
… Ciao, ciao domenica
Passata a piangere sui libri
Tanto lo sai che non t’interroga
E poi è domani che ti frega …
… Buona domenica
Quando misuri la tua stanza
Finestra, letto e la tua radio che
Continua a dirti che è domenica…
Era l’unica canzone di Venditti che odiavo; ritraeva perfettamente certe pallose domeniche invernali, tutte uguali, praticamente un copia e incolla. Sempre la stessa scena; Mia mamma e mia sorella ipnotizzate dalla tv, si facevano massicce dosi di domenica in; mio padre con mio cognato attaccati alla radio ad ascoltare tutto il calcio minuto per minuto, tiravano giù i santi dal paradiso man mano che si allontanava la possibilità di fare tredici, mentre, mia nonna, se ne stava a letto lamentandosi per i dolori. Nell’aria, una gran puzza di fumo generato dallo smodato consumo di Nazionali senza filtro; un po’ dappertutto c’erano bucce di bagigi; un quadretto del genere, avrebbe mandato in depressione chiunque.
Senza una donna; la mia sola e migliore amica era la radio; non mi restava altro che accendere il vecchio GRUNDIG e muovermi compulsivamente sulla scala FM, 88-108 andata e ritorno, infierendo su quella povera manopola di sintonia che, a memoria, negli anni, si sarà rotta una ventina di volte.
Novembre 1980; nel clou di una quelle domeniche pomeriggio, proprio a causa di una repentina fuga da una stazione che, stava mandando in onda Buona domenica di Venditti, il vecchio GRUNDIG, si incastrò sui 107,8, quasi a fine corsa e, non voleva saperne di schiodarsi di li; poco male, dall’altoparlante uscivano le note di Video kill the radio star. “E’ vero ragazzi, mi sa che non dureremo tanto”; diceva il tipo al microfono; a me, era sufficiente che durassero fino alla fine del brano. La manopola continuava a non rispondere ai comandi; niente, dovetti rassegnarmi a soffermarmi su quella fantomatica SolaRadio; si poteva definire, una radio locale, nel vero senso della parola; in quanto, trasmetteva dai paeassoni a due passi da casa mia.
Dovevano essere degli sfigati, per aver piazzato il “paletto” della frequenza al margine della scala, probabilmente, non avevano trovato altro posto. Non avevo tempo di mettermi ad aprire la mia fida radio e aggiustare la manopola; dovetti quindi adattarmi a una sorta di convivenza forzata con gli sfigati dei 107,8 e, accontentarmi della musica che passava il convento; come sottofondo per studiare non era male.
Il libro di elettronica, era li che mi aspettava; all’indomani, stando al calcolo delle probabilità, c’era il serio pericolo che il Biasiotto mi convocasse per darmi ‘na bea petenada. Se fosse andata male, avrei dovuto presentarmi al cospetto di sior Agostino con l’ennesimo quattro registrato nella mia fedina penal-scolastica; il che, voleva dire perdere almeno quattro denti e, per giunta, quelli non cariati, senza possibilità di reimpianto. D’altronde, era anche un po’ colpa sua; mi aveva convinto a cambiare scuola, lasciare geometri per l’I.T.I.S. perché, secondo i suoi calcoli strategici, se studiavo elettronica, c’era più possibilità di trovare lavoro e far schei; la cosa che più contava nella vita. Così, abbandonai l’antico sogno infantile di progettare villette e relativi giardini per dedicarmi, a malincuore, a transistor e circuiti integrati.
Lo speaker, se così si poteva definirlo, mi faceva tenerezza; era uno sfigato tappabuchi solitario, in quella radio sfigata ai margini della banda FM; malgrado i disperati appelli, neanche un cane che gli telefonasse per richiedere una canzone.
La mia scarsa concentrazione, venne subito interrotta; il tipo, mandò in onda una canzone che diede una bella scossa ai miei ormoni, sepolti sotto i pesantissimi teoremi di quei due pallosi di Thévenin e Norton. Non era certo una canzone de cesa; anche se me la vedevo Donna Summer intonare Love to love you baby o peggio, could it be magic, durante la messa delle undici; in fin dei conti, era pur sempre una cantante gospel. Chiusi gli occhi, mi sembrava che la voce sensuale di Donna Summer, uscisse dal libro di elettronica; immaginare, un altro miracolo che riesce a fare la radio.
Ad un certo punto, mi ridestai; lo sfigato della radio sfigata, aumentò di colpo il ritmo, tanto che anche il vecchio GRUNDIG ebbe un sussulto; lo vidi distintamente, spostarsi sulla mensola, almeno di un paio di centimetri. Chissà cosa mi prese; mi alzai e, istintivamente, iniziai a ballare al ritmo di, don’t stop me now dei Queen. La mia cameretta si trasformò in discoteca; anche se, a quel tempo, non avevo la più pallida idea di come fosse fatta una discoteca. Mi scatenai con tale energia che volò di tutto; a cominciare dal già citato libro di elettronica, fino all’inferno di Dante.
“Sbassa, che ghe xé ea partia. Saria cussì che ti studi; erce, va remengo ti e chel sacramento de radio, ‘na marteada ghe tiro uno de ‘sti giorni!”; nella foga, non mi ero reso conto della minacciosa presenza di Agostino; non avevo nemmeno sentito il secco SBRANGT della porta che, alla faccia della privacy, contraddistingueva il suo tatto nell’entrare in camera mia.
A parte la figura di merda, non mi sentivo assolutamente in colpa per aver fatto finire sotto il letto, pagine all’aria, l’inferno di Dante e il palloso libro di elettronica; anzi, provai un piacevole benessere psicofisico; mi sentivo talmente bene e, pieno di euforia, tanto da decidermi di telefonare in radio allo sfigato. Meritava di essere ringraziato per averme tirà in qua, da quel momento di depressione pre-lunedì di interrogazione; avevo inoltre il desiderio di conoscere un altro sfigato come me, che stava trascorrendo in solitudine, una nebbiosa domenica pomeriggio di merda .
