SOLARADIO: una radio da leggere – CAPITOLO 6 – Indice
“Chi xè l’ultimo”, nonostante la tecnologia avesse subito un’esponenziale evoluzione, il collaudato sistema di accesso dei pazienti all’ambulatorio, dell’ormai vecchio dottor Scarpa, era rimasto invariato, sin dai tempi quando, novello dottoretto, aveva aperto bottega; questo nonostante oggi ci siano applicazioni che ti permettono di prenotarti per anticipo il tuo funerale.
Memorabili le volte quando “l’ultimo”, ti faceva motto con lo sguardo, che sottintendeva, “cassi tui”, verso dei personaggi ben vestiti dotati di valigetta. I tipi in questione erano gli odiatissimi, rappresentanti de medesine, almeno così li definiva il popolo. Quella volta che venne affisso il cartello “I signori informatori scientifici, si ricevono ogni tre pazienti”, tutti si chiesero chi cavolo fossero ‘sti personaggi, forse degli scienziati; qualcuno ventilò l’ipotesi che, probabilmente, giravano un documentario in ambulatorio. I rappresentanti de medesine, una volta solo uomini ma che, ora, annoverano tra le loro file anche delle gran gnoccolone, se pur con fare gentile, come diciamo noi, i teo cassava a bottega, nel senso che la tua attesa si sarebbe prolungata inevitabilmente di uno scherzo per permettergli di infinocchiare per benino il dottore. Sull’argomento, la fantasia dei frequentatori dell’ambulatorio galoppava; se el rappresentante era uomo, questi avrebbe sicuramente promesso allo Scarpa un giro di troie, se invece era donna, avrebbe provveduto direttamente lei a elargire la prestazione; vabbè, era un argomento per ingannare l’attesa.
Non c’era comunque verso di ottimizzare i tempi. Una volta ebbi la malsana idea di chiedere, in veste di penultimo, all’ultimo di tenermi il posto; avevo fatto un rapido calcolo e, sarei riuscito a passare da Marietto per farmi lo scalpo. “Giovane! Cossa ti credi che sia ea to serva!”, la vecchia grima, assidua nonché storica frequentatrice del posto, mi apostrofò in modo pesante innanzi ai presenti.
Spesso, il problema non era il tempo di attesa, ma con chi condividevi quei pochi metri quadri dell’anticamera. La sopracitata grima, generalmente non era mai da sola ma, usava accompagnarsi con altrettanti esemplari della sua specie. Faceva parte della categoria che, mio cugino Bobo, definiva “vedove allegre” in quanto avevano provveduto a sotterrare il marito qualche mese dopo che il tapino era riuscito a arrivare alla tanto agognata pensione. La causa del decesso era sempre la stessa ovvero, el ga avuo un croeo; sulla cosa sarebbe stato interessante indagare. Le vedove allegre, con il cadavere del marito ancora caldo, non perdevano tempo per darsi alla pazza gioia scialacquando la pensione di reversibilità in cene sociali e gite parrocchiali. Quando te le trovavi in ambulatorio, aspettavano che ci fosse un attimo di silenzio e poi una di loro sparava; “savè chi che xè morto?” mentre una delle comari, una volta conosciuto il nome del novello “poro”, prontamente ribatteva “ma no! Se l’altro giorno el gera sentà proprio la”; proprio la, era fatalità il posto dove stavo seduto. In un millisecondo, vedove allegre a parte, tutti gli altri, procedevano con il rito di toccarsi i genitali, donne comprese. Ovviamente non mancai di riferire al doc circa il disagio psichico nel quale ero sprofondato a causa dell’accaduto; lo Scarpa se ne uscì con la storica frase “purtroppo quelle, vanno al funerale di tutti tranne che al loro insomma, non riescono proprio a farsi i funerali propri”.
