Sono ormai anni che la domenica non vado più a messa, il motivo preciso non so spiegarmelo. Probabilmente sarà perché la chiesa non è più frequentata da belle squinzie come una volta ma, solo da vecchiette intente a sgranare il rosario, al fine di ottenere, solo per loro, la priority line per il paradiso. Mentre, per un’infinità di altre persone, chiedono a Dio di riservargli un posto all’inferno tipo, ad esempio, l’immigrato che, secondo loro, gli è ingiustamente passato davanti al pronto soccorso…
Sulle note di Just an Illusion degli Immagination, arrivarono in un attimo, per noi quattro mandoeoni, i diciott’anni. Il primo a diventare maggiorenne fu Paperoga…
Sulle note di Just an Illusion degli Immagination, arrivarono in un attimo, per noi quattro mandoeoni, i diciott’anni. Il primo a diventare maggiorenne fu Paperoga.
Quel giorno nello studio di SolaRadio si tenne un feston bueo non nel senso che c’era molta gnocca ma, tanta roba onta da sfondarse el bueo. Il neomaggiorenne si presentò con decine di lattine di birra della marca preferita dai muratori di mezza Italia e, due vassoi contenenti il meglio che Ciano l’onto potesse offrire in quanto a tossicità.
Negli ultimi tempi, il nostro spacciatore di fiducia aveva introdotto tra le sue specialità oltre che al già menzionato craf il panzerotto fritto nelle due varianti pizzaiola e boscaiola.
Diciott’anni si compiono una volta sola e, non potevamo esimerci da fargli un bel regalo. Dell’incombenza se ne occupò il Mauri. Il giorno prima, poco prima della chiusura, in modo da non essere visto, aveva fatto visita all’edicola di Franco “Gasetin” il quale, su sua precisa indicazione, gli aveva confezionato un pacco contenente una selezione delle più famose riviste di “anatomia”. Subito dopo, sempre con fare circospetto, si era recato in farmacia a farsi dare una scatola, non certo di Aspirine.
Unico problema, non potevano fargli il pacco regalo; per cui, dovette consegnarla al festeggiato così come gliela aveva messa in mano Federico il farmacista; aggiunse solo: “go tolto ea misura più picoea, dovaria ‘ndarte ben.”
Paperoga precisò che, per certi articoli, non esistevano misure ma c’era solo taglia unica e che, comunque, di certe “scatole” in casa ne aveva uno scatolone pieno. Inoltre, i “libri di testo” che gli avevamo fornito non sarebbero serviti in quanto sapeva benissimo come fare certe cose. Ringraziò comunque per il pensiero.
A questo punto, el Mauri, in qualità di decano degli speaker di Solaradio nonché esperto docente in una certa materia, fece un discorsetto al neomaggiorenne.
A lui non sfuggiva niente, la sua constatazione si basava su parametri prettamente statistici. Se lo scatolone con le scatole era ancora pieno, significava che non aveva praticato ovvero, poteva anche saper benissimo come fare ma, come per una fetta sostanziosa di maschi, … gli mancava la materia prima. Il suo giudizio fu quello tipico di molti insegnanti: l’allievo pur essendo in grado di comprendere ciò che gli viene insegnato, non si applica.
Riguardo il resto del sermone, per ragioni di pubblica decenza, ometto la trascrizione.
In effetti Paperoga a scuola non si era mai applicato tanto; ciò nonostante, riuscì a prendere la patente in tempi record. Ci venne il sospetto che l’avesse comprata.
Fu memorabile il giorno che superò l’esame di guida. Con una serie di eccitate telefonate venimmo convocati, ad una certa, davanti il bar da Nane. Qui, a quella certa, vedemmo sbucare dalla fine del vialone una FIAT 127 gialla che stava avanzando a tutta birra.
Il bolide, ovviamente pilotato da quel mona di Paperoga, terminò la sua folle corsa con un testacoda, urtando con il paraurti il Califfo di Memo Bottacin; il quale, non mancò di tirare giù tutti i santi del paradiso.
Con ben sette persone a bordo, il neo-pilota cercò di emulare un suo idolo: il mitico Sandro Munari a bordo dell’altrettanto mitica Lancia Stratos Alitalia, esibendosi in una spericolata gimcana tra alberi, panchine e …vecchi pensionati. Seguì un giro di tramezzini e birrini usando come tavolino il cofano della fuoriserie.
A margine, ritengo opportuno chiarire due cose: la 127 era del fratello; il quale, non era a conoscenza del “prestito”; inoltre, il vialone centrale dei paeassoni, è da sempre zona pedonale.
Bisognò aspettare molto tempo prima che il nostro socio riprendesse in mano una macchina. Per sedersi infatti dovette aspettare che non gli dolesse più il culo che gli aveva spaccato il fratellone.
Arrivata la maggiore età, arrivarono sempre più frequenti, le esortazioni di Memo Bottacin e compagnia ad abbandonare l’infruttuoso ambiente parrocchiale. Era ora e tempo che iniziassimo a ‘ndar in batua in discoteca.
Il problema era che, per andarci, non disponevamo di uno straccio di macchina.
Paperoga, oltre al culo, si era bruciato anche la 127. Gino, il fratellone, non gliela avrebbe fatta toccare, nemmeno per portare in ospedale qualcuno in punto di morte.
A proposito, vi sblocco un ricordo. A quei tempi, non si chiamava l’ambulanza (anche perché ce n’erano poche) ma, si preferiva caricare il malcapitato a bordo di un’auto e, suonando il clacson a manetta, partire a tutta velocità verso l’ospedale più vicino; unica accortezza, tenere un fazzoletto bianco fuori dal finestrino.
Morale della favola, dopo alcuni minuti arrivavano al pronto soccorso: il malcapitato che, in realtà, non aveva niente di grave ma solo una semplice indigestione, il pluri-traumatizzato autista della macchina, il suo accompagnatore con il braccio fratturato per aver tenuto il fazzoletto fuori dal finestrino e, una certa quantità di pedoni e ciclisti messi sotto dall’improvvisata ambulanza.
Per la disco, dovemmo aspettare che il Tito si decidesse a farsi la patente e che sior Sergio si decidesse a prestargli la Prinz. Tra una cosa e l’altra, arrivò il tardo autunno del 1983.
La NSU Prinz azzurra, detta “vasca da bagno”, del padre di Tito, era tenuta in maniera maniacale dal medesimo nonché, ricca di optional, tra cui: plaid sul sedile posteriore, orologio a calamita sul cruscotto con la scritta “papà vai piano”, rosario appeso sullo specchietto retrovisore e, posizionati sulla cappelliera, centrino in pizzo con sopra gli immancabili due cagnolini con la testa semovente. Con una macchina del genere, l’insuccesso era assicurato.
Comunque, fu grazie a quella “vasca da bagno” che, per noi, iniziò l’epoca delle discoteche.
Dovevamo solo avere l’accortezza di parcheggiarla il più lontano possibile dall’ingresso, per non essere derisi da tipi come Moreno Pinton dotato di Alfetta 2000 Turbodiesel, blu pervinca metallizzato; roba del genere, attirava le ragazze come una carta moschicida; mentre, la Prinz,attirava quelli che, quando la vedevano, si toccavano le palle (comprese le ragazze che non le avevano).
Vabbè, era il prezzo per iniziare a vivere dal vero la febbre della domenica pomeriggio.
Il primo ingresso in discoteca me lo ricordo benissimo; cinquemila lire compresa consumazione; appena sborsata la folle cifra, mi ritrovai, con il biglietto in mano, al cospetto di due gigantesche porte a ventola intarsiate di brillantini dorati, varco di ingresso di quel peccaminoso mondo.
A scuola, in lettere ho sempre, a malapena raggiunto la sufficienza. Non me ne voglia il buon vecchio Dante che, per questo, si rivolterà nella tomba; la sua Divina Commedia, l’ho usata come spessore sulla libreria. Però, quel giorno, non so perché, il canto primo dell’inferno, apparve nitido in sovrimpressione nella mia mente.
Indugiai non poco, aspettai che arrivasse anche il resto della ciurma, non avevo il coraggio di affrontare da solo quel momento. Era come se dovessi saltare in mare da una scogliera, meglio se lo facevamo tutti e quattro assieme.
Fu un mezzo shock; venni contemporaneamente, investito da una folata contenente un misto di acre odore di sudore e profumo dozzinale da supermercato; abbagliato dalle luci strobo, nonché assordato da Der Kommisar, sparato a mille decibel.
Rimasi per un po’ lì, spaesato ai margini della pista, con quella faccia tipica di chi si chiede se non avrebbe fatto meglio a restarsene a casa a guardare Domenica In, magari commentando gli ospiti con la nonna.
Poi, però, dalle casse uscì Paris Latino e qualcosa dentro di me, forse l’istinto, forse un’entità sovrannaturale amante della disco dance, prese il controllo o forse, semplicemente la voglia repressa di non sembrare un soprammobile umano.
Mi lanciai nella mischia, opponendomi con forza all’introverso che era in me e che, da sempre, mi comandava come un dittatore.
Quello che provai fu quasi mistico: ero in estasi, totalmente impermeabile al resto del mondo. Non vedevo più nessuno, nemmeno certi fenomeni da pista che credevano di essere i John Travolta della situazione. Sentivo solo la musica e il mio corpo che, senza nessun permesso firmato, aveva deciso di muoversi in autonomia. In quell’attimo capii che si era aperta una porta segreta: un universo parallelo fatto di ritmo, luci psichedeliche e passi che non avrei mai immaginato di essere in grado di fare senza provocare incidenti diplomatici.
Nemmeno io ero John Travolta, ma, e questa fu la vera sorpresa, mi sentivo incredibilmente a mio agio lì, in mezzo alla pista. Incredibile; mi si stava spalancando un mondo nuovo, scintillante e rumoroso.
Ballavo senza freni e ogni tanto facevo lo scemo con qualche gruppo di ragazze. Ridendo mi lanciavano delle occhiate; probabilmente non a causa del mio fascino, ma perché stavo facendo el mona a livelli olimpionici.
Ad un certo punto, Paperoga mi strattonò via; mi urlò che era il momento di consumare la consumazione; l’avevamo pagata e ci spettava di diritto, fosse mai che ce ne andassimo via senza averne usufruito.
Fu anche quella una prima volta, tutti e quattro trangugiammo un Gin & Tonic, convinti che ci avrebbe reso immediatamente uomini veri.
Paperoga tentò, senza alcuna dignità, di fare un secondo, abusivo giro chiedendo un Bacardi & Cola. Poi, non pago, svuotò la ciotola delle arachidi salate, come se non mangiasse da tre giorni.
Il barman gli lanciò uno sguardo che diceva tutto: “Tu, oltre a essere un morto di figa… sei anche un morto di fame”
EnsoPenso stava facendo strane acrobazie con la lingua per estrarre la fettina di limone dal bicchiere; in fin dei conti, aveva pagato anche quella. A missione compiuta, ancora con mezza fetta di limone che pendeva dalle labbra, con fare solenne ci disse:
“Me sa che che finalmente xé femo un bel giro in giostra”
In effetti, in quanto a giostre, il tipo era eccitato come un bambino a Disneyland.
Probabilmente era a causa del gruppo di stivaone (trattasi di squinzie abbigliate con maglietta attillata, minigonna e stivaloni; termine coniato dallo stesso EnsoPenso, n.d.r.) che aveva adocchiato.
“Mmm, varda quanta roba, el xè drio ‘ndarme in pression”
Da quando eravamo entrati che le aveva puntate; per segnalarmele, continuava a tirarmi la manica della giacca fino quasi a strapparmela.
Quando le vidi, mi resi conto che Memo Bottacin aveva ragione; tutta quella roba in parrocchia non l’avremo mai trovata, nemmeno se aspettavamo il prossimo concilio.
Purtroppo, mi resi anche conto che il nostro amico, coperto dal rumore assordante si divertiva a mollarne di potenti. Inutile dirvi che la discomusic ad alto volume, copriva il sonoro, ma non la puzza delle sue performances.