Andai a telefonare dalla cabina giù in strada; in quel momento, stavano bastonando la Juve e, non volevo urtare ulteriormente sior Agostino. Sulle prime, volevo fare la voce da donna ed esordire con un “so piena de voja”; ma, ovviamente, non ne avevo il coraggio; in fin dei conti, era la prima volta che telefonavo a una radio; anche se non era di certo la RAI, un po’ di soggezione, ce l’avevo.
“Sipppronto”; fu l’inizio di quarantun anni di infinite telefonate con Enzo Penzo; EnsoPenso per gli amici. Ancora oggi, mi chiedo se ho fatto bene a fare quella telefonata; penso che Penso, invece, come si dice da noi, el gabbia trovà ‘na baea de oro.
Nemmeno dopo cinque minuti che mi ero presentato e avergli detto “che fighi i Queen, i me ga tirà su ‘na costa”, mi invitò in radio; al che, mi venne il dubbio di esser stato l’unico ascoltatore che aveva. Accettai, se non altro perché mi incuriosiva vedere come era fatta una radio. Così, la domenica successiva, mi inerpicai fino alla soffitta del paeasson al civico 69; ero ansioso di conoscere il famoso Enzo Penzo.
Non è che mi aspettassi chissà cosa ma, quando il tipo mi aprì la porta, tutte le mie più ottimistiche aspettative si frantumarono all’istante. Mi sembrò di entrare in casa di un vecchio solo e abbandonato; sentendo inoltre, il tanfo che c’era, ebbi il sospetto, che il mio amico, fuori onda, mollasse di quelle bianche megagalattiche. L’aspetto di Enzo era perfettamente intonato con l’ambiente e la situazione; capelli ricci unticci, magro, lungo e alquanto trasandato; quello che aveva addosso, probabilmente risaliva all’epoca di certi brani che mandava in onda.
La visita agli “studi” durò circa tre minuti; non c’era molto da vedere in quei pochi metri quadri; mi colpì il cigolio di una ultra consunta BASF C-90. Su quella cassetta, mi disse, era incisa la scaletta musicale della sua trasmissione; nessun disco da mixare. Mi spiegò che erano agli inizi, i mezzi erano pochi e, i dischi pure, tanto che, ognuno se li doveva portare. Da studente squattrinato, senza sponsorizzazione di genitori & affini; poteva permettersi solo di noleggiare qualche disco o, farselo prestare per poi, riversarlo su cassetta. Lasciò che il nastro andasse e mi invitò a prendere una cioccolata calda giù dalla Cesarina; disse che lo aiutava a tirarsi su di morale.
Da un po’ di tempo, non c’è cioccolata calda che tenga. L’euforia del caffè extralungo che, la domenica mattina, usualmente, ci spariamo in pasticceria dalla Cesarina, dura appena un quarto d’ora scarso; poi, comincia con i soliti discorsi sul tempo che passa e tutta una sfilza di rimpianti; sembra proprio che, nella sua zucca, continui a girare, come quarant’anni fa, una consunta cassetta BASF C-90, con la solita musica.
Cercare di capire EnsoPenso ma, soprattutto, tirare fuori qualcosa dal cilindro per dargli una mano, è sempre stata un’impresa titanica. Quella lontanissima domenica, gli chiesi se, quel cavolo di trasmissione, aveva un titolo; “parchè, ea dovaria averghene uno?”; già il racconto, su come era nata la radio, me le aveva gonfiate a dismisura; la sua risposta, le fece cadere a terra, con due colpi secchi. Mi chiedevo cosa ci stesse a fare in quel buco di stanzino, davanti a un microfono, senza, apparentemente, qualcuno che lo ascoltasse; mi accorsi che, la sua anima era stinta come gli abiti che portava.
“Par un’ora d’amore no’ so cossa faria; par poderde ciavar no’ so cossa daria, parararaah ..”; Deni Sgorlon era, nel quartiere dei paeassoni, l’indiscusso mago delle cover. Quel sabato pomeriggio da Nane, pieno di ottima bionda doppio malto Ruttolongo, si stava cimentando con il greatest hits dei Matia Bazar; la sua performance era rivolta a Mary ea tettona che, com’era ampiamente prevedibile, non lo cagò. Al menestrello non restò che finire il concerto con il lato B di quel fortunato 45 giri; tra le risate dei presenti, se ne uscì fischiettando; “stasera; tata … che sega, tararara raraaah”. La repressione sessuale, espressa in forma canora dal Deni, mi diede un idea per dare una spinta allo stantio programma radiofonico di EnsoPenso.
Altra domenica pomeriggio e altra inerpicata per i grigi scalini del paeasson al civico 69; stavolta però con alcuni “ferri”; la valigetta dei 45 giri della cuginona Silvia, due walkie talkie INNO-HIT, regalo di zio Sergio per la cresima e, l’ancora intonsa antologia di letteratura del biennio. Altra cosa importante, io non ero più io, bensì un tale Nicola, trentenne scapoeon che, di mestiere faceva il bancario, quindi, professionalmente ben piazzato; con la passione per la barca a vela; nonché, colto e amante della poesia. Quella domenica, ‘sto tale Nicola, pensò bene di telefonare in radio e, EnsoPenso, pensò altrettanto bene di mandare la telefonata in diretta, cosa che non aveva mai fatto fino a quel momento; primo perché nessuno l’aveva mai cagato; secondo, perché senza i mitici INNO-HIT; il trucco non sarebbe riuscito. Ancora ridiamo pensando a quel giorno; incredibile, quarant’anni fa avevo creato la mia prima identità fake uso social, che ‘vanti che gero!
Cinzia, non so se sei in ascolto. Sono un pessimo romantico, lo ammetto. E’ per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine. Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. Almeno, lascia che ti dedichi “per un’ora d’amore”; ero sicuro che cugina Silvia aveva quel disco; lo infilai per primo nella valigetta, diedi poi istruzioni a EnsoPenso di mandarlo in onda al mio segnale.
Era la prima volta che usavo el maton, così chiamavo la pesantissima antologia di italiano, per scopi non propriamente scolastici; quel brano di Italo Calvino gera ea morte sua; a fronte della mia magistrale interpretazione, però, quel mona di DJ che avevo di fronte, pareva non riuscire proprio a farmi da spalla; il disco stava per finire e lui se ne stava incocaìo, con lo sguardo fisso in alto.
