella radio pirata, mandava in onda la musica che le emittenti ufficiali censuravano, abbattendo muri, ignorando confini, accendendo sogni. Aveva dato voce a chi non ne aveva, aveva fatto volare in alto i Beatles, i Rolling Stones e tanti altri. 

Mi vennero i brividi. Era come se quel racconto parlasse direttamente a me. A noi. 
 

Fu in quel momento che capii una cosa semplice e immensa: 
su quella collina di terra apparentemente inutile erano nate due forme d’amore indistruttibili. 
Una per Carolina
E una per la radio

E così, con il tempo, nonostante le paure, nonostante le ferite, nonostante il non credere più in molte cose che prima mi sembravano certezze, ho realizzato un sogno. 
Un sogno che ha il suono della sua voce, l’eco delle sue mani timide, il profumo del vento tra i suoi capelli. 

Ho realizzato il mio grande sogno di “fare radio”. Ho creato una piccola emittente. Una radio semplice, senza pretese. Ma vera. 

L’ho chiamata Radio Carolina
 

If ever you got rain in your heart, 
Someone has hurt you, and torn you apart, 
Run to me whenever you’re lonely 
Run to me if you need a shoulder 
Now and then, you need someone older, 
So darling, you run to me. 

And when you’re out in the cold, 
No one beside you, and no one to hold 

And when you’re out in the cold, 
No one beside you, and no one to hold 

So darling, you run to me. 

Se mai avessi la pioggia nel cuore, 

Qualcuno ti ha ferito e fatto a pezzi, 

Corri da me ogni volta che ti senti sola 

Corri da me se hai bisogno di una spalla 

Ogni tanto, hai bisogno di qualcuno più grande, 

Tesoro, corri da me. 

E quando sei fuori al freddo, 

Nessuno accanto a te, e nessuno da abbracciare, 

Tesoro, corri da me. 

Da “Run to me” – Bee Gees 

Anima sbiadita … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO – © 2025 Michele Camillo

No’ me ‘scolta nissuni

Tratto dalla raccolta Piccole storie di piccole Radio

© 2023 Michele Camillo

Parlare è un bisogno. Ascoltare un’arte. Goethe

Mi presentai in prima media, unico fra tutti, con la cartella delle elementari; era praticamente nuova, appena cinque anni di vita. Mio padre, non ne voleva sapere di spendere soldi per inutili dotazioni scolastiche, tanto, altri tre anni e sarei finito in stabiimento a Porto Marghera; a quel tempo, gli ascensori sociali erano rari e, per giunta, malfunzionanti. 

A causa del mio outfit leggermente vintage, mi guardavano tutti come se fossi un marziano. Ero distinguibile soprattutto per i pantaloni acqua alta de gabarden, acquisiti da mio fratello al quale, a sua volta, glieli aveva passati il cugino Gaspare; roba antica, risalente agli inizi dei ‘60.

La cosa era reciproca, perché a me, invece, sembrava di essere atterrato su Marte. Quell’anno partiva il progetto interdisciplinarità; tutto il corpo insegnanti era preso da ‘sta roba, in primis il prof di disegno, tale Giovanni Memola. Parevano tutti matti; un giorno, nell’ora di matematica, trovai quello di applicazioni tecniche che recitava una poesia di Pascoli in francese; che casino, mi veniva da piangere, rivolevo la maestra delle elementari. 

El progetton aveva un lato positivo; consisteva nella creazione di gruppi interclasse dove ficcavano dentro quelli di prima, seconda e terza; un bel bordello che mi gustava parecchio. Per essere più precisi, mi gustava la Consuelo della III^ C, una in gran salute. Rispetto alle mie coetanee, aveva tutte le sue cose ben sviluppate e, sapeva metterle bene in mostra; unico difetto, non frequentava ea ceseta ma, si sa, gnocca e cattolicesimo non sono mai stati affini.

