Radio libera

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SOLARADIO: una radio da leggere – CAPITOLO 8


Giovani, vardè che ancuo no’ i xoga”. In realtà, eravamo aggrappati alla rete del campetto non tanto in attesa di un improbabile partita ma, per cercare di individuare esattamente la terrazza della siora Lidia, dalla quale, nei bei tempi andati, facevo la radiocronaca della partitella domenicale; comunque, faceva sempre piacere che qualcuno ci desse dei giovani a 55 anni suonati.

Quella mia pazza idea, per dirla alla Patty Pravo, aveva mandato in crisi sior Sergio. La terrazza della Lidia, vecchia amica di mia madre, aveva una vista spettacolare sullo “stadio” dei paeassoni però, era a due fabbricati di distanza dalla soffitta in cui aveva sede Solaradio. “Tiremo un fio par el microfono”, proposi candidamente al Sergio; “ti te si mona quanto che ti pesi”, rispose incavolato nero, picchettando la mia fronte con la sua manona. Conoscevo bene sior Sergio, sapevo che quel categorico rifiuto era, in realtà, l’inizio della ricerca per trovare una soluzione.

Domenica 21 gennaio 1979, quarant’anni fa, pioveva che Dio la mandava ma io, con addosso non so quanti strati di vestiti, già dalle due del pomeriggio ero in prima linea, ritto in piedi sul terrazzo della Lidia, armato di “baracchino”, un primitivo, nonché ingombrante Walkie Talkie, prestato dal Franco, amico radioamatore CB del Sergio. Mentre, in studio al calduccio, muniti di un apparato analogo, prestato dal Carletto, “collega” CB del citato Franco.; quei due rotti in culo di Tito e Bebo, confortati dalla cioccolata calda di siora Adriana, erano pronti a ricevere, nonché a commentare sarcasticamente, la mia prima radiocronaca in diretta.

La Lidia continuava a ripetermi “vien dentro paiasso che ti te becchi el coera”; ma, visto che, imperterrito, votato al martirio, continuavo a rimanere, come un fante in trincea, a compiere il mio dovere di radiocronista, cominciò a fornirmi una serie di generi di conforto; “ciapa vecio, bevite ‘sta chinetta”, “dai nini un giosso de cogna”, “cocco, buta xo ‘sto vermutin”. Alle 10 di sera avevo vomitato l’anima e mi era venuta la febbre a 39; erano i rischi che si correvano a fare radio.

Il giorno dopo, al mio capezzale, si presentarono Berto e Walter ovvero, i massimi vertici della locale squadra di calcio. Mi riferirono che, Nane Sberega, aveva mandato a fanculo la radiocronaca istituzionale di mamma RAI e sintonizzato la radio del bar su Solaradio, in poche parole, un successone. Ai piedi del mio letto, i due “dirigenti”, concessero alla radio i diritti di trasmissione in chiaro, come si dice ora. Non chiesero cifre miliardarie ma, almeno che citassi i nomi dei fioiin campo e, non semplicemente il numero sulla maglietta; allo scopo, mi diedero un foglio spiegazzato con la lista da imparare a memoria; per quanto riguardava la squadra avversaria potevo fare come volevo, a loro non gliene fregava una beata mazza.

Sarà stata la febbre alta ma, quel giorno, sentii la mitica “chiamata”. Non era ovviamente il tipo di “chiamata”, in cui sperava il nostro vecchio parroco che, presagendo lo scarseggiare di “personale”, imbarcava spesso noi fioi, con strani discorsi. Bisognava inoltre considerare che, i miei, comunisti dall’invidiabile pedigree, mi avrebbero buttato dentro un sacco nel canale piuttosto di vedermi prete.