Sollevò delicatamente la puntina, un attimo prima che, a fine corsa, deragliasse per finire sopra l’etichetta; “carissimi amiche e amici; ma voi, cosa fareste per un’ora d’amore? Sotto con le telefonate”; che Genio! Il socio, si era finalmente dato ‘na descantada.
Enzo frugava nella valigetta come se avesse trovato un tesoro; tirò fuori comprami di Viola Valentino; a quel punto temevo seriamente che chiamasse Deni Sgorlon o qualche suo amico di bevute, per spiegarci cosa avrebbe fatto per un’ora d’amore o meglio, durante l’ora d’amore. Con Su di noi di Pupo, arrivò la prima telefonata, una certa Vania, che non volle essere messa in diretta. “Ghe xè ‘na cocca che vol saver de tì, de Nicola intendo …”; EnsoPenso, preso dall’emozione, ne mollò una di potentissima, una via di mezzo tra porto Marghera e la brodaglia domenicale, della mia vicina di casa, siora Elvira Scattolin; meno male che aveva avuto la prontezza di stringere forte la cornetta del telefono con due mani; io invece, viola in volto, finii disteso sotto il bancone del mixer con i crampi allo stomaco dal ridere; “mona, cossa ghe digo ‘desso?”; EnsoPenso, tentava disperatamente di fare in modo che tornassi serio, nel mio ruolo.
Mi resi conto di aver creato un mostro, praticamente, un antesignano di un troll sul web; imperativo, mantenere l’alone di mistero, per cui, diedi al socio istruzioni di rimanere sul vago. Devo riconoscere che a contar bae era un maestro; dovette darsi parecchio da fare in merito in quanto, fu uno stillicidio di telefonate de fie che, chiedevano informazioni su quel tale Nicola e, per dedicargli canzoni; purtroppo, la valigetta di cugina Silva, non riusciva a soddisfare le richieste. Dopo quasi due ore volate in un attimo, sfiniti, mandammo in onda l’evergreen, if you live me now dei Chicago, che, fece da sigillo alla puntata numero zero, di quella trasmissione; battezzata ufficialmente con il titolo di “per un’ora d’amore”; un vero e proprio new deal, per quella radio sfigata e per quello sfigato di EnsoPenso.
Quando uscimmo, el caigo aveva ormai avvolto l’intero quartiere; secondo EnsoPenso, quella fitta nebbia, che ti faceva perdere i contorni della realtà, era causata da tutte le balle che avevamo raccontato. Il chiassoso vociare, che proveniva dal bar di Nane Sberega, come un faro, ci indicò la rotta verso un buon tramezzino con birrino.
Un tonno e cipolline, un tonno e olive e un prosciutto e funghi, erano gli unici superstiti che giacevano, chissà da quanti giorni, sotto quel bisunto canovaccio. Non aveva importanza, bastavano per rallegrare la nostra prima “riunione di redazione”; eh si, era appena finita la puntata numero zero ma, bisognava pensare per tempo, a come sviluppare il tema in futuro.
Convenimmo che, avrebbe nuovamente telefonato Nicola ma, stavolta, rassegnato a non rimettersi più con la fantomatica Cinzia; si sarebbe cimentato nella ricerca di un nuovo amore. Ci dividemmo i compiti; io avrei dovuto cercare, magari nella solita antologia, una poesia o qualcosa di simile, che mandasse in brodo di giuggiole qualche vogliosa ascoltatrice; il socio, le canzoni adatte a condire la situazione; poi, l’amico, ancora con mezzo funghetto tra i denti, mi fissò:
– Ma ti, ti gà ea morosa?
– No
– Mai avua una?
– No, e ti?
– ‘Gnanca mi, xè dissette anni che vago in serca
Il problema è che oggi, pur sposato da una vita, EnsoPenso, va praticamente ancora in serca; questo perché; il tizio, soffre di quello che, in gergo, viene definito, maldemona o, più genericamente, el mae.
Il termine non l’ho coniato io; storicamente è stato introdotto per la prima volta dall’esimio Silvio Minio, detto Spasemo, docente di cazzialtruistica, presso la libera università “Nane Sberega”, con sede nell’omonimo bar, al centro dei paeassoni. Secondo il noto ricercatore, ne è affetto, chi ha bassi livelli, se non addirittura assoluta mancanza di pratica, con quella cosa li.
Anche se i sintomi, rispecchiavano pienamente quanto evidenziato nel trattato del prof. Minio; ovvero, forte depressione, che il paziente, in genere, tende a curare autonomamente con forti dosi di mangiate e bevute; nonché, acquisti compulsivi di troiae inutili; non è stato facile arrivare alla diagnosi di maldemona; mi ci sono voluti anni di intensi colloqui, più qualche migliaio tra cicchetti da Nane Sberega e pizze da ea Gina.
Una volta che gli si è fatta la diagnosi, per il paziente, non è per niente facile ammettere di soffrire di maldemona. Una fase importantissima è l’esercizio di consapevolezza; lo devi portare a gridare al mondo la frase liberatoria in rima, suggerita dal maestro Spasemo; “de come va el mondo no’ me intriga, mi penso soeo che aea figa”; verità sacrosanta, anche se la maggior parte degli uomini, non ha il coraggio di dichiararlo.
EnsoPenso, usava SolaRadio per ‘ndar in serca; sbavava dal desiderio di conoscere personalmente quelle donne, a suo giudizio, mature ed esperte, che telefonavano. Un giorno, gli venne la brillante idea di far materializzare il mitico Nicola; convocando le assatanate ninfomani per un appuntamento nell’affollatissima piassa Fero a Mestre; dove, il nostro fantomatico personaggio, avrebbe offerto un caffè o uno spritz o una spuma; insomma, qualcosa. Ovviamente, il copione prevedeva che il nostro amico non si sarebbe presentato, mentre noi, come diceva il buon Jannacci, staremo stati a guardare di nascosto l’effetto che faceva; tanto, nessuna di loro avrebbe immaginato che dietro questa machiavellica messinscena, c’erano dei ragazzini di diciassette anni; perché, come dice lo stesso Machiavelli; “tutti ti valutano per quello che appari; pochi comprendono quel che tu sei”.