Un giorno venimmo convocati in aula magna, ovvero l’aula di disegno che, il sopracitato illustre cattedratico, aveva abusivamente adibito a tale scopo. Probabilmente la preside aveva notato la scritta con il gessetto, sul muretto a fianco del cancello di ingresso, “l’a Consuello e tetona”

Ritto sull’attenti, a fianco del Memola c’era quello spilungone di Giovanni “Nane” Lanza di 3^ C. Che imbecilli, avevano preso la persona sbagliata; quel secchione paraculo, non poteva essere l’autore della frase; era stato sicuramente uno che non andava molto bene in itagliano come, ad esempio puramente indicativo, il sottoscritto.

Fortunatamente si trattava di una simil conferenza stampa, atta ad esaltare lui e altri fidi discepoli del prof. La cosa sensazionale consisteva nel fatto che erano stati invitati a parlare del progetton, nientepopodimeno che in un programma radiofonico.

Scusa mister, fame capir mejo”. Era assai raro che il vecchio Ginetto Franchin, ripetente di lungo corso, ponesse delle domande, in genere dormiva per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico. In effetti, nel resoconto del saccente c’era qualcosa che non tornava. Dichiarò che la famigerata radio era situata in una specie di bottega al piano terra di un palazzone popolare, situato a sua volta in un quartiere di ben nota fama. Al Franchin, uomo di mondo, non risultava che la RAI avesse sede nel posto descritto dal Lanza. 

Quello di disegno, si affrettò a precisare che la radio dove avevano messo piede lo spilungone e soci era una radio libera.

Ah, aeora so bon anca mi de ‘ndar a parlar par radio”, sentenziò il Ginetto rimettendosi a dormire.

Fu in quel momento che, inspiegabilmente, mi si accese una spia sul cruscotto che avevo in testa; tornai da scuola con un pensiero fisso, riuscire a ricevere quella strana radio.

In casa, il nostro apparecchio principale era una gigantesca radio a valvole. Da quella specie di armadio, non avevo mai sentito partorire nulla di diverso dai programmi istituzionali della RAI; unico outsider, “musica per voi” di Radio Capodistria. Sulla scala luminosa, c’erano nomi strani tipo Monte Ceneri o, nomi di città situate dall’altra parte del globo; di Mestre e, tantomeno Marghera, nessuna traccia.

Erce! Moighea de tochignar!”; mio padre, si spazientì. Era sabato e, aveva il timore che, a causa del mio continuo smanettare, l’indomani non sarebbe riuscito ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto”.

Mi rifugiai in cameretta; dove, tra i due letti, era posizionata una più moderna radio a transistor, fino a quel momento, relegata al ruolo di sorella minore, rispetto a quella installata in soggiorno. 

Notai le minuscole scritte; “UKW – 87,5 … 100 … 108 MHz”; mi accorsi che la piccola radio marron, aveva una marcia in più, rispetto alla sorellona.

Nell’attimo in cui lo premetti il tasto UKW, sentii un tale Olindo, parlare al telefono in dialetto, con un tizio che chiedeva se “te me pui metar su Ramaya par ea Rosana de Vigodarsere”. Stupefacente, mi si aprì un mondo, in quel momento passai il confine delle onde medie e non ci feci più ritorno.

Nei minuti successivi fu un incessante andirivieni tra gli 88 e i 108 Megahertz alla scoperta di quella nuova terra promessa. 

Oltre al fatto che ci voleva quasi un quarto d’ora prima che iniziasse a emettere un suono, il vecchio armaron a valvole e le sue, altrettanto vecchie onde medie, non offrivano una grande varietà di scelta in ambito musicale; li, a dettar legge, c’era Lelio Luttazzi e la sua hit parade. La piccola radio marron al contrario sembrava un jukebox; si rivelò presto uno scrigno contenente nuovi orizzonti musicali e, l’andare su è giù per la banda FM, diventò uno dei miei passatempi preferiti, nonché valvola di sfogo. 

La Michael Zager Band con Let’s all chant, rischiò di farmi diventare mezzo sordo; mentre, Jane Birkin con Je t’aime moi non plus, … mezzo cieco. 

Nessuno dei fioi dea vietta, credeva alla storia della radio sui paeassoni di Marghera. “Cori, cori, va in mona”; Giorgio Bortolozzo, il decano della compagnia, pensava stessi prendendo tutti per il culo. Gli unici interessati alla faccenda erano i miei fidi compagni di merende Tito Carniato e Bicio Busatto; frequentavano la sezione staccata, seppur all’oscuro riguardo l’interdisciplinarietà e cazzate varie, gli era arrivato all’orecchio che uno di terza della sede centrale era stato ospite in una fantomatica trasmissione radio. Dopo averli portati al cospetto dell’illustrissimo Lanza, decisero che era il caso di andare in missione esplorativa. 