Nonostante questo, nessuno si sogna di tradire lo Scarpa per presunti alti luminari della scienza medica; sulla targa avrebbe dovuto essere scritto “specialista in umanità” anziché quel semplice “medico generico”; da tempi immemorabili si prende cura di corpi e menti dei molteplici poveri cristiani del quartiere. Anche le lunghe attese riservano i loro vantaggi; trovi sempre tra gli astanti un tajatabarri professionista patentato che fornisce notizie fresche in fatto di gossip locale, non serve leggere quelle quattro rivistine sgualcite, che giacciono ormai da anni sopra il tavolino, è molto più divertente ascoltare, fino a quando, quello che viene detto, non riguarda quea puttana de to mare. Se ti va, puoi condividere sulla pubblica piazza, i tuoi problemi di salute; molto spesso, saltano fuori diagnosi e cura, ancor prima di varcare la soglia dell’ambulatorio.
Negli ultimi anni, riduco allo stretto necessario le capatine dallo Scarpa; la mia ipocondria è aumentata esponenzialmente, il solo passare davanti all’ambulatorio, mi induce i sintomi delle più svariate malattie. Inoltre, da quando ho passato i cinquanta sono bersaglio di non so quante campagne di prevenzione, ricevo periodicamente lettere dal tono minaccioso. Per uno come me, che si fuma qualche cicca, non tentenna di fronte a un bel boccale di birra e fa spesso visita al fritoin per acquistare qualcosa de onto da mettere sotto i denti; la lettura di certi opuscoli genera un attacco di panico, c’è poco da fare, il messaggio subliminale che comunicano è chiaro, vecio te si ciavà!
C’è un altro fenomeno interessante che succede in quella sala di attesa, ogni tanto qualcuno resuscita. Calma, il se pur ottimo dottor Scarpa, non ha di questi poteri, è solo che, a volte, incontri qualcuno che credevi ormai chissà dove.
“Ohi, Arbore”, c’era solo uno sulla faccia della terra che si rivolgeva a me come al famoso progenitore dei DJ radiofonici. “Papà, io e la mamma andiamo avanti”, non feci neanche a tempo a sparare un sonoro “Boiatittamorti! Robi!” che quella ragazzina dai tratti orientali e, ancor più la bellissima donna che aspettava fuori; provocarono un catastrofico cedimento di palco. Il cervello umano è stupefacente; in una frazione di secondo i neuroni sono corsi a spalancare le porte del magazzino dei ricordi insito nei meandri più nascosti della mia mente.
In vita mia non ho mai conosciuto una persona più abitudinaria di Roberto “Robi Desabo” in quanto tutto il suo agire ruotava attorno al sabato. Si lavava di sabato, usciva solo si sabato, giocava solo di sabato, andava a messa il sabato e ovviamente, ascoltava la mia trasmissione in radio di sabato.
Robi Desabo, già dalla prima media era insieme a Carla la rossa; una smilza come lui; rossa in tutti i sensi ovvero capelli e fede politica. La numerosa famiglia era praticamente una sezione autonoma del PCI; la compagna Carla, già dalle elementari si vantava di essere una femminista di sinistra, il cui motto era “la figa è mia e la gestisco io”; da non confondersi con le femministe di destra, che marciavano al grido di “la figa è mia e la gestisce solo chi può permetterselo”. Al contrario, Roberto era figlio di basabanchi democristiani, tesserato nell’Azione Cattolica, ala radicale, fin dai primi istanti dopo il parto.
Nel nostro quartiere, queste stranezze, erano la norma; basti pensare che il prete, durante la predica, teneva sul leggio l’Unità, per citarne gli articoli, mentre, la locale sezione del PCI, alla domenica, apriva dalle 10.30, in quanto i compagni prima andavano a messa.
Dal punto di vista del sex appeal o “tiraggio”, come viene definito dai maschi indigeni, la Carla raggiungeva a malapena la sufficienza; questo validava la teoria del vecchio Piero el Rosto; “in cesa e in session no go mai visto done che te fa perdar ea ragion”. La compagna indossava rigorosamente solo larghissimi pantaloni a prova di qualsiasi tentazione; una delle rarissime volte che gli vedemmo le gambe fu quando si vestì da sposa.
I due convolarono a nozze poco più che ventenni; il matrimonio, rigorosamente di sabato, si svolse in perfetto stile compromesso storico ovvero, cerimonia in chiesa e suntuoso, vi lascio immaginare, ricevimento in un area riservata della locale Festa dell’Unità. Ero ovviamente invitato anch’io e, vi posso assicurare che mangiare poenta e coste in pieno luglio bollente non è stato certo il massimo, né tantomeno ballare una mazurca avvinghiato a un’ottuagenaria compagna.