Sabo sera; piassa Fero affollata come previsto; a dire il vero anche troppo; noi due, eccitatissimi, travestiti da normali passanti anzi, da passanti con bici a mano, per dare meno nell’occhio All’ora convenuta ci fermammo “per caso”, a sostare davanti al bar convenuto e qui, ci rendemmo subito conto del grossolano errore che avevamo commesso; come distinguere tra la miriade di cocche presenti, quelle che erano li per il nostro uomo? “Varda, varda”; EnsoPenso, sembrava in trance; i suoi occhi puntavano diritto ‘na cavaona bionda, in minigonne e stivaloni, secondo lui, era sicuramente la Stefania, quella dalla la voce più calda, da letto; insomma, quella più troia. Sul fatto che fosse troia, dopo qualche istante, fu fugato ogni dubbio; le si avvicinò un tipo pelato che se la slinguacciò alla grande; se quella aspettava Nicola; io aspettavo Cicciolina.
Notai, invece, tre donne che avevano, rispetto alla massa, qualcosa in comune; erano sole, di una certa età, pacchianamente truccate e, cosa più importante, l’aspetto infelice; con molta probabilità, erano quelle cadute nella nostra rete. Nel vederle però, mi resi conto di essere stato un gran pezzo di merda, per avergli infuso delle inutili aspettative e aver giocato con i loro sentimenti. Se ne convinse pure il socio; non ci restò che battere in ritirata alla chetichella; avevamo paura di venir scoperti.
Il tramezzino e birrino, dovevano probabilmente richiamargli in mente certi argomenti; perché, questa volta con una cipollina tra i denti, tornò a fissarmi:
– Ghe xè qualcuna che te piase?
Sin dai tempi della scuola elementare, era la domanda più imbarazzante che mi si poteva fare; tentai inutilmente di rigirarla al mittente; niente, il socio insisteva. Era chiaro che, con la scusa di quella domanda, intendeva, alla fin fine, gratarme ea pansa, farmi parlare di “quella cosa li”, magari con dovizia di particolari. Che potevo rispondere a EnsoPenso, a riguardo? Che me ne piacevano tante ma, che finora non avevo combinato niente; anche lui avrebbe detto la stessa cosa ma, prima voleva sentirlo dire da me.
Difficile, per entrambi, ammettere che, finora nessuna ci aveva cagato; probabilmente quelle che ci piacevano, oltre a essere fighe erano parecchio stronze; o, molto più probabilmente, eravamo noi a non essere fighi.
Eravamo nella stessa condizione di eterna carestia; fame tanta ma niente da mettere sotto i denti; dovevamo accontentarci far lavorare l’immaginazione e sognare; una realtà virtuale che, secondo santa romana chiesa, ci avrebbe fatto diventare ciechi.
Eh si; entrambi eravamo cresciuti all’ombra del campanile; fioi de cesa; indottrinati, sin da bambini, a vedere il sesso solo come peccato che ti avrebbe fatto bruciare all’inferno, la dove sarà pianto e stridore di denti; volutamente tenuti all’oscuro e lontani da quell’attraente e misterioso universo.
Faceva tanto ridere che i due autori, nonché conduttori, della trasmissione radio dal titolo. “per un’ora d’amore”, avessero come uniche fonti sull’argomento, l’antologia del biennio, una valigetta con alcuni 45 giri di canzonette e i discorsi captati, de fora via, agli “esperti” che frequentavano il bar di Nane Sberega.
Sviai il discorso, parlando del problema che c’eravamo bruciati il Nicola; dopo quella meschina figura, quel cancaro, non avrebbe più dovuto “telefonare” in radio.
Comunque, il mio socio, alla fine, si sbottonò; in realtà, non c’era una in particolare che gli piacesse ma, aveva un’idea ben chiara e precisa del suo tipo di ragazza ideale. In particolar modo era ossessionato dal modo di vestire; la vera donna, secondo lui, esprimeva il massimo della sua femminilità, se amava portare la gonna, specie molto corta, quelle sempre in pantaloni erano da scartare a priori; seguiva certamente la linea di pensiero di Silvio Spasemo, un cui famoso detto, recitava; “done sempre in braghe, in letto no’ e xè gran maghe”. Per lui il non plus ultra erano le “stivaone”; ovvero, quelle che indossavano lunghi stivali e gonne corte, pure d’estate.
Svanito il Nicola, tirammo a malapena avanti ancora per qualche puntata; la cosa ci creò non pochi problemi con tutta quella serie di donne affrante e deluse. Arrabbiate era dir poco, quasi fosse colpa nostra se quello stronzo di merda non si era presentato all’appuntamento; ma guarda te, che tipo! Inoltre, il tema era alquanto impegnativo e noi non eravamo certo navigati sull’argomento. Ce ne rendemmo conto quando, grattando il fondo della valigetta dei 45, mandammo in onda se mi lasci non vale e pensami, di Julio Iglesias; mentre io, ripescai dalla mitica antologia una frase del mitico Khalil Gibran; “ogni uomo ama due donne: una è creata dalla sua immaginazione, l’altra non è ancora nata”.
Fortunatamente, sempre grazie alle mie geniali pensate, ci buttammo sulla disco music; il titolo della trasmissione si trasformò in, “la febbre della domenica pomeriggio”; abbandonammo antologia del biennio e valigetta della cugina Silvia a favore di Gloria Gaynor, i KC & the sunshine band, i Bee Gees e compagnia cantante.
Sulle note di un estate al mare, arrivarono in un attimo i 18 anni e, con loro la patente; purtroppo per la macchina avrei dovuto aspettare. Per fortuna potevamo contare sulla superacessoriata FIAT 127 CL seconda serie, classe 1978, del papà di EnsoPenso. Fu grazie a quell’auto gialla, detta el vovo, che iniziò l’epoca delle discoteche; cominciammo a vivere dal vero la febbre della domenica pomeriggio. Dovevamo solo avere l’accortezza di parcheggiarla il più lontano possibile dall’ingresso, per non essere derisi da tipi come Moreno Pinton dotato di ALFETTA 2000 TURBODIESEL, blu pervinca metallizzato; roba del genere, attirava le ragazze come una carta moschicida; mentre noi, con el vovo, non avevamo speranze.