Mi fu subito chiaro il motivo di certe sue improvvise toccate e fuga in pista; ma, soprattutto, mi fu subito chiara l’origine di quel tanfo che si sentiva e che, creava un certo imbarazzo tra i discotecari presenti.
Roba da matti; nell’attesa de farse un giro in giostra, il tipo aveva trovato il suo personalissimo modo di divertirsi.
Il Tito invece, notò che Moreno Pinton e socio, invece di ballare, se ne stavano guardinghi a bordo pista appoggiati alle colonne. Secondo lui, aspettavano il momento opportuno per tuffarsi sulle prede che poi si sarebbero caricate a bordo dell’Alfetta 2000 Turbodiesel.
Il giorno dopo probabilmente, in bar da Nane, lo stesso Pinton, ci avrebbe riferito, con maniacale dovizia di particolari, tutto quello che era successo sui sedili di quella macchina.
Il nostro neo-antropologo da discoteca si affrettò a denominare quel genere di persone i condor, definizione che rimase nei secoli.
Con una bella carica alcolica addosso e con l’alone di sudore che ormai si era esteso fino alle mutande, tornammo tutti e quattro in pista.
Tito, che probabilmente si avvaleva di qualche sofisticato sensore a noi sconosciuto, aveva individuato le già citate stivaone intente a ballare in cerchio con le loro borsette appoggiate per terra al centro. Almeno apparentemente, non erano marcate a vista da nessun condor.
Danzando con la grazia di una tribù maori, ci avvicinammo all’obiettivo. Le squinzie ci notarono e ci sorrisero; le cose erano due; o buttava bene oppure, semplicemente stavamo facendo la figura dei coglioni. In quel momento, ero anche preoccupato che a EnsoPenso non venisse in mente di sparare uno dei suoi … petardi.
Poi, avvenne quello che mi sembrò un miracolo; il cerchio delle ragazze si aprì per farci entrare e ballare assieme.
La pacchia durò fino alla fine di Happy Children. Poi, all’improvviso, le casse iniziarono a sussurrare le note di I Like Chopin, le luci si abbassarono e tutto il locale fu avvolto da una strana atmosfera. La musica cambiò in tutti i sensi.
Denis Sgorlon ci aveva avvisati. Quando arrivavano i lenti, ci si giocava il tutto per tutto. Era quello il momento giusto par butar sardon; il punto di non ritorno; bisognava essere pronti.
Denis, poi, non si era limitato a darci consigli tattici: ci aveva descritto con un entusiasmo quasi poetico il famigerato lento sbregamudande, cioè la sensazione fisico-cosmologica che avremmo dovuto provare quando “una nostra cosa” si sarebbe trovata in intimo contatto con “una loro cosa”.
Invece, Gazebo con la sua I like Chopin ci colse impreparati, in men che non si dica le ragazze si dileguarono e intorno a noi si formò il vuoto.
Un fuggifuggi talmente sincronizzato che per un attimo sospettai un attentato chimico di EnsoPenso; per qualche minuto, inspirai fortemente per verificare.
Rimanemmo lì, come dei pampenel mezzo della pista; immobili e inutili. Visto che la situazione era disperata e del tutto priva di prospettive, non ci rimase altro da fare che battere in ritirata, cercando rifugio ai bordi della pista con la dignità a brandelli.
Il panorama era completamente cambiato. La pista non era più affollata come prima: I Like Chopin aveva innescato una selezione naturale implacabile. Erano rimaste solo coppie; gli eletti, quelli che ce l’avevano fatta. Mentre ballavano i lenti, si muovevano con l’aria di chi appartiene a una casta superiore.
E noi, lì a rosicare, relegati ai margini come dei poveri diseredati, la conferma vivente che il destino aveva deciso: stasera si torna a casa a bocca asciutta.
Con i timpani ancora lesionati, salimmo sulla Prinz, destinazione Ciro El Rutto. Urgeva affogare quella delusione in un boccale di birra.
Alla fine, dopo una pizza, un litro di birra e tre Profitterol a testa, convenimmo che essendo quella la nostra prima volta in discoteca, era quasi fisiologico che fosse anche il nostro primo fallimento totale. In fin dei conti si trattava di una specie di rito di passaggio, ci saremmo rifatti le volte successive.
Devo dire che, dalla seconda volta in poi … le cose non cambiarono. Anzi, diventò una tradizione: musica, luci, puzza da fumo, … e noi che diventavamo sempre più sordi e racimoliamo sconfitte come fossero punti del supermercato.
E dire che di tacamenti de boton ne avevamo collezionati più che figurine Panini, e di sardoni ne avevamo lanciati così tanti che avremmo potuto ripopolare l’intero Adriatico.
Fu inutile fare i sgrandessoni, usando senza remore la carta di SolaRadio spacciandola per una mega radio di fama internazionale. Pensate che il Tito, aveva osato chiamarla SolaRadio International. Nemmeno quell’international aggiunto al nome della nostra minuscola radio servì a farci apparire dei fighi agli occhi delle varie squinzie.
Eravamo addirittura arrivati a dare la colpa al tempo; convinti più che mai che, per le nostre puntate in discoteca, sceglievamo le giornate meteorologicamente sbagliate, quelle senza una goccia di pioggia. Questo perché, non davamo retta al grande proverbio sacro: “Giornata piovosa, discoteca fruttuosa. Giornata splendente, in discoteca non si combina niente.”
Nonostante tutto, capii che la discoteca non era affatto quel luogo demoniaco che mi ero immaginato.
Per me, era semplicemente un posto dove la musica mi entrava dentro e, senza nemmeno chiedere permesso, si metteva a sistemarmi la psiche meglio di uno psicologo convenzionato.
Il ballo, poi, non era solo un modo per agitare arti a caso sperando di non colpire nessuno: aveva una valenza terapeutica, anche se allora non lo avrei mai ammesso. Mi liberava la testa, mi faceva sentire più leggero, mi trasformava per un attimo nell’essere umano che avrei voluto essere sempre: meno impacciato, più spontaneo e … un filo più scemo.
E c’era un’altra cosa che scoprii con lentezza, come tutte le mie migliori intuizioni: il ballo aiuta le relazioni; mi costringeva a socializzare, a sorridere, a incrociare sguardi, a dire “ciao” anche se mi tremava pure la gola.
Era, semplicemente, un modo per sentirmi libero. Un po’ sudato, magari, ma libero.
In pista ero più vivo. E non perché la gente mi spingeva da tutte le parti costringendomi a dimostrare di avere ancora riflessi funzionanti, ma perché il ritmo mi ricordava che sotto la timidezza, l’insicurezza e il deodorante inefficace… c’era un cuore che aveva voglia di battere forte.
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L’altro giorno nel parcheggio del centro commerciale ho visto una Prinz azzurra “vasca da bagno”, è ormai rarissimo vederne una; una visione quasi mitologica, ormai.
Volutamente ho parcheggiato a fianco, quasi fosse un vecchio amico che non vedi da una vita.
Da una certa distanza la osservavo, silenzioso, come se stessi misurando il tempo attraverso quella carrozzeria squadrata.
Poi, mi sono messo a fare il confronto con la mia macchina.
“Se l’avessi avuta a quei tempi un’auto così, anziché quella scatola di sardine” mi sono detto.
Ma a quei tempi non lavoravo. E non lavoravo certo in un’azienda abbastanza generosa da darmi persino l’auto.
Mi sono tornate in mente le parole di mia nonna, che ogni tanto mi sembravano esagerate e invece erano verità scolpite nella pietra: “Co’ ti ga i denti no’ ti ga el pan e, co’ ti ga el pan no’ ti ga più i denti.” Aveva sempre ragione lei, dannazione.
Sono risalito in macchina e ho messo su la mia compilation preferita: i lenti degli anni ’80.
La mezzeria della strada scorreva veloce, come una pellicola srotolata; mentre, lentamente scorrevano tutti quei brani che hanno costruito, un mattone alla volta, la mia giovinezza.
Quelle canzoni, ogni volta, mi prendono per mano e mi riportano indietro, quando tutto era più facile e più vero.
Mi riportano a quella manciata di anni in cui ho vissuto libero da vincoli mentali e non; che, assieme a innumerevoli paure sarebbero subentrate da lì a poco.
Sapete, alla fine, dopo mille tentativi, mille figuracce e altrettanti silenzi imbarazzati, i lenti sono riuscito a ballarli anch’io. Una volta, addirittura, con tre ragazze contemporaneamente. Non so come sia successo, forse un allineamento dei pianeti, forse la misericordia divina. Ma è successo.
Il primo, però… Il primo non si scorda mai: Through the Barricades, degli immortali Spandau Ballet.
Quella canzone che non è solo musica; è un respiro, un battito, una poesia contro i muri del mondo.
Sono sempre più convinto che, in quegli anni abbiamo avuto la musica migliore, quella che non si limitava a riempire il silenzio ma ti cambiava dentro e ancora continua a farlo.
Canzoni come Through the Barricades, forse non avranno contribuito ad abbattere del tutto le barricate politiche o sociali ma, contribuiscono, anche ora, a darci il coraggio di abbattere le nostre piccole e invisibili barricate personali. Quelle che ogni ragazzo porta con sé quando tenta di diventare uomo.
Mentre continuavo a guidare, ho capito che è anche grazie a quelle canzoni, a quei lenti e a quelle emozioni che noi, piccoli uomini, siamo cresciuti. Magari non molto. Magari non perfetti. Ma abbastanza da ricordarlo con un sorriso.
“De come va el mondo a mi no’ me intriga, mi penso soeo aea figa”
La scritta, nel bagno del bar da Nane, non è mai stata cancellata. Aveva il suo effetto leggerla dopo essere stato all’incontro giovani del venerdì in patronato: quasi un dogma laico, messo lì a sfidare quelli che frequentavano la Chiesa e, diciamolo, onestamente molto più facile da accettare…
“De come va el mondo a mi no’ me intriga, mi penso soeo aea figa”
La scritta, nel bagno del bar da Nane, non è mai stata cancellata. Aveva il suo effetto leggerla dopo essere stato all’incontro giovani del venerdì in patronato: quasi un dogma laico, messo lì a sfidare quelli che frequentavano la Chiesa e, diciamolo, onestamente molto più facile da accettare.
Quando esci dal bagno ed entri nel microcosmo del bar da Nane Sbérega, capisci perché quella frase sta ancora lì, intatta. Tutti a parlar de quea o de ‘staltra, mentre sullo schermo della TV scorrono, nell’indifferenza generale, manifestazioni di piazza, guerre e le solite disgrazie del mondo. L’attenzione si desta solo quando un pallone comincia a correre su un campo verde oppure, ultimamente, una pallina rimbalza velocemente da un lato a un altro del campo da tennis.
Da tutto questo, almeno, SolaRadio ne trae un indubbio vantaggio.
La nostra sarà anche una delle radio più piccole al mondo ma, la sua “redazione” si è da sempre avvalsa di un eccellente gruppo di collaboratori esterni, esperti a livello internazionale in quello che è il tema che, alla fine, interessa di più alla popolazione maschile di basso lignaggio alla quale appartengo anche io; il sesso.
Visto che dai nostri genitori, sull’argomento, non cavavamo un ragno dal buco, questo team di esperti si è occupato della nostra formazione sin da bambini. Siamo stati fortunati perché, altri nostri coetanei, come unica fonte di apprendimento, avevano i programmi notturni di Tele Capodistria (quei pochi che riuscivano a captarne il segnale).
Non c’è social o forum sul Web che, in materia di sesso, possa competere con certi personaggi stanziali del nostro bar: mi basta percorrere poche centinaia di metri da quello che si può definire il nostro “studio” per assistere a delle interessanti conferenze sul tema.
L’ultima in ordine cronologico è stata tenuta da uno dei nostri più prestigiosi “docenti”, Gianni Bencivenni detto el romagnoeo a causa della sua terra di origine.
Il tema era “autoerotismo e sogni erotici: un’opportunità più che un surrogato per sfigati e un peccato da condannare”. Ovviamente ho tradotto dal dialetto, in “lingua originale” non è pubblicabile.