Carla la Rossa, rinnegò parte del suo femminismo, si adeguò ben presto alle consuetudini del Robi per cui, li trovavi al supermercato solo il sabato, passeggiavano in piazza di sabato e, cosa ben più preoccupante, secondo i soliti maligni ben informati, molto probabilmente, trombavano solo di sabato; o anche no, visto che risultati, in fatto di prole, non se ne vedevano; l’unico elemento aggiuntivo era un bastardino spelacchiato che, pure lui con aria triste, li seguiva poco convinto.
Certo che a vederli in giro, alti e magri da far paura, mettevano una certa tristezza; mai abbracciati, parlavano sempre in tono sommesso. Una volta riuscii a carpire quello che si stavano dicendo:
- “devi farti la doccia?”
- “si”
- “anche i capelli?”
- “no”
Se era una frase in codice per dire “stasera scopiamo, però in maniera canonica, solita posizione”, allora ci stava, perché, altrimenti, la faccenda era alquanto preoccupante; roba da coppia di anziani ormai consunta.
“Andate pure tu e la mamma, io dopo mi fermo un po’ con questo mio amico”, la ragazzina mi radiografò per bene poi sgattaiolò fuori come un furetto; ingenua, non sapeva con chi aveva a che fare; nel settore della profilazione, per usare un termine forbito, non avevo rivali. Il mio cervello aveva ormai velocemente ripescato e letto interamente il file relativo a Robi Desabo ed era nuovamente disponibile per altre veloci elaborazioni. Se la piccolina mi aveva radiografato, per usare termini consoni all’ambulatorio dove ci trovavamo, io, nel frattempo avevo già fatto a lei ma, soprattutto a sua madre, una TAC completa ad altissima risoluzione.
Non ho mai avuto un opinione troppo elevata di me stesso, mi sono sempre ritenuto un uomo standard; questa tipologia di uomo, quando ne incontra un altro che non vede da molto tempo, verifica solo due cose:
- Che automobile possiede
- Se, e con che genere di donna si accompagna.
La prima serve a valutare la posizione socio-economica; la seconda, ben più importante, se ha raggiunto il traguardo primario della vita, ovvero trombare con soddisfazione. L’automobile non l’avevo ancora vista ma, quella bellissima cinogiap, imponeva un immediato interrogatorio al Robi. Ecchecavolo! Per non dire qualcos’altro, era fuori da ogni logica, umana e divina, che un pampe del genere, dopo non so quanti anni, mi ricomparisse davanti, con quel falso sorriso da beota e, mi desse a intendere, con malcelata soddisfazione, di aver rottamato la lessa Carla, che, tra parentesi, era comunque troppo per lui, con quel popò di figa di importazione; quando si dice che non c’è più religione. Guardai al di la della strada, i cinesi avevano già aperto, l’olezzo dei loro cicchetti, dai misteriosi ingredienti, si stava via via diffondendo; bene, la location l’avevo individuata ora veniva la parte più difficile, far cantare il vecchio Desabo.
“Aspettami che, quando esco andiamo da Nane Sberega” con stupore l’amico mi precedette proponendo una soluzione più consona all’evento nonché, sempre per usare termini da ambulatorio medico, meno impattante sui parametri indicativi di rischio cardiovascolare. Preferii andare avanti ed attenderlo sul posto, avrei avuto tutto il tempo per preparare la strategia inquisitoria, non potevo essere troppo diretto tipo; “oi Robi, chi casso xea quea cocca che ga rimpiassà ea Carla”; ci voleva tatto.
I convenevoli, durarono all’incirca l’ingurgito di una fetta di poenta e musetto a testa dopodiché, il Desabo affermò, senza mezzi termini che, tutta una serie di fondamentali cambiamenti della sua vita, erano colpa mia.