Il primo ingresso in discoteca me lo ricordo benissimo; cinquemila lire compresa consumazione; appena sborsata la folle cifra, passai per due gigantesche porte a ventola, confine di quel peccaminoso mondo; fu un mezzo shock; fui contemporaneamente, investito da una folata contenente un misto di acre sudore e profumo dozzinale da supermercato; abbagliato dalle luci strobo, nonché assordato da Der Kommisar, sparato a mille decibel. EnsoPenso si eccitò subito alla vista di un gruppo di stivaone che ballavano in cerchio con le loro borsette, appoggiate per terra al centro; continuava a ripetere “varda che roba, el xè drio ‘ndarme in pression”. Io, spontaneamente, quasi per istinto, mi buttai nella mischia e iniziai a scatenarmi; esattamente come quella domenica pomeriggio del novembre 1980 quando accidentalmente il mio GRUNDIG si fermò sui 107,8.
Chi invece se ne stava fermo a bordo pista era Moreno Pinton; lui e quelli della sua compagnia, li chiamavamo i condor in quanto, stavano perennemente appoggiati alla colonna senza mai ballare per poi, al momento opportuno, tuffarsi sulla preda e successivamente caricarla a bordo dell’ALFETTA 2000 TURBODIESEL; il resto, potevi sentirlo raccontare, con dovizia di particolari, il giorno dopo, al bar di Nane Sberega, dallo stesso Pinton. Sarà stata anche colpa della 127 CL ma, a me e EnsoPenso, quelle scorribande in discoteca non fruttarono nulla, solo qualche timido approccio durante il quale cercavamo di tirarcela raccontando che “lavoravamo” in una radio. Unica nota di colore; riuscii a strappare un lento a ben due ragazze contemporaneamente; stava andando Trough the barricades dei mitici Spandau Ballet, quando qualcosa, effettivamente, attraversò le barricate … delle mutande.
La svolta arrivò alla fine del 1983; in quel periodo successero tante cose. Per primo, buttai via, una volta per tutte, il libro di elettronica e, varcai la soglia di architettura; potevo finalmente tornare ad usare le mie amate matite colorate; per farlo, dovetti venire a patti con Agostino; che, mi impose di pagarmi almeno una parte degli studi. Anche in questo caso la sorte girò a mio favore perché mi presero a lavorare in una radio vera; facevo praticamente di tutto, dal tappabuchi in studio, al tecnico, fino al procacciatore di spazi pubblicitari. La mia indipendenza, crebbe esponenzialmente; quando, nel febbraio del 1984, con i primi soldi racimolati, mi dotai di una favolosa ALFASUD SPRINT, rosso alfa, strausata; il contakilometri aveva fatto tre giri della terra abbondanti; Diego el lurido, il carrozziere che me l’aveva venduta, si guardò attorno circospetto per non farsi sentire e mi sussurrò “se i sedii potesse parlar, faria deventar rosso Tinto Brass; va in farmacia e comprite tre scatoe che ‘desso toca a ti”; poi, mi mise le chiavi in mano come se fosse una bustina di eroina purissima.
Grazie alla rossa, iniziai a spaziare verso nuovi orizzonti. Mi convinsi innanzitutto che dovevo cercare una alternativa alla parrocchia; i fioi de cesa, mi stavano troppo stretti. A dire il vero, il problema era che, tra le fie de cesa non c’era molta trippa per gatti e, quella poca che c’era, era estremamente contesa da una massa di affamati pronti ad accoltellarsi tra loro; alla faccia dello spirito fraterno di condivisione che avrebbe dovuto regnare tra gli adepti di santa romana chiesa.
Così, un giorno, all’università, decisi di farmi amico Nicola Berardo, un fio de papà che organizzava festini danzanti nel mega palazzo di famiglia a Venezia. Avevo assoluto bisogno di entrare nel suo giro, volevo approfondire la conoscenza di quella biondina dai lunghi capelli ricci che frequentava la sua compagnia. La notai la prima volta, mentre se ne stava quasi sdraiata sui gradini dei Tolentini; era bastato un attimo perchè i nostri sguardi si incrociassero e, dalle nostre bocche uscisse simultaneamente un “ciao” a bassissima voce, quasi soffocato; poi lei, voltandosi verso una sua amica, si mise a ridere.
Non ebbi però il coraggio di tornare indietro per attaccar bottone; in preda all’euforia cominciai quasi a correre; in autobus poi, mi prese un morsegon de stomego.
Quel pomeriggio, dovetti accompagnare nonna Elvira dal dottor Scarpa, el dotor dea mutua, da tempo dedito a curare anima e corpo degli abitanti dei paeassoni e dintorni; approfittai per riferirgli dello strano mal di stomaco. “Cossa gà me nevodo; e farfae dentro el stomego?”; nonna Elvira era parecchio sorda, per cui, el dotor, dovette quasi gridare; “Elvira, to nevodo xè gà ciapà ‘na bea incocaìa par ‘na cocca!”
Con la diagnosi del noto luminare in tasca; vista la mia inguaribile timidezza, non mi restava che pensare a come fare per incontrarla “casualmente”, nel senso che non doveva sembrare fatto apposta; per questo mi venne in mente di farmi invitare ai festini buei di quel rotto in cueo di Berardo.
Il tipo però, era un fighetto stronzetto e molto selettivo; per entrare nelle sue grazie, pensai di mettere in campo tutte le strategie di marketing, apprese in radio, per vendere gli spazi pubblicitari. Lo avrei intortato spacciandomi per un DJ navigato che avrebbe reso i suoi festini magici; in fin dei conti, era una mezza verità, l’esperienza con EnsoPenso, comunque contava qualcosa; non servì, galeotti furono “i giardini storici veneziani”.
Misteriosamente, sentivo che dovevo assistere a quella conferenza; non era solo la mia innata passione per i giardini ad attirarmi; rimasi un bel po’ a fissare quella vecchia panchina di legno sotto un maestoso albero secolare, ritratta nella foto della locandina; volevo assolutamente scoprire dove si trovava; in qualche maniera, intuivo, che in quel posto sarebbe successo qualcosa.