Il giorno fissato, i due soci, visto il quartiere nel quale dovevamo recarci, “par no’ saver ne esar e ne scrivar”, come si dice da noi, si presentarono armati. Tito si era procurato un pesante caenasso, che ufficialmente serviva per legare le bici, mentre Bicio aveva con sé la sua fida Oklahoma ad aria compressa e, una scatola zeppa di pallini in gomma; in effetti, il solo pensare di metter piedi, anzi, le ruote delle biciclette, alla CITA, ci faceva tremare il culo non poco.

Grazie alle indicazioni del Lanza, trovammo quasi subito il posto; due vetrine oscurate da tende nere, sembrava una rivendita di casse da morto. Che era la sede della radio, lo capivi solo dall’etichetta appiccicata sul minuscolo campanello; probabilmente, considerato il luogo dove si trovava, era necessario mimetizzarla per bene.

Ragazzi, desiderate …”; improvvisamente si materializzò uno smilzo riccioluto. Fortunatamente, d’istinto mi uscirono le parole Memola e interdisciplinarità e, in una frazione di secondo, fummo fuori dalla situazione di imbarazzo in cui ci eravamo cacciati, guadagnando istantaneamente l’accredito per un tour guidato, nella bottega che nascondeva una radio libera.

Se, come ho detto, l’arrivo alle medie, poteva paragonarsi a un atterraggio su Marte, quella radio, era l’astronave che mi ci aveva trasportato. L’insieme di aggeggi che servivano a “fare radio”, pieni di luci e levette, faceva sembrare quella stanzetta semibuia, la plancia di un’astronave. Quello che la rendeva ancora più affascinante era che, ai comandi, c’era una persona sola; un solitario cosmonauta identico a Angelo Branduardi.

Una volta, in televisione, mostrarono lo studio dal quale andava in onda “alto gradimento”; la regia sembrava la sala di controllo di Cape Canaveral, si vedeva uno stuolo di camici bianchi intendi a spingere bottoni e menar leve. Renzo Arbore citava sempre “quelli dietro il vetro”, riferendosi ai tecnici in regia; sarà che era la radio dei paeassoni de Marghera ma li, dietro il vetro, non c’era nessuno; anzi, non c’era nemmeno il vetro. Era tutto racchiuso in un’unica, buffa stanza, ricoperta da quelli che sembravano cartoni per le uova. 

Il cugino di Branduardi ci invitò a dire qualcosa; noi, facce rosse e scena muta. Ci chiese se volevamo fare delle dediche; noi, facce rosse, scena muta e tre teste che, in perfetta sincronia, facevano no. Parlò lui per noi, ci presentò come tre giovani sognatori desiderosi di cimentarsi nella meravigliosa avventura di fare radio. Ci guardammo con l’espressione della serie, “se lo dice lui”.

Alla fine di quella che, ancora non sapevamo, essere la nostra prima esperienza radiofonica, tornammo a casa con le tasche piene di adesivi e, … di sogni; il tipo, in effetti, ci aveva azzeccato; da quel giorno, prese forma la passione di una vita.

Non appena arrivai a casa tirai fuori il pacco di adesivi; ne appiccicai subito uno a fianco della spilla gialla “nucleare no grazie”; l’insieme rendeva ancora più figa la tracolla verde militare che, grazie alla generosità del cugino Roberto, aveva sostituito la cartella delle elementari; poi, con mano tremolante, feci il numero della radio; 

  • volevo dedicare m’innamorai del Giardino dei Semplici”;
  • “a chi?”
  • “ah si, a Consuelo”
  • “da parte di chi?”
  • “ah giusto, … mmm … da parte … del sognatore mascherato

Visto che ci sono, ne approfitto per dire, alle varie Consuelo, Valeria, Paola, Eleonora, Roberta, Manuela, Silvia, ecc. che, se non l’avevano già capito, il “sognatore mascherato”, ero io.