A dire il vero, non era la prima volta che, a causa del mio impegno in radio, più di qualcuno mi imputasse una serie di fortunati eventi. Dietro la mia facciata grezza e un po’ volgarotta, si nasconde un sentimentalone; ogni qualvolta varco la porta dello studio, mi trasformo da mister Hyde a dottor Jekyll. Agli inizi non me ne rendevo conto, è la straordinaria magia della radio che, estrae e fa viaggiare nell’etere, solo la mia parte interiore, quello che di meglio c‘è in me. C’è chi ha sempre una parola per tutti, io invece, ormai da quarant’anni, ho sempre una canzone per tutti. Quei tutti che vedo ancora passeggiare abbracciati o tenendosi per mano mentre, i loro figli, sono ormai uomini e donne maturi; migliaia di sorrisi e strizzate d’occhio; in fin dei conti, è la mia paga. Si dice che il figlio del calzolaio ha le scarpe rotte, ho un nodo in gola, ma questa è un’altra storia.
“Era già la terza notte consecutiva che lo assistevo in ospedale”, le schie erano ormai tutt’uno con la poenta raffreddata; “sapevamo entrambi che c’era poco da sperare ma, preferivamo far finta di niente; papà mi chiese di accendere la radio, mi stupii nell’apprendere che abitualmente, ogni sera, ti ascoltava. Impissa che ‘scolto el to amigo, diceva; gli piacevi soprattutto perché parlavi poco, odiava, quelli che parla sempre sora ea musica. Sembrerà strano ma, quelle notti passate in sua compagnia, non mi pesavano affatto; ebbi modo di vederlo sotto un’altra luce. Per la prima volta in vita sua, scese dallo scalino di padre autoritario e, contemporaneamente mi innalzò al suo stesso livello, accettando che fossi un uomo come lui e non l’eterno bambino da rimproverare e a cui dare ordini.
Cosa ti è mancato?; approfittai di quell’insperato stato di grazia per rivolgergli nuovamente quella domanda. Volevo proprio vedere se, anche ‘stavolta, se la cavava con quel generico, aver più schei. Non ci ho mai creduto; anch’io, forse per cause genetiche, soffrivo della sua stessa eterna e perenne insoddisfazione e, la causa, non erano certo i soldi. Non disse nulla, mi sorrise sospirando e si voltò dall’altra parte.
Per una buona mezz’ora, l’unico che parlava in quella stanza, eri tu; sarò stato un campione di abitudinarietà, sapevo che mi soprannominavi Desabo, ma, in quanto a prevedibilità sulla scaletta di canzoni che mandavi in onda, tu non eri da meno. Anche papà, ovviamente, se ne era accorto, per cui, gli bastò guardare l’orologio; ‘scolta, mi disse con un filo di voce. La sua canzone; non credevo papà ne avesse una, tra le righe, la risposta alla mia domanda. Al mattino presto ci lasciò.
Se telefonando, avrei tanto voluto sentirla in chiesa; gliel’ho fischiettata di nascosto mentre appoggiavo le mani sopra la bara, prima che si chiudesse il portellone del carro funebre. L’avrebbe sicuramente gradita al posto del consueto e triste canto finale ma, che ne sarebbe stato dell’immagine del vecchio Luciano, fervente praticante della parrocchia, ligio nel seguire i sacri dettami cattolici; prigioniero di una totale abnegazione indotta dalla paura del giudizio che, spesso ti porta a soffocare le più intime emozioni, soffrendo in silenzio.
Se telefonando, la vera eredità di mio papà, il suo testamento spirituale; la raccomandazione di non fare il suo stesso errore. Quattro mesi dopo il funerale, accettai l’offerta della mia azienda di trasferirmi nella filiale in Cina, tutto il resto è storia.”
Lo stupore della notte spalancata sul mar
ci sorprese che eravamo
sconosciuti io e te
poi nel buio le tue mani
d’improvviso sulle mie
e’ cresciuto troppo in fretta. questo nostro amor
se telefonando
io potessi dirti addio, ti chiamerei
se io rivedendoti fossi certo
che non soffri, ti rivedrei
se guardandoti negli occhi
sapessi dirti basta, ti guarderei
ma non so spiegarti
che il nostro amore appena nato
e’ gia’ finito … e’ gia’ finito
Lyrics © Maurizio Costanzo – Gaetano De Chiara 1966