Gianni, che già faceva ridere sentirlo parlare nel suo accento romagnolo; aveva una dote senz’altro singolare, ovvero riusciva, a suo dire, a fare sogni erotici a comando. Raccontava, più o meno, le stesse storie (o balle), degli altri con la differenza che le aveva vissute in sogno.
Pensate che le protagoniste dei suoi sogni, seppur molteplici, le conosciamo tette, pardon, tutte a memoria.
Per ragioni di spazio, vi cito solo le “presenzialiste”, ovvero le protagoniste del maggior numero di episodi onirici: la Roby ex collega, la Lolly collega attuale, la calda Teresa protagonista dei sogni “vintage” ovvero quelli che narrano, in una miriade di varianti, la prima trombata. Ci sono poi Iva e Roby2, le ragazze che frequentavano la palestra, quando ci andava, ovvero, quindici chili e passa fa. Non parliamo poi dell’immancabile Fede, l’amica dell’amica; nelle puntate in cui appare, si vede il Gianni che va a farle dei lavoretti in casa che poi lei, immancabilmente ripaga con altri … lavoretti. Recentemente la saga si è arricchita con dei nuovi episodi aventi come protagonista Dorina la rossa; la ragazza che lavora in pasticceria dalla Cesarina; non oso raccontarvi quello che accade dietro il bancone.
Franco “Gasetin”, patron dell’edicola di quartiere, follower della prima ora del Bencivenni, sta pensando seriamente di dare alle stampe un volumetto da vendere sottobanco. Ormai la gente non legge più e questa sarebbe una soluzione per salvarsi dal probabile fallimento, così da campare ancora qualche anno per permettergli di andare in pensione.
Una delle giornate clou della saga che io chiamo “Sex & the Paeassoni” è sempre stato il pomeriggio del primo gennaio.
Se uno voleva ascoltare le più belle favole del periodo natalizio, quello era il posto e il momento giusto, ovviamente, tutta roba da “vietato ai minori”. Poche volte nella vita mi sono perso i fantasiosi resoconti della nottata precedente. Anche se mi costava fatica, cercavo sempre di esserci, ed era forte la tentazione di portarmi appresso, di nascosto, il registratore per poi, mandare tutto in onda, l’indice degli ascolti sarebbe andato alle stelle, non ci sarebbe stato Auditel che tenesse e, almeno in zona, per una volta, avremmo battuto mamma RAI.
Era inoltre un’occasione di business per Silvano Visentin, general manager del bar da Nane. In un pomeriggio come quello, riusciva a smerciare tutti i tramezzini scaduti; tanto, gli avventori erano fortemente concentrati su altro.
Era divertente ascoltare i personaggi che si avvicendavano. Dava solitamente inizio allo spettacolo Denis Sgorlon; “che bea ciavada” esordiva toccandosi la pancia; non si capiva se avesse mangiato o trombato, probabilmente più la prima che la seconda e, per giunta, anche male. Gli faceva concorrenza Toni Lovadina, “che ciava de sera e anca de matina”, le sue storie ricalcavano fedelmente le sceneggiature del maestro Tinto Brass; soldi per il cinema risparmiati.
Riguardo le cifre sul numero totale di ciavae ; valeva la stessa cosa delle manifestazioni di piazza dove, la cifra dei partecipanti, fornita dalla prefettura e quella comunicata dagli organizzatori, in genere, differiscono di molto.
L’argomento, in realtà, rimane ancora oggi, uno dei grandi misteri irrisolti della storia; un giorno scopriremo cosa ha fatto sparire navi e aerei nel famoso triangolo delle Bermuda oppure, se gli alieni sono stati sulla terra ma, probabilmente mai verremo a sapere quante volte, e se, realmente, uno ga ciavà.
Anche Silvano si cimentava in racconti piccanti; il bancone, il bagno e, ovviamente, il tavolo da biliardo con le relative stecche divenivano di colpo le scenografie di un film porno.
Ogni tanto sul giornale salta fuori che nelle vicinanze hanno chiuso un centro di estetica gestito da cinesi a causa di certi trattamenti extra che vi venivano eseguiti con perizia sui maschietti.
E, ogni volta, tutti lo sapevano già da tempo. Tutti tranne la polizia e … il sottoscritto.
E ogni tanto, qualcuno, leggendo quell’unica notizia di tutto il giornale che gli interessa, sospira:
“Eh, bei tempi, quando ghe jera ea vecia Wanda operativa…”
Sin da bambini sapevamo che la siora wanda, quella che abitava in fondo a una delle viette … lavorava in casa.
Se chiedevamo ai nostri genitori cosa facesse di preciso; la risposta era sempre la stessa:
“No xe roba che ti pol saver.”
Il tipo di lavoro che faceva lo intuimmo, quel giorno memorabile, in cui si presentò davanti il banchetto dove vendevamo i nostri giornalini ormai letti e straletti.
Ci diede una borsa di fumetti dicendoci che, con una certa facilità, li avremo venduti a ragazzi più grandi di noi, ricavandoci alla fine un bel po’ di soldini.
Ci consigliò per questo di mostrali solo quando si avvicinava un potenziale cliente … di una certa età. Ci ordinò inoltre di non tentare di sfogliarli.
Come si sa, se dici ad un bambino di non prendere la marmellata che è dentro quel vasetto, sta pur sicuro che non appena ti volti è già con le dita dentro.
Fu davvero … eccitante leggere i fumetti di Lando, Cappuccetto Rosso, Il Montatore e altri; ci si aprì un mondo e, alla fine, scoprimmo qual era il mondo della siora Wanda.
L’eccitazione durò poco; perché, quando venne scoperto il “materiale” e la provenienza, finì tutto in tragedia.
Il povero Paperoga, che custodiva il malloppo, venne ritenuto il capo dell’organizzazione e subì l’immediato sequestro dei fumetti. Ci fu revocata la “licenza” del banchetto e i nostri rispettivi padri ci sottoposero a un percorso riabilitativo fatto di sberle e calci nel culo in quantità industriale.
La cosa ebbe un positivo risvolto culturale. Da quel giorno, Paperoga trovò delle valide alternative ai fumetti di Topolino. Nel suo garage, ben occultati dietro annate di Tex e Zagor, ci sono ancora alcuni giornaletti della siora Wanda salvati dal sequestro.
Dimenticavo di dirvi che al bar da Nane non entrano quasi mai donne. Peccato, davvero. Perché se solo sapessero che lì dentro potrebbero saltare mesi di liste d’attesa del sistema sanitario e farsi una TAC Total Body gratuita, condotta da una delle più rinomate équipe di “radiologi” (da bancone), accorrerebbero a frotte. Un reparto così, la sanità pubblica se lo sogna. Pensate che Memo Bottacin usa ancora i mitici occhiali a raggi X, pubblicizzati sul “Monello”, che vendevano per corrispondenza negli anni ‘70.
Tra le pochissime che ricordo ci sono due tipe con la balconata che sfidava le leggi della fisica e le labbra a canotto gonfiate più di un materassino da spiaggia.
Entrarono al seguito di un politico locale in piena campagna elettorale. Il tipo non poteva trovare argomento migliore per farsi votare; quelle due, sortirono l’effetto di centomila volantini.
Ora, non so dire se furono decisivi i voti degli avventori di Nane, fatto sta che il tizio fu eletto.
Di certo, l’uomo la sapeva lunga: interpretando a modo suo la piramide di Maslow, seppe far leva sui bisogni primari dei suoi elettori maschi.
Tipico caso di campagna ormonale.
Sex & the Paeassoni potrebbe essere tranquillamente il titolo di un programma cult di SolaRadio e avrebbe già il suo bravo conduttore: EnsoPenso.
Si, perché se c’è una persona che crede fermamente nella frase scritta nel bagno da Nane e che ne ha fatto il suo mantra esistenziale, è proprio lui; tanto che sono quasi convinto che l’autore anonimo di quella perla di saggezza sia lui stesso.
Non c’è volta che, quando siamo in giro, il nostro amico non vada completamente in tilt alla vista di una squinzia vestita secondo il suo canone estetico non negoziabile: minigonna, stivaloni e maglietta attillata. Un look che per EnsoPenso è come per un toro, la muleta rossa.
E mica finisce qui. Il mio socio, oltre a credere nella filosofia del bagno, crede fermamente anche nel grande proverbio universale:
“La donna del vicino è sempre più figa.”
E su questo principio fonda tutta la sua carriera di osservatore sociale; sempre impegnato a far paragoni tra Paola e le compagne / mogli degli altri.
È il Leopardi di SolaRadio: malinconico, incompreso e perennemente arrapato.
Quando lo trovo nel pieno di una crisi depressiva, e succede spesso, faccio da psicoterapeuta della domenica; per cui gli chiedo cosa lo affligge.
Uno si aspetterebbe risposte tipo:
“La Paola mi ha lasciato.”
“Mi hanno licenziato.”
“Ho finito i soldi.” Oppure, nella sua scala personale delle tragedie, quella peggiore:
“Ha perso la Juve.”
E invece no. La risposta è sempre la stessa, scandita con la voce spezzata dell’uomo che ha visto troppe ingiustizie:
“Ti ga visto co chi che xe insieme quel rutto de tissio? A ‘sto mondo no ghe xe ‘na logica, anzi, no ghe xe giustissia!”
E lì capisci che quella frase in bagno rimane maledettamente vera e attuale, la corrente di pensiero più diffusa tra i maschi, il vero mainstream.
Basta leggere quelle due righe scarabocchiate sul muro, per capire che la “maggioranza silenziosa” non è solo un astratto concetto sociopolitico, ma una presenza viva, concreta, fatta di occhi abbassati su certe immagini e sogni proibiti rinchiusi dietro la porta del bagno.
All’inizio dell’autunno, passeggiare per le viette ha sempre avuto un sapore di malinconia. L’estate è ormai un ricordo sbiadito, e con i primi freddi ritorna quel tanfo inconfondibile di brodaglia della siora Antonia Masiero. Ormai Antonia ha superato i novant’anni e ha ceduto la licenza del suo minestrone alla badante moldava, una donna gentile ma generosa con la cipolla e con gli odori forti della sua terra. Il risultato è un effluvio ancor più penetrante, quasi una nebbia densa che porta a immaginare i grigi casermoni popolari e l’odore delle mense dell’ex Unione Sovietica.
Quel tanfo misto all’umidità che penetrava nelle ossa mi faceva sentire ancora più solo, tornava a galla quella stessa malinconia di tanti anni fa, quella che provavo ogni volta che, passeggiando tra le viette, mi illudevo di vederla comparire da lontano.
Capisco che forse, anche a me non interessa di come va il mondo ma, penso sempre a un’unica persona e rimpiango il mio primo amore di bambino. Non era quel genere di infatuazione alla sex & the paeassoni fatta di occhiate rapide a tette e culi ma, un innamoramento vero, innocente, puro come un quaderno di scuola elementare appena comprato.
Di lei non mi colpiva il corpo, perché non avevo ancora il vocabolario per capirlo. Mi colpiva l’anima, anche se allora non sapevo chiamarla così: era una sensazione che mi attraversava come una corrente leggera, un’intuizione che mi faceva stare bene solo a starle vicino.
Ricordo il momento esatto: un incrocio di sguardi, uno di quelli che durano tre secondi ma lasciano impronte che non se ne vanno più. I suoi occhi mi guardavano davvero. Non sopra, non oltre, non attraverso.
Dentro.
E io, bambino confuso e felice, avevo la certezza impossibile di essere visto per quello che ero, con le ginocchia sbucciate, il fiocco del grembiule perennemente storto e quella timidezza che mi faceva inciampare nelle parole.
Quando ricambiava quello sguardo, sentivo qualcosa che somigliava moltissimo alla pace, come se il mio esistere diventasse improvvisamente semplice; senza tante bugie per farmi credere chissà chi, solo una piccola verità luminosa che esisteva tra noi due.
Era amore senza saperlo dire, senza bisogno di dimostrarlo, senza paura di perderlo. Era amore nella sua forma più elementare e, forse proprio per questo, la più preziosa.
Ed è per questo che oggi lo rimpiango: perché non c’è mai stato, dopo, uno sguardo così limpido, così diretto, così capace di raccontarmi chi ero prima ancora che io lo capissi da solo. E, soprattutto, non c’è mai stato un dopo.