L’aula magna era stracolma; stavo per rinunciare, possibile che a così tante persone interessassero i giardini storici veneziani? “Riesci a capire se c’è posto?”; stetti immobile trattenendo il respiro, non avevo il coraggio di voltarmi; anche se non ci avevo mai parlato assieme, avevo memorizzato per bene il tono della sua voce. Dal cuore partì una raffica di mitra; la biondina dai lunghi capelli ricci, caramella in bocca, stava parlando proprio a me. “Ne vuoi una?”; l’offerta di quella Galatina, per giunta la mia caramella preferita, scatenò una tempesta di una potenza inaudita, altro che farfalle, nel mio stomaco volavano missili intercontinentali. A quel punto sarei entrato anche a costo di aggrapparmi a uno dei lampadari; come un falco mi fiondai su due posti liberi affiancati, non prima di aver pestato non so quanti piedi e mollato spallate a destra e a manca.
“Piacere Eleonora”; che vergogna, avevo la mano sudatissima; nonostante li dentro facesse un caldo insopportabile, ero ancora con il piumino addosso, irrigidito come un baccalà e, grondavo di sudore da tutti i pori. Lei invece si era già messa a suo agio; dalla borsa tirò fuori una bustina di velluto rosso piena di matite colorate. “Però, i Faber; sei ricca! Io uso ancora i Giotto delle elementari”; “che mona!”; e giù un buffetto sulla guancia; stava ingranando alla grande.
Eleonora pareva ascoltare con attenzione; io pure cercavo di dare l’impressione di fare lo stesso, in realtà i miei pensieri erano altrove; la scanociavo con discrezione, non volevo far la figura del maniaco sessuale; poi, mi venne spontaneo chiederle dove, secondo lei, si trovasse il posto raffigurato nella locandina.
“Cosa fai domenica? Potremo andare a cercarlo”; di fronte a quella proposta, non sapevo se filare dritto in ambulatorio da Scarpa per farmi prescrivere qualche decina di scatole di calmanti oppure, al ponte de le maravegie da Fenz e, annegare nel prosecco. “Cosa fai domenica?”; “sono quasi vent’anni, che ogni domenica, aspetto una come te”, volevo rispondere.
Subito dopo pranzo; ebbe inizio quella che, rimarrà nei miei ricordi, come la domenica perfetta. Per primo, mi sciroppai un tot di gocce di Valium sottratto alla dotazione ansiolitica di mia madre; poi, doccia fuori ordinanza con abbondante uso di HugoBoss; infine, passai a concentrarmi attentamente sull’outfit da indossare per l’occasione; decisi per i pantaloni grigi, lupetto nero e il cappotto nero lungo, quest’ultimo, era un po’ consunto a causa dell’intenso uso in discoteca, ma, l’insieme mi dava decisamente un’aria da intellettuale creativo; per completare l’opera, in tasca ci infilai pure il taccuino Moleskine.
L’appuntamento era alle 15.00 ai giardini Papadopoli. Vi giunsi con mezz’ora di anticipo; dovetti andare a prendere un caffè; il Valium mi aveva rincoglionito per bene.
Avrei voluto la vedesse EnsoPenso; era vestita secondo il suo standard; cappotto beige a trequarti, minigonne e i famigerati stivaloni; uno schianto. La prima cosa che fece dopo avermi salutato, mi lasciò inebetito; con la mano, mi sistemò dolcemente il bavero del cappotto; lo colsi come un gesto intimo, molto più forte di un bacio.
Fu lei a condurre la ricerca del giardino misterioso; menomale, perché ero talmente incoaio, da perdere l’orientamento; vedevo e sentivo solo lei, non mi rendevo proprio conto di dove stavamo andando né tantomeno, della gente che mi stava attorno; infatti, come in aula magna qualche giorno prima, continuavo a mollare spallate e a pestare piedi, tanto che mi presi più di qualche titamorti.
Decine di ponti, kilometri di calli, e giardini che non erano quelli che cercavamo, fecero da scenografia al racconto delle nostre giovani storie; freneticamente, senza mai fermarci, ci descrivevamo a vicenda i luoghi ideali dove avremo voluto vivere; credo che nessuno dei due avesse mai parlato così tanto in vita sua, eravamo come due fiumi in piena. Eleonora continuava, di tanto in tanto a dare delle sistematine al mio cappotto; che strano modo di fare, a me piaceva; in quei momenti avrei voluto abbracciarla e stringerla forte a me; mi sembrava troppo presto; o forse, non ne avevo il coraggio.
A son di parlare attraversammo per lungo tutta Venezia, fino ad arrivare ai giardini napoleonici di Castello. Il viso di Eleonora, di colpo si illuminò; visto che era nata li vicino, pensai avesse finalmente trovato la panchina sotto l’albero secolare; invece, si ricordò che, nella calle a fianco dell’istituto nautico, c’era un bacarèto che faceva degli straordinari panzerotti; mi prese per mano e mi trascinò dentro. Si sedette sfinita e credo si fosse pentita di essersi messa stivaloni e minigonne, non era l’abbigliamento adatto per quella scameada per Venezia. Approfittai di quel momento per attuare una mossa strategica; con la scusa di andare in bagno, feci sintonizzare la radio del bar sull’emittente dove lavoravo e poi telefonai in studio a Riccardino pregandolo di mandare in onda Let me in di Mike Francis, con una mia dedica a Eleonora; tornai a sedermi e aspettai con ansia il momento; “che mona!”, si fece una risata e non disse altro.
Non ci mettemmo insieme quel giorno, ne mai; Let me in, comunque, rimarrà la nostra canzone; anche una profonda e indissolubile amicizia, merita la sua canzone.