 “Quea brutta troia de to mare, che po saria mi; co to pare vien a saver che ti xè stà rimandà te spaca el cueo. Chissà che te vegna e morroidi grandi come sarese. Va in mona ti e quea puttanassa de radio!”. Quando si metteva, mia madre sparava le parole talmente velocemente che, avrebbe potuto benissimo competere con un attuale rapper tra più quotati. Chapeau inoltre, come dicono i francesi, a quel genio che ha progettato questi paeassoni, mostri in quanto a estetica e non solo ma, un capolavoro dal punto di vista acustico; la voce di mia madre si udì chiaramente, complici le finestre aperte, in tutti gli appartamenti della corte interna e anche oltre; in pratica ottenne, quello che ora si definirebbe, uno sputtanamento a mezzo social.

A essere sincero non potevo dargli torto; quel primo anno di scuola superiore era stato, per usare un eufemismo, di merda; non credo per il fatto che, il liceo classico, a detta di mio padre una scuola per fascistoni cagaalto, non era adatto a me ma perché, avevo subito una radicale trasformazione interiore.

Ero passato di colpo dal giocare con i soldatini ATLANTIC; a pensare esclusivamente a quella roba li. A proposito, tengo a precisare che avevo le scatole, “Lenin-Stalin rivoluzione russa” e “Mao rivoluzione cinese”; se in casa mi avessero visto con “la marcia su Roma – Mussolini e le camicie nere” oppure, “Hitler camicie brune – SS”, me li avrebbero fatti inghiottire senza nemmeno bere acqua.

Quella roba li, mi aveva ormai risucchiato tutte le energie. Nel giro di pochi mesi mi ero fatto la professoressa di greco, due cugine, almeno sei compagne di scuola e una decina di ragazze dei paeassoni.  Fortunatamente, le profezie della sacra romana chiesa non si erano avverate altrimenti, avrei dovuto comprarmi un bastone bianco e il cane guida. Eh si, in quegli anni, la preoccupazione principale dei preti era che i giovani non pensassero a quella roba li. Erano degli esperti nell’infondere il senso di colpa, ricordando che facevi peccato non solo se mettevi le mani su quella roba lima, anche semplicemente, se sognavi di farlo.

Convintissimo che parlare al microfono di Solaradio, la avrebbe attirata come la carta moschicida, quella roba li, stravolse pure il mio modo di “fare radio”. “Pasqua, no’ te par de essar drio pissar fora del bocal?”; sior Sergio, a volte, si esprimeva proprio come mia madre, boh. La mia unica preoccupazione era il “tiraggio”, ovvero la portata del nostro segnale; più era forte, più ero felice; oltrepassare i limiti virtuali di quel quartierino che mi stava stretto, significava emergere dal grigio anonimato con relative maggiori possibilità che quella roba li, arrivasse in quantità industriale.

Per gasarmi, bastavano quei pochi dischi che inizialmente avevo a disposizione. Quell’estate del 1979, in piena tempesta ormonale, usai praticamente solo, “Gloria” e “tu sei l’unica donna per me”, le mandai in onda ripetutamente fino allo sfinimento; illuso più che mai che avrei cuccato alla grande; non avevo altri pensieri per la testa. La gente, non era, come ora, barricata in casa con il condizionatore a manetta; passeggiando per il vialone centrale dei paeassoni, mentre succhiavo uno Stik al gusto Cola, potevo udire uscire dalle finestre, la voce di Uberto Tozzi, Alan Sorrenti, Patrick Hernandez, Viola Valentino e via dicendo; nell’aria c’era un’atmosfera leggera che mi riempiva di felicità, nutrendo a dismisura certe mie aspettative.

Sembra impossibile, eppure, eravamo nel bel mezzo degli “anni di piombo”; purtroppo anche vicino a noi, c’erano persone che, in nome di una presunta libertà, ne ammazzavano altre; una sorta di oscuro universo parallelo che coesisteva accanto al mio mondo di allora, fatto di canzonette e sogni erotici ovvero, la mia, semplice e ludica, personale idea di libertà. Oscuro universo, nel quale, anni dopo, come cronista, mi sarei pericolosamente addentrato.