Era il mio primo amore.
E certi primi amori restano addosso come una cicatrice bella: non fa male, ma si sente.
Sento ancora il puzzo di brodo penetrarmi nelle narici. Questa volta però non è quello della vecchia Antonia ma esce dallo sfiato della cucina della casa di riposo. Quella tetra costruzione sorta, nel giro di pochi mesi che si erge sulle piccole casette delle viette.
Di fronte all’ingresso, scorgo una sagoma amica. Gianni, el romagnoeo stava imprecando, ovviamente in romagnoeo, per lo scooter che non voleva saperne di stare fermo sul cavalletto.
Quando l’ho visto, mi sono subito rallegrato.
Dovete sapere che Gianni, oltre a essere un grande regista di film auto-erotici è anche un grande conoscitore di musica. Da buon romagnolo mi ha fatto apprezzare il liscio e altri generi che prima disdegnavo.
“Mo tieni … per la radio. Roba buona … roba forte” Non so quanti CD mi ha prestato e che non ha mai voluto indietro.
“Vacca boia, mo guarda chi c’è! Vieni che ti presento una gran figa”
Pensavo che a momenti sarebbe uscita una biondona dell’est di quelle che lavoravano lì invece, mi fece cenno di seguirlo dentro.
Di Marta, mi colpirono subito i suoi occhi scuri profondi che emanavano una dolcezza infinita. Mi colpì anche quella vecchia scatola di latta che teneva stretta tra le mani, quasi ad abbracciarla.
La riconobbi dall’inconfondibile scritta consumata “Malto Kneipp – Mens sana in corpore sano”. Era la stessa che usava mia nonna Angela per custodire i suoi ferri da maglia.
Eppure, l’ironia era crudele: Marta non aveva più né un corpo sano, e ancor meno una mente lucida. La sua vita intera, la sua memoria, tutto ciò che era stata, giaceva racchiuso lì dentro, in quella scatola battuta dal tempo, ricolma di fotografie di lei e di Gianni.
“Sai, ogni volta questa bella gnocca fa finta di non conoscermi, ma io, conosco le parole magiche per farle tornare la memoria, le prime che mi ha detto”
Si chinò verso di lei, le sfiorò la fronte e sussurrò:
“Fammi un coccolo…”
Li lasciai così, stretti l’uno all’altra, e me ne andai con il groppo in gola.
È vero, a volte non ci interessa niente di come va il mondo, abbiamo altro a cui pensare.
La canzone dell’amore perduto … ascolta il podcast
Alla prossima trasmissione … rimanete sintonizzati!
“No capisso, ea ghe casca a tutti fora che a mi; me par impossibie, bojaissamorti! E ti, cossa ti disi?”. Rimasi in silenzio, non avevo il coraggio di rispondere al compagno Marino Scantamburlo che, non si doveva preoccupare; eravamo almeno in due, io e lui…
“No capisso, ea ghe casca a tutti fora che a mi; me par impossibie, bojaissamorti! E ti, cossa ti disi?”. Rimasi in silenzio, non avevo il coraggio di rispondere al compagno Marino Scantamburlo che, non si doveva preoccupare; eravamo almeno in due, io e lui…
“No capisso, ea ghe casca a tutti fora che a mi; me par impossibie, bojaissamorti! E ti, cossa ti disi?”. Rimasi in silenzio, non avevo il coraggio di rispondere al compagno Marino Scantamburlo che, non si doveva preoccupare; eravamo almeno in due, io e lui.
In sezione era arrivato il momento di tirare le somme della Festa dell’Unità. A Marino, però, dei margini di guadagno sulla poenta e coste non fregava un accidente, quei calcoli era meglio lasciarli a certi saccenti compagni che si credevano esperti economisti. Lui aveva ben altri grattacapi, quelli classici della maggior parte degli uomini; il campionato di calcio ma, soprattutto, ea mona.
Che l’Inter fosse arrivata quarta, vabbè, passasse. Ma proprio non gli andava giù che la compagna Sara Celeghin si fosse messa con quel tizio di cui non ricordava il nome ma, conosceva tutto il resto.
Si trattava di un rotto in culo impiegato di banca, con l’hobby di “parlare in radio” e, per giunta, non dei nostri. Un borghesuccio fighetto, traditore della classe operaia con il microfono in mano e il portafoglio rigonfio.
Marino, per la campagna elettorale di Sara s’era speso anima e fegato. Per lei aveva fatto più ore di militanza di Che Guevara, mangiandosi una bella fetta dei suoi permessi lavorativi. Volantinaggi sotto la pioggia, comizi davanti a tre pensionati e un cane, persino il martirio di mangiare certe porcherie vegetariane. Si considerava il principale artefice della sua elezione al consiglio di quartiere.
Mentre li guardava, lì sulla pista della Festa dell’Unità a ballare cic to cic come due calamari innamorati i mielosi lenti iperglicemici che dal palco l’orchestra di Vittorino Spolaor e i Romantici, sparava come una sequenza di colpi letali, sentiva crescere dentro di sé una bile capace di alimentare il motore di quella nave da crociera che stavano costruendo al Breda, il suo posto di lavoro. Le palle invece, giravano forte come le eliche della già citata nave.
Alla fine, la sintesi del pensiero politico-sentimentale su Sara, gli venne chiara e lapidaria: non era affatto una gran compagna ma, una gran puttana.
Da quel giorno, inoltre, tutti quei fighetti che parlavano alla radio iniziarono a stargli pesantemente sulle palle; compresi quei saccenti e spocchiosi compagni emiliani, che avevano fondato la prima radio del popolo. Rei di essersi convertiti a quelle stupide canzonette commerciali, mandando in onda a ripetizione “Ti amo” di Tozzi anziché “Bandiera Rossa”
Anch’io ero nelle stesse condizioni di Marino. Nemmeno a me del campionato non me fregava niente; non mi interessava sapere che giocatori avrebbe dovuto comprare l’Inter per vincere lo scudetto e non finire al misero quarto posto; la mia preoccupazione principale era per la seconda cosa, non si vedeva niente all’orizzonte o, per dirla alla Marino; “no’ me rivagnanca un refoeo de mona”.
Eh, sì che mi ero messo a frequentare contemporaneamente la parrocchia e la sezione del PCI, convintissimo che allargando il territorio di caccia, avrei aumentato le probabilità di riuscita. E invece, niente da fare.
Quella di tenere un piede nel PCI e l’altro in chiesa non era stata una scelta dettata solo dai miei ormoni. Certo, quelli c’entravano, ma mi ero soprattutto lasciato influenzare dalle teorie del compagno Severino Manente.
Severino era quasi convinto che l’esistenza di Dio e tutta la baracca della religione non fosse altro che un grumo di balle abilmente messo in piedi per sfruttare la paura della morte e far leva sul naturale desiderio di eternità dell’essere umano. Una trovata geniale per tenere il popolo al guinzaglio controllando soprattutto cosa facesse sotto le lenzuola. La logica era semplice: vuoi il paradiso dopo morto? Allora comportati bene da vivo. “Bene” significava: testa bassa, bocca chiusa, niente domande, niente desideri strani, nessuna pretesa di diventare qualcuno, mani a posto e soprattutto… non rompere le palle a chi comanda.
Dico “quasi convinto” perché, tra una bestemmia e l’altra, ammetteva che, se per puro caso, fosse stato tutto vero, una volta lasciato questo mondo sarebbero stati gran cazzi. Specialmente per gente come lui che, oltre a essere comunista, cosa che forse gli sarebbe stata perdonata, dato che in fondo anche Gesù, a ben guardare, aveva idee piuttosto di sinistra; non era esattamente un modello di virtù coniugale. Con la fedeltà matrimoniale era messo peggio di un cane randagio in calore.
Il compagno, si concedeva piaceri “de fora via” con la regolarità di una tassa comunale: era uno dei clienti più affezionati della vecchia Wanda (praticava tariffa sindacale per i compagni) e in più al lavoro era parecchio impegnato a fare certi “controlli di qualità” alle compagne della mensa.
Per questo Severino, a differenza di certi mangiapreti radicali, un occhio al cielo lo buttava sempre. Non per pregare, ma per controllare se, per caso, dall’alto stessero già preparando la lista dei cattivi.
Tornando a me, quell’estate poi, dovevo mettere a bilancio un anno scolastico di merda. Su consiglio di Manuel Agnoletto, mi ero iscritto al triennio con indirizzo informatica; perché, a detta di quel gran genio, una volta diplomato, avrei trovato subito un bel lavoro e, avrei preso bene. A fine anno, in effetti, in anticipo con i tempi, avevo già preso bene: qualcosa in un determinato posto; rimediando tre materie, tra cui proprio informatica.
“Sbirighe in sima, coco”; il compagno Milio Vianeo, era solerte farsi i cazzi altrui. Pensavo avesse intuito la mia preoccupazione per essere ancora sensa ‘na cocca; invece, non so come, era venuto a conoscenza delle mie disgrazie scolastiche; per consolarmi, attaccò per la centocinquantaseiesima volta a raccontarmi la storia della sua vita.
Milio Vianeo sensa un scheo e curto de oseo; i compagni della sezione lo definivano così per il fatto di essere povero e non aver mai avuto una donna. Era il classico scappato di casa, un mezzo vagabondo che, armato di una vecchia chitarra, campava scimmiottando i cantanti folk americani.
Misteriosamente quel giorno lo ascoltai con più attenzione. Come sempre, iniziò a citarmi l’infinità di posti dove era stato. Per i più, si trattava di balle; a me invece, sembrava attendibile, anche quando parlava di posti lontanissimi come l’India e il Vietnam. L’unica cosa sulla quale facevo fatica a credergli riguardava la miriade di figlie dei fiori che, a suo dire, si era trombato durante il mitico raduno del ‘69 a Woodstock, al quale aveva partecipato. “Comunque vecio, ricordate cheea strada xe ea vita”; la frase non era sua ma, di tale Jack Kerouac, celeberrimo scrittore, nonché mentore dei vagabondi di mezzo mondo.
I compagni sapevano che stavo seduto su due sedie e che la domenica andavo prima in sezione e poi a messa. Ma non sapevano che in tasca, ben accartocciate, avevo centotrenta carte. Era la quota di iscrizione al camposcuola di Azione Cattolica che dovevo consegnare a don Gino. Se ne fossero venuti a conoscenza, me le avrebbero sequestrate per versarle nelle casse del partito.
Comunque, saranno state le parole del vecchio hippie; fatto sta che, mentre le tenevo strette in mano, come per magia, decisi di cambiarne la destinazione d’uso; non sarebbero finite nelle mani del prete ma, servite a finanziare la ricerca della mia vera strada e, anche di quell’altra cosa, della quale, cominciavo a sentire un prioritario bisogno.
Lunedì 6 luglio 1981, invece di sedermi sul torpedone, direzione Cadore; mi accomodai da primo passeggero, in uno scompartimento dell’espresso Venezia-Bari. Nessuno al mondo sapeva dove stavo andando; nessuno, tranne il compagno Piero Berton ex capo scout pentito, al quale avevo chiesto in prestito tenda canadese e sacco a pelo, residuati della sua precedente esistenza.
Pianificai tutto nei minimi dettagli. Nei giorni precedenti la partenza; nascosi tenda e sacco a pelo in garage dentro una vecchia valigia, così pure i costumi da bagno, una bandana, i sandali, bermuda e magliette. Quando arrivò il gran giorno, travasai il contenuto della valigia nello zaino, riempendo quest’ultima con gli scarponi da montagna e la roba pesante che mia madre, aveva preparato per il camposcuola.
Salii sul treno eccitatissimo, mi sentivo un agente segreto nel pieno di una missione, ovviamente segreta. Il controspionaggio, mi avrebbe sgamato subito, per l’emozione sarò andato a pisciare una ventina di volte in tre ore. Con me avevo due libri, “Avere o essere” di Erich Fromm e “Sulla strada” di Jack Kerouac; me li aveva consigliati Milio. Non avevo nessuna intenzione di leggerli; volevo semplicemente fare il figo e imitare Carlo Dezzi.