Romina ea calda, era completamente differente da Eleonora. Fisicamente, era molto più in carne e, le uniche matite colorate che usava erano quelle per dare abbondante trucco agli occhi. I suoi interessi poi, erano ben diversi; pensare che, in quanto a tematiche inerenti “quella cosa li”, era in grado di competere tranquillamente con gli espertissimi colleghi maschi che potevi incontrare da Nane Sbèrega; il suo parterre preferito però, era il portico della chiesa alla fine della messa. Noi fioi de cesa, ascoltavamo volentieri le sue lezioni di catechismo; a me, francamente, rimanevano più impresse rispetto ai predicozzi del vecchio don.
L’argomento di quella domenica erano le calze autoreggenti; ea Romi asseriva che portava solo quelle. Al mio “ga da essar”, rispose immediatamente “co’ saremo soi te e fasso vedar”.
Colpa di quel scravasso improvviso, e, ovviamente, della mia ALFASUD SPRINT; quel “co’ saremo soi”, si realizzò poco dopo. Quando salì a bordo, per farsi accompagnare a casa, fui immediatamente stordito dal suo Samsara e dalla vista delle mitiche autoreggenti; con destrezza aveva fatto in modo che, la gonna, già corta di suo, nel sedersi, si accorciasse ulteriormente. Complice l’eterno semaforo rosso e la pioggia scrosciante; la sua mano finì per accarezzare i miei capelli e, la mia, le sue velatissime autoreggenti.
“Ti ga mai fatto cik-ciak co’ ‘na fia?”; capii che più che una domanda era un invito; prontamene infilai nell’autoradio la cassetta con Diamond Life di Sade; altra musica, altro scopo. Fu appena ci fermammo lungo el curvon che, mi ricordai di quell’augurio un po’, per così dire, insolito, del lurido. La mia prima volta, la realtà superò la fantasia, nel senso di quella usata nelle storie di Deni Sgorlon. La travolgente e calda passione che ci risucchiò mentre fuori veniva giù il diluvio universale, mi fece dimenticare che lei era ea fia del ciccio Max, el gondolier. Andammo avanti per un sacco di tempo ad incontrarci, solo per fare cik-ciak; saperci clandestini e condurre quella doppia vita, ci eccitava ancora di più.
Ed è la clandestinità che, da quel momento, a parte l’amicizia con Eleonora, caratterizzò i miei rapporti con le donne; una vita fatta di “storie”; molto spesso, con le donne di qualcun altro; un moderno cicisbeo sempre alla ricerca di nuove avventure.
Anche per EnsoPenso il 1984 fu l’anno della svolta decisiva; fu accalappiato da Paola; dieci e passa anni di fidanzamento più, quasi trenta di matrimonio; diversamente da me, almeno in apparenza, bastano queste due righe per descrivere la sua storia sentimentale; facendo un paragone radiofonico, è rimasto sempre sulla stessa frequenza, mentre io, mi sono divertito a cambiarla in continuazione. Se una storia d’amore, o presunta tale, è così complicata da poter essere spiegata in due righe, allora vale la pena di saperla; l’amore non è complicato, le persone lo sono.
Sono anni che, con la scusa di un buon caffè, va avanti a tormentarmi con discorsi, confusi e poco espliciti, sulle difficoltà tra loro due. Quello che mi manda in bestia è che, continua a riavvolgere quella maledetta cassetta BASF-C90, che ha in testa, ricominciando, da capo, a farmi l’analisi storica del loro rapporto, con annesso elenco dei migliaia di dubbi e sensi di colpa che gli vengono. Come in certi dossier misteriosi, nei suoi discorsi ci sono una miriade di evidenti omissis che, mi impediscono di farmi un quadro veritiero della situazione; francamente, ancora non capisco, perché si è messo insieme a Paola ma, soprattutto, perché non l’ha lasciata.
Leggendo tra le righe dei suoi racconti, l’unica quasi certezza che ho, è che manchi la cosa fondamentale; sono pressoché convinto che abbiano fatto, ben poco, cik-ciak o, forse quasi mai o, forse, proprio mai. Inoltre, a riprova di questo, vi sono una serie di malcelate e maldestre modalità di agire, tipiche di uno che xè in serca. Non potendo, da sposino modello, percorrere la peccaminosa strada della discoteca; anzi, alla sua età, sarebbe meglio parlare di balera; per ‘ndar in serca, si butta periodicamente su strane iniziative; ovviamente, coinvolgendo anche me.
Iniziammo con il corso di meditazione; eravamo io, lui, un forever young over sessanta col codino, la “giovane” hippy che lo teneva, nel senso che aveva vent’anni, quando partecipò al famoso raduno di Woodstock del ’69 e, quattro sedie vuote che, secondo la nostra insegnante, avrebbero dovuto essere occupate da altrettante figure femminili, sulla cui partecipazione, sperava fortemente EnsoPenso; materialmente non si sono mai viste, forse c’era la loro anima.
Ne uscimmo più stressati di prima; per rifarsi, il socio, pensò bene di iscrivere entrambi a un corso di balli popolari; eravamo io, lui, un giovane ultrasessantenne capellone che, assomigliava a quello col codino del corso di meditazione, una coppia di ottantenni con problemi di artrosi, l’amica vedova di questi ultimi; l’insegnante, un ex Teddy Boy con i capelli unti di brillantina Linetti; quella originale dei suoi tempi. Inoltre, sarebbero dovute venire sei ragazze, amiche dell’insegnante, sulla cui partecipazione, sperava fortemente EnsoPenso; mai viste.
Ci ritirammo, alla seconda lezione, non prima di esserci quasi fratturate le dita dei piedi per, buttarci nel teatro. Eravamo io, lui e, finalmente una nutrita presenza femminile ma, rovescio della medaglia, anche una folta schiera di giovani fighetti ben in salute. La concorrenza era tanta e agguerrita, per il povero EnsoPenso non ci fu trippa per gatti; parlo per lui, perché io, in quell’occasione, ebbi un’altra delle mie storie e conobbi la mia attuale compagna.