 “Alla fine siamo come gli infermieri, tutti vorrebbero lavorare nel reparto maternità, dove vedi nascere la vita, ma poi, se vuoi lavorare, ti devi accontentare di dove ti mandano; coraggio, sei comunque utile anche li”; così, un mio vecchio collega, alcuni anni fa, cercò di alleviare il mio senso di frustrazione. Il giorno della mitica “chiamata”; dopo quell’eroica trasmissione dalla terrazza, mi sentivo come Nando Martellini; illuso che sarei diventato un cronista sportivo ma, purtroppo, il “reparto” che il destino mi aveva assegnato era un altro.

E’ assurdo ma, solo ora, riguardando quella terrazza, mi rendo conto di ciò che il vecchio Sergio, pensando a noi ragazzi, aveva costruito. Solaradio non era un gioco come i soldatini ATLANTIC; aveva messo nelle mani di noi fioi un piccolo tesoro, una radio libera. All’epoca, venivano chiamate tutte così, per cui, quella definizione, almeno a me, non diceva niente. Annebbiato dai maldestri tentativi di, far el figo; il vero spirito che animava la radio, la libertà, era ancora un valore troppo alto da comprendere e incamerare. Nel mio caso, per rendermi conto di cosa fosse veramente, ci sono voluti anni passati a fare il cronista, d’altronde, come dice Hemingway, “per poter scrivere della vita, prima devi viverla”.

Nel “reparto” dove sono finito, ho visto e raccontato di un sacco di prigioni, fisiche e non; ho visto gente morire per la libertà; ho viaggiato per migliaia di chilometri assieme a persone sfuggite dalla loro terra, per conquistarsi un briciolo di libertà. Ho anche sperimentato sulla mia pelle che, sentirsi liberi, a volte, non significa esserlo veramente.

Sorrido pensando che, grazie a sior Sergio, già a quindici anni, facevo parte di una radio libera, “ma libera veramente”, per citare la nota canzone di Eugenio Finardi. Da quel microfono, potevo sparar cassae a ruota libera; mi sono divertito a prendere per il culo metà della popolazione dei paeassoni, rimediando al massimo qualche “va ben ben in cueo de to mare”, in diretta.  Ore e ore a “metter su”, come si fa con un piatto di pasta, migliaia di canzonette e, man mano, anche qualcosa di più spinto tanto, pensavo, la musica non ha mai ucciso nessuno. Durante il mio lavoro però, ho avuto l’amara sorpresa di constatare che, a causa della musica, puoi essere ammazzato e a me, non restava altro che raccontare. Ho scritto di lui che, viveva in un posto nel quale, anche solo mandare in onda della musica, o meglio, certa musica, era considerata una minaccia.

Oggi, sto vivendo, quell’insostenibile leggerezza dell’essere, di cui parla il romanzo; mi ritrovo a pensare solo a due cose, il lavoro, ovvero raccontare storie, e, quella roba li, ovvero quella cosa che fa girare il mondo; unici interessi della mia vita che ho iniziato a coltivare, ancora acerbo adolescente, in quella radio libera.

Fortunatamente, queste due “settori”, li ho sempre tenuti separati; se mi mettessi a raccontare la mia penosa esperienza con quella roba li, ne uscirebbe qualcosa che, nemmeno lontanamente, immaginereste. Magari lo farò, probabilmente iniziando con la classica frase, “un mio amico” oppure “un mio lontano parente”. Per il momento, continuerò a raccontarvi di altro e di altri, soprattutto di noi quattro, rimasti qui oggi, aggrappati alla rete di un campetto da calcio di periferia, tutti ancora, a sognare, forse, chi lo sa, come me, ancora quella roba li.

Amo la radio perchè arriva dalla gente
entra nelle case, ti parla direttamente.
E se una radio e libera ma libera veramente.
Mi piace anche di più perchè libera la mente.

Eugenio Finardi “la radio” © 1976

Ad Antonio e a .. tanti altri che hanno dato la vita per una radio.

hm

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