Io e i miei coetanei, eravamo assai precoci e, già a quel tempo, coltivavamo interessi tipici degli adulti. Mentre la maggior parte, non faccio nomi, erano dediti alla lettura di “le ore”; alcuni, si erano abbonati a ben altre tipologie di riviste. Nel numero di dicembre 1977 di Elettronica Pratica, campeggiava la scritta “nuovo e potente trasmettitore FM”. Si accese la miccia, nei primi giorni del 1978, l’aggeggio era ben che costruito e inscatolato dentro un portasapone giallo.

Il giorno della “prima”, l’adrenalina era a mille; venni incaricato del “controllo di qualità” ovvero, capire se, l’aggeggio funzionava ma, soprattutto, che distanza riusciva a coprire. Per adempiere alla missione, fissai con del fil di ferro al manubrio della mia fida Atala color verde evidenziatore, la mitica radio marron, dotata per l’occasione di sei Superpila nuove di zecca.

Sa, sa, sa … prove tecniche di trasmissione”; indimenticabile quel momento, sembrò un miracolo sentire la voce tremolante di Bicio, uscire dalla mia piccola radio marron, quella stessa radio dalla quale, poche ore prima, era uscita la voce di Renzo Arbore. Tito uscì fuori tutto eccitato, si divertiva a scuotere l’antenna fissata su una canna di bambù. L’avevo visto far tiri del genere, due mesi prima, quando la Betty della 1^ F gli fece intendere che, ea ghe stava.

Meti su qualcossa che parto” gli gridai mentre salii in sella; iniziai a pedalare con le prime note di don’t go breaking my heart. Purtroppo, dopo poche centinaia di metri Elton John & Kiki Dee, si fecero flebili fino a svanire definitivamente. Non era importante; ora avevamo la nostra radio libera, la meravigliosa avventura era iniziata. 

Gasatissimo; spinsi a tutta forza la fida Atala in direzione di casa; i miei, dovevano assolutamente sapere che avevano il figlio minore mezzo Guglielmo Marconi e mezzo Renzo Arbore.

Ah si ciò, e chi vusto che te ‘scolta”; sentenziò quello col master in psicologia dell’età evolutiva, ovvero mio padre.

Quella sera non cenai; passai tre buone ore, disteso a letto con le mani dietro la nuca, prima di addormentarmi. Mio padre aveva ragione; non bastavano un trasmettitore, un’antenna e un microfono; dovevi avere anche qualcosa da dire; una qualche idea su come condurre un programma. Persino quel boarotto di Olindo che trasmetteva sui 94Mhz aveva un buon numero di ascoltatori seppure, si esprimesse, con un linguaggio, per usare un eufemismo, un po’ country.

Quel comunista mangia bambini di mio zio Bruno, diceva che a differenza della dittatura, dove non puoi parlare, in uno stato democratico come l’Italia, puoi parlare ma, non ti ascoltano. In effetti quello dell’ascolto in genere, è sempre stato, per me, specie in famiglia, un grosso problema. 

Non mi rassegnavo a credere che l’entusiasmo del pomeriggio precedente fosse solamente un fuoco di paglia; decisi di chiedere una consulenza, proprio allo zio Bruno. 

Rispetto a mio padre, il feedback fu completamente diverso; a parte il fatto che la cosa venne festeggiata con un bicchierino di alcol e tossicissimo E123, commercialmente noto come Rosso Antico. Il compagno zio Bruno mi riferì che i romagnoli della sezione “Karl Marx”, tra parentesi, i più cattivi e convinti compagni esistenti sul territorio italiano, avevano fondato già da tempo una radio libera. Era fiero di avere un nipote, che avrebbe osato contrastare il potere della radio di stato, assoggettata ai bigotti democristiani. 

A dire il vero, il mio scopo era di usare le onde radio, per assoggettare le mie coetanee e, contrastare il potere di Mauro Baldan & company, il gruppo dei “grandi”, che polarizzava l’attenzione delle squinzie; ma, non potevo tradire le aspettative di un autentico comunista; gli sarebbe caduto il palco e, anche qualcos’altro.