Il Dezzi era un mio compagno di classe nonché, un compagno comunista falso. Grasso e brutto come la fame, nonostante questo, grazie alla sua aria da intellettuale e alle citazioni di Prévert, riusciva ad attirare gnocca a gogo.
Con la speranza che lo scompartimento si riempisse di figa, misi i libri in bella vista sul tavolinetto. Purtroppo, ironia della sorte, andò a finire che, quattro di quei cinque posti vuoti, furono occupati da altrettante suore.
“Mo sii, sediamoci qua che facciamo compagnia a questo baldo giovine; sorbole, che letture interessanti!”.
Non ero riuscito a far sparire per tempo i due libri; avrei probabilmente dovuto sopportare un’imbarazzante conversazione cultural-letteraria alla quale non ero preparato.
“Mo sentiamo dove sta andando ‘sto bravo ragasso?”
Altro argomento sul quale non ero preparato. La mia intenzione era quella di scendere a Rimini e cercare un posto dove accamparmi; la scelta era dettata esclusivamente dalla statistica; ovvero, alte probabilità di cuccare. Vallo a spiegare a delle suore, anche se, a prima vista, mi parevano di un modello piuttosto advanced.
“Sto andando dai nonni in vacanza a Rimini”; mi venne fuori bella e pronta.
“Mo guarda che nonni sconsiderati che deve avere; hanno il coraggio di far dormire il nipotino in tenda; se fossi in te, gli farei un bel dispetto e, tirerei dritto fino a Gatteo Mare, c’è un bel campeggio e soprattutto tante belle ragasse piene di salute”
La più vecchia del quartetto aveva mangiato la foglia.
Sarò per sempre grato a suor Marisa, la madre superiora, per quella dritta; non potevo aspettarmi di meglio da una romagnola o meglio, una da una nativa rivierasca doc.
“Mo venga signorina che ce posto, si sieda qui vicino al finestrino, di fronte a questo bel giovanotto, garantiamo noi che tiene le mani a posto, se ci prova, nostro Signore lo fulmina”. Suor Marisa mi diede una gomitata.
Ora, la superiora, mi faceva anche da complice; che ganza!
In effetti, la tipa, anche se, ad occhio, aveva qualche anno più di me, con quella minigonna di jeans, induceva in tentazione. Se, citando la frase storica, “Parigi val bene una messa”, quella tale Roberta valeva bene una fulminata.
Furono quasi quattro ore di viaggio esilaranti; bastava l’accento romagnolo dei quattro pinguini per farmi piegare in due dalle risate. Non ho idea della quantità industriale di balle che raccontai, per fare il figo con Roberta; solo il loro capo supremo probabilmente, riuscì a quantificarle.
Se non fosse stato per il mio vicino di piazzola, il teutonico signor Otto Kruntz, nome di fantasia ricavato da un personaggio dei fumetti del Corriere dei Ragazzi, sarei ancora alle prese con il montaggio della canadese. Fortunatamente la pluriennale esperienza, dell’ex Giovane Marmotta germanica mi permise di infilarmi nel sacco a pelo prima che sorgesse il sole.
Gianni Togni continuava a martellarmi i timpani con Semplice, infilai la testa completamente dentro il sacco a pelo ma, niente da fare; un incubo, mi pareva di stare abbracciato a una cassa acustica usata nei concerti, tremava anche la terra.
Mi ci volle parecchio per capire che non stavo sognando. “Tutto quanto mi sembra giusto, quando fuori è mattina presto …”; col ca**o! Chi ca**o, era ‘sto imbecille che lo stava sparando a manetta; gli avrei piantato volentieri tutti i picchetti in pancia, anche se si fosse trattato dell’amico Otto Kruntz. Passai un bel po’ di tempo per realizzare che non era l’alba ma, le dieci e mezza del mattino.
Le urla del Togni uscivano da un casotto in legno, a due braccia di distanza dalla mia tenda, sul quale campeggiava la scritta, “Radio Base Mare International, estiamo insieme!”; scoprii perché la piazzola costava così poco.
Mi accorsi che ero uscito in mutande; non che in quel posto fosse richiesto un dress code particolare ma, le Fruit Of The Loom bianche, o quasi, non erano di certo adeguate; per cui, corsi dentro in tenda a rifarmi il look.
Ne uscii, da perfetto beach boy o, almeno pensavo. Bermuda neri “Fioruccio”, maglietta bianca con scritta “Didas”, bandana rossa e occhiali da sole “Raibat”; tutta roba comprata al mercato nel banco di tale Ciro, un napoletano specializzato in capi “firmati”. Gli occhiali invece, li avevo comprati, dopo estenuanti trattative, da un marocchino per settemila lire, un affarone.
“Hola zingaro, dai che fra un po’ inizia la diretta; da dove vieni?”
Probabilmente avevo esagerato con la roba che mi ero messo, il capellone biondo che stava dentro il casotto mi puntò subito.
Sin da piccolo, ho lavorato molto di fantasia e immaginazione, sono sempre state le mie più grandi risorse, alle quali ho attinto in svariati momenti della mia vita, specie quelli dove stavo per toccare il fondo.
È grazie a tutto questo che, martedì 7 luglio 1981, nacque El xingano. Un personaggio sfornato interamente dalla mia immaginazione, un goffo ragazzo della campagna veneta, che si esprimeva con uno strano slang, un misto tra dialetto e linguaggio cifrato da film di spionaggio.
Un goffo eroe, con più entusiasmo che tecnica, ma con la convinzione che, almeno dietro al mixer, nessuno poteva vedermi arrossire.
Le credenziali di DJ, le fabbricai sul momento, rubando praticamente l’identità a tale Olindo di Radio Gamma5, un personaggio popolare dalle mie parti. Un boaro che faceva il DJ boaro in una radio boara. Un concept molto local, per così dire. L’attrezzatura la sapevo in qualche modo usare. Ai festini buei che organizzavano i miei compagni di classe, finivo sempre relegato alla postazione mixer. Così mentre gli altri si davano da fare in attività di alta socializzazione, chiamiamola così; io passavo il tempo in angolo a metter su dischi e prendermi parole se non mettevo la musica giusta.
El xingano, ebbe l’onore di entrare nel casotto e, già nel pomeriggio, divenne l’aiuto Dj del biondo capellone.
Al mio debutto, c’erano solo mamme tedesche che tenevano al guinzaglio dei kinder rompicoglioni. Non capivo una mazza di quello che dicevano ma era certo che quegli antesignani delle baby gang mi stavano prendendo per il culo.
Ad un certo punto però, in mezzo a quella folla di piccoli bratwurst umani, intravidi una moretta interessante che stava tenendo stretta una ciotola di albicocche.
Come un fulmine presi il 45 Ma quale idea di Pino D’Angiò.
Prima di appoggiare la puntina sparai, anzi quasi sputai dal microfono:
“Cocca,‘scolta ‘sta canson e sbirighe in sima; che fa anca rima”
“Mi fai ridere”
La moretta con i capelli a caschetto, dopo più di dieci minuti passati a fissarmi, sparò quelle tre parole dirompenti, una scossa di terremoto che mi fece perdere equilibrio e orientamento. Sparii dal suo orizzonte finendo sotto il bancone trascinando con me cuffia e microfono.
Quando riemersi lei era ancora piegata in due dalle risate; la incalzai:
“Vediamo se riesci a dirmi come ti chiami”
Ci volle un po’; trattenne per un attimo il respiro e la risata
“Deborah … smettila scemo mi stai facendo morire”
Debora con la acca, avevo il fiato corto, fu un vero e proprio esercizio di respirazione pronunciare quel nome; era la prima volta nella mia vita che una ragazza mi dedicava la sua attenzione.
Miracolo! El xingano era nato solo da poche ore e aveva già colpito.
“Prendi queste”
Innamorarsi per un gesto semplice, quasi banale: vedere quella ragazza scegliere da una ciotola le tre albicocche più belle, accarezzarle con lo sguardo e porgermele con un sorriso. Può sembrare un’assurdità, un dettaglio senza importanza, eppure fu proprio così che accadde. Quel gesto di attenzione, quella cura silenziosa, mi disarmò completamente e fu capace di illuminare l’intera giornata.
Capii che era un segno.
Persi immediatamente la testa per lei; per Deborah, con la sua “acca” che la rendeva unica anche nel nome.
E io, innamorato e un po’ goffo, cercai di ricambiare come potevo, scegliendo per lei, in cambio di quelle albicocche, le più belle canzoni di quell’estate.
Brani che parlavano di mare, di vento caldo e di sorrisi rubati al tramonto.
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Usai sostanzialmente due versioni per raccontare quei giorni, una per Milio Vianeo e l’altra per tutto il resto del mondo, genitori compresi. A questi ultimi, fu solo complicato giustificare l’abbronzatura; me la cavai dicendo che avevamo fatto un’escursione su di un ghiacciaio e, il riflesso della neve mi aveva letteralmente ustionato.
“Ti xé goldon vecio; ti xé proprio un gran goldon”
Milio si riferiva al fatto che non mi ero trombato Deborah.
Ci rimasi male, fu l’unico suo commento, dopo quasi un’ora persa a raccontargli del mio viaggio segreto; francamente mi aspettavo qualcosa di più.
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Il 25 luglio 1983, circa tre ore dopo aver sostenuto l’esame orale della maturità, ero di nuovo sull’espresso Venezia-Bari, destinazione Rimini. Quella volta lo scompartimento si riempì di ragazzi che andavano a Taranto per la naja; avrei preferito di gran lunga, le mie amiche suore.
Mentre dal finestrino scorreva il monotono paesaggio della pianura padana, pensai che, metaforicamente parlando, sarebbe stato un viaggio di sola andata, nel senso che la mia vita aveva ormai preso una direzione ben precisa e, non sarei mai più tornato indietro sui miei passi.
Il biondo capellone, con il quale nel frattempo avevo avuto un proficuo rapporto epistolare e telefonico, mi stava aspettando con un bel contrattino in mano; all’indomani avrei iniziato a lavorare a quella che si chiamava Radio Base Mare International; non posso dirvi come si chiama ora, altrimenti verrei facilmente smascherato. El xingano, aveva di nuovo fatto centro.
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Per tutto quello che mi è piacevolmente accaduto durante questi decenni di radio-attività, non posso fare a meno di ringraziare il compagno Marino Scantamburlo che mi ha incoraggiato a prendere quel treno e a trasferirmi in Romagna.
Era contento; “sono quasi tutti comunisti”, diceva sorridendo, “insomma… sono dei nostri” Io sorridevo con lui, ma nel cuore sapevo che quella scoperta andava ben oltre la politica: riguardava le persone, le emozioni condivise, il sentirsi parte di qualcosa di vivo e leggero, dove la musica univa più di qualsiasi ideologia.
Grazie a Olindo di Radio Gamma5 che, a sua insaputa, contribuì a far nascere in me la passione di “fare radio” e a tracciare la mia vera strada che, non era certo quella dell’informatico, suggeritami da Manuel Agnoletto.
Ringrazio anche il biondo che, ebbe la fortuna di diventare famoso quasi come me. La differenza è che lui, vive alla luce del sole, mentre io, trovo rifugio in uno pseudonimo che, mi consente di avere una comoda doppia vita e, cosa non da poco di questi tempi, un doppio stipendio.
Ma, più di tutti, ringrazio Milio Vianeo; se non ci fosse stato lui, quel giorno, avrei consegnato le centotrenta carte a don Gino. Dal camposcuola sarebbe tornato a casa un bravo e cattolicissimo ragazzo ma, un infelice bravo ragazzo.
Fu grazie a quel cambio di rotta improvviso che scoprii un mondo nuovo, inatteso: la gente di Romagna e la leggerezza che solo la loro musica da ballo sapeva regalare. Scoprii il liscio, e con esso un modo diverso di stare insieme. Non avrei mai immaginato: io, che fino a poco prima inseguivo solo l’UNZ-UNZ-UNZ della musica da discoteca, sarei rimasto incantato da quel ZUMPAPPA fatto da fisarmoniche, sorrisi e gonne che giravano leggere sulle piste da ballo.