Ora, purtroppo, a causa de ‘sta maledetta pandemia, EnsoPenso ha dovuto sospendere tutte le sue iniziative social; questo ha peggiorato la situazione in modo irreversibile; el maldemona lo ha ormai logorato. Purtroppo, sempre secondo gli studi clinici del nostro luminare, Minio “Spasemo”, dal mae non si guarisce, ce lo ricorda una delle sue più famose poesie;
El maldemona
Che mai no’ te abandona
Che mai no’ te lassa
E col xè massa
Fate ‘na sega, chel te passa
“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie”; così diceva il grande Battiato; vorrei proprio poter essere in grado di farlo con EnsoPenso. Non è facile farlo ragionare, cercare di liberarlo da tutti quei vincoli e inutili sensi di colpa che, alcuni fioi de cesa, come lui, si portano dentro, da tempi immemorabili. Ha una paura folle di ammalarsi e di morire; va in panico non appena sente un dolore strano ma, ha paura di andare dal dottore; si sfoga, invece, con me; mi parla con la rabbia di chi, ingiustamente e anzitempo, deve lasciare questo mondo; ogni giorno sempre più angosciato per il tempo che passa e per un certo treno che si allontana sempre più. Lo capisco, quale cosa peggiore, almeno per me, il morire senza aver mai fatto cik-ciak; inoltre, dopo morto, in qualità di fio de cesa, venir comunque condannato alla dannazione eterna, per aver fatto uso anche solo di un surrogato del cik-ciak; in poche parole, becco e bastonà; che destino, che sfiga. In attesa della sua imminente dipartita da questo mondo; l’unica soluzione che, finora, ho trovato per lui è farlo tornare in radio con me, a metter su spensierate canzonette d’amore.
A proposito, Paola e Enzo, cosa grave, non hanno mai avuto una loro canzone; per me, al contrario, ce n’è stata una per ogni storia, anche per i cosiddetti attimi fuggenti; insomma, una per tutte quelle volte.
Per un’ora d’amore, invece è rimasta unicamente legata alla storia mia e di EnsoPenso; radiofonicamente parlando, si intende. Da quelle domeniche pomeriggio del 1980, non abbiamo più avuto coraggio di parlare in pubblico di amore; un argomento troppo impegnativo e immensamente misterioso; anche perché, non avevamo nessuna esperienza; in primis noi, avremmo dato chissà cosa per un’ora d’amore.
Ci diverte, ancora oggi, passare quasi tutte le domeniche pomeriggio, a “giocare a fare radio”, come diciamo noi. La nostra trasmissione “canzoni in naftalina”, ha un discreto successo; facciamo a gara, anche con l’aiuto dei nostri ascoltatori, a tirare fuori dal cassetto della memoria, canzoni dimenticate, ascoltando le quali, ognuno può riavvolgere il nastro della sua vita ed è libero di sognare come gli piacerebbe fosse andata; specie dal punto di vista sentimentale.
“Il primo amore dura quanto una stella candente; non dura tutta la vita, ma la cambia per sempre”. Non mi ricordo in quale canzone ho sentito queste parole, forse in più di una. Non mi ricordo nemmeno, di aver mai più provato un’emozione così forte, come quella “domenica perfetta”, passata con Eleonora. E’ faticoso, ammettere che è l’unica donna, di cui mi sono veramente innamorato e, soprattutto, di esserlo tuttora; se non lo fossi, non mi sognerei mai, certe domeniche come questa, di alzarmi all’alba, attraversare a piedi tutta Venezia, fino ai giardini di sant’Elena, per prendere un caffè insieme. Ho bisogno anch’io di qualcuno con cui riuscire a parlare apertamente di amore e, a cui esternare i dubbi che mi affliggono a proposito; non posso, quasi tutte le sante domeniche, sorbirmi EnsoPenso.
Sul finire di quella “domenica perfetta”, ci sedemmo ad ammirare il tramonto su una panchina in riva a sant’Elena; ansioso, con il cuore in gola, sentivo di dovermi aspettare qualcosa da lei. Il suo sguardo era serio, guardava fissa l’isola di san Servolo, come se, all’orizzonte, ci fosse stato qualcosa che la turbava; pensai, qua non c’è trippa per gatti; ma poi, la sua testa si appoggiò sulle mie spalle. Mi irrigidii come un baccalà senza nemmeno respirare; mi feci coraggio, passai la mano in mezzo a quei soffici biondi boccoli. Fece un grosso sospiro;
– “ma tu, riusciresti ad essere solo il mio migliore amico?”
-“farei fatica, ma ci posso provare; non garantisco nulla”
-“che mona!”
Fu così che, mentre affettuosamente, giocavo a stiracchiare i suoi ricci, condivise quella cosa che, era a metà via tra un peso e un segreto; con gran fatica, mi parlò delle sue tendenze sessuali. Sulle prime ci rimasi malissimo, provai gran delusione; lo vissi come un tradimento; un abbandono, ancor prima di cominciare; proprio a me doveva capitare.
Ma quando, mi sentii dire; “sei una persona speciale, lo sento dentro”, ebbi la sensazione di passare improvvisamente dall’adolescenza alla maturità; capii che, da quel momento, avevo una grande responsabilità nei suoi confronti e giurai con me stesso, che sarei stato il suo migliore amico, e che l’avrei sempre difesa, da tutto e da tutti.
Ormai ho fatto pace con Venditti e la sua Buona Domenica; certe domeniche di merda che mi trovavo a passare, sono solo un ricordo lontano. Ora c’è la radio; ma si, c’è EnsoPenso e, c’è Eleonora; con lei mi sento felice perché posso abbracciarla, passare la mia mano tra i suoi biondi ricci, e dirle che è bellissima, una gran figa; senza che pensi che, ci sia un secondo fine; mentre lei, continua affettuosamente a sistemarmi i colletti delle camicie e dei cappotti. Con lei, mi sento libero di piangere ininterrottamente; mentre, continua a ripetermi, “che mona!”.
Camminiamo ancora per ore attraversando tutta Venezia, in serca di quella vecchia panchina di legno sotto un maestoso albero secolare, ritratta nella foto della locandina di “i giardini storici veneziani”; non trovandola, ci accontentiamo di una qualsiasi, come questa di sant’Elena.
Quando se ne va, mi stendo per un po’, faccia al sole; alla fine, mi alzo sempre un po’ più felice, pensando che, nella vita, ho avuto la fortuna di vivere più di un’ora d’amore e che, per un’ora d’amore val la pena dare tanto e, darsi molto.