Zio Bruno per caricarmi di entusiasmo; citò nientepopodimeno che Ghandi; “pensare con la propria testa senza lasciarsi condizionare è indice di coraggio”. Intendeva dire che, invece di seguire come un pecorone la massa e, mandare in onda le canzonette di Alan Sorrenti & c., avrei dovuto darci dentro con Bandiera Rossa e Guccini.

Per non far torto a nessuno, quello stesso pomeriggio, chiesi udienza all’antagonista per eccellenza del compagno Bruno Semenzato ovvero, don Gianni “el falso”. In preda all’euforia galoppante, mi era balenata l’idea di chiedere all’influente prelato, un locale del patronato per la sede della radio. 

Quel giovane cappellano che nella mia parrocchia, era designato alla formazione morale dei giovani, mi sottopose ad un vero e proprio interrogatorio stile inquisizione; dovetti confessargli, in ordine e senza obbligo del sigillo sacramentale, come mai ci era venuta in mente ‘sta cosa, chi aveva costruito le correlate apparecchiature demoniache e che tipo di robe volevamo trasmettere.

Probabilmente, a causa dell’alito che ancora emanava Rosso Antico, il prete mi trattò da indemoniato, cacciandomi in malo modo dal suo studio e, asserendo che da certe robe, un bravo ragazzino cattolico come me, doveva starne alla larga. Inoltre, io e gli altri due posseduti dal demonio ci saremo dovuti presentare l’indomani pomeriggio, dopo scuola, per tinteggiare la ringhiera del campetto, assieme al gruppo dell’ACR; sana attività che ci avrebbe tenuto lontani da certe idee progressiste.

Capii solo in seguito, che, certi preti accentratori e maniaci di protagonismo come lui, erano soliti soffocare qualsivoglia iniziativa che non partisse da loro o dalla loro cerchia di fedelissimi. Lo dimostrò il fatto che, nemmeno tre mesi dopo, promosse l’iniziativa, di istituire una radio parrocchiale, puntualmente naufragata ancor prima di nascere.

Fu così che, con la famiglia e i preti contro ma, i comunisti a favore, smisi anzitempo di giocare con i soldatini Atlantic per dedicarmi alle mie passioni emergenti; la radio e le squinzie. Ancor oggi, se me lo chiedete, non so quale delle due sia predominante.

“Tanto no’ te ‘scolta nissuni”; mio padre non c’è più ma, continuo a sentire la sua incoraggiante voce. “Xe inutie che ti te daghi tanto da far, no’ ti rivarà mai a essar come jorillà”.

Sior Ottorino, ha sempre diviso l’umanità in due sole caste; gli jorillà, ovvero i rotti in culo e i noialtriqua, gli sfigati. Per lui, qualsiasi azione intraprendessi, finalizzata al salto del muro che separava le due caste, era solo energia sprecata.

Anche mio zio Bruno se ne è andato e con lui tutti i comunisti, anzi no, è rimasto il papa, ironia della sorte, unico comunista sulla faccia della terra. 

Don Gianni è sparito, ma non i sensi di colpa. Continuo a sentirlo ripetermi che devo smetterla di abusare del microfono; l’esibizionismo, tranne quello dei preti, è peccato. Ora di preti ce ne sono sempre meno e non trovo nessuno di fidato a cui confessare che non riesco proprio ad ottemperare a quei comandamenti che iniziano per “non desiderare”.

Quel comunista da bar dello zio Bruno, nel senso che frequentava più il bar che la sezione; invece, non si fa più sentire. Spero non sia vero quel che si dice, ovvero che per quei miscredenti di compagni, una volta passati di la, finisce a schifio; che peccato, era l’unico supporter che avevo. 

Su di un’altra cosa aveva ragione mio padre; la cartella delle elementari sarebbe durata in eterno; in effetti, ce l’ho ancora. Dentro sono custoditi alcuni cimeli, tra cui il famoso pacco di adesivi e una cassetta PHILIPS C-60 nella quale è registrata una delle mie prime trasmissioni; quando la ascolto, ho l’impressione che, la mia voce e le canzoni che mandavo in onda, sprigionino un odore di naftalina.