Scoprii il valore sociale, e persino terapeutico, del ballo. Corpi che si sfioravano, che si sentivano, che comunicavano più con un passo o un abbraccio che con mille frasi.
Fare radio sul mare della riviera, con le sue albe chiare e la sua voce infinita, diventò per me qualcosa di più di una semplice passione: era un modo di sentirmi utile, di regalare qualcosa di vero agli altri, e allo stesso tempo di sentirmi completo. Ogni dedica musicale, ogni risata scambiata con gli ascoltatori, mi faceva stare bene. Sentivo che l’affetto che ricevevo non era finto: era concreto, sincero.
È da allora che, “El Xingano” continua a vivere dentro di me.
Sono sostanzialmente uno zingaro nell’anima che, per citare Battiato, non ha mai avuto “un centro di gravità permanente”.
Navigo a vista; mai una reale convinzione, mai un vero e proprio ideale da perseguire; solo una fame insaziabile di libertà e la costante, sottile paura che qualcuno possa sottrarmela.
Ogni volta che mi fermo troppo, sento la ruggine salirmi nelle vene. E allora riparto, senza meta precisa, inseguendo un orizzonte che so già cambierà forma appena mi avvicino. Non è mancanza di coraggio restare, è che per me restare è morire un po’. Meglio perdersi mille volte che inchiodarsi una volta sola.
Non porto valigie, solo passioni: la musica che mi vibra nel petto, il ballo che mi accende il corpo, il volo che mi stacca da terra, la radio che mi dà voce. Sono la mia coperta di Linus, la carezza che mi riscalda quando intorno c’è solo gelo.
C’è però un faro che mi conduce in un porto sicuro: Deborah. La mia prima, più bella e più lunga storia d’amore.
Una storia che, forse, non è mai esistita davvero esattamente come la racconto, ma che io continuo a vivere ogni volta che la penso.
Il destino volle separarci, proprio come persi quel foglietto con il suo indirizzo, nascosto tra le pagine di “Avere o essere”. Ma lei è rimasta sospesa nel tempo, una fotografia incastonata nella mia anima, immune all’ingiallire degli anni.
Dentro di me coltivo ancora la follia, o la fede, che, fra gli infiniti segnali radio dispersi nell’etere, uno possa raggiungerla e udire la mia voce, le canzoni che ancora continuo a dedicargli, i miei silenzi. E che un giorno, chissà, possa giungermi un suo segnale. Anche solo un soffio. Un accenno di presenza che riaccenda la segreta speranza di poterle ancora parlare.
Mentre passeggio al mare d’inverno, mi illudo di vederla apparire sul pontile dove ascoltavamo “Zingaro” di Tozzi.
Ma il pontile rimane deserto, solo io, il mare e tanto vento. Dalla spiaggia alle mie spalle, ho l’illusione di sentir riecheggiare “Ciao mare” di Raul Casadei.
“Il vento cancella dalla sabbia i ricordi, ma dal cuore, no il vento non può”
Vedo Debora con la acca, la moretta con i capelli a caschetto, che mi ha offerto quelle tre dolcissime albicocche, camminare al mio fianco, tenendomi la mano, come quell’estate di tanti anni fa, che il tempo non è riuscito a distruggere.
Non ci siamo mai messi insieme e non ci siamo mai lasciati.
E forse è proprio questo il segreto: ci sono amori che non hanno bisogno di essere vissuti per essere veri. Sentimenti che non chiedono il permesso di entrare e non se ne vanno nemmeno se provi a chiudere la porta.
L’ho amata davvero, o forse ho amato l’idea di lei?
Ma in fondo, che differenza fa?
Le storie d’amore che abitano l’anima sono le uniche che non finiscono mai: non invecchiano, non si logorano, non ti tradiscono.
Restano. Silenziose. Eterne.
Restano lì, perfette, come una canzone che non smette di suonare.
Ho sempre considerato il “fare radio” una sorta di missione. E come missionario dell’ordine dei radiofonici, mi sono sempre prodigato con ogni mezzo, spesso a pedali, per far sì che la nostra minuscola emittente potesse raggiungere il maggior numero di ascoltatori. Voglio essere sincero, preciso; preferibilmente ascoltatrici…
Ho sempre considerato il “fare radio” una sorta di missione. E come missionario dell’ordine dei radiofonici, mi sono sempre prodigato con ogni mezzo, spesso a pedali, per far sì che la nostra minuscola emittente potesse raggiungere il maggior numero di ascoltatori. Voglio essere sincero, preciso; preferibilmente ascoltatrici.
Non so quanti copertoni di bicicletta avrò consumato, alla ricerca di nuovi proseliti e anime affini. Un piccolo mondo, il mio, fatto di confini ben definiti e di strade che sembravano portare altrove, ma finivano sempre per riportarmi lì, tra il silenzio delle viette e la desolazione dei paeassoni.
Il quartiere aveva una particolarità: dopo l’ultimo palazzone, quello al civico 144 del vialone, iniziava di colpo il nulla. Nessuna transizione morbida tra città e campagna. Solo una stradina sterrata che pareva condurre fuori dal mondo, o forse dentro un altro mondo. Perfino la periferia aveva la sua periferia.
All’inizio di quella via c’era un capitello, con una statuetta della Madonna di Lourdes. Sembrava messo lì a ricordare che, per uscire dalla miseria di quelle lande, ci voleva un miracolo. O forse per instillare qualche senso di colpa a chi, di notte, imboccava quella strada per faccende molto terrene. Perché di notte, lì, passava più gente che di giorno. Una cosa che ci incuriosiva fin da piccoli.
Chiedere spiegazioni ai genitori era un suicidio: bastava nominare quella strada e giù ceffoni. Così ci rivolgevamo ai fioi più grandi, che ci raccontavano con ricchezza di dettagli cosa accadeva dentro le auto parcheggiate al buio. Quando, la professoressa Bergamo, pioniera assoluta, tenne a noi di terza media il primo corso di educazione sessuale della storia italiana, tutte quelle informazioni ci tornarono utili; insomma, eravamo già preparati.
Ricordo come fosse ieri che, il giorno dopo la lezione sui contraccettivi, Lele Vianello, provocatore nato, si presentò in classe con una collezione di “campioni” usati, raccolti freschi, freschi lungo la stradina durante il tragitto verso scuola.
Io, lo giuro, da quelle parti di notte non ci sono mai stato. Anche se, lo ammetto, qualche film mentale con quella scenografia me lo sono girato.
Anzi, diversamente dalla gran parte della popolazione maschile, che frequentava quel luogo nelle ore più buie, ad un certo punto, quella stradina, suscitò il mio interesse di giorno. Non era castità o moralismo: quello che mi spingeva a passare oltre quel confine segnato dal capitello, era una stuzzicante novità.
La grande casa colonica della stradina, dopo una faraonica opera di restauro si era trasformata in villa ed era finalmente di nuovo abitata. Fino a qui niente di particolarmente eccezionale, se non per il fatto che la famiglia che si era insediata era nientepopodimeno che quella di tale ing. Alberto Scandagliato el paron di una fabbrica che faceva non so bene cosa. E anche fino a qui, almeno per me, niente di particolarmente eccezionale, se non per il fatto che ‘sto ingegner della minchia aveva, a detta del Tito e del Paperoga, una figlia della nostra età da tenere in considerazione o meglio in attenta osservazione.
L’allerta era scattata una domenica mattina, quando don Gianni, cosa assai strana, a fine messa si prese la briga di presentare ufficialmente la squinzia ai due soci. Non come Francesca, sia chiaro, a quello ci pensò lei con discrezione tutta femminile; lui ci tenne piuttosto a sottolineare che era figlia dell’ingegner Scandagliato. Perché, si sa, in certi ambienti il nome di battesimo è un dettaglio folkloristico: prima si dichiara di chi si è figli; poi, se proprio resta tempo, come ci si chiama.
Don Gianni di solito certe presentazioni le riservava ai suoi pupilli, ma la sfiga volle che in quel momento fossero tutti in quel di Cortina impegnati in attività pastorali: ovvero a fare un’ammucchiata nella casa dei genitori di non so bene chi.
Così, rimasto orfano dei suoi preferiti, non gli rimase altra alternativa che presentarla agli unici due giovani che erano venuti a messa quella domenica, annunciando a loro che in autunno, si sarebbe unita al gruppo giovanissimi di Azione Cattolica.
I due tipi irruppero in radio ancora con le bave alla bocca. Di quella new entry non sapeva ancora niente nessuno. Anche se, per pudore, non lo ammettevano apertamente, era chiaro che, per nessuno, intendevano lo stronzissimo Riccardo Beltrame e amici. Non correvamo, almeno nell’immediatezza, il rischio che, com’era avvenuto per altre interessanti squinzie, fosse fagocitata dalla loro compagnia.
“Potremo proporle di far parte di SolaRadio; sarebbe la nostra prima donna”
Se fossi stato un oratore ad un comizio di piazza, sarebbe esploso un fragoroso applauso della durata di alcune ore.
“Altro che Azione Cattolica, questa la dirotto qui in radio e gli faccio fare apostolato radiofonico. In fin dei conti, l’abbiamo vista prima noi” pensai mentre ero già che studiavo un piano di azione.
Sono sempre stato affascinato dal personaggio dell’agente segreto. Fin da bambino mi piaceva inventarmi delle missioni speciali. Quella che inventai per cercare di avvicinare Francesca la chiamai “impissa”, ovvero accendi.
Bisognava solo trovare un pretesto plausibile per transitare davanti alla villa e, con un po’ di fortuna, attaccar bottone, possibilmente usando l’argomento SolaRadio.
Mi venne in mente una genialata, un alibi perfetto: verificare il “tiraggio” del nostro trasmettitore, installando a bordo di un potente mezzo la mia fida radiolina PHONOLA.
L’operazione iniziò sabato 22 agosto 1981 alle 17.30 precise.
Cercai di passare il più spesso possibile davanti alla ex-casa colonica ora lussuosa villa; in quel modo ero sicuro mi si sarebbe presentata l’occasione di un “contatto”.
L’occasione si presentò quando, dopo due passaggi a vuoto vicino alla villona, al terzo, “l’occasione”, mi lasciò appiedato. “L’occasione”, non era altro che un vecchio CIAO usato che, un gran volpone aveva venduto a quel gran pollo di mio fratello, gran maestro nel farsi fregare dal prossimo.
Chi ha provato a usare il CIAO solo con i pedali sa che non c’è via di scampo nel caso un cane stia prendendo la rincorsa per fare un happy hour con le tue chiappe.
Porca troia, quella maledetta ex casa colonica aveva il cancello aperto e quel pastore tedesco aveva tutta l’aria di volermi far la festa, me la stavo facendo sotto le braghe. Fortunatamente, si limitò ad abbaiare come un forsennato, rimanendo nei confini della proprietà, quasi avesse una catena virtuale al collo.
“Tranquillo, non ti fa niente. Vuole solo giocare”
“Giocare un cazzo! Quello, se non ci fossi stata tu che lo richiamavi, mi avrebbe dilaniato i jeans nuovi di palla messi per l’occasione di fare il figo con te e pasteggiato con un pezzo del mio culo!”
Ovviamente la menzionata frase rimase solo nella mia mente.
Ora che era davanti a me, non potevo far altro che dar ragione al Tito e Paperoga. Occhi scuri come due bottoni di velluto, sorriso che scioglieva ginocchia. Vabbè, avrei sacrificato volentieri metà chiappe pur di essere lì.
“Tranquilla lo avevo capito” dissi mentre il cuore marciava ancora come una locomotiva in piena corsa, rivoli di sudore scorrevano per tutto il corpo e il culo non si decideva di smettere di tremare.
“È la prima volta che vedo una moto-radio. Ce l’hai montata tu o la vendono già così?”
Domanda perfetta, segno del destino. Forse anche quello lassù preferiva che la squinzia fosse attirata da SolaRadio anziché finire nelle sgrinfie del Beltrame e soci.