La vecchia cartella è piena zeppa anche di, “se fossi” e, “se avessi”; una miriade di rimpianti e sguardi all’indietro che, quando la apro, ne esce una pesante zaffata di insoddisfazione; a tutto questo, si aggiunge l’angoscia del boomer.

Bisogna ammetterlo, la mia generazione non ha vissuto grandi drammi come la guerra e la povertà diffusa; per la maggior parte di noi, la vita è stata un gigantesco luna park. Il problema è che adesso, per citare san Paolo, “il tempo si è fatto breve” e, qualcuno o qualcosa, ti fa intendere che, da un momento all’altro, potresti dover scendere dalla giostra, per far posto a chi è più giovane di te. Tu non ci stai, non vuoi accettarlo; la prima cosa che fai è far finta di niente; giochi a nascondino con i problemi che ti si presentano poi, come un bambino capriccioso, punti i piedi e inizi a frignare. Ti prende la rabbia, perché ci sono ancora un sacco di cose che non hai potuto fare o avere. 

Nonostante tutto, grazie a quello spilungone del Lanza e ai miei amici bisognosi di applausi, rimango qui, solo davanti ad un microfono con l’angoscia che non ci sia nessuno in ascolto ma convinto che, di tutto ciò che trasmetto nell’etere, forse, ne rimarrà traccia per l’eternità. Qui, a smanettare ancora con la manopola di sintonia della radio, fino a quando non trovo la canzone che, riesce a dare una svolta alla mia giornata. Qui, ad imparare ad ascoltare più che a parlare. Qui, a raccontare piccole storie di piccole radio.

Firmato

Il sognatore mascherato

Liberi .. Liberi

Ci fosse stato
Un motivo per stare qui
Ti giuro, sai
Sarei rimasto, sì
Son convinto che se
Fosse stato per me
Adesso, forse, sarei laureato
E magari se lei
Fosse stata con me
Adesso sarei sposato

Se fossi stato
Ma non sono mai stato così
Insomma, dai
Adesso sono qui
Vuoi che dica anche se
Soddisfatto di me
In fondo, in fondo non sono mai stato
Soddisfatto di che
Ma va bene anche se
Qualche volta mi sono sbagliato

Eh
Liberi, liberi siamo noi
Però liberi da che cosa
Chissà cos’è?
Chissà cos’è?
Finché eravamo giovani
Era tutta un’altra cosa
Chissà perché?
Chissà perché?
Forse eravamo stupidi
Però adesso siamo cosa
Che cosa che
Che cosa se
Quella voglia, la voglia di vivere
Quella voglia che c’era allora
Chissà dov’è?
Chissà dov’è?

Che cos’è stato?
Cos’è stato a cambiare così
Mi son svegliato ed era tutto qui
Vuoi sapere anche se
Soddisfatto di me
In fondo, in fondo non sono mai stato
Soddisfatto di che
Ma va bene, anche se
Se alla fine il passato è passato

Eh
Liberi, liberi siamo poi
Però liberi da che cosa
Chissà cos’è?
Chissà cos’è?
E la voglia, la voglia di ridere
Quella voglia che c’era allora
Chissà dov’è?
Chissà dov’è?

E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che non c’è più

Cosa diventò, cosa diventò
Che cos’è che ora non c’è più

E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che avevi in più

Eh
E cosa diventò, cosa diventò
E come mai non ricordi più, eh

©1989 – Vasco Rossi, Tullio Ferro

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Nato sotto il segno dei pesci

Ho camminato tanto, camminato per dimenticare, camminato per piangere senza farmi vedere, camminato perché ero talmente felice e eccitato da non riuscire a dormire; camminato semplicemente perché ero solo e non avevo altro da fare o, non potevo fare altro. Ho camminato più di notte che di giorno; la notte è passione, malinconia e romanticismo; fonte di ispirazione, l’ambiente ideale dove si muovono fantasmi, vampiri e solitari introversi come me.

All’ora in cui arrivo, se ne stanno ormai andando via tutti; rimango solo nello studio, spengo le luci principali e mi godo, con in bocca il gusto dell’ultimo caffè della giornata, la magica penombra creata da una costellazione di lucette colorate e monitor vari; sono pronto anche stanotte, solitario comandante di un’astronave che, alla velocità delle onde radio, attraversa l’universo dell’etere.

Il giorno ha occhi, la notte ha orecchie, recita un vecchio proverbio persiano; momento ideale per fare radio. Mi piace usare questo termine; fare, è molto più poetico di lavorare, anche perché, un lavoro non lo è mai stato, nel senso di quello che mi serve per portare a casa la pagnotta o, come lo definiscono i maghi dell’economia, il core business ma, piuttosto, giusto per storpiare le parole, un cuore business perché, la radio va fatta con il cuore.

Quand’ero bambino, odiavo la radio, o meglio, certi suoi ascoltatori, tipo mio fratello che, la teneva accesa tutta la notte, posizionata in modo precario nell’unico comodino che avevamo in comune; ma, molto di più odiavo quelli che, nelle grigie e tristi domeniche invernali, passeggiavano con la radio all’orecchio ascoltando “tutto il calcio minuto per minuto”. Ora, rimane solo l’antipatia verso certi tipi che ci lavoravano; quelli che urlano frasi in inglese maccheronico e straparlano sopra le canzoni; credo perché, a noi introversi, danno fastidio le persone che vogliono mettersi in mostra. La verità, difficile da ammettere è che, allo stesso tempo, vorremmo essere al loro posto; perché, intimamente la maggior parte di noi, cova il segreto desiderio di essere scoperto.

E’ per questo che, attratto come l’orso dal miele, sono finito dentro una radio, a fare radio. Il posto giusto per uno come me; nascosto dietro un microfono, nessuno mi avrebbe visto e quindi, potevo far credere di essere chissà chi, libero di fingere come non mai; un social network ante litteram che mi avrebbe dato la possibilità di, far el figo, per dirla in volgo locale. Mi sarei fatto conoscere da un sacco di persone senza espormi più di tanto; il massimo del risultato con il minimo sforzo eh si, perché, oltre a essere introverso sono anche un pigro patentato. E’ successo che, citando Ligabue, le canzoni sanno chi sei molto meglio di te e, a forza di metterle su, come diciamo noi; non ci hanno messo molto a sgamarmi per cui, e solo dentro questa specie di cubo fonoassorbente, dal quale parlo quasi ogni notte che, ironia della sorte, riesco a essere veramente me stesso.

Resta il fatto che nessuno mi vede, chi mi ascolta può solo immaginarmi, basandosi solo su ciò che racconto. Già, raccontare, oggi, prima di venire qui, ho acquistato dai cinesi per pochi euro un taccuino, imitazione del famoso Moleskine. Senza fatica, le pagine si riempiono velocemente; dalla penna esce la mia storia e quelle di tanti altri amici che hanno vissuto la magica esperienza di fare radio ma, soprattutto, risuonano le canzoni legate a quelle storie perché, come dice non so chi, ci sono canzoni che quando le ascolti diventano persone, luoghi, pioggia, sole, caldo, freddo, gioia e tristezza.

Sono nato sotto il segno dei pesci, sia nella vita che in radio. Marzo 1978, in quel mese, compivo gli anni, usciva “sotto il segno dei pesci” di Antonello Venditti e, in una giornata maledettamente piovosa, rintanato nella mansarda di un palazzone popolare, con la mano tremolante, feci scivolare, per la prima volta, il cursore del mixer, dove, a matita, stava scritto MIC, balbettando qualcosa che non ricordo più, mentre, in sottofondo, il buon Venditti, mi dava la forza per vincere la mia proverbiale timidezza. Risale a quel periodo anche il mio nome d’arte, con il quale, tutt’ora sono universalmente conosciuto; questo mi permette di fare la doppia vita, come un super eroe che, nel mio caso, assomiglia più a SuperPippo che a SuperMan.

Quasi una vita passata a metter su canzoni; sembra ieri quando, con un certo affanno, le mie dita scorrevano velocemente tra gli scaffali stracolmi di dischi per cercarle mentre ora, è sufficiente digitarne il titolo. Alla fine, però da quel marzo 1978, nulla è cambiato; sono sempre più convinto che la gente, me compreso … tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore.

Sotto il segno dei Pesci … ascolta il podcast

Racconto tratto dalla raccolta PICCOLE STORIE DI PICCOLE RADIO – © 2018 Michele Camillo