La domanda accese la miccia che innescò un esplosivo monologo dal titolo “Solaradio dai primordi della sua esistenza ai giorni nostri”. Sottotitolo “siamo quattro affamati di quella cosa lì e stiamo disperatamente cercando uno straccio di ragazza che venga a parlare in radio”
Anche se mi sarebbe piaciuto invitarla in radio, preferii non lanciarle la proposta. Sarebbe rimasta delusa nel vedere il tugurio dal quale trasmettevamo e nauseata dal tanfo delle scoregge di EnsoPenso. Lo studio, se così si fosse potuto definirlo non sarebbe stato, al momento, un posto per signore, almeno quelle di un certo livello come Francesca; e poi, mi avrebbe smascherato.
Ho sempre avuto la dannata mania de far el sgrandesson, abilissimo nel barare riguardo il mio status, creando una sorta di cortina fumogena atta a mascherare la realtà, anche a me stesso. Nella mini-conferenza che le avevo fatto, spacciai quella misera radio di quartiere come appartenente a un network nazionale e il medesimo come DJ di punta.
“Ok, allora ci vediamo in giro. Comunque, piacere Francesca. E tu DJ come ti chiami?”
Doppia figura di merda. Primo avevo esagerato con il pippone sulla radio e poi non mi ero nemmeno presentato.
Pazienza, il risultato comunque l’avevo portato a casa. Guardai l’orologio, l’operazione “impissa” si era conclusa positivamente lo stesso sabato 22 agosto 1981 alle 19.16
Dalla contentezza, pedalai così velocemente che il CIAO sembrava fosse tornato a motore. Arrivai davanti il civico 69 dei paeassoni dove, ve lo ricordo per l’ennesima volta, c’era lo studio di SolaRadio, che ero praticamente da ricovero per tachicardia acuta.
“Fatta, fatta, fatta!” Entrai urlando e fregandomi le mani. EnsoPenso mi prese per matto.
La sera stessa ci fu una riunione straordinaria del comitato di redazione presso la pizzeria da Ciro “El Rutto”
Dopo esserci, dalla contentezza, strafogati con le peggiori porcherie che “El Rutto” aveva nel menù, cito solo ad esempio, la mitica pizza “Porcona”; wurstel, patatine fritte, scamorza e porcini; deliberammo quanto segue:
Tentare un approccio dopo messa
Cercare di “assumerla” in radio.
Entrare nelle grazie del facoltoso padre che avrebbe potuto sponsorizzarci. Avremo così potuto comprare un po’ di dischi e finire di usare audio cassette.
Ci presentammo alla messa delle undici vestiti come dei damerini, con addosso quello che, secondo noi, era il miglior outfit che avevamo in armadio.
Tito, nonostante fuori ci fossero ancora più di trenta gradi, ebbe la malsana idea di indossare la giacca usata per il matrimonio di suo cugino che era stato, tre anni orsono, in ottobre.
EnsoPenso si era cosparso di non so quanti litri di dozzinale deodorante spray da supermercato, probabilmente lo faceva per coprire il tanfo del sudore e delle scoregge.
Io quattro kili di gel in testa che se uno mi toccava i capelli si pungeva come se toccasse un riccio.
Paperoga sfoderava i suoi più preziosi capi di abbigliamento, comprati al mercato nel banco di tale Aziz storico venditore di capi firmati “originali”.
“Cosa fate questo pomeriggio?”
Eravamo appena usciti dalla chiesa, con ancora la sensazione di aver scontato almeno un paio d’anni di purgatorio solo per aver assistito alla predica di don Gianni; Francesca se ne uscì con quella domanda che ci spiazzò.
Non potevamo certo confessare che la maggior parte delle nostre domeniche pomeriggio, inverno o estate che fosse, si consumavano al bar da Nane a parlare con Meno Bottacin, Denis Sgorlon e compagnia briscola della figa che non arrivava mai.
Ci guardammo cercando di non farle vedere le nostre facce da ebeti. Furono, almeno per me, attimi di panico.
“Se vi va, potreste venire a casa mia per un gelato”
Salvi!
Alle quattro del pomeriggio in punto, tutti eccitati e sempre vestiti come dei damerini, solo un po’ più casual, prememmo quel pulsante tondo dorato accanto alla targhetta, sempre dorata, riportante la scritta “Ing. Alberto G. Scandagliato”.
Mezzo secondo dopo il dindon, il pastore tedesco del giorno prima, come il giorno prima, prese la rincorsa abbaiando furiosamente. Questa volta però, il cancello era chiuso; ciò nonostante, EnsoPenso, preso dal panico cosmico, mollò una scoreggia nucleare che però, fece zittire il botolo.
Ce la stavamo ridendo alla grande per l’accaduto e non ci accorgemmo che un tale, presumibilmente l’ing. Alberto G. Scandagliato, ci stava squadrando da dietro il cancello.
“Che cosa volete?”
Usò un tono tale che, oltre al pastore tedesco, rimanemmo in silenzio pure noi, tranne ovviamente il culo di EnsoPenso che si esibì in un’altra delle sue performance, silenziosa ma estremamente puzzolente.
Oltre al tono di voce, quello che ci mise soggezione fu il suo aspetto: piccolo, tarchiato, testa pelata e abbronzatissimo. La sua postura eretta, le braccia ai fianchi e il suo modo di atteggiarsi ci ricordarono “lui”.
La bella Francesca arrivò giusto in tempo a salvarci da quella imbarazzate situazione e … dalle scoregge dell’amico.
Quel gelato sarebbe stato meglio se ce lo fossimo andati a mangiare da Nico alle Zattere. Avremo speso più di cinquemila lire a testa per una bella coppa Nafta, ma almeno, non ci saremo sorbiti l’interrogatorio dell’ingegnere e le cazzate di suo fratello Raffaele.
Cominciò quest’ultimo chiedendoci qual era il nostro sport preferito e poi subito giù a tirarsela con la storia del tennis; nel quale, a suo dire, lui e papi erano dei provetti giocatori.
Mi veniva da rispondergli che le uniche palle che finora avevamo toccato erano le nostre quando, in bar da Nane entrava quello iettatore del Walter Radonic e che, comunque, tutti e quattro avevamo una profonda avversione per ogni tipo di sport.
In primis perché eravamo delle schiappe con tanto di certificazione ministeriale. La competizione ci metteva più ansia di un’interrogazione a sorpresa in matematica e il nostro massimo gesto atletico era quello di camminare a passo veloce in direzione di Ciano l’Onto per riuscire a sbafarci un bollente Craf appena emerso dal padellone.
Quando c’era da formare una squadra, nessuno mai ci sceglieva. Ma proprio mai. Restavamo lì, come i pacchi di pasta in fondo allo scaffale del supermercato, quelli prossimi alla scadenza che nessuno vuole. E così, quasi per una legge cosmica, la vita ci ha spesso trattati allo stesso modo: sempre ultimi, mai protagonisti, un po’ come comparse nella nostra stessa esistenza.
Comunque, non ci fu dato neppure il tempo di replicare a quel cagalto di Raffaele; l’esimio ingegnere si intromise subito.
Non ci diede il tempo di dire nulla. Ci ordinò di sederci come se fossimo dei suoi sottoposti poi, ostentando machismo da tutti i pori, partì con la lezione motivazionale versione caserma. Capimmo subito che, per lui, eravamo delle mezze seghe da raddrizzare. Era chiaro che gli stavamo sulle palle; se fossimo capitati nella sua azienda avrebbe pensato lui a drizzarci la schiena.
Poi, simulando finto disinteresse, l’interrogatorio proseguì coi dossier familiari. Voleva sapere di chi eravamo figli. Non per interesse. Per schedarci.
Mi venne voglia di dirgli: “Guardi, se ci avesse avvisato avremmo portato direttamente la dichiarazione dei redditi così risparmiavamo tempo tutti.” Perché, alla fine, ciò che voleva davvero sapere non era chi eravamo, ma quale classe sociale ci stava cucita addosso.
La verità è che sulle nostre famiglie non c’era molto da raccontare. E, soprattutto, nulla che potesse interessare a lui. Ma evitarlo era quasi impossibile: ogni volta che cercavamo di restare vaghi, lui ci incalzava con domande sempre più precise. E appena riusciva a carpire un’informazione riguardo il posto di lavoro di un genitore, subito partiva con il dirci che, in quel posto, conosceva questo, aveva rapporti con quello, naturalmente sempre personaggi di rilievo. Sembrava quasi un catalogo vivente di nomi altisonanti
Io, intanto, ero lì, lì per perdere la pazienza. Non era la prima volta: fin dalla materna, suore, insegnanti, preti e chiunque altro avevano sempre trovato il modo di fracassarmi i maroni con le stesse domande sul lavoro di mio padre. Non per sapere qualcosa di lui, ma solo per incasellarmi come “figlio di”, etichettarmi e basta. Ero stufo. Io volevo che mi vedessero per quello che ero, o almeno per quello che sarei potuto diventare.
Volevo dirgli che, in realtà, la sola ragione per cui mi trovavo in quella mega villa, insieme agli altri tre poveri sfigati dei miei amici, era una soltanto: Francesca; sua figlia. La prima ragazza che, sin dai primordi delle nostre misere esistenze, aveva avuto la bontà di considerarci. E questo valeva più di qualsiasi pedigree sociale.
Francesca si era accorta che ci stavamo impantanando, provò a rivalutarci agli occhi del padre dicendoli che “avevamo una radio”. Apriti cielo!
“Ma ‘sta roba a che serve? Ci fate soldi almeno? Avete degli sponsor?”
Lo disse con un sorrisetto di quelli che ti fanno girare i coglioni a velocità supersonica.
EnsoPenso stava per scoppiare era tutto rosso, credo ne stesse trattenendo una di potente da fargli sul muso.
In quel preciso istante, feci un pensiero: un ingegnere costruisce ponti, case e macchinari. Ma quello, stava cercando di demolire SolaRadio, uno dei nostri pochi sogni e una delle nostre poche certezze.
Il famigerato gelato poi si rivelò una delusione: due misere palline che, detto tra noi, erano state davvero… due gran palle.
L’unico che uscì euforico da quel maniero fu Paperoga. Probabilmente a causa del litro di Branca Menta che si era fatto mettere nel gelato. Lungo la strada del ritorno, sull’onda dei consigli del quel cagacazzi di ingegnere, cominciò a sparare una serie di jingle pubblicitari in rima per i nostri improbabili sponsor
Se ti xé sensa ‘na cocca, vien tor un birin in bar da Nane e ti sparagni i schei par e puttane
Cavei longhi? Vien a tajartei da Vittorio i mejo scalpi del territorio
Laboratorio pasticceria da Ciano l’Onto; serca i so’ Craf e dopo el fegato te manda el conto
Ti serchi ‘na pisseria? Vien da Ciro, anca parché no ghe xé altro in giro.
Frutta e verdura da Arduino che te ciava sol peso come un marochino
Ti vol notissie fresche? Va in edicoea da Franco “Gasetin” che el sa chi che xé morto ancora prima che riva el bechin.
E ci credo che fosse stato euforico perché, alla fine, fu l’unico che portò a casa qualcosa. Più precisamente, dopo alcuni giorni, portò Francesca davanti il bar da Nane sul ferro della sua bici.
Quella scena non la scorderò mai. Lui, con un sorriso stampato sulla faccia grande quanto lo schermo di un cinema, mentre la bici, a proposito di cinema, sembrava volare come nella scena del film Mary Poppins.
E io, lo ammetto, ero felice per lui. Con la famiglia che si ritrovava, un cumulo di macerie più che un focolare, si meritava un po’ di affetto e un po’ di luce.
Si vedeva che Paperoga si sentiva un uomo nuovo. In quel sorriso c’era tutto: rivincita, emancipazione e una sorta di vittoria che, per lui, anche se odiava il calcio, era pari a vincere lo scudetto.
Sapevo che solo una donna sarebbe stata in grado di farlo uscire dal suo mondo fantastico fatto di fumetti e vecchi dischi, da una vita trasandata come i vestiti che indossava e dal vizio di mettersi le dita nel naso; insomma, da tutto ciò che gli aveva affibbiato il soprannome di Paperoga.
“Quea i ghea ciava prima che el xea ciava” Memo Bottacin, con la solita delicatezza da caterpillar, sparò immediatamente la sua sentenza.
E purtroppo, come spesso accade quando Memo apriva bocca, aveva ragione. La profezia si avverò in men che non si dica.
La fine arrivò con una scena da manuale del disastro. Paperoga, ormai gasato, pensò bene di replicare il suo ingresso trionfale con Francesca sul ferro della bici entrando nel cortile del patronato, convinto di fare il pieno di applausi misti ad invidia.
“E questa perché non me la presenti?”
Riccardo Beltrame, come un condor che piomba di sorpresa sulla preda, si frappose tra i due e l’ingresso della sala cinema dove stava per cominciare la riunione di inizio anno pastorale del gruppo giovani. Aveva una calma glaciale di chi sa già come andrà a finire.
Furono sufficienti quella frase e un festin bueo nella sua taverna al quale ovviamente noi quattro non eravamo stati invitati, affinché la Francy cadesse tra le braccia del Riky come un mozzicone nel tombino.
E i sogni di Paperoga? Spazzati via come i coriandoli dopo il Carnevale. Un vero e proprio dramma sentimentale degno di un best seller.
Lui rimase lì, impotente. Con la faccia del tifoso che vede il suo bomber sbagliare il rigore al novantesimo. Quel rigore che valeva lo scudetto.
Ma, come nel calcio, ogni anno c’è un nuovo campionato. E le squadre cambiano. E i giocatori pure.
Il primo a cambiare fu proprio lui, Riccardo Beltrame. Cambiò ragazza come si cambiano i calzini: Francesca era troppo acqua e sapone. A lui serviva una gnocca da esibire fuori dalla chiesa. Francesca pianse sulla spalla di Paperoga… e per qualche fugace istante lui vide la luce.
Durò poco. Francesca, ad un campo estivo, conobbe quello che diventò suo marito e dal quale ha avuto due figli; ciao core.
Dopo qualche anno, cambio anche il prete. Sparito don Gianni, da quella parrocchia donGiannicentrica sparirono improvvisamente certi personaggi.
La cosa mi colpì profondamente. Mi domandavo come fosse possibile che, da un giorno all’altro, persone che sembravano animate da una fede incrollabile scomparissero insieme, quasi avessero perso ogni convinzione. Quel pensiero iniziò a lavorarmi dentro.
Forse Dio non c’entrava nulla e tutto quell’apparato; messe, incontri, gruppi, iniziative; era solo una costruzione dei preti per avere un pubblico, qualcuno che li ascoltasse. Per usare un linguaggio matematico; i preti stavano alla chiesa come noi stavamo a SolaRadio.
Questi pensieri mi scossero nel profondo. Fu come se all’improvviso si aprisse una crepa sotto i piedi: ciò che avevo sempre dato per scontato vacillava, e con esso anche l’immagine che avevo di me stesso. Cominciai a chiedermi se credere fosse soltanto un’abitudine, un riflesso sociale, un modo per riempire i silenzi o sentirsi parte di qualcosa. Questa presa di coscienza mi gettò in una crisi silenziosa ma intensa, dalla quale non sapevo bene come uscire.
Arrivò un nuovo pretino. Il suo gruppo giovani aveva meno iscritti degli ascoltatori di SolaRadio; e ce ne voleva!
Anche lui venne a piangere sulla mia spalla per chiedermi se potessi far qualcosa per i giovani del quartiere e ne fui felice.
Durò poco. Anche lui, a un campo estivo (maledetti campi estivi!), si infatuò di una bella giovane. Si spretò e se la sposò. Purtroppo, non so dirvi se, e quanti figli hanno. So solo che, forse a causa di questo andirivieni di preti, alla domenica presi ad andare sempre meno alla messa e sempre più a SolaRadio.
Ovviamente durò poco anche il gruppo giovani. Amen.
Ci sono tre cose che invece continuano a durare: SolaRadio, la nostra amicizia e un flebile canale di comunicazione tra Paperoga e … Francesca.
Il destino volle che Francesca diventasse dirigente di un sindacato. Non uno qualsiasi: il più estremista e socialmente pericoloso agli occhi dell’ingegner Scandagliato. Sono quasi convinto che, per questo, quel clone di “lui”, l’abbia diseredata.
Il destino inoltre volle anche che, qualche anno fa, Paperoga, cazzeggiando in rete, lo scoprisse.
Il mio amico che, fino a quel momento, non risultava essersi mai iscritto ad un sindacato, nemmeno a quello dei fancazzisti superpagati associati … non si iscrisse nemmeno a quello di Francesca. Fosse mai che qualche dirigente della sua azienda venisse a saperlo; temeva fortemente che gli avrebbero ridotto di brutto l’ammontare del piano welfare aziendale. Addio abbonamento a Topolino, biglietti per i concerti e carnet del cinema (al quale, pur comprandoli, non andava mai).
Così, non appena gli capitò l’occasione, optò per un’azione meno rischiosa per il suo posto di lavoro: partecipare a un incontro pubblico dove lei era tra i relatori. Ci trascinò pure me con lo scopo di reggergli il gioco.
Anche grazie al mio contributo; i due dopo tanti anni si reincontrarono. Non riuscì, come quella volta, a caricarla sul ferro della bici (anche perché, diciamolo, sono secoli che non ne tocca una) ma fece meglio: la caricò in rubrica.
Iniziò così uno scambio di messaggi. Prima timidi, quasi impacciati, poi via via più frequenti, come se le parole avessero ritrovato un sentiero interrotto anni prima.
Ogni volta che lei scriveva, in qualità di “consulente sentimentale non retribuito” ne venivo messo al corrente. Apriva il telefono con la stessa esitazione di chi ha tra le mani un testamento o una dichiarazione d’amore dimenticata nel tempo, e mi faceva leggere tutto: il suo messaggio, la sua risposta, persino le bozze che non aveva avuto il coraggio di inviare.
Ogni volta la stessa domanda:
“Secondo te, da quello che scrive, è ancora interessata a me?”
Si faceva un sacco di paranoie; “eh, non mi ha messo il cuoricino ma, solo la faccina con gli occhi a cuoricino; però, mi ha scritto … un bacio … sarà un segno?”.
Voleva sapere. Cercava in ogni virgola un segno, in ogni “come stai?” un battito nascosto, in ogni punto sospensivo una promessa.
Io cercavo di convincerlo che sì, era evidente: tra loro c’era ancora qualcosa. Non un semplice ricordo. Non solo un rimpianto. Un filo, sottile ma indistruttibile, che negli anni nessuna distanza, nessun legame, nessuna vita parallela era riuscita a spezzare. Erano due persone che non avevano mai smesso davvero di cercarsi.
“Forse mi scrive così come scriverebbe a chiunque.”
Testardo, continuava a rimanere nel suo eterno dubbio.
Il problema era che lui cercava nelle parole una certezza matematica, quando invece il sentimento, quello vero, non si lascia misurare: lo senti. Ti cresce dentro in silenzio. E un giorno ti accorgi che, senza quasi accorgertene, stai sorridendo leggendo un messaggio sul telefono… e ti tremano le mani mentre scrivi la risposta.
“Mi ha scritto che sono e rimarrò sempre una persona speciale”
Come diceva Shakespeare: “Il tempo è troppo lento per chi aspetta, troppo veloce per chi ha paura, troppo lungo per chi soffre, troppo breve per chi gioisce… ma, per chi ama, il tempo è eterno“.
Quell’ultimo messaggio, l’aveva fatto sussultare. Era apparso sul suo telefono dopo un’eternità che non gli scriveva; poche parole, leggere come il volo di una farfalla. Gli era bastato per sentirsi di nuovo felice come quel giorno che la portò da Nane sul ferro della bicicletta. Aveva un sorriso limpido e pieno di vita, come se il tempo non fosse mai passato.
Era chiaro che vive ancora per lei. Vive di quel ricordo che non invecchia, che non si piega al tempo, che si ripresenta sempre con lo stesso profumo di gioventù e la stessa ferita dolce.
Il loro era un duello elegante fatto di battute leggere e complimenti camuffati, di attenzioni non dichiarate e sorrisi scritti.
Ogni parola che si scambiavano ne era la prova. Sotto la superficie delle frasi leggere, si avvertiva un sottotesto sottile, quasi impercettibile a uno sguardo distratto, ma chiarissimo per chi conosce l’amore quando si nasconde. Era come se ogni messaggio fosse un passo avanti e allo stesso tempo un passo indietro: nessuno dei due osava dichiararsi apertamente, eppure entrambi lasciavano cadere piccoli indizi, come briciole sul sentiero di una storia mai del tutto interrotta.
Il loro dialogo era diventato un gioco elegante, un valzer fatto di allusioni, mezze frasi e sorrisi scritti. Un corteggiamento discreto, pudico, quasi antico, in cui l’audacia non stava nell’osare, ma nel trattenersi.
Un corteggiamento in punta di dita, dove nessuno dei due osava nominare il sentimento, per paura che dirlo ad alta voce lo rendesse troppo vero. Il loro scambiarsi messaggi era una sorta di gioco romantico un modo velato e delicato di flirtare.
Nonostante gli anni trascorsi, tra loro esiste ancora un filo invisibile, qualcosa di antico e indissolubile. Non è semplice nostalgia, né un affetto di circostanza: una forma silenziosa di eternità, un legame che non chiede conferme perché sa di esistere oltre il tempo dentro di lui come una musica fragile eppure eterna.
E lui non ha bisogno di molto: gli basta quella voce lontana, quell’eco che lo chiama ancora “persona speciale”, per sentirsi salvo, per sentirsi ancora intero.
Gli basta condividere certe emozioni con noi tre che, nel tempo, assieme a lui, siamo rimasti a parlare dentro a un piccolo microfono di una radio minuscola, quasi senza pubblico, come se trasmettessimo solo per noi stessi e per l’eco delle nostre stesse voci.
Siamo quattro anime sospese, rimaste a metà strada tra ciò che sognavamo di diventare e ciò che la vita ci ha concesso di essere. Quattro uomini che, in segreto, avevano immaginato esistenze diverse, forse anche amori capaci di salvarli o stravolgerli. Desideri rimasti accesi a bassa voce, come brace che non si spegne.
Eppure, siamo ancora qui, fedeli a un unico rito che ci tiene in vita: la musica che trasmettiamo giorno dopo giorno attraverso la nostra piccola radio, e i ricordi che diamo in prestito alle onde dell’etere. È così che respiriamo quando ci manca l’aria, è così che resistiamo quando il tempo ci sfiora con mani troppo pesanti. La musica è la nostra memoria e, paradossalmente, anche la nostra speranza.
A volte ho l’impressione che ognuno di noi abiti due vite. C’è quella esteriore, che gli altri osservano e giudicano, fatta di abitudini, volti consueti, compromessi silenziosi. E poi c’è l’altra, quella che non si vede: la vita interiore, intima, dove abitano le nostre passioni segrete, i sentimenti che non osiamo dire, le fragilità che ci rendono veri.
È lì che sopravvivono i nostri ricordi più intensi, quelli che non si cancellano nemmeno con gli anni. Ed è lì che continua a battere il cuore della nostra piccola radio: non un rifugio, ma un filo sottile che ci tiene uniti a ciò che eravamo e a ciò che, forse, siamo ancora destinati a diventare.
Forse non siamo diventati degli uomini forti, dei vincitori. Qualcosa di grande agli occhi del mondo, degni di ricevere considerazione da tipi come l’ingegner Alberto G. Scandagliato.
Ma di certo siamo fortemente uomini deboli e fragili: un talento che, almeno quello, nessuno ci può negare.
È forse quello che fa sì che, da qualche parte, là fuori, ci sono ancora persone che ci ascoltano. Forse poche, ma autentiche. Persone che non si scorderanno mai di noi perché, senza clamore né vetrine, ci riconoscono come speciali. Non per quello che possediamo, ma per quello che doniamo: un’emozione, un sorriso, anche solo un ricordo, un frammento di vita che continua a vibrare nell’etere.
Viviamo per un ricordo che non smette di pulsare, che sia amore o musica, la sostanza non cambia; senza quella fiamma, senza quell’eco che ci accompagna, sarebbe tutto infinitamente più vuoto.
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